NEWSLETTER N. 8
1 AGOSTO 2007

 

SERVIZIO DI SUPPORTO GIURIDICO

 

 

SOMMARIO

 

 

ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI

 

1. La Commissione Europea inizia la procedura preliminare di infrazione nei confronti di 14 Paesi , tra cui l’Italia,  per incorretta attuazione della Direttiva n. 2000/43 in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali. I rilievi mossi alla normativa italiana.

 

2. DISCRIMINATI I MINORI, I GIOVANI E GLI ANZIANI EXTRACOMUNITARI NELL’ACCESSO AI MUSEI E BENI CULTURALI ITALIANI. Le norme del Ministero per i Beni Culturali e spesso anche quelle degli Enti locali riservano le  agevolazioni tariffarie soltanto ai cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea. Una disparità di trattamento irragionevole ed arbitraria.

 

 

GIURISPRUDENZA NAZIONALE

 

1. E’ legittimo il rito direttissimo per i reati penali in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa anche se l’imputato viene rinviato a giudizio trascorsi i 15 giorni dall’arresto o dall’iscrizione del registro delle notizie di reato, purché non vengano svolte speciali indagini. Respinta dalla Corte Costituzionale l’eccezione di incostituzionalità. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 199/2007.

 

 

GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE

 

1. Discriminazione razziale e religiosa e limiti di ordine pubblico alla libertà di riunione e  manifestazione pubblica: il caso francese della distribuzione ai senza fissa dimora di pasti gratuiti a base di carne di maiale. L’ordinanza del Conseil d’Etat del 5 gennaio 2007.

 

 

ATTIVITA’ PARLAMENTARI

 

Senato della Repubblica: assegnato alla Commissione Affari costituzionali il ddl che disciplina l’uso del velo nei luoghi pubblici. Modifica alla legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine pubblico

 

 

APPUNTAMENTI

 

 

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 


 

ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI

 

1.

 

La Commissione Europea inizia la procedura preliminare di infrazione nei confronti di 14 Paesi , tra cui l’Italia,   per incorretta attuazione della Direttiva n. 2000/43 in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali. I rilievi mossi alla normativa italiana.

 

Con un comunicato stampa pubblicato  lo scorso 27 giugno, la Commissione Europea ha annunciato che a breve avvierà la procedura preliminare di infrazione nei confronti di 14 Stati membri dell’Unione Europea, tra cui l’Italia, per insufficiente attuazione della Direttiva n. 2000/43 in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali. (1) La Commissione Europea invierà ai rispettivi governi nazionali una “lettera di avviso formale” nella quale spiegherà in maniera generale perché ritiene che lo Stato membro abbia trasposto in maniera insufficiente o non adeguata la  Direttiva nella legge nazionale. Lo Stato membro avrà due mesi di tempo per replicare. In assenza di risposta, ovvero qualora la Commissione Europea ritenga la risposta insoddisfacente, la Commissione Europea passerà alla fase successiva della procedura d’infrazione, inviando allo  Stato membro un opinione “motivata”. Nuovamente, lo Stato membro avrà due mesi per replicare. Trascorso tale periodo, se la Commissione Europea continuerà a ritenere che  lo Stato membro ha trasposto la direttiva nella propria legge nazionale  in maniera inadeguata, potrà deferire il caso alla Corte di Giustizia Europea.

Nel comunicato diffuso lo scorso 27 giugno, la Commissione Europea ha anticipato  i punti, rispetto ai quali ritiene che la normativa italiana di recepimento della Direttiva europea sia lacunosa o inadeguata. Tre sono le questioni sollevata dalla Commissione Europea nei confronti del nostro paese:

a)     la mancata ripartizione dell’onere della prova nei procedimenti giudiziali contro asserite discriminazioni etnico-razziali;

b)     la ridotta protezione contro i casi di vittimizzazione;

c)     la non corretta definizione di molestia razziale.

 

Vediamo ora di anticipare quali saranno con ogni probabilità i rilievi che la Commissione Europea muoverà alla normativa italiana di recepimento della direttiva europea n. 2000/43.

 

a)     la mancata ripartizione dell’onere della priva nei procedimenti giudiziali contro le discriminazioni etnico-razziali.

 

Come è noto, l'art. 8 della direttiva n. 43/2000 stabilisce che "gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché le persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio di parità di trattamento, espongono, dinanzi ad un  tribunale (...­), fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione della parità di trattamento". La stessa direttiva fissa peraltro  due deroghe all'applicazione di tale principio: la prima nei casi relativi a procedimenti penali, la seconda nei procedimenti in cui in capo al giudice compete un potere istruttorio ("in cui spetta al giudice (...­) indagare sui fatti").

Per quanto concerne la situazione del nostro paese, il decreto legislativo di recepimento della direttiva europea (n. 215/2003), non ha introdotto il principio dello spostamento dell'onere della prova, ma si è limitato  ad accordare alla parte ricorrente la possibilità di dedurre in giudizio anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta secondo il criterio del  prudente apprezzamento ai sensi dell'art. 2729 comma 1 del c.c., cioè sulla base del sistema delle presunzioni semplici, senza che venga intaccato il principio generale secondo cui spetta all'attore del giudizio provare l'avvenuta discriminazione (art. 4 c. 3 d. lgs.n. 215/2003) (2). Vero è che il decreto legislativo di recepimento rinvia all'art. 44 del T.U. sull'immigrazione riguardo alla procedura giurisdizionale da seguire, la quale assegna all'autorità giudiziaria ampi poteri istruttori, e quindi di indagine sui fatti, con ciò richiamando almeno implicitamente alla deroga prevista dalla direttiva europea.

L’approccio eccessivamente prudente seguito nella normativa di recepimento della direttiva europea si rivela anche sulla base del confronto  con la normativa sulle pari opportunità di genere (tra uomo e donna) di cui all’art. 4. 6° comma della legge n. 125/1991, la quale indica anch’essa l’allegazione di elementi di fatto idonei, in quanto precisi e concordanti, a fondare presunzioni sulla sussistenza di discriminazioni subite dall’attore, collegandovi, però, l’imposizione a carico del convenuto dell’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione così presunta (3). In conclusione,  due sono quindi le fondamentali differenze tra il regime della prova nella normativa sulle pari opportunità di genere e quella in materia di uguaglianza etnica o razziale: innanzitutto, nella prima il regime delle presunzioni è più favorevole all’attore in  giudizio in quanto richiede l’allegazione di fatti precisi e concordanti, ma non anche gravi, così come invece nella seconda; inoltre,  nella normativa sulle pari opportunità di genere, viene esplicitamente prevista l’inversione dell’onere della prova a carico del convenuto, sebbene essa sia solo successiva all’affermazione di una presunzione della discriminazione che rimane a carico dell’attore.  Al contrario, nella normativa sulle pari opportunità  in ambito etnico e razziale, resta indeterminato e sostanzialmente ambiguo il  metodo di giudizio che il giudice dovrebbe seguire nella valutazione delle evidenze probatorie. Tutto sommato, pur nella sua oggettiva ambiguità, la regola della distribuzione dell’onere della prova fissata dalla normativa di recepimento  della direttiva europea attraverso il regime delle presunzioni semplici e l’ammissibilità di evidenze circostanziali anche a carattere statistico,  risulta comunque più favorevole all’attore nell’azione civile contro le discriminazioni rispetto alle azioni esperibili dal lavoratore avverso discriminazioni sul luogo di lavoro ai sensi del pre-esistente Statuto dei Lavoratori (l. 300/1970). La giurisprudenza di quest’ultimo ha infatti chiaramente stabilito che spetta al lavoratore provare l’intenzione discriminatoria (Corte di  Cassazione, sez. Lav. 25.02.1998, n. 2025).

Rimane tuttavia la distanza  tra la situazione vigente nel nostro paese e quella di altri paesi europei ove, in ossequio alle norme della direttiva europea, il principio dello spostamento dell'onere della prova ha trovato invece un chiaro recepimento nelle rispettive legislazioni nazionali, seppure in forme e con sfumature diverse. (4)

In Belgio, ad esempio, la legge sulla parità di trattamento del 2003 ha introdotto chiaramente il principio dello spostamento dell'onere della prova: "Quando una vittima di discriminazione (...­) produce dinanzi alla corte competente fatti quali dati statistici o risultanze di test situazionali che conducono alla presunzione di una discriminazione diretta o indiretta, l'onere della prova che non è stata  commessa discriminazione spetta all'accusato" (art. 19 paragrafo 3). In maniera analoga,  nei Paesi Bassi, la legge sulla parità di trattamento ha previsto che “se una persona che si ritiene di aver sofferto di una discriminazione [...], fornisce alla  Corte fatti dai quali si può  presumere che la discriminazione abbia avuto luogo, sarà onere del convenuto provare che detta azione non era in violazione della presente legge" (art. 13).

In Ungheria, l'organo di consulenza dell'Autorità per la Parità di Trattamento, chiamata ad implementare la legislazione anti-discriminazione, ha precisato che il principio dello spostamento dell'onere della prova debba essere interpretato nel senso che spetti alla parte lesa provare  che ha sofferto una situazione svantaggiosa e possiede caratteristiche etnico-razziali citate nella direttiva europea, mentre sarà compito del convenuto provare l'inesistenza di un legame causale tra la situazione svantaggiosa e l'appartenenza etnico-razziale della parte lesa o che, anche in presenza di tale legame causale, egli era esentato all'applicazione del principio di parità di trattamento in base alle norme derogatorie prevista dalla direttiva.

Nel particolare sistema britannico di common law, tre importanti decisioni della Corte di Appello del Febbraio  2004 hanno definito le linee-guida  vincolanti per le corti di rango inferiore in relazione all'interpretazione del  principio dell'inversione dell'onere della prova. Secondo la Corte di Appello britannica, lo spostamento dell'onere della prova si concretizza in un approccio a due fasi. Innanzitutto spetta al ricorrente provare, in base ad una valutazione probabilistica, fatti dai quali la corte  potrebbe concludere, in assenza di adeguate spiegazioni,  che il convenuto ha commesso un atto di discriminazione. Nella seconda fase,  sarà onere del convenuto provare, sempre in base ad una valutazione probabilistica,  che la discriminazione non ha avuto luogo. In Spagna, la disposizione comunitaria sull’onere della prova è stata trasposta nel diritto interno dagli artt. 32 e 36 della legge 62/2003 che ha modificato la legge sulla procedura del lavoro e ha sancito lo spostamento dell’onere probatorio nelle sfere sociali, civili e del contenzioso. In base a tale normativa, se fondati elementi probatori  di un caso di discriminazione possono essere dedotti dalle allegazioni dell’attore in giudizio, incombe al convenuto  stabilire in giudizio una loro giustificazione ragionevole. In aggiunta, la giurisprudenza della Corte Costituzionale spagnola ha già riconosciuto il principio della ripartizione dell’onere della prova, in misura tale che al lavoratore viene richiesto di apportare in giudizio “elementi ed indizi atti a ritenere ragionevolmente che il datore di lavoro ha provocato una lesione di un suo diritto fondamentale”, dopodiché sarà compito del datore di lavoro provare che il suo comportamento o la sua decisione rispondono ad esigenze reali, hanno una giustificazione obiettiva e ragionevole, sufficientemente stabilita, e le misure adottate per rispondere a tali esigenze ed obiettivi sono necessarie e rispondono a criteri di proporzionalità. (5)

Sebbene le esperienze giuridiche di questi paesi non sono immediatamente riproducibili in Italia per la diversità delle norme di recepimento e dei rispettivi ordinamenti,  esse possono comunque essere un utile punto di riferimento nei procedimenti giudiziari avviati in Italia in materia, al fine essenzialmente di proporre al giudice linee guida nella valutazione  delle evidenze probatorie in una direzione più favorevole alle vittime di discriminazioni. Almeno finché la legislazione con la quale è stata recepita la direttiva n. 2000/43 non sarà adeguata agli standard richiesti ed equiparata a quanto già previsto dalla legislazione sulla parità di genere. Si confida che l’iniziativa della Commissione Europea potrà spingere il nostro paese a realizzare tale obiettivo.

 

 

b)     la ridotta protezione contro i casi di vittimizzazione

 

L’art. 9 della Direttiva europea n. 2000/43 stabilisce il principio della protezione delle vittime della discriminazione dalla c.d. “vittimizzazione”, cioè da conseguenze o trattamenti sfavorevoli che costituiscano reazioni ad un reclamo o ad un’azione volta ad ottenere  il rispetto del principio di parità di trattamento.

Nella normativa italiana di recepimento, la protezione dalla vittimizzazione  ha assunto una portata ridotta, intesa  soltanto come un elemento da considerare in sede di giudizio ai fini della fissazione  dell’ammontare del danno da liquidare alla vittima. (6)

La portata limitata della norma non consente di affermare  se il medesimo livello di protezione potrebbe estendersi anche ad altre persone diverse dalla parte lesa nell’azione giudiziale o extragiudiziale precedente, quali ad esempio testimoni a favore della vittima. Questi ultimi, qualora non possano invocare autonomamente la protezione  in quanto non appartenenti ad una della categorie protette dalla discriminazione o dalla molestia  in virtù delle norme di recepimento della direttiva comunitaria, possono comunque avvalersi della protezione offerta dalle norme generali sulla tutela dei lavoratori. Le norme generali  sul licenziamento illegittimo certamente tutelano i casi in cui questo avvenga a puro titolo di ritorsione operata dal datore di lavoro. La Commissione Europea,  tuttavia, si attende un alto standard di protezione contro le ritorsioni derivanti da denuncie di casi di discriminazione, in tutti i campi di applicazione della direttiva e non solo in quello del lavoro. Né è una dimostrazione il fatto che la Commissione abbia iniziato al riguardo la procedura preliminare di infrazione anche nei confronti della Francia, ove la protezione delle vittime della discriminazione  e dei testimoni da eventuali ritorsioni e vittimizzazioni è invece espressamente prevista dal codice del lavoro (code du travail), all’art. 122-45, ma limitatamente alle questioni contrattuali lavorative e agli ambiti dell’azione disciplinare e del licenziamento da parte del datore di lavoro. (7) Ugualmente, la Commissione Europea ha avviato la procedura preliminare contro la Spagna, imputando alla legislazione spagnola la mancanza di protezione dalla vittimizzazione nel rapporto di impiego pubblico e fuori dall’ambito lavorativo. Difatti, la legge 62/2003, con la quale la Spagna ha recepito la direttiva europea,  prevede la nullità delle decisioni del datore di lavoro che comportino un trattamento sfavorevole nei confronti dei lavoratori quale reazione di fronte ad un reclamo fatto all’impresa  o ad un ricorso in sede giudiziaria contro una misura discriminatoria. (8)

Sembra dunque probabile che la Commissione Europea non si accontenterà di eventuali richiami da parte italiana alle  norme generali di tutela dei lavoratori al fine di sostenere la tesi di un pieno adeguamento agli standard richiesti dalla norma comunitaria in materia di tutela dalla vittimizzazione, senza invece la garanzia di più ampie modifiche ed integrazioni normative.

 

 

c)     la non corretta definizione di molestia razziale.

 

 

Il decreto di recepimento  ha per la prima volta introdotto nel sistema legale italiano la nozione di molestia, usando la stessa definizione contenuta nella direttiva, tranne per un a differenza di dettaglio che potrebbe essere imputata ad un errore di stesura. Infatti, il decreto di recepimento afferma che, affinché ci sia molestia, il comportamento  indesiderato deve  avere lo scopo o l’effetto di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo, mentre la direttiva usa la congiunzione o.  In sostanza, secondo la formulazione letterale del testo del decreto di recepimento, gli effetti “biasimevoli”  del comportamento indesiderato dovrebbero essere cumulativi, mentre per la direttiva è sufficiente che siano alternativi l’uno all’altro. Da un lato, la tesi di un errore di compilazione del testo appare avvalorata dal fatto che la nozione di molestia nel decreto di recepimento della direttiva 78/2000 corrisponde invece esattamente al testo contenuto nella direttiva. Dall’altro, è vero che un decreto, successivo alla normativa di recepimento della direttiva n. 2000/43, è stato adottato con lo scopo precipuo di correggere gli errori materiali contenuti nel testo originario, ma che anche in tale decreto l’incorretta nozione di molestia razziale non è stata rivista; il chè sembra assai singolare, come è stato  giustamente sottolineato nel rapporto redatto dall’esperto italiano del network europeo indipendente in materia di non – discriminazione (9).  A ragione, dunque si tratta di una violazione della Direttiva n. 2000/43.

Secondo la dottrina, la circostanza che nel decreto di recepimento  la “molestia” sia stata equiparata alla “discriminazione” ha il solo significato che per le molestie sono previsti i medesimi strumenti di tutela giudiziale previsti contro le discriminazioni, pur rimanendo la nozione di molestia distinta ed aggiuntiva rispetto a quella di discriminazione, non richiedendo la prima al contrario della seconda la valutazione  dell’aspetto comparativo tra il trattamento riservato alle persone appartenenti alle categorie “protette”  e quelle che non presentano detti requisiti .

Ugualmente, nell’esperienza giuridica italiana, il concetto di molestia razziale potrà avvalersi delle elaborazioni, anche giurisprudenziali, finora maturate nell’ambito della tutela contro il “mobbing”, sebbene quest’ultimo sia usualmente riferito ad altri ambiti protetti, primo fra tutti quello di genere. Per quanto concerne i casi di molestia sul posto di lavoro,  utili sono stati gli sviluppi interpretativi riguardanti in particolare l’art. 2087 del Codice Civile concernente il dovere di tutela da parte del datore di lavoro, e l’art. 2103 c.c.  riguardante i doveri e i compiti assegnati al lavoratore. (10)

Si può dunque ritenere che l’iniziativa della Commissione avrà l’unico obiettivo di ottenere l’adeguamento della definizione formale di molestia razziale a quanto previsto dal testo della direttiva.

 

 

 

 

Note

 

(1)         Il Comunicato stampa della Commissione Europea è disponibile sul sito web: http://ec.europa.eu/employment_social/emplweb/news/news_en.cfm?id=264

 

(2)      Art. 2729 1° c.:  Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”.

 

 

(3)    Art. 4 c. 6 l. 125/1991: Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione” .

 

(4) Per l’esame dei singoli casi nazionali citati, si fa riferimento in particolare al rapporto  ENAR - European Network Against Racism , Changing Perspectives: Shifting the burden of proof in racial equality cases, Brussels, 2006, disponibile sul sito web dell’ENAR:

 http://www.enar-eu.org/en/publication/reports/Burden_of_Proof_EN.pdf

 

(5) Francina Esteve,  Analyse Juridique de la non-discrimination. Etude comparatif des traspositions des directives 2000/43 et 2000/78 en Italie, France et en Espagne, Université de Girona, Avril, 2007, Project Equal « L’Arc de l’Egalité » , pag. 15.

 

 

(6) Art. 4 .5 d.lgs. n. 215/2003: “Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4 , che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”.

 

(7) Francina Esteve,  Analyse Juridique de la non-discrimination. Etude comparatif des traspositions des directives 2000/43 et 2000/78 en Italie, France et en Espagne, Université de Girona, Avril, 2007, Project Equal « L’Arc de l’Egalité » , pag. 16

 

(8) ibidem, p. 17.

 

(9) D. Lgs. 2 agosto 2004, n. 256: “Correzione di errori materiali nei decreti legislative 9 luglio 2003, n. 215 e 216, concernenti disposizioni per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nonché in materia di occupazione e condizioni di lavoro, in Gazzetta Ufficiale n. 244 del 16 ottobre 2004. Alessandro  Simoni, Report in measures to combat discrimination. Country Report Italy. December 2004, European Network of Legal Experts in the non-discrimination field, Brussels.

 

(10)  Art.  2087 c.c.: “ L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro “. Art. 2103 c.c.: “ Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad una altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

 

 

 

2. DISCRIMINATI I MINORI, I GIOVANI E GLI ANZIANI EXTRACOMUNITARI NELL’ACCESSO AI MUSEI E BENI CULTURALI ITALIANI. Le norme del Ministero per i Beni Culturali e spesso anche quelle degli Enti locali riservano le  agevolazioni tariffarie soltanto ai cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea. Una disparità di trattamento irragionevole ed arbitraria.

 

 

FONTE: ANSA.IT, 9 luglio 2007  21:07

 

VALLE DEI TEMPLI, NEGATO L'ACCESSO GRATIS AI BIMBI EXTRACOMUNITARI

 

PALERMO - "I bambini sono extracomunitari? Mi dispiace l'ingresso non è gratuito, spetta solo ai comunitari". E' la risposta che l'addetta alla biglietteria dell'ente parco della Valle dei Templi ad Agrigento ha dato agli accompagnatori di 38 alunni dai 6 ai 12 anni, alcuni con la pelle scura ma italiani e studenti della scuola 'Cascino' nel quartiere Ballarò a Palermo, in gita con l'associazione "Ziggurat".

 Sull'episodio, avvenuto lo scorso 5 luglio e reso noto dall'associazione, il coro di proteste è stato unanime: 'no a qualsiasi forma di discriminazione'. Il ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, parla di "atto di razzismo che non bisogna sottovalutare", e aggiunge che "superare il clima che individua nei migranti il capro espiatorio di ogni problema è decisivo per la costruzione di un futuro in cui i nostri figli possano crescere in un paese civile". A causa del colore della loro pelle i bambini, una quindicina sui 38 in gita, non hanno potuto usufruire del ticket per l'accesso gratuito al sito archeologico, previsto per i minori di anni 18.
"I bambini in effetti sono tutti italiani, anche se sono figli di genitori extracomunitari - spiega Gabriele Tramontana, dell'associazione 'Ziggurat' - L'addetta alla biglietteria chiedeva un elenco completo con la certificazione della nazionalità vidimata dalla Regione e siamo stati costretti ad andarcene, senza poter far ammirare i templi ai bambini che chissà quando potranno tornarci". Per l'ente Parco Valle dei Templi , l'impiegata ha agito secondo le norme dettate dalla Regione. "Purtroppo la circolare parla chiaro e la biglietteria può richiedere la certificazione di nazionalità - dice Antonio Infantino dell'ente Parco - Se 'Ziggurat' ci avesse fatto pervenire prima i nomi dei bambini avremmo potuto chiudere un occhio, come facciamo spesso in altri casi".

Anche il consorzio "Luoghi dell'Arcadia", gestore delle biglietterie, si difende: "Solo su autorizzazione formale dell'Ente parco le biglietterie avrebbero potuto emettere i tickets gratuiti, altrimenti avrebbero commesso una illegalità". L'assessore regionale ai Beni culturali, Lino Leanza, allarga le braccia: "Il fatto è molto grave. M'impegno, comunque, affinché nella prossima seduta del Consiglio del Parco venga proposta l'estensione dell'ingresso gratuito ai bambini e ai ragazzi fino ai 18 anni, comunitari ed extracomunitari". Poi aggiunge: "Porgo le mie personali scuse a tutti i protagonisti di questo increscioso episodio e, in particolare, ai bambini; però, per favore, non parliamo di razzismo ma di burocrazia poco elastica che ha fatto rispettare una norma comunitaria, attiva in tutta Italia". Infine promette: "Invitiamo i piccoli della scuola elementare 'Cascino' di Palermo a ritornare ad Agrigento: ci occuperemo noi anche delle spese di viaggio".

 

Il parere del Servizio di Supporto Giuridico dell’ASGI – Progetto Leader

 

La vicenda recentemente accaduta in Sicilia con la segnalazione della disparità di trattamento nell’accesso alla Valle dei Templi tra minori italiani e comunitari da un lato e minori stranieri dall’altro, mediante l’applicazione soltanto ai primi  di agevolazioni tariffarie nei biglietti d’ingresso (si veda sopra la nota diffusa   dall’ agenzia di stampa ANSA), non rappresenta un caso isolato conseguenza di atteggiamenti di pregiudizio da parte di singoli addetti, come è apparso da una lettura mediatica superficiale degli eventi, ma deriva dall’esistenza di vere e proprie norme di legge che contengono clausole discriminatorie nei confronti dei cittadini di Paesi terzi non membri dell’Unione Europea. Difatti, tali casi non sono  isolati, ma corrispondono ad una prassi diffusa sul territorio nazionale ed oggetto di osservazioni critiche anche da parte dell’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), l’Autorità Italiana contro le discriminazioni razziali creata dalla normativa di recepimento della direttiva europea n. 2000/43. Nel   rapporto recentemente pubblicato sulle  sue attività nel 2006, l’UNAR riporta la vicenda segnalata da una famiglia straniera non comunitaria, in visita a Roma, la quale si è vista negare al proprio bambino il biglietto gratuito per l’accesso ad un museo, dopo che  l’addetto alla biglietteria si era reso conto della loro provenienza straniera. Secondo quanto riportato nel rapporto, già lo scorso anno l’UNAR avrebbe chiesto al Ministero per i Beni Culturali di riformare la normativa di riferimento, eliminando la clausola discriminatoria vigente.[1]

Su quale fonte normativa, dunque, si fonda tale discriminazione? Vediamo di farne una ricostruzione la più possibile chiara ed esauriente.

Sulla base del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, la disciplina sull’accesso e la fruizione degli istituti e luoghi pubblici di cultura (tra cui musei, parchi archeologici, ecc.) è disciplinata a livello nazionale, regionale o di enti territoriali decentrati, a seconda della diversa appartenenza del bene pubblico. Per gli istituti e luoghi pubblici di cultura di proprietà dello Stato, la materia  dei biglietti di ingresso è regolata dal D.M. 11 dicembre 1997, n. 507 come modificato dal D.M. 28.09.2005, n. 222 e, da ultimo, dal D.M. 20.04.2006, n. 172. Per gli istituti e luoghi pubblici di cultura di proprietà delle amministrazioni regionali o per le quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità, la materia  è disciplinata dalla legislazione regionale nel rispetto dei principi generali fissati dal Codice dei beni culturali. Tale codice, all’art. 103, si limita a definire alcuni criteri generali, in base ai quali:

 

“3. nei casi di accesso a pagamento, il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali determinano:

a)     i casi di libero accesso e di ingresso gratuito;

b)     le categorie di biglietti e i criteri per la determinazione del relativo prezzo;

[…]

4. Eventuali agevolazioni per l’accesso devono essere regolate in modo da non creare discriminazioni ingiustificate nei confronti dei cittadini degli altri  Stati membri dell’Unione Europea”

 

Il principio di non discriminazione  e di parità di trattamento per la fruizione ai beni culturali viene dunque affermato esplicitamente  nella normativa con  riferimento ai soli cittadini dei paesi membri dell’Unione Europea.

L’affermazione del principio di non-discriminazione e di parità di trattamento per i cittadini degli altri Stati membri dell’Unione Europea non è stata peraltro indolore, ma il frutto di un contenzioso che l’Italia ebbe con l’Unione Europea dinanzi alla Corte di Giustizia e  che si concluse con la sentenza di condanna dd 16.01.2003, con la quale la Corte di Giustizia ritenne che  “riservando agevolazioni tariffarie discriminatorie per l’ingresso ai musei, gallerie,,,,, concesse da enti locali o decentrati dello Stato unicamente ai cittadini italiani o alle persone residenti nel territorio degli enti locali che gestiscono i beni culturali , [in possesso dei requisiti di età], ed escludendo da tali agevolazioni i turisti cittadini di altri  Stati membri o i non residenti che soddisfano le stesse condizioni oggettive di età” l’Italia aveva violato il principio di non discriminazione di cui all’ art. 12 con riferimento al diritto alla libera prestazione dei servizi di cui all’art.  49 del Trattato Cee.

 

Solo a seguito di questa procedura d’infrazione del diritto comunitario, conclusasi con la condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia europea, il principio di non discriminazione dei cittadini comunitari  è stato recepito nella normativa nazionale riferita alla fruizione dei beni culturali di proprietà dello Stato, dapprima con le modifiche apportate al DM. 11.12.1997, n. 507 dal citato D.M. 222/2005, poi da quelle più recenti apportate dal D.M. n. 172/2006 a firma del Ministro per i beni culturali del governo Berlusconi ter, on. Rocco Bottiglione. Ugualmente  è stato stabilito dalla norma già citata del codice per i beni culturali un limite ed un criterio preciso per le normative regionali e locali volto ad impedire ogni discriminazione per i cittadini comunitari nella fruizione dei beni culturali di proprietà delle regioni o delle amministrazioni decentrate.

In conclusione, dopo le ultime modifiche  apportate nell’aprile 2006, le disposizioni del Ministero per i Beni Culturali specificano che l’ingresso gratuito ai beni culturali per le persone  minorenni, così come per gli ultrasessantacinquenni, deve essere limitato ai soli cittadini di paesi dell’Unione Europea, ed in aggiunta i cittadini di paesi dell’Unione Europea di età compresa tra i 18 ed i 25 anni hanno diritto alla riduzione del biglietto di ingresso in misura della metà. Tali agevolazioni possono essere estese ai cittadini di Stati terzi non facenti parte dell’Unione Europea solo a condizione di reciprocità (art. 4 c. 7 del D.M.172/2006). Per quanto attiene ai minori, un principio di parità di trattamento senza distinzione di appartenenza nazionale, viene previsto esclusivamente per gruppi o comitive di studenti delle scuole pubbliche o private dell’Unione Europea, accompagnati dai loro insegnanti, previa prenotazione e nel contingente stabilito dal capo dell’istituto (art. 4 c. 3 lett f del d. n. 172/2006).

Per quanto riguarda i beni culturali di proprietà delle regioni e degli enti locali, le condizioni per il loro accesso e la loro fruizione sono demandate alle norme regionali, con conseguente variazioni di trattamento a seconda delle situazioni locali.[2]

C’è dunque da chiedersi se dette normative e regolamenti, ed innanzitutto quella nazionale, siano compatibili con la normativa anti-discriminazione nazionale ed europea.

La normativa del Ministero per i Beni Culturali citata pone in essere  una distinzione fondata sull’origine nazionale, suscettibile dunque di contrasto con l’art. 43 .1 e 43.2 b) del D.lgs. n. 286/98 (Testo unico delle norme sulla condizione giuridica del cittadino migrante).[3] Come sembra suggerire  la Corte di Cassazione,  affinché vi sia discriminazione occorre che il comportamento dell’agente sia illecito, cioè contrario a disposizioni normative “neutre”, e messo in atto per ragioni arbitrarie collegate all’appartenenza della persona ad una o più delle categorie “protette”[4], ovvero che  la disposizione normativa sia in sé stessa illecita perché fondante essa stessa una distinzione arbitraria.  Il  caso in questione si adatta alla seconda ipotesi: siamo in presenza cioè di un‘applicazione di una normativa in sé discriminatoria ed illegittima perché fondante una distinzione non sorretta da criteri logici di ragionevolezza rispetto agli scopi e agli obiettivi prefissati dalla norma medesima, secondo i noti canoni interpretativi della Corte Costituzionale (sentenza n. 423/2005). Se la norma ha  scopi valoriali “universalistici”, quali quello di favorire l’accesso alla cultura sia dei minori, per ragioni evidentemente educative e di formazione della personalità dell’individuo, così come delle persone giovani e  anziane, per ragioni sia di eguaglianza di opportunità rispetto a  soggetti ritenuti più deboli economicamente e sia di piena realizzazione della personalità e delle esigenze spirituali e culturali dell’individuo, non si vede ragione logica ed equa per limitare tali agevolazioni secondo principi di nazionalità. Difatti, l’unica motivazione che nella memoria difensiva il governo italiano a suo tempo presentò dinanzi alla Corte di Giustizia in risposta al ricorso presentato dalla Commissione europea per infrazione del trattato era legata a considerazione ed obiettivi di carattere economico, secondo la quale le agevolazioni costituirebbero il corrispettivo del pagamento delle imposte mediante le quali i cittadini e i residenti partecipano alla gestione dei siti culturali considerati. A tale argomento, la Corte di giustizia giustamente rispose, tra l’altro,  che non era riscontrabile un nesso tra le agevolazioni previste –che all’epoca escludevano i cittadini comunitari- e la coerenza del sistema fiscale, tanto più che il beneficio delle agevolazioni tariffarie fondato sulla residenza veniva ad escludere le altre persone residenti in Italia al di fuori del comune interessato, ma anche esse soggette, in quanto residenti nel Paese, alle obbligazioni fiscali (paragrafo 24). Mutatis mutandis, il medesimo ragionamento varrebbe oggi per sostenere ulteriormente   la tesi dell’arbitrarietà della discriminazione posta a danno dei cittadini extracomunitari, almeno di quelli legalmente residenti, i quali sono a tutti gli effetti sottoposti agli obblighi fiscali.

Ulteriore argomento contro la normativa di cui al D.M. n. 172/2006 riguarda il ricorso fatto da quest’ultima alla condizione di reciprocità, in palese violazione dell’art. 2.2 del d.lgs. n.286/98 e dell’art. 2 del d.P.R. 394/99, almeno per quanto concerne gli stranieri legalmente soggiornanti.[5] Il riferimento alla condizione di reciprocità è palesemente illegittimo considerando che la normativa sull’immigrazione per il suo carattere di norma speciale e nel contempo applicativa del disposto costituzionale ex art. 10 c. 2 Cost. (riserva di legge rafforzata), ha certamente una capacità di resistenza prevalente a normative contrastanti anche  successive, tanto più che il D.M. 507/1997 e successive modificazioni ha rango di norma regolamentare e dunque gerarchicamente subordinata alla norma di legge ordinaria. Di conseguenza, si ritiene che la norma di cui al D.M. n. 507/1997 e successive modificazioni, così come ogni altra norma regionale o regolamento locale che ponga in essere simili distinzioni di trattamento, sia illegittima e pertanto comporti una  violazione dell’art. 43 del TU e come tale andrebbe disapplicata. Parimenti,   la norma del codice dei beni culturali che afferma esplicitamente un divieto di discriminazione per i soli cittadini comunitari non necessariamente dovrebbe essere interpretata nel senso di fondare un trattamento deteriore per quelli extracomunitari, lasciando invece la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata e dunque non discriminatoria.

Non sarebbe inoltre azzardato  sostenere  che la normativa sui biglietti di ingresso ai beni culturali  che pone in essere una distinzione di trattamento a danno dei cittadini stranieri, costruisce pure una violazione del decreto legislativo n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea n. 2000/43, sul contrasto alle discriminazioni etnico-razziali, il cui campo di applicazione si estende anche alle discriminazioni nell’accesso e fornitura di beni e servizi offerti al pubblico. E’ noto che tale direttiva non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini di paesi terzi (art. 3 c. 2 della direttiva; considerando n. 13; Art. 3 c. 2 del  D.lgs. n. 215/2003). Tuttavia, appare lecito sostenere  che tale clausola non debba essere intesa come facente  salve tutte le differenze di trattamento tra stranieri e cittadini previste direttamente dalla legge, ma debba essere interpretata alla luce delle funzioni della direttiva cioè nel rispetto del fondamentale divieto di discriminazione, con la conseguenza che anche le differenze di trattamento basate sullo status di cittadino o straniero debbano considerarsi discriminatorie se i criteri impiegati per tali distinzioni, giudicati alla luce degli obiettivi e degli scopi della direttiva, risultano applicati in modo tale da non perseguire un fine legittimo, o in modo sproporzionato rispetto a tal fine. Ciò in analogia con l’interpretazione evolutiva della clausola – per molti aspetti analoga – contenuta nell’art. 1 della Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965; interpretazione fatta propria dalla XXX Raccomandazione generale adottata nell’agosto 2004 dal comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale.[6]

Quindi, si ritiene che la norma del  D.M. 172/2006 potrebbe essere impugnata anche come fondante una violazione del d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della  direttiva CE n. 2000/43 e come tale,  renderebbe possibile una legittimazione ad agire delle associazioni riconosciute ed iscritte nell’apposito registro interministeriale di cui all’ar. 5 c. 1 del d.lgs. n. 215/2003,  trattandosi di una discriminazione collettiva in cui non sono immediatamente individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.[7]

 

Ci venga consentita un ‘ultima considerazione. La vicenda della discriminazione operata dal Ministero per i Beni Culturali illustra ancora una volta le difficoltà che si registrano nel nostro paese all’affermazione di una cultura delle pari opportunità e della non-discriminazione per i cittadini migranti; la difficoltà cioè di raggiungere l’obiettivo dell’”equality mainstreaming”, in base al quale il principio delle pari opportunità dovrebbe collocarsi al centro dei processi decisionali, come criterio guida delle politiche legislative in tutti i settori della vita sociale. Inoltre, la normativa discriminatoria  in materia di fruizione dei beni culturali, così come le tante altre disposizioni discriminatorie ereditate da un passato anche lontano, ma tuttora in vigore, come ad es. le norme sui rapporti di impiego nel settore del trasporto pubblico locale (vedi newsletter n. 7), quelle che tuttora impediscono ai giornalisti stranieri di diventare direttori responsabili di una testata giornalistica in Italia[8], dimostrano come il nostro paese non abbia adempiuto agli obblighi scaturanti dal recepimento della direttive n. 2000/43 che impegnava “gli Stati membri a prendere le misure necessarie per assicurare che: a) tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative contrarie al principio di parità di trattamento siano abrogate” (art. 14).

Una lunga strada dunque deve essere ancora percorsa sul versante della parità di trattamento per i cittadini migranti nel nostro Paese.

 

 

L’elenco dei musei, parchi archeologici e beni culturali cui si applicano le disposizioni del D.M. n. 507/1997 e successive modificazioni, è reperibile sul sito: http://www.arti.beniculturali.it/musei/elenco/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIURISPRUDENZA NAZIONALE

 

1.

 

E’ legittimo il rito direttissimo per i reati penali in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa anche se l’imputato viene rinviato a giudizio trascorsi i 15 giorni dall’arresto o dall’iscrizione del registro delle notizie di reato, purché non vengano svolte speciali indagini. Respinta dalla Corte Costituzionale l’eccezione di incostituzionalità. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 199/2007.

 

Con ordinanza  05 giugno 2007, n. 199, la Corte Costituzionale ha affermato la manifesta inammissibilità  della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Verona in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, in relazione all’art. 6, comma 5, della legge n. 205/1993 (legge “Mancino”) [Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa], nella parte in cui –stabilendo che per i reati indicati all’art. 5, coma 1, della legge medesima, il pubblico ministero  procede al giudizio direttissimo anche fuori dai casi previsti dall’art. 449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali indagini – non prevede, “secondo l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità […] che l’imputato debba essere presentato in udienza nel termine di quindici giorni dall’arresto o dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato”.

La legge n 205/1993, meglio nota come “legge Mancino”, prevede  che per i reati di istigazione a commettere o di compimento  di violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi, così come  per tutti i reati per i quali trovi applicazione l’aggravante  della finalità discriminatoria o dell’odio etnico razziale o religioso, e che di conseguenza, sono perseguibili d’ufficio, si debba procedere secondo il rito direttissimo , salvo che non siano necessarie speciali indagini (art. 6 c. 5).

Rilevando che secondo una giurisprudenza consolidata del giudice delle leggi, cioè della Corte di Cassazione, non sarebbe vincolante in queste ipotesi il termine di quindici giorni (art. 449 c.p.p.) richiesto in via ordinaria dal codice di procedura penale per i casi “tipici” di procedimento per direttissima per la comparsa in giudizio dell’accusato dal giorno dell’arresto o dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato, potendo invece  il Pubblico Ministero instaurare il rito speciale anche in un momento successivo, il Tribunale di Verona ha rinviato la normativa alla Corte Costituzionale ritenendo ingiustificata la disparità di trattamento rispetto ai casi di rito per direttissima “tipici” e sostenendo che  la normativa fosse suscettibile di  determinare un’eccessiva limitazione del diritto di difesa.

La Corte ha concluso per l’inammissibilità del rinvio sostenendo che  il protrarsi del termine per l’accusa per instaurare il rito speciale per direttissima oltre i quindici giorni richiesti nei casi “tipici”, non necessariamente deve significare che il pubblico ministero metta in atto l’ipotesi “patologica” della conduzione di  “speciali indagini”, per le quali il rito per direttissima deve venir escluso. Di conseguenza, negli altri casi, resta ferma la possibilità di controlli nella fase processuale collegati all’eventuale accertamento di una concreta lesione del diritto di difesa, senza per questo dover ritenere la normativa di per sé costituzionalmente illegittima.

 

Di seguito viene riprodotto integralmente il testo dell’ordinanza della Corte Costituzionale.

 

 

 

Corte costituzionale. Ordinanza 5 giugno 2007, n. 199.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:

- Franco BILE Presidente

- Giovanni Maria FLICK Giudice

[…]

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA


nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, promosso con ordinanza del 18 novembre 2004 dal Tribunale di Verona nel procedimento penale a carico di A. A. ed altri iscritta al n. 80 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2005.


 

 

Visto l'atto di costituzione di M.T.;

udito nell'udienza pubblica del 20 marzo 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

udito l'avvocato Emanuele Fracasso jr. per M.T.;

udito nuovamente nell'udienza pubblica del 5 giugno 2007, rifissata in ragione della intervenuta modifica della composizione del collegio, il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.


Ritenuto che, con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, nella parte in cui – stabilendo che per i reati indicati all'art. 5, comma 1, del medesimo decreto-legge, il pubblico ministero procede al giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dall'art. 449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali indagini – non prevede, «secondo l'interpretazione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità, […] che l'imputato debba essere presentato in udienza nel termine di quindici giorni dall'arresto o dall'iscrizione nel registro

delle notizie di Reato»;


che il giudice a quo premette che nel corso di un giudizio direttissimo, instaurato in base alla norma censurata nei confronti di numerose persone imputate di reati in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, il Tribunale di Verona aveva disposto, ai sensi dell'art. 452 cod. proc. pen., la trasmissione degli atti al pubblico ministero, affinché procedesse nelle forme ordinarie;

che l'ordinanza era stata adottata in accoglimento dell'eccezione proposta dai difensori degli imputati, relativa alla necessità di rispettare, anche nelle ipotesi di giudizio direttissimo cosiddetto «atipico» – quale quella in esame – il termine di quindici giorni, stabilito dall'art. 449, commi 4 e 5, cod. proc. pen. per l'instaurazione del rito: nella specie, difatti, il pubblico ministero aveva richiesto il giudizio direttissimo dopo circa sessanta giorni dall'arresto in flagranza degli imputati, e dunque ben oltre il predetto termine;

che, tuttavia, a seguito del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, la Corte di cassazione aveva annullato la predetta ordinanza, disponendo la restituzione degli atti al Tribunale;

che, a fronte della nuova instaurazione del giudizio nelle forme del rito speciale, il giudice a quo – recependo la relativa eccezione della difesa – solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge n. 122 del 1993, ventilandone il contrasto con plurimi parametri costituzionali;

che il rimettente muove dalla considerazione che, in base alla disciplina del codice di procedura penale, il giudizio direttissimo – rito che, implicando la diretta presentazione dell'imputato al giudice dibattimentale, mira a realizzare «un'economia di tempo e di attività processuale» – ha come presupposto una particolare situazione di evidenza della prova, correlata all'avvenuto arresto in flagranza o alla confessione resa dall'indagato nel corso dell'interrogatorio: situazione che deve peraltro coniugarsi al rispetto dello stringente termine di quindici giorni per l'instaurazione del rito, decorrente dall'arresto o dalla «notitia criminis» (art. 449

cod. proc. pen.);

che, inoltre, l'utilizzazione del rito speciale, pur in presenza dei relativi presupposti, si connota sempre come discrezionale, potendo il pubblico ministero comunque promuovere l'azione penale nelle forme ordinarie;

che, peraltro, a fianco del giudizio direttissimo «tipico» (quello disciplinato, per l'appunto, dal codice di rito), l'ordinamento conosce ipotesi «atipiche» di giudizio direttissimo, introdotte da leggi speciali – tra cui quella regolata dalla norma denunciata – nelle quali il rito speciale, per un verso, prescinde dall'arresto in flagranza o dalla confessione dell'indagato, e dunque dal presupposto dell'evidenza della prova; e, per un altro verso, viene a configurarsi come obbligatorio: giustificandosi, in tali ipotesi, l'adozione del modulo in questione «con le esigenze di celerità, immediatezza ed esemplarità del processo»;

 

che, non potendo, tuttavia, «l'accelerazione del rito […] comunque comportare una attenuazione delle garanzie difensive», anche nei casi di giudizio direttissimo «atipico» dovrebbe ritenersi richiesta l'osservanza del termine di quindici giorni, di cui al citato art. 449 cod. proc. pen.: prospettiva nella quale il rito in parola dovrebbe considerarsi obbligatorio solo «in via tendenziale», vale a dire nei soli limiti in cui non siano necessarie «speciali indagini», incompatibili con l'inderogabile rispetto del predetto termine;

che tale soluzione interpretativa – condivisa da un ampio settore della dottrina – risulterebbe, tuttavia, «assolutamente minoritaria nella giurisprudenza di legittimità», come del resto attesterebbe la sentenza di annullamento emessa dalla Corte di cassazione nel giudizio a quo;

che – ove interpretata in conformità all'indirizzo giurisprudenziale dominante, assunto dal giudice a quo quale «diritto vivente» – la disposizione dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge n. 122 del 1993 si rivelerebbe lesiva, sotto più aspetti, della Carta costituzionale;

che, in particolare, l'esenzione dell'organo dell'accusa dal rispetto del termine di quindici giorni determinerebbe «un grave sbilanciamento tra i poteri del pubblico ministero e i diritti dell'imputato in danno di quest'ultimo»: in tal modo, infatti, si consentirebbe al pubblico ministero di procedere ad indagini preliminari prolungate nel tempo e «approfondite nel merito», portandole a conoscenza dell'imputato solo nel momento in cui lo stesso venga presentato al giudice del dibattimento;

che «un tale esito» si giustificherebbe nei casi previsti dall'art. 449, comma 5, cod. proc. pen., nei quali proprio la brevità del termine di quindici giorni impedisce lo svolgimento di indagini di notevole complessità ed il sistema è riequilibrato dalla facoltà dell'imputato di ottenere un corrispondente termine di dieci giorni per approntare la sua difesa (art. 451, comma 6, cod. proc. pen.); mentre altrettanto non potrebbe dirsi allorché il pubblico ministero venga abilitato a compiere atti di indagine senza limitazioni temporali, diverse da quelle

previste dall'art. 405, comma 2, cod. proc. pen.;


che tale rilievo sarebbe sufficiente a far ritenere violati sia l'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra coloro che vengono sottoposti a giudizio direttissimo nei casi indicati dall'art. 449 cod. proc. pen. e coloro che sono sottoposti al medesimo giudizio nelle ipotesi di cui al decreto-legge n. 122 del 1993; sia l'art. 24 Cost., sotto il profilo della compressione delle garanzie difensive; sia, infine, l'art. 111 Cost., sotto il profilo della alterazione della condizione di parità delle parti e della lesione del diritto dell'imputato ad essere informato, nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico e, conseguentemente, del diritto a disporre di un tempo adeguato per preparare la propria difesa;


 

che nel giudizio di costituzionalità si è costituito M. T., imputato nel giudizio a quo, concludendo per l'accoglimento della questione.


Considerato che il Tribunale di Verona dubita della legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, nella parte in cui – stabilendo che per i reati previsti dall'art. 5, comma 1, del medesimo decreto-legge si procede con giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dall'art. 449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali indagini – non prevede, «secondo l'interpretazione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità» – interpretazione cui il rimettente è tenuto ad uniformarsi, a fronte del principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione con sentenza di annullamento – «che l'imputato debba essere presentato in udienza nel termine di quindici giorni dall'arresto o dall'iscrizione nel registro delle notizie di reato»;

che il rimettente censura, in specie, lo squilibrio che – alla luce di detta interpretazione – verrebbe a determinarsi fra la posizione del pubblico ministero, il quale sarebbe libero di svolgere attività investigativa senza altro limite temporale che quello generale di durata delle indagini preliminari; e la posizione dell'imputato, che – posto a conoscenza dei risultati di detta attività investigativa unicamente in occasione della presentazione al giudice del dibattimento – disporrebbe, invece, per approntare la propria difesa, solo del ristretto termine di dieci giorni contemplato dall'art. 451, comma 6, cod. proc. pen.;

che – ad avviso del giudice a quo – la compressione dei tempi per la predisposizione della difesa rispetto a quelli previsti nel rito ordinario, che caratterizza il giudizio direttissimo, si giustificherebbe solo quando l'attività di indagine del pubblico ministero non abbia carattere complesso: condizione, questa, che verrebbe assicurata – nell'ambito del giudizio direttissimo «tipico» – proprio dalla brevità dello spatium temporis di cui l'organo dell'accusa dispone per l'instaurazione del rito speciale; ma che, in assenza di omologo sbarramento temporale, potrebbe rimanere viceversa elusa nell'ipotesi di giudizio direttissimo «atipico» oggetto di scrutinio;

che da tali considerazioni il rimettente fa quindi discendere la violazione tanto dell'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento tra coloro che sono sottoposti a giudizio direttissimo nei casi previsti dall'art. 449 cod. proc. pen. e coloro che sono assoggettati a tale rito ai sensi della norma censurata; quanto degli artt. 24 e 111 Cost., in ragione della compromissione del diritto di difesa, della parità delle parti nel processo, del diritto dell'imputato ad essere informato nel più breve tempo possibile dell'accusa a suo carico e a disporre di un tempo adeguato per preparare la difesa;

che, tuttavia, è lo stesso giudice a quo a sottolineare – quale premessa alle proprie argomentazioni – la differenza esistente, sul piano dei presupposti, fra il giudizio direttissimo «tipico», disciplinato dal codice di rito, e la figura «atipica» del medesimo rito regolata dalla norma denunciata: il Tribunale rimettente rimarca, infatti, come il primo postuli una «particolare […] situazione di evidenza della prova», connessa all'avvenuto arresto in flagranza o alla confessione dell'indagato nel corso dell'interrogatorio; mentre la seconda si leghi alla semplice assenza della necessità di «speciali indagini»: essendo il rito speciale giustificato, in tale seconda ipotesi, da esigenze di «immediatezza ed esemplarità del processo» relativo a particolari categorie di illeciti;

che è palese, per altro verso, come il concetto di “prova evidente” (il quale evoca una prognosi di accertamento fortemente semplificato della responsabilità dell'imputato) si ponga, rispetto al paradigma della “non necessità di speciali indagini” (che richiama, in negativo, la sola non complessità dell'attività investigativa), in un rapporto di species ad genus: se, infatti, l'esistenza di una “prova evidente” implica sempre la “non necessità di speciali indagini”, non è vero l'inverso;

che, in simile prospettiva, l'allineamento, invocato dal rimettente, delle due ipotesi poste a confronto quanto ai termini di instaurazione del rito – allineamento che una parte della giurisprudenza di legittimità ritiene peraltro praticabile già in via interpretativa, come lo stesso rimettente ricorda – non potrebbe essere comunque considerato come l'unica soluzione, costituzionalmente obbligata, onde eliminare i possibili squilibri che la disposizione denunciata, nella diversa interpretazione oggetto di censura, risulterebbe in assunto idonea a produrre;

che, difatti, il rimettente denuncia l'inadeguatezza dei termini di difesa non in assoluto, ma solo in un'ottica comparativa rispetto alla “consistenza” delle indagini svolte dal pubblico ministero e avendo di mira, in sostanza, una ipotesi “patologica” rispetto al sistema: quella, cioè, del mancato rispetto, da parte del pubblico ministero, della condizione legale di instaurazione del giudizio direttissimo «atipico» de quo, rappresentata dalla “non necessità di speciali indagini”;

che, in tale ottica, l'esigenza di evitare che l'organo dell'accusa concretamente promuova il suddetto giudizio dopo aver esperito investigazioni complesse, potrebbe essere soddisfatta anche con strumenti diversi dalla previsione di uno sbarramento temporale “preventivo” (e, a fortiori, di uno sbarramento temporale identico a quello stabilito per il giudizio direttissimo «tipico», che poggia su un presupposto non omologo): essendo ipotizzabili anche controlli successivi, ovvero sanzioni processuali, collegate all'accertamento di una concreta lesione del diritto di difesa, quale conseguenza dell'elusione del presupposto legale di instaurazione del rito;

che l'individuazione di siffatti rimedi implicherebbe, peraltro, scelte discrezionali, che esulano dai poteri di questa Corte, restando necessariamente rimesse al legislatore;

che, pertanto – a prescindere da ogni possibile rilievo circa il carattere meramente astratto della violazione del diritto di difesa ventilata dal rimettente, il quale non precisa quali strumenti defensionali sarebbero stati concretamente sacrificati nel caso di specie, in dipendenza del modello processuale censurato – la richiesta di pronuncia additiva rivolta dal rimettente medesimo a questa Corte si palesa manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.




per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Verona con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2007.




 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE

 

 

Discriminazione razziale e religiosa e limiti di ordine pubblico alla libertà di riunione e  manifestazione pubblica: il caso francese della distribuzione ai senza fissa dimora di pasti gratuiti a base di carne di maiale. L’ordinanza del Conseil d’Etat del 5 gennaio 2007.

 

Pubblichiamo di seguito la traduzione di un’ordinanza pronunciata dal Consiglio di Stato francese, l’organo di secondo grado della giustizia amministrativa, con la quale è stato confermato il divieto apposto dal Prefetto di Parigi nei confronti delle iniziative promosse dall’associazione di volontariato francese di estrema destra “Solidarité des francais” di distribuzione gratuita di pasti a base di carne di maiale ai senza fissa dimora di Parigi, con l’evidente scopo di discriminare la popolazione dei senza fissa dimora o dei poveri di origine straniera e di appartenenza religiosa islamica .

Contro il divieto prefettizio, l’associazione aveva presentato un ricorso d’urgenza dinanzi al giudice amministrativo di Parigi  sostenendo che l’interdizione costituiva una minaccia grave e manifestamente illegale alle libertà fondamentali di riunione, di espressione e di manifestazione pubblica. Il giudice amministrativo di Parigi aveva dato ragione all’associazione, accogliendo il ricorso. Contro la decisione del giudice di primo grado, il Ministero dell’Interno francese aveva presentato ricorso in appello dinanzi al Consiglio di Stato. Quest’ultimo ha annullato l’ordinanza del giudice amministrativo di Parigi, ricordando che, secondo un principio consolidato in materia di polizia amministrativa, il rispetto dovuto alla libertà di manifestazione invocato dall’associazione “Solidarité des Francais”, non fa ostacolo a che l’autorità di polizia possa interdire  un’iniziativa pubblica che sia, anche per la sua natura discriminatoria, suscettibile di causare turbative all’ordine pubblico.

 

 

 

Conseil d’Etat, Ordonnance du juge des référés (Ordinanza del giudice di riferimento) dd. 5 gennaio 2007, n. 300311

 

 

Ministro dell’Interno e dell’amministrazione del territorio c. L’associazione “Solidarité des francais”

Visto il ricorso registrato il 3 gennaio 2007 presso il segretariato del contenzioso del Consiglio di Stato presentato dal Ministro dell’Interno e dell’amministrazione del territorio; il Ministro dell’Interno e dell’Amministrazione del Territorio chiede al Consiglio di Stato:

1)     di annullare l’ordinanza del 2 gennaio 2007 con la quale il giudice di riferimento del tribunale amministrativo di Parigi  ha sospeso l’esecuzione della decisione del Prefetto di polizia in data 28 dicembre 2006 vietante i raduni prospettati dall’associazione “Solidarité des francais” il 2, 3, 4, 5 e 6 gennaio 2007;

2)     di rigettare le conclusioni dell’associazione “Solidarité des francais” (SDF) miranti alla sospensione di tale decisione;

il Ministro sostiene che il carattere discriminatorio della distribuzione sulla pubblica via delle “zuppe gallesi” è indiscutibile; […]; che l’ordinanza in oggetto è intessuta di contraddizioni nel merito, dovendosi   riconoscere che la manifestazione mette in atto una forma di degradazione della dignità umana per  dedurne quindi che la sua proibizione non porta un’offesa ad una libertà fondamentale; che il giudice di riferimento ha commesso un errore di diritto riferendosi a circostanze fattuali anteriori per valutare il rischio di turbative  future;

 

Vista e registrata in data 5 gennaio 2007 la memoria  presentata dall’associazione “Solidarité des francais” che  prona per il rigetto del ricorso e affinché sia posto a carico dello Stato la somma  di 3,000 euro ai sensi dell’art. 761-1 del codice della giustizia amministrativa; l’associazione fa valere che […] l’interdizione porta offesa alla libertà di manifestazione, di riunione e  di espressione; che vi è urgenza a sospendere la decisione prefettizia; che in assenza di turbative all’ordine pubblico la sola possibilità per il prefetto di proibire  la distribuzione delle zuppe era di concludere che l’obiettivo dell’associazione era contrario alle leggi e ai regolamenti; che il prefetto ha commesso un abuso di potere visto che l’associazione non ha mai rifiutato di servire le zuppe a chicchessia; che nessuna organizzazione  ebraica o islamica ha mai protestato contro le condizioni per la distribuzione delle zuppe;  che nessuna discriminazione di alcun sorta è stata accertata; che il giudice di riferimento del tribunale amministrativo di Parigi ha potuto, senza errore di diritto, tenere conto degli avvenimenti  passati per apprezzare la nozione di turbativa all’ordine pubblico;

 

Vista l’ordinanza impugnata;

 

[…]

 

Dopo avere convocato [le parti] ad una undienza pubblica  […];

 

Visti gli atti dell’udienza pubblica di venerdì 5 gennaio 2007 […];

 

Considerando che ai sensi dell’art. 512-2 del codice di giustizia amministrativa: “investito di un’istanza in questo senso giustificata dall’urgenza, il giudice di riferimento può ordinare ogni misura necessaria alla salvaguardia di una libertà fondamentale alla quale una persona morale di diritto pubblico […] avrebbe portato, nell’esercizio dei suoi poteri, un’offesa grave e manifestamente illecita”; che secondo l’articolo 523-1 del medesimo codice, le decisioni intervenute in applicazione dell’art. 521-2 sono (…) suscettibili di appello davanti al Consiglio di Stato;

 

Considerando che il giudice di riferimento del tribunale amministrativo non poteva, senza intaccare la propria ordinanza di contraddizioni nel merito, da una parte ritenere il carattere discriminatorio dell’organizzazione sulla pubblica via, a cura dell’associazione “Solidarité des francais”, della distribuzione di alimenti contenenti carne di maiale, e dall’altra parte  ritenere che la decisione prefettizia portava un’offesa grave e manifestamente illegale alla libertà fondamentale di adunanza;

 

Considerando che da ciò risulta che il Ministro di  Stato, dell’Interno e dell’amministrazione del territorio, è legittimato a domandare l’annullamento dell’ordinanza del 2 gennaio 2007 con la quale il giudice di riferimento del tribunale amministrativo di Parigi ha sospeso la decisione del prefetto di polizia del 28 dicembre 2006 in ragione dell’assenza di rischi di turbative all’ordine pubblico maggiori di quelle presentatesi in precedenti occasioni in simili operazioni;

 

Considerando che il giudice di riferimento del Consiglio di Stato, evocato all’uopo, ha titolo di pronunciarsi sulla fondatezza del ricorso;

 

Considerando che la decisione prende in considerazione i rischi di reazioni a ciò che viene concepito come una manifestazione pubblica suscettibile di portare offesa alla dignità delle persone private del soccorso offerto e  capace pertanto di causare turbative all’ordine pubblico;

 

Considerato che il rispetto alla libertà di manifestazione non fa ostacolo a che l’autorità investita del potere di polizia interdisca un’attività se una tale misura è la sola in grado di prevenire una turbativa all’ordine pubblico;

 

Considerando che vietando attraverso la decisione contestata diverse adunanze legate alla distribuzione

sulla pubblica via di alimenti a base di maiale, il prefetto di polizia non ha portato un’offesa grave e manifestamente allegatale alla libertà di manifestazione, avuto riguardo della natura e dello scopo delle adunanze e dei motivi delle medesime portati a conoscenza del pubblico attraverso il sito internet dell’associazione;

 

Considerando che di conseguenza l’associazione “Solidarité des francais” non è legittimata a richiedere la sospensione della decisione prefettizia  contestata;

 

Sulle conclusioni dell’associazione “Solidarité des francais” miranti all’applicazione delle disposizioni dell’art. 761-1 del codice di giustizia amministrativa:

 

Considerando che le disposizioni dell’art. 761-1 del codice di giustizia amministrativa fanno ostacolo ache siano messe a carico dello Stato, che non è nel presente caso parte perdente, il pagamento della somma reclamata dall’associazione “Solidarité des francais” a titolo di costi cui si era esposta e non compresi nelle spese;

                                                         

O R D I N  A

 

1)     l’ordinanza del giudice di riferimento del tribunale amministrativo di Parigi del 2 gennaio 2007 è

      annullata;

 

2)     la richiesta dell’associazione “Solidarité des francais” davanti al giudice di riferimento del tribunale amministrativo di Parigi e le sue conclusioni volte all’applicazione dell’art. 761-1 del codice di giustizia amministrativa sono respinte ;

 

3)     la presente decisione sarà notificata dal Ministro di Stato, Ministro dell’Interno e dell’amministrazione del territorio e all’associazione “Solidaritè des francais”.

 

 

 

 

 

 

 

 

ATTIVITA’ PARLAMENTARI

 

 

Senato della Repubblica: assegnato alla Commissione Affari costituzionali il ddl che disciplina l’uso del velo nei luoghi pubblici.

 

Modifica alla legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine pubblico

DISEGNO DI LEGGE N. 1543
d’iniziativa delle senatrici BAIO, BINETTI, NEGRI, THALER AUSSERHOFER, DE PETRIS, RUBINATO e RAME (Ulivo)
Comunicato alla Presidenza l’8 maggio 2007
Assegnato alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente il 29 maggio 2007

 

Relazione introduttiva
Onorevoli Senatori. – Il dibattito relativo all’utilizzo del velo, che sia o meno integrale, che si è aperto in Italia e ha visto protagoniste soprattutto le donne di origine musulmana, necessita di un approfondimento, anche di tipo legislativo.
Il disegno di legge vuole ribadire tre princìpi fondamentali per la convivenza:
– il rispetto profondo e sostanziale delle scelte religiose, culturali e politiche di ogni persona;
– l’incontro delle diversità a partire da quella che accomuna tutta l’umanità, la differenza tra uomini e donne;
– la politica responsabile di sicurezza e rispetto dei cittadini.
L’articolo 3, l’articolo 8 e l’articolo 19 della Costituzione sanciscono il principio di eguaglianza, a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione eccetera, che trova sia nello Stato liberale di diritto sia nello Stato sociale ed interventista il garante atto a rimuovere gli ostacoli che possano pregiudicare la libertà e la dignità della persona.
L’articolo 8 contempla il pluralismo confessionale, eliminando le ostilità verso culti differenti da quello cattolico, in accordo con il seguente articolo 19 che ammette la libertà di professare liberamente la propria religione.
Lo Stato italiano riconosce e promuove il principio di libertà religiosa e rimuove gli ostacoli che impongono un’identità precostituita alle persone che siano nate o risiedano nel nostro Paese. La Costituzione garantisce pari dignità sociale e, per tutelare la sicurezza dei cittadini, la legge prescrive il divieto «di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona» in luogo pubblico «senza giustificato motivo» (articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni). Inoltre il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, all’articolo 85, vieta di «comparire mascherato in luogo pubblico», ma la giurisprudenza ha chiarito la non equiparazione della maschera all’utilizzo di indumenti celanti il volto, quali segni esteriori di una tipica fede religiosa.
La circolare del 24 luglio 2000 del Ministero dell’interno ha precisato che il turbante, il chador
e il velo, imposti da motivi religiosi, «sono parte integrante degli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, naturalmente purché mantenga il volto scoperto». Tali accessori sono ammessi, in virtù del principio costituzionale di libertà religiosa, ma i tratti del viso devono essere ben visibili. Questo significherebbe che il burqa, che nasconde volto e persona di chi lo indossa, è vietato. L’applicazione di tale norma è, però, incerta, delegata ai singoli sindaci e comuni e comunque, anche nel caso di identificazione da parte degli operatori dell’ordine pubblico, deve essere conseguente ad una motivazione oggettiva di urgenza e di pericolo. Infatti, il Ministero dell’interno, in data 9 dicembre 2004, nel rispondere ad un quesito posto da un comando di polizia municipale, chiariva: «nei confronti della persona che circoli in luogo pubblico coperta da burqa, l’attivazione dei poteri di identificazione da parte del personale di polizia sembrerebbe potersi validamente esplicare alla luce di circostanze ambientali tali da costituire giustificato motivo di allarme. Un accertamento condotto in assenza di un concreto interesse pubblico alla conoscenza dell’identità della persona stessa potrebbe, infatti, apparire come inutilmente vessatorio».
Il quesito, oggetto di diatribe interpretative della norma, è se l’appartenenza ad una religione possa o meno essere un «giustificato motivo» per circolare con il volto coperto, così come prescrive l’articolo 5 della citata legge n. 152 del 1975. Per le donne musulmane il coprirsi il viso è una connotazione identitaria, simbolo dell’affermazione del proprio credo. Nei versetti del Corano in cui compare la parola hijab
(Q. 7:46, 18:45, 19:17, 33:53, 38:32, 41:5, 42:51) non si indica un oggetto quale il velo, ma l’azione di velarsi, di tirare una tenda dietro cui pregare e avere la rivelazione divina. In sostanza, non si ravviserebbe nel Corano alcuna traccia esplicita del hijab o chador come indumento con cui le donne debbano coprirsi obbligatoriamente il capo o il volto. Questa osservanza nasce da un versetto del Corano che dice: «O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di chiudere su di esse i loro indumenti! Questo sarà il mezzo più semplice perché esse siano riconosciute e non siano offese» (Q. 33:59). Ma in questo testo, come in un altro simile (Q. 24:31), il Corano sembra riferirsi più in generale al senso del pudore.
L’hijab
, il burqa, l’abaya, il buibui simboleggiano la purezza, la riservatezza, ma anche il rispetto che si deve ad una donna, la sua integrità morale, elementi ai quali coloro che risiedono in Italia, come del resto tutti gli emigranti, restano ancorati per timore di perdere il passato e la propria cultura.
Se per le donne dell’Occidente mostrare il volto, l’esteriorità è simbolo di libertà, è l’espressione di sé e della propria personalità, per le musulmane è diverso: il coprirsi impone il rispetto e chi è rispettato, è, a sua volta, libero.
Una visione così diversa sull’abbigliamento, una scissione così netta tra il corpo e l’immagine può portare ad una ricchezza sociale, spesso trascurata. L’incontro e l’integrazione di culture, se realizzata, implica la compenetrazione di valori differenti.
L’Europa si interroga su questo punto. La Corte europea è sempre più spesso chiamata a decidere sulla convivenza tra la laicità delle istituzioni e lo statuto personale del credente.
Di recente, il 28 febbraio 2007, è stato presentato a Roma il quarto rapporto del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) umano nei Paesi arabi, attraverso la lente del ruolo delle donne in queste regioni (Arab human development report 2005. Towards the rise of women in the Arab wold
). Si tratta di un rapporto ampio che sottolinea la complessità di questo mondo. In particolare si evidenzia come l’Occidente spesso presenti la donna islamica come oppressa e discriminata. Non tutte le donne vivono questa dimensione di sottomissione, specialmente nel corso degli ultimi anni. Sono le donne musulmane che hanno cominciato a porre nuove sfide all’interno della società, contestando le tradizionali politiche religiose e l’uso della religione per fini discriminatori. Sono le donne, più degli uomini, ad avere il coraggio di spingere per le riforme nell’Islam e nelle società islamiche. Il quarto rapporto UNDP dimostra che ci sono stati passi avanti, anche se è ancora molta la strada da fare per rafforzare il ruolo delle donne a cominciare dai Paesi arabi. La discriminazione nei loro confronti frena lo sviluppo economico. E l’agenzia dell’ONU per lo sviluppo invita i Paesi compresi tra la Mauritania e l’Arabia Saudita a scoprire il valore della donna per raggiungere il benessere.
Se per la donna araba è difficile riuscire a raggiungere l’emancipazione e quindi l’uguaglianza sostanziale e formale con l’uomo nel proprio Paese, la situazione delle donne emigrate è ancora più controversa. Essa, oltre ad essere ancorata alla sua storia e cultura, deve fronteggiare la difficile situazione di integrazione in un Paese che ha presupposti storici, sociali e culturali differenti.
Questo processo non potrà mai avverarsi attraverso l’imposizione. Le nostre leggi sono rispettose della pluralità, basta ricordare l’articolo 3 della Costituzione, e si basano su un dialogo profondo. L’integrazione delle donne islamiche non passa per l’assunzione passiva dei modelli occidentali, ma attraverso l’istruzione, la reciproca conoscenza delle diverse culture religiose e dei testi sacri, quali la Bibbia, i Vangeli e il Corano e, ancora, con la reinterpretazione critica della propria tradizione culturale e religiosa.
In questo disegno di legge si vuole ribadire l’orientamento italiano al multiculturalismo, costituzionalmente garantito, la libertà di professare la propria religione e di esplicitarla anche con indumenti che palesino il proprio culto, ma nel rispetto della sicurezza di uno Stato laico, consapevole di una integrazione possibile e necessaria, oggi più di ieri, a cui l’Italia non deve e non vuole rinunciare.
Indossare il burqa
lasciando il volto scoperto sembra un buon modo per integrare e rispettare le culture religiose di ognuno senza perdere di vista la necessità di tutelare e garantire la sicurezza di tutti.

DISEGNO DI LEGGE


Art. 1.


1. All’articolo 5 della legge 22 maggio 1975 n. 152, dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Negli istituti scolastici pubblici e parificati, di ogni ordine e grado, in tutti i luoghi pubblici o aperti al pubblico, i segni e gli abiti che, liberamente scelti, manifestino palesemente l’appartenenza religiosa dei soggetti, devono ritenersi parte integrante degli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, a condizione che la persona mantenga il volto scoperto e riconoscibile».

 

 

 

 

 

 

APPUNTAMENTI

 

 

Giornate di formazione sul diritto anti-discriminatorio a cura dell’Unione Forense per i Diritti Umani in collaborazione con l’UNAR. Le modalità per l’iscrizione.

 

 

Nei giorni  18 e 27 settembre 2007, 9 e 18 ottobre 2007, rispettivamente a Udine, Bari, Palermo e Milano, dalle ore 9.00 alle ore 17.00, sono previste le Giornate di formazione “ Discriminazione razziale e accesso alla giustizia: il nuovo ruolo dell’associazionismo”.

Tali iniziative si collocano nell’ambito del progetto “Contenuti e strumenti per la tutela in materia di discriminazioni razziali” realizzato dall’Unione Forense per la tutela dei diritti dell’uomo e finanziato dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) nel quadro delle attività di sensibilizzazione e formazione dallo stesso promosse.

Le Giornate di formazione sono destinate a tutte le associazioni che svolgono la propria attività nel campo della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di trattamento e, in particolar modo, a quelle titolari della legittimazione ad agire in giudizio ex art. 5 del d. lgs. n. 215/2003.

In tutti gli incontri, il programma della mattina prevede una parte nel corso della quale verranno illustrati i nuovi strumenti giuridici introdotti dalla recente normativa antidiscriminazione, nonché le opportunità offerte in questo campo dall’Unione europea.

Nel pomeriggio, invece, si svolgerà un Workshop applicativo nel corso del quale verranno simulati alcuni casi concreti di discriminazione razziale ed illustrate le  connesse strategie di contrasto.

Seguirà un dibattito con interventi programmati delle Associazioni intervenute.

Le persone interessate a partecipare ad una delle giornate formative debbono comunicare la propria richiesta di iscrizione   alla segreteria dell’Unione Forense per la tutela dei diritti dell’uomo (sig.ra Gioia Silvagni tel fax 0685300801; 06.8412940 e-mail info@unionedirittiumani.it).

 Si prega altresì di indicare l’eventuale interesse dell’Associazione ad un intervento programmato nell’ambito del dibattito della sessione pomeridiana.

Nel corso delle giornate sarà rilasciato un attestato di partecipazione e distribuito un compendio di materiali e documentazione giuridica sugli strumenti di tutela delle vittime di discriminazione redatto a cura dell’Unione Forense per la Tutela dei Diritti dell’Uomo.

       

 

 

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 

1.

 

Centre pour l’Egalité des chances et la lutte contre le Racisme, Rapport Annuel 2006, Bruxelles, 2007.

 

Il Centro per l’Uguaglianza di Opportunità e la lotta contro il Razzismo, l’Autorità Indipendente belga contro le discriminazioni, ha pubblicato  il Rapporto Annuale sulle sue attività nel corso del 2006. L’Autorità Indipendente belga ha un mandato ed un ambito di attività non limitato alle discriminazioni a carattere etnico e razziale, bensì esteso anche a quelle per motivi di orientamento sessuale, età, disabilità, stato di salute, così come esercita un ruolo consultivo in materia di tratta degli esseri umani, disciplina dell’immigrazione e lotta alla povertà.

 

Il rapporto è disponibile in lingua francese e fiamminga sul sito internet: www.diversite.be

 

 

 

 

 

2.

 

Gianluca BASCHERINI, Immigrazione e diritti fondamentali.  L'esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Jovene edizioni, Napoli, 2007. Collana dell’ Università degli Studi di Roma «La Sapienza» - Dipartimento di Scienze Giuridiche.

Si segnalano in particolare il cap.IV: Diritti sociali e vita familiare, ove viene trattata la materia dell’accesso degli stranieri immigrati alle previdenze assistenziali con riferimento anche al principio di non discriminazione e parità di trattamento previsto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; ed il cap. V: Migrazioni e diritti all’identità, nel quale vengono trattati, in un’ottica comparativa, argomenti attinenti al diritto alla libertà religiosa nelle società di immigrazione: la questione del velo, dell’esposizione del crocefisso, …

 

Per informazioni, consultare il sito web: http://www.jovene.it

 

 

3.

 

European Roma Rights Centre Quarterly, Roma Right, n.  1-2/2007. Special Issue: Social Assistance.

Il primo numero doppio del 2007 della rivista edita dall’European Roma Rights Centre di Budapest è dedicato alla questione della riforma dei sistemi di welfare nei paesi europei, e  l’impatto nei confronti delle popolazioni Rom. La rivista si sofferma sul ruolo dello Stato sociale nel correggere e mitigare le ingiustizie e ineguaglianze determinate dalle economie di mercato attraverso modelli e pratiche di assistenza sociale. Le recenti riforme del mercato del lavoro puntano all’introduzione di politiche attive sul mercato del lavoro senza metterne in discussione la natura di mercato, cercando di ridurre i costi  dell’assistenza sociale e nel contempo di reinserire gli esclusi nel mercato del lavoro. I risultati di tali politiche sono contrastanti e spesso deludenti per le popolazioni Roma che incontrano le maggiori difficoltà  a beneficiare di tali interventi a causa dell’aperta discriminazioni cui sono fatti oggetto. La conseguenza è che spesso  i Rom rimangono senza lavoro e non godono più nemmeno delle tradizionali misure compensative fondate sui sussidi di disoccupazione o di assistenza sociale, risultando così vittime dei  metodi e strumenti “efficientisti” del nuovo Welfare.

 

Sommario della rivista

 

Editorial

  •  The Changing Face of Welfare Sinan Gökçen


Notebook

  • Employment Activating Social Assistance Schemes Not Working for Roma and Travellers Tara Bedard
  • Equal Rights for the Romani Population Jean-Michel Belorgey
  • Equal Access to Social Protection in the EU Erika Szyszczak
  • Très Difficile: Problematic of Civic Associations’ Intervention in Human Rights Situations Larry Olomoofe


News Roundup: Snaphots from Around Europe
Bulgaria * Czech Republic * France * Hungary * Italy * Kosovo * Moldova * Portugal * Romania * Russia * Serbia * Slovakia * Switzerland * Turkey * United Kingdom

Field Report

  • Supporting Education for Romani Children in Bijeljina, Bosnia Meredoc McMinn and Danijela Colakovic


Advocacy

  • European Social Charter Housing Rights Victory for Roma


Human Rights Education

  • “What Happens to Us Now?” Tara Bedard and Larry Olomoofe


Legal Defense

  • Litigating Discrimination in Access to Social Services Andi Dobrushi
  • European Court of Human Rights Delivers Justice to Romani Victims After Seventeen Years Constantin Cojocariu
  • Strasbourg Court Finds Violation of Article 3 in the First Macedonian Roma Torture Case Anita Danka


Meet the ERRC

  • Upcoming Priorities for the ERRC Under New Leadership Vera Egenberger


Romani Language Publication

  • Šuvdipe pe rig (ekskluzija) e Rromengi katar astaripe butjarimaske thanesko


Chronicle

  • Chronicle

 

La rivista è disponibile sul sito web dell’ERRC: http://www.errc.org/Romarights_index.php

 

 

 

 



[1] UNAR – Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità – Presidenza del Consiglio dei Ministri, Un anno di attività contro la discriminazione razziale, Roma, pp. 62-63.

[2] Sulla base di una sommaria indagine compiuta attraverso  dati e informazioni disponibili via internet  relativamente alle agevolazioni all’accesso a musei e beni culturali di proprietà e gestiti dagli enti locali nelle regioni di riferimento del progetto Leader, emergerebbe ad esempio che la Provincia di Genova ,  il Comune di Napoli  e quello di Firenze non applicano discriminazioni nella previsione di agevolazioni tariffarie, mentre  il Comune di Venezia applica una discriminazione in ragione della residenza per quanto riguarda l’ingresso gratuito (riservato tra l’altro ai residenti nel comune di Venezia), così come su base di nazionalità per quanto riguarda l’ingresso ridotto, riservato ai soli cittadini comunitari  per le fasce di età 6-14 , 15-29 e ultra 65.  La vicenda riferita dall’agenzia ANSA il 9 luglio scorso evidenzierebbe che in Sicilia trovano applicazione i criteri stabiliti dalla normativa nazionale.

 

[3] In base all’Art. 43 c. 1 TU costituisce discriminazione “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

Il legislatore ha poi formulato, nel secondo comma della disposizione, una tipizzazione delle condotte aventi sicuramente una valenza discriminatoria.

Va detto che l’elencazione fatta nel 2° comma non è da considerarsi tassativa, e quindi esaustiva, delle condotte sostanzialmente discriminatorie e produttive di effetti pregiudizievoli, rispetto alle quali soccorre la definizione generale del primo comma.

L’articolo prevede infatti che compia “in ogni caso” una discriminazione:

[…]

b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità.

[4] Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 19 ottorbe-13 novembre 2006, n. 24170, par. 4.3.

[5] Art. 2 c. 2 del T.U.: “Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia  civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia dispongano diversamente. Nei casi in cui il presente testo unico o le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità, essa è accertata secondo i criteri e le modalità previste dal regolamento di attuazione”.

Art. 1 c. 1 d.P.R. n. 394/99: Ai fini dell’accertamento della condizioni di reciprocità, nei casi previsti dal testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di seguito denominato “testo unico”, il Ministero degli Affari Esteri, a richiesta, comunica ai notai ed ai responsabili dei procedimenti amministrativi che ammettono gli stranieri al godimento dei diritti in materia civile i dati relativi alle verifiche del godimento dei diritti in  questione da parte dei cittadini italiani nel paese di origine dei suddetti stranieri.

c. 2:  L’accertamento di cui al comma 1, non  è richiesto per i cittadini stranieri titolari della carta  di soggiorno  di cui all’art. 9 del testo unico, nonché per i cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per l’esercizio di un’impresa individuale, per motivi di famiglia, per motivi umanitari e per motivi di studio, e per i relativi familiari in regola con il soggiorno”.

Art. 1 c. 1 del T.U.: “Il presente testo unico, in attuazione dell’art. 10, secondo comma, della Costituzione, si applica, salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri”.

Art. 1 c. 4 del T.U.: “Nelle materie di competenza legislativa delle regioni, le disposizioni del presente testo unico costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione. Per le materie di competenza delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, esse hanno il valore di norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica”

[6] In merito al processo di interpretazione evolutiva della clausola di cui all’art. 1 della Convenzione ONU del 1965  si veda Sicilianos, Les potentialités de la convention pour l’élimination de la discrimination raciale. A’ propos de la Reccomendation Génerale concernant la discrimination fonde sur l’ascendance, in Libertés, justice, tolerance, Mélanges Cohen-Janathan, Parigi 2005, p. 881 ss ; cit. in Antonello Di Muro, La discriminazione razziale nel diritto civile interno, alla luce del diritto comunitario e degli strumenti internazionali vincolanti per l’Italia, paper presentato al  primo congresso di aggiornamento forense su iniziativa del Consiglio Nazionale Forense, Roma, 28-30 marzo 2006, pag. 8.

[7] Art. 5 c. 3 del D.lgs. n. 215/2003: “Le associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 4 nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”.

[8] Art. 3 legge 8 febbraio 1948, n. 47.