SOMMARIO
ATTUALITA’ ED
APPROFONDIMENTI
1. La Commissione Europea inizia la procedura
preliminare di infrazione nei confronti di 14 Paesi , tra cui l’Italia, per incorretta attuazione della
Direttiva n. 2000/43 in materia di contrasto alle discriminazioni
etnico-razziali. I rilievi mossi alla normativa italiana.
2. DISCRIMINATI I MINORI, I GIOVANI E GLI ANZIANI
EXTRACOMUNITARI NELL’ACCESSO AI MUSEI E BENI CULTURALI ITALIANI. Le norme del Ministero
per i Beni Culturali e spesso anche quelle degli Enti locali riservano le agevolazioni tariffarie soltanto ai
cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea. Una disparità di trattamento
irragionevole ed arbitraria.
GIURISPRUDENZA
NAZIONALE
1. E’ legittimo il rito direttissimo per i reati
penali in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa anche se
l’imputato viene rinviato a giudizio trascorsi i 15 giorni dall’arresto o
dall’iscrizione del registro delle notizie di reato, purché non vengano svolte
speciali indagini. Respinta dalla Corte Costituzionale l’eccezione di
incostituzionalità. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 199/2007.
GIURISPRUDENZA
INTERNAZIONALE
1. Discriminazione razziale e religiosa e limiti di
ordine pubblico alla libertà di riunione e manifestazione pubblica: il caso francese della
distribuzione ai senza fissa dimora di pasti gratuiti a base di carne di
maiale. L’ordinanza del Conseil d’Etat del 5 gennaio 2007.
ATTIVITA’ PARLAMENTARI
Senato della Repubblica: assegnato
alla Commissione Affari costituzionali il ddl che disciplina l’uso del velo nei
luoghi pubblici. Modifica alla legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di
tutela dell’ordine pubblico
APPUNTAMENTI
SEGNALAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI
1.
La Commissione Europea inizia la procedura
preliminare di infrazione nei confronti di 14 Paesi , tra cui l’Italia, per incorretta attuazione della
Direttiva n. 2000/43 in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali.
I rilievi mossi alla normativa italiana.
Con un comunicato stampa pubblicato lo scorso 27 giugno, la Commissione Europea ha annunciato
che a breve avvierà la procedura preliminare di infrazione nei confronti di 14
Stati membri dell’Unione Europea, tra cui l’Italia, per insufficiente
attuazione della Direttiva n. 2000/43 in materia di contrasto alle
discriminazioni etnico-razziali. (1) La Commissione Europea invierà ai
rispettivi governi nazionali una “lettera di avviso formale” nella quale spiegherà
in maniera generale perché ritiene che lo Stato membro abbia trasposto in
maniera insufficiente o non adeguata la
Direttiva nella legge nazionale. Lo Stato membro avrà due mesi di tempo
per replicare. In assenza di risposta, ovvero qualora la Commissione Europea
ritenga la risposta insoddisfacente, la Commissione Europea passerà alla fase
successiva della procedura d’infrazione, inviando allo Stato membro un opinione “motivata”.
Nuovamente, lo Stato membro avrà due mesi per replicare. Trascorso tale periodo,
se la Commissione Europea continuerà a ritenere che lo Stato membro ha trasposto la direttiva nella propria
legge nazionale in maniera
inadeguata, potrà deferire il caso alla Corte di Giustizia Europea.
Nel comunicato diffuso lo scorso 27 giugno, la Commissione Europea ha
anticipato i punti, rispetto ai
quali ritiene che la normativa italiana di recepimento della Direttiva europea
sia lacunosa o inadeguata. Tre sono le questioni sollevata dalla Commissione
Europea nei confronti del nostro paese:
a)
la mancata
ripartizione dell’onere della prova nei procedimenti giudiziali contro asserite
discriminazioni etnico-razziali;
b)
la ridotta
protezione contro i casi di vittimizzazione;
c)
la non corretta
definizione di molestia razziale.
Vediamo ora di anticipare quali saranno con ogni probabilità i rilievi
che la Commissione Europea muoverà alla normativa italiana di recepimento della
direttiva europea n. 2000/43.
a)
la
mancata ripartizione dell’onere della priva nei procedimenti giudiziali contro
le discriminazioni etnico-razziali.
Come è noto, l'art. 8 della direttiva n. 43/2000
stabilisce che "gli Stati membri prendono le misure necessarie,
conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che,
allorché le persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro
riguardi del principio di parità di trattamento, espongono, dinanzi ad un
tribunale (...), fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una
discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che
non vi è stata violazione della parità di trattamento". La stessa direttiva fissa
peraltro due deroghe all'applicazione di tale principio: la prima nei
casi relativi a procedimenti penali, la seconda nei procedimenti in cui in capo
al giudice compete un potere istruttorio ("in cui spetta al giudice (...)
indagare sui fatti").
Per quanto concerne la situazione del nostro paese, il
decreto legislativo di recepimento della direttiva europea (n. 215/2003), non
ha introdotto il principio dello spostamento dell'onere della prova, ma si è
limitato ad accordare alla parte ricorrente la possibilità di dedurre in
giudizio anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto in termini
gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta secondo il criterio
del prudente apprezzamento ai
sensi dell'art. 2729 comma 1 del c.c., cioè sulla base del sistema delle
presunzioni semplici, senza che venga intaccato il principio generale secondo
cui spetta all'attore del giudizio provare l'avvenuta discriminazione (art. 4
c. 3 d. lgs.n. 215/2003) (2). Vero è che il decreto legislativo di recepimento
rinvia all'art. 44 del T.U. sull'immigrazione riguardo alla procedura
giurisdizionale da seguire, la quale assegna all'autorità giudiziaria ampi
poteri istruttori, e quindi di indagine sui fatti, con ciò richiamando almeno
implicitamente alla deroga prevista dalla direttiva europea.
L’approccio eccessivamente prudente seguito nella normativa di
recepimento della direttiva europea si rivela anche sulla base del
confronto con la normativa sulle
pari opportunità di genere (tra uomo e donna) di cui all’art. 4. 6° comma della
legge n. 125/1991, la quale indica anch’essa l’allegazione di elementi di fatto
idonei, in quanto precisi e concordanti, a fondare presunzioni sulla
sussistenza di discriminazioni subite dall’attore, collegandovi, però,
l’imposizione a carico del convenuto dell’onere della prova sulla insussistenza
della discriminazione così presunta (3). In conclusione, due sono quindi le fondamentali
differenze tra il regime della prova nella normativa sulle pari opportunità di
genere e quella in materia di uguaglianza etnica o razziale: innanzitutto,
nella prima il regime delle presunzioni è più favorevole all’attore in giudizio in quanto richiede
l’allegazione di fatti precisi e concordanti, ma non anche gravi, così come
invece nella seconda; inoltre,
nella normativa sulle pari opportunità di genere, viene esplicitamente
prevista l’inversione dell’onere della prova a carico del convenuto, sebbene
essa sia solo successiva all’affermazione di una presunzione della
discriminazione che rimane a carico dell’attore. Al contrario, nella normativa sulle pari opportunità in ambito etnico e razziale, resta
indeterminato e sostanzialmente ambiguo il metodo di giudizio che il giudice dovrebbe seguire nella
valutazione delle evidenze probatorie. Tutto sommato, pur nella sua oggettiva
ambiguità, la regola della distribuzione dell’onere della prova fissata dalla
normativa di recepimento della
direttiva europea attraverso il regime delle presunzioni semplici e
l’ammissibilità di evidenze circostanziali anche a carattere statistico, risulta comunque più favorevole
all’attore nell’azione civile contro le discriminazioni rispetto alle azioni
esperibili dal lavoratore avverso discriminazioni sul luogo di lavoro ai sensi
del pre-esistente Statuto dei Lavoratori (l. 300/1970). La giurisprudenza di
quest’ultimo ha infatti chiaramente stabilito che spetta al lavoratore provare
l’intenzione discriminatoria (Corte di
Cassazione, sez. Lav. 25.02.1998, n. 2025).
Rimane tuttavia la distanza tra la situazione vigente
nel nostro paese e quella di altri paesi europei ove, in ossequio alle norme
della direttiva europea, il principio dello spostamento dell'onere della prova
ha trovato invece un chiaro recepimento nelle rispettive legislazioni
nazionali, seppure in forme e con sfumature diverse. (4)
In Belgio, ad esempio, la legge sulla parità di trattamento
del 2003 ha introdotto chiaramente il principio dello spostamento dell'onere
della prova: "Quando una vittima di discriminazione (...) produce
dinanzi alla corte competente fatti quali dati statistici o risultanze di test
situazionali che conducono alla presunzione di una discriminazione diretta o
indiretta, l'onere della prova che non è stata commessa discriminazione
spetta all'accusato" (art. 19 paragrafo 3). In maniera analoga, nei Paesi Bassi,
la legge sulla parità di trattamento ha previsto che “se una persona che si
ritiene di aver sofferto di una discriminazione [...], fornisce alla
Corte fatti dai quali si può presumere che la discriminazione abbia
avuto luogo, sarà onere del convenuto provare che detta azione non era in
violazione della presente legge" (art. 13).
In Ungheria, l'organo di consulenza dell'Autorità per la
Parità di Trattamento, chiamata ad implementare la legislazione
anti-discriminazione, ha precisato che il principio dello spostamento
dell'onere della prova debba essere interpretato nel senso che spetti alla
parte lesa provare che ha sofferto una situazione svantaggiosa e possiede
caratteristiche etnico-razziali citate nella direttiva europea, mentre sarà
compito del convenuto provare l'inesistenza di un legame causale tra la
situazione svantaggiosa e l'appartenenza etnico-razziale della parte lesa o
che, anche in presenza di tale legame causale, egli era esentato
all'applicazione del principio di parità di trattamento in base alle norme
derogatorie prevista dalla direttiva.
Nel particolare sistema britannico di common law, tre importanti decisioni della
Corte di Appello del Febbraio 2004 hanno definito le linee-guida
vincolanti per le corti di rango inferiore in relazione all'interpretazione
del principio dell'inversione dell'onere della prova. Secondo la Corte di
Appello britannica, lo spostamento dell'onere della prova si concretizza in un
approccio a due fasi. Innanzitutto spetta al ricorrente provare, in base ad una
valutazione probabilistica, fatti dai quali la corte potrebbe concludere,
in assenza di adeguate spiegazioni, che il convenuto ha commesso un atto
di discriminazione. Nella seconda fase, sarà onere del convenuto provare,
sempre in base ad una valutazione probabilistica, che la discriminazione
non ha avuto luogo. In Spagna, la disposizione comunitaria sull’onere
della prova è stata trasposta nel diritto interno dagli artt. 32 e 36 della
legge 62/2003 che ha modificato la legge sulla procedura del lavoro e ha
sancito lo spostamento dell’onere probatorio nelle sfere sociali, civili e del
contenzioso. In base a tale normativa, se fondati elementi probatori di un caso di discriminazione possono
essere dedotti dalle allegazioni dell’attore in giudizio, incombe al
convenuto stabilire in giudizio
una loro giustificazione ragionevole. In aggiunta, la giurisprudenza della
Corte Costituzionale spagnola ha già riconosciuto il principio della
ripartizione dell’onere della prova, in misura tale che al lavoratore viene
richiesto di apportare in giudizio “elementi ed indizi atti a ritenere
ragionevolmente che il datore di lavoro ha provocato una lesione di un suo
diritto fondamentale”, dopodiché sarà compito del datore di lavoro provare che
il suo comportamento o la sua decisione rispondono ad esigenze reali, hanno una
giustificazione obiettiva e ragionevole, sufficientemente stabilita, e le
misure adottate per rispondere a tali esigenze ed obiettivi sono necessarie e
rispondono a criteri di proporzionalità. (5)
Sebbene le esperienze giuridiche di questi paesi non
sono immediatamente riproducibili in Italia per la diversità delle norme
di recepimento e dei rispettivi ordinamenti, esse possono comunque essere
un utile punto di riferimento nei procedimenti giudiziari avviati in Italia in
materia, al fine essenzialmente di proporre al giudice linee guida nella
valutazione delle evidenze probatorie in una direzione più favorevole
alle vittime di discriminazioni. Almeno finché la legislazione con la quale è
stata recepita la direttiva n. 2000/43 non sarà adeguata agli standard
richiesti ed equiparata a quanto già previsto dalla legislazione sulla parità
di genere. Si confida che l’iniziativa della Commissione Europea potrà spingere
il nostro paese a realizzare tale obiettivo.
b)
la
ridotta protezione contro i casi di vittimizzazione
L’art. 9 della Direttiva europea n. 2000/43 stabilisce il principio
della protezione delle vittime della discriminazione dalla c.d.
“vittimizzazione”, cioè da conseguenze o trattamenti sfavorevoli che
costituiscano reazioni ad un reclamo o ad un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di
trattamento.
Nella normativa italiana di recepimento, la protezione dalla
vittimizzazione ha assunto una
portata ridotta, intesa soltanto
come un elemento da considerare in sede di giudizio ai fini della
fissazione dell’ammontare del
danno da liquidare alla vittima. (6)
La portata limitata della norma non consente di affermare se il medesimo livello di protezione
potrebbe estendersi anche ad altre persone diverse dalla parte lesa nell’azione
giudiziale o extragiudiziale precedente, quali ad esempio testimoni a favore
della vittima. Questi ultimi, qualora non possano invocare autonomamente la
protezione in quanto non
appartenenti ad una della categorie protette dalla discriminazione o dalla
molestia in virtù delle norme di
recepimento della direttiva comunitaria, possono comunque avvalersi della
protezione offerta dalle norme generali sulla tutela dei lavoratori. Le norme
generali sul licenziamento
illegittimo certamente tutelano i casi in cui questo avvenga a puro titolo di
ritorsione operata dal datore di lavoro. La Commissione Europea, tuttavia, si attende un alto standard
di protezione contro le ritorsioni derivanti da denuncie di casi di
discriminazione, in tutti i campi di applicazione della direttiva e non solo in
quello del lavoro. Né è una dimostrazione il fatto che la Commissione abbia
iniziato al riguardo la procedura preliminare di infrazione anche nei confronti
della Francia, ove la protezione delle vittime della discriminazione e dei testimoni da eventuali ritorsioni
e vittimizzazioni è invece espressamente prevista dal codice del lavoro (code
du travail), all’art.
122-45, ma limitatamente alle questioni contrattuali lavorative e agli ambiti
dell’azione disciplinare e del licenziamento da parte del datore di lavoro. (7)
Ugualmente, la Commissione Europea ha avviato la procedura preliminare contro
la Spagna, imputando alla legislazione spagnola la mancanza di protezione dalla
vittimizzazione nel rapporto di impiego pubblico e fuori dall’ambito
lavorativo. Difatti, la legge 62/2003, con la quale la Spagna ha recepito la
direttiva europea, prevede la
nullità delle decisioni del datore di lavoro che comportino un trattamento
sfavorevole nei confronti dei lavoratori quale reazione di fronte ad un reclamo
fatto all’impresa o ad un ricorso
in sede giudiziaria contro una misura discriminatoria. (8)
Sembra dunque probabile che la Commissione Europea non si accontenterà
di eventuali richiami da parte italiana alle norme generali di tutela dei lavoratori al fine di sostenere
la tesi di un pieno adeguamento agli standard richiesti dalla norma comunitaria
in materia di tutela dalla vittimizzazione, senza invece la garanzia di più
ampie modifiche ed integrazioni normative.
c)
la
non corretta definizione di molestia razziale.
Il decreto di recepimento
ha per la prima volta introdotto nel sistema legale italiano la nozione
di molestia, usando la stessa definizione contenuta nella direttiva, tranne per
un a differenza di dettaglio che potrebbe essere imputata ad un errore di
stesura. Infatti, il decreto di recepimento afferma che, affinché ci sia
molestia, il comportamento
indesiderato deve avere lo
scopo o l’effetto di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante e
offensivo, mentre la direttiva usa la congiunzione o. In sostanza, secondo la formulazione letterale del testo del
decreto di recepimento, gli effetti “biasimevoli” del comportamento indesiderato dovrebbero essere cumulativi,
mentre per la direttiva è sufficiente che siano alternativi l’uno all’altro. Da
un lato, la tesi di un errore di compilazione del testo appare avvalorata dal fatto
che la nozione di molestia nel decreto di recepimento della direttiva 78/2000
corrisponde invece esattamente al testo contenuto nella direttiva. Dall’altro,
è vero che un decreto, successivo alla normativa di recepimento della direttiva
n. 2000/43, è stato adottato con lo scopo precipuo di correggere gli errori
materiali contenuti nel testo originario, ma che anche in tale decreto
l’incorretta nozione di molestia razziale non è stata rivista; il chè sembra
assai singolare, come è stato
giustamente sottolineato nel rapporto redatto dall’esperto italiano del
network europeo indipendente in materia di non – discriminazione
(9). A ragione, dunque si tratta
di una violazione della Direttiva n. 2000/43.
Secondo la dottrina, la circostanza che nel decreto di recepimento la “molestia” sia stata equiparata alla
“discriminazione” ha il solo significato che per le molestie sono previsti i
medesimi strumenti di tutela giudiziale previsti contro le discriminazioni, pur
rimanendo la nozione di molestia distinta ed aggiuntiva rispetto a quella di
discriminazione, non richiedendo la prima al contrario della seconda la
valutazione dell’aspetto
comparativo tra il trattamento riservato alle persone appartenenti alle categorie
“protette” e quelle che non
presentano detti requisiti .
Ugualmente, nell’esperienza giuridica italiana, il concetto di molestia
razziale potrà avvalersi delle elaborazioni, anche giurisprudenziali, finora
maturate nell’ambito della tutela contro il “mobbing”, sebbene quest’ultimo sia usualmente riferito
ad altri ambiti protetti, primo fra tutti quello di genere. Per quanto concerne
i casi di molestia sul posto di lavoro,
utili sono stati gli sviluppi interpretativi riguardanti in particolare
l’art. 2087 del Codice Civile concernente il dovere di tutela da parte del
datore di lavoro, e l’art. 2103 c.c.
riguardante i doveri e i compiti assegnati al lavoratore. (10)
Si può dunque ritenere che l’iniziativa della Commissione avrà l’unico
obiettivo di ottenere l’adeguamento della definizione formale di molestia
razziale a quanto previsto dal testo della direttiva.
Note
(1)
Il Comunicato stampa della Commissione Europea è disponibile sul sito
web: http://ec.europa.eu/employment_social/emplweb/news/news_en.cfm?id=264
(2) Art. 2729 1° c.: “Le presunzioni non stabilite dalla
legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che
presunzioni gravi, precise e concordanti”.
(3) Art. 4 c. 6 l. 125/1991: “ Quando il ricorrente
fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico
relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e
qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti
- idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione
dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del
sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della
discriminazione” .
(4) Per l’esame dei singoli casi nazionali citati, si
fa riferimento in particolare al rapporto
ENAR - European Network Against Racism , Changing
Perspectives: Shifting the burden of proof in racial equality cases, Brussels, 2006, disponibile sul sito web dell’ENAR:
http://www.enar-eu.org/en/publication/reports/Burden_of_Proof_EN.pdf
(5) Francina
Esteve, Analyse Juridique de la
non-discrimination. Etude comparatif des traspositions des directives 2000/43
et 2000/78 en Italie, France et en Espagne,
Université de Girona, Avril, 2007, Project Equal « L’Arc de
l’Egalité » , pag. 15.
(6) Art. 4 .5 d.lgs. n. 215/2003: “Il
giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4 ,
che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una
precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente
attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della
parità di trattamento”.
(7) Francina
Esteve, Analyse Juridique de la
non-discrimination. Etude comparatif des traspositions des directives 2000/43
et 2000/78 en Italie, France et en Espagne,
Université de Girona, Avril, 2007, Project Equal « L’Arc de l’Egalité »
, pag. 16
(8) ibidem, p. 17.
(9) D. Lgs. 2 agosto 2004, n. 256: “Correzione
di errori materiali nei decreti legislative 9 luglio 2003, n. 215 e 216,
concernenti disposizioni per la parità di trattamento tra le persone
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nonché in materia di
occupazione e condizioni di lavoro, in Gazzetta Ufficiale n. 244 del 16
ottobre 2004. Alessandro Simoni, Report
in measures to combat discrimination. Country
Report Italy. December 2004, European Network of
Legal Experts in the non-discrimination field, Brussels.
(10) Art. 2087 c.c.: “ L'imprenditore è tenuto ad adottare
nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro “. Art. 2103 c.c.: “ Il
prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia
successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di
assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento
corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva,
ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente
con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti
collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito
da una unità produttiva ad una altra se non per comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive”.
2. DISCRIMINATI I MINORI, I GIOVANI
E GLI ANZIANI EXTRACOMUNITARI NELL’ACCESSO AI MUSEI E BENI CULTURALI ITALIANI.
Le norme del Ministero per i Beni Culturali e spesso anche quelle degli Enti
locali riservano le agevolazioni
tariffarie soltanto ai cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea. Una
disparità di trattamento irragionevole ed arbitraria.
FONTE: ANSA.IT, 9 luglio 2007 21:07
|
Il parere
del Servizio di Supporto Giuridico dell’ASGI – Progetto Leader
La vicenda recentemente accaduta in Sicilia con la segnalazione della
disparità di trattamento nell’accesso alla Valle dei Templi tra minori italiani
e comunitari da un lato e minori stranieri dall’altro, mediante l’applicazione
soltanto ai primi di agevolazioni
tariffarie nei biglietti d’ingresso (si veda sopra la nota diffusa dall’ agenzia di stampa ANSA), non
rappresenta un caso isolato conseguenza di atteggiamenti di pregiudizio da
parte di singoli addetti, come è apparso da una lettura mediatica superficiale
degli eventi, ma deriva dall’esistenza di vere e proprie norme di legge che
contengono clausole discriminatorie nei confronti dei cittadini di Paesi terzi
non membri dell’Unione Europea. Difatti, tali casi non sono isolati, ma corrispondono ad una prassi
diffusa sul territorio nazionale ed oggetto di osservazioni critiche anche da
parte dell’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), l’Autorità Italiana
contro le discriminazioni razziali creata dalla normativa di recepimento della
direttiva europea n. 2000/43. Nel
rapporto recentemente pubblicato sulle sue attività nel 2006, l’UNAR riporta la vicenda segnalata
da una famiglia straniera non comunitaria, in visita a Roma, la quale si è
vista negare al proprio bambino il biglietto gratuito per l’accesso ad un
museo, dopo che l’addetto alla
biglietteria si era reso conto della loro provenienza straniera. Secondo quanto
riportato nel rapporto, già lo scorso anno l’UNAR avrebbe chiesto al Ministero
per i Beni Culturali di riformare la normativa di riferimento, eliminando la
clausola discriminatoria vigente.[1]
Su quale fonte normativa, dunque, si fonda tale discriminazione? Vediamo
di farne una ricostruzione la più possibile chiara ed esauriente.
Sulla base del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 recante il Codice dei
beni culturali e del paesaggio,
la disciplina sull’accesso e la fruizione degli istituti e luoghi pubblici di
cultura (tra cui musei, parchi archeologici, ecc.) è disciplinata a livello
nazionale, regionale o di enti territoriali decentrati, a seconda della diversa
appartenenza del bene pubblico. Per gli istituti e luoghi pubblici di cultura
di proprietà dello Stato, la materia dei biglietti di ingresso è regolata
dal D.M. 11 dicembre 1997, n. 507 come modificato dal D.M. 28.09.2005, n. 222
e, da ultimo, dal D.M. 20.04.2006, n. 172. Per gli istituti e luoghi pubblici
di cultura di proprietà delle amministrazioni regionali o per le quali lo Stato
abbia trasferito la disponibilità, la materia è disciplinata dalla
legislazione regionale nel rispetto dei principi generali fissati dal Codice
dei beni culturali. Tale codice, all’art. 103, si limita a definire alcuni
criteri generali, in base ai quali:
“3. nei casi di accesso a pagamento, il Ministero, le regioni e gli
altri enti pubblici territoriali determinano:
a)
i casi
di libero accesso e di ingresso gratuito;
b)
le
categorie di biglietti e i criteri per la determinazione del relativo prezzo;
[…]
4. Eventuali agevolazioni per l’accesso devono essere regolate in
modo da non creare discriminazioni ingiustificate nei confronti dei cittadini
degli altri Stati membri dell’Unione Europea”
Il principio di non discriminazione e di parità di trattamento per
la fruizione ai beni culturali viene dunque affermato esplicitamente nella normativa con riferimento ai soli cittadini dei paesi
membri dell’Unione Europea.
L’affermazione del principio di non-discriminazione e di parità di
trattamento per i cittadini degli altri Stati membri dell’Unione Europea non è
stata peraltro indolore, ma il frutto di un contenzioso che l’Italia ebbe con
l’Unione Europea dinanzi alla Corte di Giustizia e che si concluse con la sentenza di condanna dd 16.01.2003,
con la quale la Corte di Giustizia ritenne che “riservando
agevolazioni tariffarie discriminatorie per l’ingresso ai musei, gallerie,,,,,
concesse da enti locali o decentrati dello Stato unicamente ai cittadini
italiani o alle persone residenti nel territorio degli enti locali che
gestiscono i beni culturali , [in possesso dei requisiti di età], ed escludendo
da tali agevolazioni i turisti cittadini di altri Stati membri o i non
residenti che soddisfano le stesse condizioni oggettive di età” l’Italia aveva violato il principio di non
discriminazione di cui all’ art. 12 con riferimento al diritto alla libera
prestazione dei servizi di cui all’art. 49 del Trattato Cee.
Solo a seguito di questa procedura d’infrazione del diritto comunitario,
conclusasi con la condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia europea,
il principio di non discriminazione dei cittadini comunitari è stato recepito nella normativa
nazionale riferita alla fruizione dei beni culturali di proprietà dello Stato,
dapprima con le modifiche apportate al DM. 11.12.1997, n. 507 dal citato D.M.
222/2005, poi da quelle più recenti apportate dal D.M. n. 172/2006 a firma del
Ministro per i beni culturali del governo Berlusconi ter, on. Rocco Bottiglione. Ugualmente è stato stabilito dalla norma già
citata del codice per i beni culturali un limite ed un criterio preciso per le
normative regionali e locali volto ad impedire ogni discriminazione per i
cittadini comunitari nella fruizione dei beni culturali di proprietà delle
regioni o delle amministrazioni decentrate.
In conclusione, dopo le ultime modifiche apportate nell’aprile 2006, le disposizioni del Ministero
per i Beni Culturali specificano che l’ingresso gratuito ai beni culturali per
le persone minorenni, così come per gli ultrasessantacinquenni, deve
essere limitato ai soli cittadini di paesi dell’Unione Europea, ed in aggiunta
i cittadini di paesi dell’Unione Europea di età compresa tra i 18 ed i 25 anni
hanno diritto alla riduzione del biglietto di ingresso in misura della metà.
Tali agevolazioni possono essere estese ai cittadini di Stati terzi non facenti
parte dell’Unione Europea solo a condizione di reciprocità (art. 4 c. 7
del D.M.172/2006). Per quanto attiene ai minori, un principio di parità di
trattamento senza distinzione di appartenenza nazionale, viene previsto
esclusivamente per gruppi o comitive di studenti delle scuole pubbliche o
private dell’Unione Europea, accompagnati dai loro insegnanti, previa
prenotazione e nel contingente stabilito dal capo dell’istituto (art. 4 c. 3
lett f del d. n. 172/2006).
Per quanto riguarda i beni culturali di proprietà delle regioni e degli
enti locali, le condizioni per il loro accesso e la loro fruizione sono
demandate alle norme regionali, con conseguente variazioni di trattamento a
seconda delle situazioni locali.[2]
C’è dunque da chiedersi se dette normative e regolamenti, ed
innanzitutto quella nazionale, siano compatibili con la normativa
anti-discriminazione nazionale ed europea.
La normativa del Ministero per i Beni Culturali citata pone in essere una distinzione fondata sull’origine
nazionale, suscettibile dunque di contrasto con l’art. 43 .1 e 43.2 b) del
D.lgs. n. 286/98 (Testo unico delle norme sulla condizione giuridica del
cittadino migrante).[3]
Come sembra suggerire la Corte di
Cassazione, affinché vi sia
discriminazione occorre che il comportamento dell’agente sia illecito, cioè
contrario a disposizioni normative “neutre”, e messo in atto per ragioni
arbitrarie collegate all’appartenenza della persona ad una o più delle categorie
“protette”[4],
ovvero che la disposizione
normativa sia in sé stessa illecita perché fondante essa stessa una distinzione
arbitraria. Il caso in questione si adatta alla
seconda ipotesi: siamo in presenza cioè di un‘applicazione di una normativa in
sé discriminatoria ed illegittima perché fondante una distinzione non sorretta
da criteri logici di ragionevolezza rispetto agli scopi e agli obiettivi
prefissati dalla norma medesima, secondo i noti canoni interpretativi della
Corte Costituzionale (sentenza n. 423/2005). Se la norma ha scopi valoriali “universalistici”,
quali quello di favorire l’accesso alla cultura sia dei minori, per ragioni
evidentemente educative e di formazione della personalità dell’individuo, così
come delle persone giovani e anziane, per ragioni sia di eguaglianza di
opportunità rispetto a soggetti
ritenuti più deboli economicamente e sia di piena realizzazione della
personalità e delle esigenze spirituali e culturali dell’individuo, non si vede
ragione logica ed equa per limitare tali agevolazioni secondo principi di
nazionalità. Difatti, l’unica motivazione che nella memoria difensiva il
governo italiano a suo tempo presentò dinanzi alla Corte di Giustizia in
risposta al ricorso presentato dalla Commissione europea per infrazione del
trattato era legata a considerazione ed obiettivi di carattere economico,
secondo la quale le agevolazioni costituirebbero il corrispettivo del pagamento
delle imposte mediante le quali i cittadini e i residenti partecipano alla
gestione dei siti culturali considerati. A tale argomento, la Corte di
giustizia giustamente rispose, tra l’altro, che non era riscontrabile un nesso tra le agevolazioni
previste –che all’epoca escludevano i cittadini comunitari- e la coerenza
del sistema fiscale, tanto più che il beneficio delle agevolazioni tariffarie
fondato sulla residenza veniva ad escludere le altre persone residenti in
Italia al di fuori del comune interessato, ma anche esse soggette, in quanto
residenti nel Paese, alle obbligazioni fiscali (paragrafo 24). Mutatis
mutandis, il medesimo
ragionamento varrebbe oggi per sostenere ulteriormente la tesi dell’arbitrarietà della discriminazione posta a danno
dei cittadini extracomunitari, almeno di quelli legalmente residenti, i quali
sono a tutti gli effetti sottoposti agli obblighi fiscali.
Ulteriore argomento contro la normativa di cui al D.M. n. 172/2006
riguarda il ricorso fatto da quest’ultima alla condizione di reciprocità, in
palese violazione dell’art. 2.2 del d.lgs. n.286/98 e dell’art. 2 del d.P.R.
394/99, almeno per quanto concerne gli stranieri legalmente soggiornanti.[5]
Il riferimento alla condizione di reciprocità è palesemente illegittimo considerando
che la normativa sull’immigrazione per il suo carattere di norma speciale e nel
contempo applicativa del disposto costituzionale ex art. 10 c. 2 Cost. (riserva
di legge rafforzata), ha certamente una capacità di resistenza prevalente a
normative contrastanti anche successive, tanto più che il D.M. 507/1997 e
successive modificazioni ha rango di norma regolamentare e dunque
gerarchicamente subordinata alla norma di legge ordinaria. Di conseguenza, si
ritiene che la norma di cui al D.M. n. 507/1997 e successive modificazioni,
così come ogni altra norma regionale o regolamento locale che ponga in essere
simili distinzioni di trattamento, sia illegittima e pertanto comporti una violazione dell’art. 43 del TU e come
tale andrebbe disapplicata. Parimenti, la norma del codice dei beni culturali che afferma
esplicitamente un divieto di discriminazione per i soli cittadini comunitari
non necessariamente dovrebbe essere interpretata nel senso di fondare un
trattamento deteriore per quelli extracomunitari, lasciando invece la
possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata e dunque non
discriminatoria.
Non sarebbe inoltre azzardato sostenere che la normativa sui biglietti di ingresso ai
beni culturali che pone in essere
una distinzione di trattamento a danno dei cittadini stranieri, costruisce pure
una violazione del decreto legislativo n. 215/2003, di recepimento della
direttiva europea n. 2000/43, sul contrasto alle discriminazioni
etnico-razziali, il cui campo di applicazione si estende anche alle
discriminazioni nell’accesso e fornitura di beni e servizi offerti al pubblico.
E’ noto che tale direttiva non riguarda le differenze di trattamento basate
sulla nazionalità e non pregiudica qualsiasi trattamento derivante dalla
condizione giuridica dei cittadini di paesi terzi (art. 3 c. 2 della direttiva;
considerando n. 13; Art. 3 c. 2 del
D.lgs. n. 215/2003). Tuttavia, appare lecito sostenere che tale clausola non debba essere
intesa come facente salve tutte le differenze di trattamento tra
stranieri e cittadini previste direttamente dalla legge, ma debba essere
interpretata alla luce delle funzioni della direttiva cioè nel rispetto del
fondamentale divieto di discriminazione, con la conseguenza che anche le
differenze di trattamento basate sullo status di cittadino o straniero debbano
considerarsi discriminatorie se i criteri impiegati per tali distinzioni,
giudicati alla luce degli obiettivi e degli scopi della direttiva, risultano
applicati in modo tale da non perseguire un fine legittimo, o in modo sproporzionato
rispetto a tal fine. Ciò in analogia con l’interpretazione evolutiva della
clausola – per molti aspetti analoga – contenuta nell’art. 1 della
Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del
1965; interpretazione fatta propria dalla XXX Raccomandazione generale adottata
nell’agosto 2004 dal comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione
razziale.[6]
Quindi, si ritiene che la norma del D.M. 172/2006 potrebbe essere
impugnata anche come fondante una violazione del d.lgs. n. 215/2003, di
recepimento della direttiva CE n.
2000/43 e come tale, renderebbe
possibile una legittimazione ad agire delle associazioni riconosciute ed
iscritte nell’apposito registro interministeriale di cui all’ar. 5 c. 1 del
d.lgs. n. 215/2003, trattandosi di
una discriminazione collettiva in cui non sono immediatamente individuabili in
modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.[7]
Ci venga consentita un ‘ultima considerazione. La vicenda della
discriminazione operata dal Ministero per i Beni Culturali illustra ancora una
volta le difficoltà che si registrano nel nostro paese all’affermazione di una
cultura delle pari opportunità e della non-discriminazione per i cittadini
migranti; la difficoltà cioè di raggiungere l’obiettivo dell’”equality
mainstreaming”, in base al
quale il principio delle pari opportunità dovrebbe collocarsi al centro dei
processi decisionali, come criterio guida delle politiche legislative in tutti
i settori della vita sociale. Inoltre, la normativa discriminatoria in materia di fruizione dei beni culturali,
così come le tante altre disposizioni discriminatorie ereditate da un passato
anche lontano, ma tuttora in vigore, come ad es. le norme sui rapporti di
impiego nel settore del trasporto pubblico locale (vedi newsletter n. 7),
quelle che tuttora impediscono ai giornalisti stranieri di diventare direttori
responsabili di una testata giornalistica in Italia[8],
dimostrano come il nostro paese non abbia adempiuto agli obblighi scaturanti
dal recepimento della direttive n. 2000/43 che impegnava “gli Stati membri a
prendere le misure necessarie per assicurare che: a) tutte le disposizioni
legislative, regolamentari ed amministrative contrarie al principio di parità
di trattamento siano abrogate”
(art. 14).
Una lunga strada dunque deve essere ancora percorsa sul versante della
parità di trattamento per i cittadini migranti nel nostro Paese.
L’elenco dei musei,
parchi archeologici e beni culturali cui si applicano le disposizioni del D.M.
n. 507/1997 e successive modificazioni, è reperibile sul sito: http://www.arti.beniculturali.it/musei/elenco/
GIURISPRUDENZA
NAZIONALE
1.
E’ legittimo il rito direttissimo per i reati
penali in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa anche se
l’imputato viene rinviato a giudizio trascorsi i 15 giorni dall’arresto o
dall’iscrizione del registro delle notizie di reato, purché non vengano svolte
speciali indagini. Respinta dalla Corte Costituzionale l’eccezione di
incostituzionalità. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 199/2007.
Con ordinanza 05 giugno
2007, n. 199, la Corte Costituzionale ha affermato la manifesta
inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Verona in riferimento
agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, in relazione all’art. 6, comma 5,
della legge n. 205/1993 (legge “Mancino”) [Misure urgenti in materia di
discriminazione razziale, etnica e religiosa], nella parte in cui
–stabilendo che per i reati indicati all’art. 5, coma 1, della legge
medesima, il pubblico ministero
procede al giudizio direttissimo anche fuori dai casi previsti dall’art.
449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali
indagini – non prevede, “secondo l’interpretazione maggioritaria della
giurisprudenza di legittimità […] che l’imputato debba essere presentato in
udienza nel termine di quindici giorni dall’arresto o dall’iscrizione nel
registro delle notizie di reato”.
La legge n 205/1993, meglio nota come “legge Mancino”, prevede che per i reati di istigazione a
commettere o di compimento di
violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici o
religiosi, così come per tutti i
reati per i quali trovi applicazione l’aggravante della finalità discriminatoria o dell’odio etnico razziale o
religioso, e che di conseguenza, sono perseguibili d’ufficio, si debba
procedere secondo il rito direttissimo , salvo che non siano necessarie
speciali indagini (art. 6 c. 5).
Rilevando che secondo una giurisprudenza consolidata del giudice
delle leggi, cioè della Corte di Cassazione, non sarebbe vincolante in queste
ipotesi il termine di quindici giorni (art. 449 c.p.p.) richiesto in via
ordinaria dal codice di procedura penale per i casi “tipici” di procedimento
per direttissima per la comparsa in giudizio dell’accusato dal giorno
dell’arresto o dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato, potendo
invece il Pubblico Ministero
instaurare il rito speciale anche in un momento successivo, il Tribunale di
Verona ha rinviato la normativa alla Corte Costituzionale ritenendo
ingiustificata la disparità di trattamento rispetto ai casi di rito per
direttissima “tipici” e sostenendo che la normativa fosse suscettibile di determinare un’eccessiva limitazione del diritto di difesa.
La Corte ha concluso per l’inammissibilità del rinvio sostenendo
che il protrarsi del termine per
l’accusa per instaurare il rito speciale per direttissima oltre i quindici
giorni richiesti nei casi “tipici”, non necessariamente deve significare che il
pubblico ministero metta in atto l’ipotesi “patologica” della conduzione
di “speciali indagini”, per le
quali il rito per direttissima deve venir escluso. Di conseguenza, negli altri
casi, resta ferma la possibilità di controlli nella fase processuale collegati
all’eventuale accertamento di una concreta lesione del diritto di difesa, senza
per questo dover ritenere la normativa di per sé costituzionalmente
illegittima.
Di seguito viene riprodotto integralmente il testo dell’ordinanza
della Corte Costituzionale.
Corte costituzionale. Ordinanza 5 giugno 2007, n. 199. REPUBBLICA
ITALIANA nel
giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, del
decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di
discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito, con modificazioni,
nella legge 25 giugno 1993, n. 205, promosso con ordinanza del 18 novembre 2004
dal Tribunale di Verona nel procedimento penale a carico di A. A. ed altri
iscritta al n. 80 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2005. Visto
l'atto di costituzione di M.T.;
delle notizie
di Reato»;
cod.
proc. pen.); che,
non potendo, tuttavia, «l'accelerazione del rito […] comunque comportare una
attenuazione delle garanzie difensive», anche nei casi di giudizio
direttissimo «atipico» dovrebbe ritenersi richiesta l'osservanza del termine
di quindici giorni, di cui al citato art. 449 cod. proc. pen.: prospettiva
nella quale il rito in parola dovrebbe considerarsi obbligatorio solo «in via
tendenziale», vale a dire nei soli limiti in cui non siano necessarie
«speciali indagini», incompatibili con l'inderogabile rispetto del predetto
termine; previste
dall'art. 405, comma 2, cod. proc. pen.; che
tale rilievo sarebbe sufficiente a far ritenere violati sia l'art. 3 Cost.,
sotto il profilo della disparità di trattamento tra coloro che vengono
sottoposti a giudizio direttissimo nei casi indicati dall'art. 449 cod. proc.
pen. e coloro che sono sottoposti al medesimo giudizio nelle ipotesi di cui
al decreto-legge n. 122 del 1993; sia l'art. 24 Cost., sotto il profilo della
compressione delle garanzie difensive; sia, infine, l'art. 111 Cost., sotto
il profilo della alterazione della condizione di parità delle parti e della
lesione del diritto dell'imputato ad essere informato, nel più breve tempo
possibile, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico e,
conseguentemente, del diritto a disporre di un tempo adeguato per preparare
la propria difesa; che
nel giudizio di costituzionalità si è costituito M. T., imputato nel giudizio
a quo, concludendo per l'accoglimento della questione. Considerato
che il Tribunale di Verona dubita della legittimità costituzionale dell'art.
6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con
modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, nella parte in cui –
stabilendo che per i reati previsti dall'art. 5, comma 1, del medesimo
decreto-legge si procede con giudizio direttissimo anche fuori dei casi
previsti dall'art. 449 del codice di procedura penale, salvo che siano
necessarie speciali indagini – non prevede, «secondo l'interpretazione
maggioritaria della giurisprudenza di legittimità» – interpretazione
cui il rimettente è tenuto ad uniformarsi, a fronte del principio di diritto
enunciato dalla Corte di cassazione con sentenza di annullamento – «che
l'imputato debba essere presentato in udienza nel termine di quindici giorni
dall'arresto o dall'iscrizione nel registro delle notizie di reato»; |
GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE
Discriminazione razziale e religiosa e limiti di
ordine pubblico alla libertà di riunione e manifestazione pubblica: il caso francese della
distribuzione ai senza fissa dimora di pasti gratuiti a base di carne di
maiale. L’ordinanza del Conseil d’Etat del 5 gennaio 2007.
Pubblichiamo di seguito la traduzione di un’ordinanza pronunciata dal
Consiglio di Stato francese, l’organo di secondo grado della giustizia
amministrativa, con la quale è stato confermato il divieto apposto dal Prefetto
di Parigi nei confronti delle iniziative promosse dall’associazione di
volontariato francese di estrema destra “Solidarité des francais” di
distribuzione gratuita di pasti a base di carne di maiale ai senza fissa dimora
di Parigi, con l’evidente scopo di discriminare la popolazione dei senza fissa
dimora o dei poveri di origine straniera e di appartenenza religiosa islamica .
Contro il divieto prefettizio, l’associazione aveva presentato un
ricorso d’urgenza dinanzi al giudice amministrativo di Parigi sostenendo che l’interdizione
costituiva una minaccia grave e manifestamente illegale alle libertà fondamentali
di riunione, di espressione e di manifestazione pubblica. Il giudice
amministrativo di Parigi aveva dato ragione all’associazione, accogliendo il
ricorso. Contro la decisione del giudice di primo grado, il Ministero
dell’Interno francese aveva presentato ricorso in appello dinanzi al Consiglio
di Stato. Quest’ultimo ha annullato l’ordinanza del giudice amministrativo di
Parigi, ricordando che, secondo un principio consolidato in materia di polizia
amministrativa, il rispetto dovuto alla libertà di manifestazione invocato
dall’associazione “Solidarité des Francais”, non fa ostacolo a che l’autorità
di polizia possa interdire
un’iniziativa pubblica che sia, anche per la sua natura discriminatoria,
suscettibile di causare turbative all’ordine pubblico.
Conseil d’Etat, Ordonnance du juge des référés (Ordinanza del
giudice di riferimento) dd. 5 gennaio 2007, n. 300311 Ministro dell’Interno e
dell’amministrazione del territorio c. L’associazione “Solidarité des
francais” Visto il ricorso registrato il
3 gennaio 2007 presso il segretariato del contenzioso del Consiglio di Stato
presentato dal Ministro dell’Interno e dell’amministrazione del territorio;
il Ministro dell’Interno e dell’Amministrazione del Territorio chiede al
Consiglio di Stato: 1)
di
annullare l’ordinanza del 2 gennaio 2007 con la quale il giudice di
riferimento del tribunale amministrativo di Parigi ha sospeso l’esecuzione della decisione del Prefetto di
polizia in data 28 dicembre 2006 vietante i raduni prospettati
dall’associazione “Solidarité des francais” il 2, 3, 4, 5 e 6 gennaio 2007; 2)
di
rigettare le conclusioni dell’associazione “Solidarité des francais” (SDF)
miranti alla sospensione di tale decisione; il Ministro sostiene che il
carattere discriminatorio della distribuzione sulla pubblica via delle “zuppe
gallesi” è indiscutibile; […]; che l’ordinanza in oggetto è intessuta di
contraddizioni nel merito, dovendosi riconoscere che la manifestazione mette in atto una
forma di degradazione della dignità umana per dedurne quindi che la sua proibizione non porta un’offesa
ad una libertà fondamentale; che il giudice di riferimento ha commesso un
errore di diritto riferendosi a circostanze fattuali anteriori per valutare
il rischio di turbative future; Vista e registrata in data 5 gennaio
2007 la memoria presentata
dall’associazione “Solidarité des francais” che prona per il rigetto del ricorso e affinché sia posto a
carico dello Stato la somma di
3,000 euro ai sensi dell’art. 761-1 del codice della giustizia
amministrativa; l’associazione fa valere che […] l’interdizione porta offesa
alla libertà di manifestazione, di riunione e di espressione; che vi è urgenza a sospendere la decisione
prefettizia; che in assenza di turbative all’ordine pubblico la sola
possibilità per il prefetto di proibire
la distribuzione delle zuppe era di concludere che l’obiettivo
dell’associazione era contrario alle leggi e ai regolamenti; che il prefetto
ha commesso un abuso di potere visto che l’associazione non ha mai rifiutato
di servire le zuppe a chicchessia; che nessuna organizzazione ebraica o islamica ha mai protestato
contro le condizioni per la distribuzione delle zuppe; che nessuna discriminazione di alcun
sorta è stata accertata; che il giudice di riferimento del tribunale
amministrativo di Parigi ha potuto, senza errore di diritto, tenere conto
degli avvenimenti passati per
apprezzare la nozione di turbativa all’ordine pubblico; Vista l’ordinanza impugnata; […] Dopo avere convocato [le parti]
ad una undienza pubblica […]; Visti gli atti dell’udienza
pubblica di venerdì 5 gennaio 2007 […]; Considerando che ai sensi
dell’art. 512-2 del codice di giustizia amministrativa: “investito di
un’istanza in questo senso giustificata dall’urgenza, il giudice di
riferimento può ordinare ogni misura necessaria alla salvaguardia di una
libertà fondamentale alla quale una persona morale di diritto pubblico […]
avrebbe portato, nell’esercizio dei suoi poteri, un’offesa grave e
manifestamente illecita”; che secondo l’articolo 523-1 del medesimo codice, le
decisioni intervenute in applicazione dell’art. 521-2 sono (…) suscettibili
di appello davanti al Consiglio di Stato; Considerando che il giudice di
riferimento del tribunale amministrativo non poteva, senza intaccare la
propria ordinanza di contraddizioni nel merito, da una parte ritenere il
carattere discriminatorio dell’organizzazione sulla pubblica via, a cura
dell’associazione “Solidarité des francais”, della distribuzione di alimenti
contenenti carne di maiale, e dall’altra parte ritenere che la decisione prefettizia portava un’offesa
grave e manifestamente illegale alla libertà fondamentale di adunanza; Considerando che da ciò risulta
che il Ministro di Stato,
dell’Interno e dell’amministrazione del territorio, è legittimato a domandare
l’annullamento dell’ordinanza del 2 gennaio 2007 con la quale il giudice di
riferimento del tribunale amministrativo di Parigi ha sospeso la decisione
del prefetto di polizia del 28 dicembre 2006 in ragione dell’assenza di
rischi di turbative all’ordine pubblico maggiori di quelle presentatesi in
precedenti occasioni in simili operazioni; Considerando che il giudice di
riferimento del Consiglio di Stato, evocato all’uopo, ha titolo di
pronunciarsi sulla fondatezza del ricorso; Considerando che la decisione
prende in considerazione i rischi di reazioni a ciò che viene concepito come
una manifestazione pubblica suscettibile di portare offesa alla dignità delle
persone private del soccorso offerto e
capace pertanto di causare turbative all’ordine pubblico; Considerato che il rispetto
alla libertà di manifestazione non fa ostacolo a che l’autorità investita del
potere di polizia interdisca un’attività se una tale misura è la sola in
grado di prevenire una turbativa all’ordine pubblico; Considerando che vietando attraverso
la decisione contestata diverse adunanze legate alla distribuzione sulla pubblica via di alimenti
a base di maiale, il prefetto di polizia non ha portato un’offesa grave e
manifestamente allegatale alla libertà di manifestazione, avuto riguardo della
natura e dello scopo delle adunanze e dei motivi delle medesime portati a
conoscenza del pubblico attraverso il sito internet dell’associazione; Considerando che di conseguenza
l’associazione “Solidarité des francais” non è legittimata a richiedere la
sospensione della decisione prefettizia
contestata; Sulle conclusioni
dell’associazione “Solidarité des francais” miranti all’applicazione delle
disposizioni dell’art. 761-1 del codice di giustizia amministrativa: Considerando che le
disposizioni dell’art. 761-1 del codice di giustizia amministrativa fanno
ostacolo ache siano messe a carico dello Stato, che non è nel presente caso
parte perdente, il pagamento della somma reclamata dall’associazione
“Solidarité des francais” a titolo di costi cui si era esposta e non compresi
nelle spese; O R D I N A 1)
l’ordinanza
del giudice di riferimento del tribunale amministrativo di Parigi del 2
gennaio 2007 è annullata; 2)
la
richiesta dell’associazione “Solidarité des francais” davanti al giudice di
riferimento del tribunale amministrativo di Parigi e le sue conclusioni volte
all’applicazione dell’art. 761-1 del codice di giustizia amministrativa sono
respinte ; 3)
la
presente decisione sarà notificata dal Ministro di Stato, Ministro
dell’Interno e dell’amministrazione del territorio e all’associazione
“Solidaritè des francais”. |
ATTIVITA’
PARLAMENTARI
Senato della Repubblica:
assegnato alla Commissione Affari costituzionali il ddl che disciplina l’uso
del velo nei luoghi pubblici.
Modifica alla legge 22 maggio 1975, n. 152, in
materia di tutela dell’ordine pubblico
DISEGNO DI LEGGE N. 1543
d’iniziativa delle senatrici BAIO, BINETTI, NEGRI, THALER AUSSERHOFER, DE
PETRIS, RUBINATO e RAME (Ulivo)
Comunicato alla Presidenza l’8 maggio 2007
Assegnato alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede
referente il 29 maggio 2007
Relazione introduttiva
Onorevoli Senatori. – Il dibattito relativo all’utilizzo del velo, che
sia o meno integrale, che si è aperto in Italia e ha visto protagoniste
soprattutto le donne di origine musulmana, necessita di un approfondimento,
anche di tipo legislativo.
Il disegno di legge vuole ribadire tre princìpi fondamentali per la convivenza:
– il rispetto profondo e sostanziale delle scelte religiose, culturali e
politiche di ogni persona;
– l’incontro delle diversità a partire da quella che accomuna tutta
l’umanità, la differenza tra uomini e donne;
– la politica responsabile di sicurezza e rispetto dei cittadini.
L’articolo 3, l’articolo 8 e l’articolo 19 della Costituzione sanciscono il
principio di eguaglianza, a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua,
dalla religione eccetera, che trova sia nello Stato liberale di diritto sia
nello Stato sociale ed interventista il garante atto a rimuovere gli ostacoli
che possano pregiudicare la libertà e la dignità della persona.
L’articolo 8 contempla il pluralismo confessionale, eliminando le ostilità
verso culti differenti da quello cattolico, in accordo con il seguente articolo
19 che ammette la libertà di professare liberamente la propria religione.
Lo Stato italiano riconosce e promuove il principio di libertà religiosa e
rimuove gli ostacoli che impongono un’identità precostituita alle persone che
siano nate o risiedano nel nostro Paese. La Costituzione garantisce pari
dignità sociale e, per tutelare la sicurezza dei cittadini, la legge prescrive
il divieto «di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento
della persona» in luogo pubblico «senza giustificato motivo» (articolo 5 della
legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni). Inoltre il testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno
1931, n. 773, all’articolo 85, vieta di «comparire mascherato in luogo
pubblico», ma la giurisprudenza ha chiarito la non equiparazione della maschera
all’utilizzo di indumenti celanti il volto, quali segni esteriori di una tipica
fede religiosa.
La circolare del 24 luglio 2000 del Ministero dell’interno ha precisato che il
turbante, il chador e il
velo, imposti da motivi religiosi, «sono parte integrante degli indumenti
abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa,
naturalmente purché mantenga il volto scoperto». Tali accessori sono ammessi,
in virtù del principio costituzionale di libertà religiosa, ma i tratti del
viso devono essere ben visibili. Questo significherebbe che il burqa, che nasconde volto e persona di chi lo
indossa, è vietato. L’applicazione di tale norma è, però, incerta, delegata ai
singoli sindaci e comuni e comunque, anche nel caso di identificazione da parte
degli operatori dell’ordine pubblico, deve essere conseguente ad una
motivazione oggettiva di urgenza e di pericolo. Infatti, il Ministero
dell’interno, in data 9 dicembre 2004, nel rispondere ad un quesito posto da un
comando di polizia municipale, chiariva: «nei confronti della persona che
circoli in luogo pubblico coperta da burqa, l’attivazione dei poteri di identificazione da
parte del personale di polizia sembrerebbe potersi validamente esplicare alla
luce di circostanze ambientali tali da costituire giustificato motivo di
allarme. Un accertamento condotto in assenza di un concreto interesse pubblico
alla conoscenza dell’identità della persona stessa potrebbe, infatti, apparire
come inutilmente vessatorio».
Il quesito, oggetto di diatribe interpretative della norma, è se l’appartenenza
ad una religione possa o meno essere un «giustificato motivo» per circolare con
il volto coperto, così come prescrive l’articolo 5 della citata legge n. 152
del 1975. Per le donne musulmane il coprirsi il viso è una connotazione
identitaria, simbolo dell’affermazione del proprio credo. Nei versetti del
Corano in cui compare la parola hijab (Q. 7:46, 18:45, 19:17, 33:53, 38:32, 41:5, 42:51)
non si indica un oggetto quale il velo, ma l’azione di velarsi, di tirare una
tenda dietro cui pregare e avere la rivelazione divina. In sostanza, non si
ravviserebbe nel Corano alcuna traccia esplicita del hijab o chador come indumento con cui le donne debbano coprirsi
obbligatoriamente il capo o il volto. Questa osservanza nasce da un versetto
del Corano che dice: «O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie e alle
donne dei credenti di chiudere su di esse i loro indumenti! Questo sarà il
mezzo più semplice perché esse siano riconosciute e non siano offese» (Q.
33:59). Ma in questo testo, come in un altro simile (Q. 24:31), il Corano
sembra riferirsi più in generale al senso del pudore.
L’hijab, il burqa, l’abaya, il buibui simboleggiano la purezza, la riservatezza, ma anche
il rispetto che si deve ad una donna, la sua integrità morale, elementi ai
quali coloro che risiedono in Italia, come del resto tutti gli emigranti,
restano ancorati per timore di perdere il passato e la propria cultura.
Se per le donne dell’Occidente mostrare il volto, l’esteriorità è simbolo di
libertà, è l’espressione di sé e della propria personalità, per le musulmane è
diverso: il coprirsi impone il rispetto e chi è rispettato, è, a sua volta,
libero.
Una visione così diversa sull’abbigliamento, una scissione così netta tra il
corpo e l’immagine può portare ad una ricchezza sociale, spesso trascurata.
L’incontro e l’integrazione di culture, se realizzata, implica la
compenetrazione di valori differenti.
L’Europa si interroga su questo punto. La Corte europea è sempre più spesso
chiamata a decidere sulla convivenza tra la laicità delle istituzioni e lo
statuto personale del credente.
Di recente, il 28 febbraio 2007, è stato presentato a Roma il quarto rapporto
del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) umano nei Paesi arabi,
attraverso la lente del ruolo delle donne in queste regioni (Arab human
development report 2005. Towards the rise of women in the Arab wold). Si tratta di un rapporto ampio che
sottolinea la complessità di questo mondo. In particolare si evidenzia come
l’Occidente spesso presenti la donna islamica come oppressa e discriminata. Non
tutte le donne vivono questa dimensione di sottomissione, specialmente nel
corso degli ultimi anni. Sono le donne musulmane che hanno cominciato a porre
nuove sfide all’interno della società, contestando le tradizionali politiche
religiose e l’uso della religione per fini discriminatori. Sono le donne, più
degli uomini, ad avere il coraggio di spingere per le riforme nell’Islam e
nelle società islamiche. Il quarto rapporto UNDP dimostra che ci sono stati
passi avanti, anche se è ancora molta la strada da fare per rafforzare il ruolo
delle donne a cominciare dai Paesi arabi. La discriminazione nei loro confronti
frena lo sviluppo economico. E l’agenzia dell’ONU per lo sviluppo invita i
Paesi compresi tra la Mauritania e l’Arabia Saudita a scoprire il valore della
donna per raggiungere il benessere.
Se per la donna araba è difficile riuscire a raggiungere l’emancipazione e
quindi l’uguaglianza sostanziale e formale con l’uomo nel proprio Paese, la
situazione delle donne emigrate è ancora più controversa. Essa, oltre ad essere
ancorata alla sua storia e cultura, deve fronteggiare la difficile situazione
di integrazione in un Paese che ha presupposti storici, sociali e culturali
differenti.
Questo processo non potrà mai avverarsi attraverso l’imposizione. Le nostre
leggi sono rispettose della pluralità, basta ricordare l’articolo 3 della
Costituzione, e si basano su un dialogo profondo. L’integrazione delle donne
islamiche non passa per l’assunzione passiva dei modelli occidentali, ma
attraverso l’istruzione, la reciproca conoscenza delle diverse culture
religiose e dei testi sacri, quali la Bibbia, i Vangeli e il Corano e, ancora,
con la reinterpretazione critica della propria tradizione culturale e
religiosa.
In questo disegno di legge si vuole ribadire l’orientamento italiano al
multiculturalismo, costituzionalmente garantito, la libertà di professare la
propria religione e di esplicitarla anche con indumenti che palesino il proprio
culto, ma nel rispetto della sicurezza di uno Stato laico, consapevole di una
integrazione possibile e necessaria, oggi più di ieri, a cui l’Italia non deve
e non vuole rinunciare.
Indossare il burqa
lasciando il volto scoperto sembra un buon modo per integrare e rispettare le
culture religiose di ognuno senza perdere di vista la necessità di tutelare e
garantire la sicurezza di tutti.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
1. All’articolo 5 della legge 22 maggio
1975 n. 152, dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Negli istituti scolastici pubblici e parificati, di ogni ordine e grado, in
tutti i luoghi pubblici o aperti al pubblico, i segni e gli abiti che,
liberamente scelti, manifestino palesemente l’appartenenza religiosa dei
soggetti, devono ritenersi parte integrante degli indumenti abituali e
concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, a condizione che
la persona mantenga il volto scoperto e riconoscibile».
APPUNTAMENTI
Giornate
di formazione sul diritto anti-discriminatorio a cura dell’Unione Forense per i
Diritti Umani in collaborazione con l’UNAR. Le modalità per l’iscrizione.
Nei giorni
18 e 27 settembre 2007, 9 e 18 ottobre 2007, rispettivamente a Udine,
Bari, Palermo e Milano, dalle ore 9.00 alle ore 17.00, sono previste le
Giornate di formazione “ Discriminazione razziale e accesso alla giustizia: il
nuovo ruolo dell’associazionismo”.
Tali iniziative si collocano nell’ambito del
progetto “Contenuti e strumenti per la tutela in materia di discriminazioni
razziali” realizzato dall’Unione Forense per la tutela dei diritti dell’uomo e
finanziato dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) nel
quadro delle attività di sensibilizzazione e formazione dallo stesso promosse.
Le Giornate di formazione sono destinate a tutte
le associazioni che svolgono la propria attività nel campo della lotta alle
discriminazioni e della promozione della parità di trattamento e, in particolar
modo, a quelle titolari della legittimazione ad agire in giudizio ex art. 5 del
d. lgs. n. 215/2003.
In tutti gli incontri, il programma della mattina
prevede una parte nel corso della quale verranno illustrati i nuovi strumenti
giuridici introdotti dalla recente normativa antidiscriminazione, nonché le
opportunità offerte in questo campo dall’Unione europea.
Nel pomeriggio, invece, si svolgerà un
Workshop applicativo nel corso del quale verranno simulati alcuni casi concreti
di discriminazione razziale ed illustrate le connesse strategie di contrasto.
Seguirà un dibattito con interventi programmati
delle Associazioni intervenute.
Le persone interessate a partecipare ad una delle
giornate formative debbono comunicare la propria richiesta di iscrizione alla segreteria dell’Unione
Forense per la tutela dei diritti dell’uomo (sig.ra Gioia Silvagni tel fax
0685300801; 06.8412940 e-mail info@unionedirittiumani.it).
Si
prega altresì di indicare l’eventuale interesse dell’Associazione ad un
intervento programmato nell’ambito del dibattito della sessione pomeridiana.
Nel corso delle giornate sarà rilasciato un
attestato di partecipazione e distribuito un compendio di materiali e
documentazione giuridica sugli strumenti di tutela delle vittime di
discriminazione redatto a cura dell’Unione Forense per la Tutela dei Diritti
dell’Uomo.
SEGNALAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
1.
Centre pour l’Egalité des
chances et la lutte contre le Racisme, Rapport Annuel 2006, Bruxelles,
2007.
Il Centro per l’Uguaglianza di Opportunità e la lotta contro il
Razzismo, l’Autorità Indipendente belga contro le discriminazioni, ha
pubblicato il Rapporto Annuale
sulle sue attività nel corso del 2006. L’Autorità Indipendente belga ha un
mandato ed un ambito di attività non limitato alle discriminazioni a carattere
etnico e razziale, bensì esteso anche a quelle per motivi di orientamento
sessuale, età, disabilità, stato di salute, così come esercita un ruolo
consultivo in materia di tratta degli esseri umani, disciplina
dell’immigrazione e lotta alla povertà.
Il rapporto è disponibile in lingua francese e fiamminga sul sito
internet: www.diversite.be
2.
Si segnalano
in particolare il cap.IV: Diritti sociali e vita familiare, ove viene trattata
la materia dell’accesso degli stranieri immigrati alle previdenze assistenziali
con riferimento anche al principio di non discriminazione e parità di
trattamento previsto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; ed il
cap. V: Migrazioni e diritti all’identità, nel quale vengono trattati, in
un’ottica comparativa, argomenti attinenti al diritto alla libertà religiosa
nelle società di immigrazione: la questione del velo, dell’esposizione del
crocefisso, …
Per
informazioni, consultare il sito web: http://www.jovene.it
3.
European
Roma Rights Centre Quarterly, Roma Right, n. 1-2/2007. Special Issue: Social
Assistance.
Il primo numero doppio del 2007 della rivista edita dall’European
Roma Rights Centre di Budapest è dedicato alla questione della riforma dei sistemi di welfare
nei paesi
europei, e l’impatto nei confronti
delle popolazioni Rom. La rivista si sofferma sul ruolo dello Stato sociale nel
correggere e mitigare le ingiustizie e ineguaglianze determinate dalle economie
di mercato attraverso modelli e pratiche di assistenza sociale. Le recenti
riforme del mercato del lavoro puntano all’introduzione di politiche attive sul
mercato del lavoro senza metterne in discussione la natura di mercato, cercando
di ridurre i costi dell’assistenza
sociale e nel contempo di reinserire gli esclusi nel mercato del lavoro. I
risultati di tali politiche sono contrastanti e spesso deludenti per le
popolazioni Roma che incontrano le maggiori difficoltà a beneficiare di tali interventi a
causa dell’aperta discriminazioni cui sono fatti oggetto. La conseguenza è che
spesso i Rom rimangono senza
lavoro e non godono più nemmeno delle tradizionali misure compensative fondate
sui sussidi di disoccupazione o di assistenza sociale, risultando così vittime
dei metodi e strumenti
“efficientisti” del nuovo Welfare.
Sommario della rivista Editorial
La rivista è disponibile sul sito web dell’ERRC: http://www.errc.org/Romarights_index.php |
[1] UNAR – Dipartimento per i Diritti e le Pari
Opportunità – Presidenza del Consiglio dei Ministri, Un anno di
attività contro la discriminazione razziale, Roma, pp. 62-63.
[2] Sulla base di una sommaria
indagine compiuta attraverso dati
e informazioni disponibili via internet
relativamente alle agevolazioni all’accesso a musei e beni culturali di
proprietà e gestiti dagli enti locali nelle regioni di riferimento del progetto
Leader, emergerebbe ad esempio che la Provincia di Genova , il Comune di Napoli e quello di Firenze non applicano
discriminazioni nella previsione di agevolazioni tariffarie, mentre il Comune di Venezia applica una
discriminazione in ragione della residenza per quanto riguarda l’ingresso
gratuito (riservato tra l’altro ai residenti nel comune di Venezia), così come
su base di nazionalità per quanto riguarda l’ingresso ridotto, riservato ai
soli cittadini comunitari per le
fasce di età 6-14 , 15-29 e ultra 65.
La vicenda riferita dall’agenzia ANSA il 9 luglio scorso evidenzierebbe
che in Sicilia trovano applicazione i criteri stabiliti dalla normativa
nazionale.
[3] In base
all’Art. 43 c. 1 TU costituisce discriminazione “ogni comportamento che,
direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione,
restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o
l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo
scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il
godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle
libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in
ogni altro settore della vita pubblica”.
Il legislatore ha poi formulato, nel secondo comma
della disposizione, una tipizzazione delle condotte aventi sicuramente una valenza discriminatoria.
Va detto che l’elencazione fatta nel 2° comma non è da
considerarsi tassativa, e quindi esaustiva, delle condotte sostanzialmente
discriminatorie e produttive di effetti pregiudizievoli, rispetto alle quali
soccorre la definizione generale del primo comma.
L’articolo prevede infatti che compia “in ogni caso” una discriminazione:
[…]
b)
chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o
servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua
condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione,
etnia o nazionalità.
[4] Corte di Cassazione, sezione
Lavoro, sentenza 19 ottorbe-13 novembre 2006, n. 24170, par. 4.3.
[5] Art. 2 c. 2 del T.U.: “Lo
straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti
in materia civile attribuiti al
cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per
l’Italia dispongano diversamente. Nei casi in cui il presente testo unico o le
convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità, essa è
accertata secondo i criteri e le modalità previste dal regolamento di
attuazione”.
Art. 1 c. 1 d.P.R. n. 394/99: Ai
fini dell’accertamento della condizioni di reciprocità, nei casi previsti dal
testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero, di seguito denominato “testo unico”, il
Ministero degli Affari Esteri, a richiesta, comunica ai notai ed ai
responsabili dei procedimenti amministrativi che ammettono gli stranieri al
godimento dei diritti in materia civile i dati relativi alle verifiche del
godimento dei diritti in questione
da parte dei cittadini italiani nel paese di origine dei suddetti stranieri.
c. 2: L’accertamento di cui al comma 1, non è richiesto per i cittadini stranieri
titolari della carta di
soggiorno di cui all’art. 9 del
testo unico, nonché per i cittadini stranieri titolari di un permesso di
soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per
l’esercizio di un’impresa individuale, per motivi di famiglia, per motivi
umanitari e per motivi di studio, e per i relativi familiari in regola con il
soggiorno”.
Art. 1 c. 1 del T.U.: “Il presente
testo unico, in attuazione dell’art. 10, secondo comma, della Costituzione, si
applica, salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non
appartenenti all’Unione Europea e agli apolidi, di seguito indicati come
stranieri”.
Art. 1 c. 4 del T.U.: “Nelle
materie di competenza legislativa delle regioni, le disposizioni del presente
testo unico costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della
Costituzione. Per le materie di competenza delle regioni a statuto speciale e
delle province autonome, esse hanno il valore di norme fondamentali di riforma
economico-sociale della Repubblica”
[6] In merito al processo di interpretazione evolutiva della
clausola di cui all’art. 1 della Convenzione ONU del 1965 si veda Sicilianos, Les
potentialités de la convention pour l’élimination de la discrimination raciale.
A’ propos de la Reccomendation Génerale concernant la discrimination fonde sur
l’ascendance,
in Libertés, justice, tolerance, Mélanges Cohen-Janathan, Parigi 2005, p. 881 ss ;
cit. in Antonello Di Muro, La discriminazione razziale nel diritto civile
interno, alla luce del diritto comunitario e degli strumenti internazionali
vincolanti per l’Italia, paper presentato al
primo congresso di aggiornamento forense su iniziativa del Consiglio
Nazionale Forense, Roma, 28-30 marzo 2006, pag. 8.
[7] Art. 5 c. 3 del D.lgs. n.
215/2003: “Le associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1
sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 4 nei casi di
discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e
immediato le persone lese dalla discriminazione”.
[8] Art. 3 legge 8 febbraio 1948, n. 47.