NEWSLETTER N. 7
2 LUGLIO 2007

 

SERVIZIO DI SUPPORTO GIURIDICO

 

 

SOMMARIO

 

 

ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI

 

1. La discriminazione nell’accesso degli stranieri agli impieghi presso le imprese del trasporto pubblico locale, conseguenza di una normativa illegittima ed anacronistica. Il caso della COTRAL s.p.a. nel Lazio.

 

 

GIURISPRUDENZA NAZIONALE ED APPROFONDIMENTI

 

 

1. Accesso degli stranieri all’assegno sociale, alle prestazioni sociali di invalidità e di maternità.  L’ASGI chiede all’INPS di applicare gli obblighi di parità di trattamento e di non discriminazione derivanti  dalle norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia. Una sentenza del Tribunale di Pistoia afferma l’incompatibilità della normativa italiana con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.

 

2. “Bonus-bebè”: discriminazione nell’accesso alla prestazione, cattiva amministrazione, procedimenti penali. Commenti alla giurisprudenza civile e penale. Tribunale di Biella, ordinanza 02.01.2007; G.i.p. Varese, sentenza n. 112/07 dd. 29.03.2007; G.u.p. Varese, sentenza n. 24/07 dd. 23.01.2007; G.u.p. Perugia dd. 12.04.2007.

 

3. Il T.A.R. Lombardia, sezione di Brescia, rinvia alla Corte Costituzionale la discussa legge regionale lombarda che, disciplinando l’attività dei “phone center”, ha introdotto regole considerate irragionevolmente restrittive e discriminatorie dagli imprenditori stranieri.

 

4. Uguaglianza di trattamento nell’accesso alle misure alternative alla detenzione. Anche gli stranieri irregolari hanno la possibilità di fruire della misure alternative alla pena detentiva. Commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 78 dd. 5 marzo 2007 a cura dell’avv. Marco Paggi dell’ASGI (tratto dal sito web: www.meltingpot.org )

 

 

ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE ATTIVE NEL SETTORE DELLA LOTTA ALLE DISCRIMINAZIONI ETNICO-RAZZIALI. SITI INTERNET

 

Organizzazioni non governative attive nel settore della lotta alle discriminazioni etnico-razziali nei paesi dell’Europa orientale membri dell’Unione Europea.

 

 

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 


 

ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI

 

 

 

1.

La discriminazione nell’accesso degli stranieri agli impieghi presso le imprese del trasporto pubblico locale, conseguenza di una normativa illegittima ed anacronistica. Il caso della COTRAL s.p.a. nel Lazio.

 

Contrariamente a quanto solitamente avviene negli altri paesi europei e nei paesi d’immigrazione d’oltreoceano, in Italia un cittadino straniero non  può  fare l’autista di un autobus del servizio di trasporto urbano o extraurbano. Ciò per effetto di una normativa del 1931, risalente ai tempi delle corporazioni fasciste, e sopravvissuta a vent’anni di contrattazione collettiva. Una normativa illegittima perché in contrasto con le norme internazionali. Una normativa tanto più anacronistica oggi, quando il trasporto pubblico locale è soggetto ormai  alle regole della concorrenza e del libero mercato. Una normativa controproducente perché rende spesso difficile per le imprese del settore trovare manodopera qualificata. Il nuovo contratto collettivo nazionale degli autoferrotranvieri, in scadenza il prossimo 31 dicembre 2007, potrebbe porre finalmente fine a questa discriminazione. Una sfida per i sindacati.

Un caso segnalato dalle RITA del Lazio in relazione ad una recente selezione pubblica di personale indetta dall’impresa di trasporti COTRAL s.p.a.

 

Di seguito il parere  formulato dal Servizio di Supporto giuridico dell’ASGI.

 

 

 

 

 

 

Premessa

A seguito  di delibere  del CdA della COTRAL s.p.a., società per azioni a totale partecipazione pubblica, n. 27 dd. 22.03.2007 e n. 49 dd. 10.05.2007, con le quali è stata disposta l’assunzione di n. 350 persone con la qualifica di operatori di esercizio (autisti) e a seguito di un accordo  sottoscritto tra la COTRAL medesima e la Regione Lazio in data 18 maggio 2007, con il quale è stato disposto che dette assunzioni avvengano al termine di una selezione pubblica da effettuarsi per il tramite dei centri provinciali per l’impiego, in data 28 maggio 2007 i centri per l’impiego delle Province di Roma,  Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo hanno indetto appositi bandi/avvisi di preselezione pubblica per le suddette posizioni lavorative, con l’istruzione agli interessati di presentare personalmente la domanda di ammissione, corredata dalla documentazione richiesta, entro il giorno 12 giugno 2007 cioè entro il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione.

Una parte di queste posizioni sono riservate alle donne quale azione positiva per incentivare l’occupazione femminile in settori ove normalmente trovano esclusione (L. 125/91). Un’altra parte è riservata ai lavoratori e alle lavoratrici impegnati nei Lavori Socialmente Utili.

 

 

Le posizioni lavorative presso la COTRAL non costituiscono rapporti di impiego pubblico

Nonostante sia stata indetta una procedura concorsuale per selezione pubblica affidata ai centri per l’impiego, la posizione  di  autista presso la COTRAL  s.p.a non  costituisce un rapporto di impiego pubblico, in quanto la COTRAL è dal marzo 2007 una società per azioni, sebbene controllata da amministrazioni pubbliche (in quanto il capitale sociale è suddiviso tra amministrazioni pubbliche: la Regione Lazio quale socio di maggioranza e le Province di Roma, Viterbo, Rieti quali soci di minoranza). Di conseguenza, i contratti di lavoro presso la COTRAL s.p.a. sono a tutti gli effetti contratti di diritto privato non assoggettati alle norme sull’impiego pubblico di cui al d.lgs. n.165/2001. Sulla base dell’art. 1 c. 2 del d.lgs. n. 165/2001, sussiste rapporto di pubblico impiego assoggettato alle norme del medesimo strumento normativo, incluse quelle che imporrebbero la cittadinanza italiana o –entro i limiti del D.P.C.M 07.02.1994-  quella di uno degli Stati membri dell’Unione Europea per quanto riguarda il suo accesso (art. 38), quando il datore di lavoro fa parte dell’amministrazione pubblica, nelle sue articolazioni territoriali, inclusi gli enti pubblici non economici. Non essendo gli enti pubblici economici e tanto meno le società per azioni a partecipazione pubblica ricompresi nell’elenco di cui all’art. 1 c. 2 del d.lgs. n. 165/2001 è pacifico che i rapporti tra detti soggetti imprenditoriali ed i terzi (quali i dipendenti) sono retti da regole privatistiche. [1]

 Ne deriva che l’esclusione dei cittadini extracomunitari dall’impiego presso la COTRAL spa non trova giustificazione nelle norme sull’impiego pubblico (art. 2 d.P.R. 487/94, art. 38 d.lgs. n. 165/2001), le quali secondo il discusso indirizzo di Cassazione (Cass. n. 24170 dd. 16.11.2006) troverebbero copertura costituzionale negli artt. 51 e 97 Cost.

 

 

La fonte normativa dell’esclusione dei cittadini extracomunitari dall’impiego in imprese di trasposto pubblico locale. Contrasto con  le norme internazionali ed interne sulla  parità di trattamento dei cittadini migranti in materia di occupazione.

L’esclusione dei cittadini extracomunitari dall’impiego presso le società di trasporto pubblico locale trova invece unico fondamento nell’art. 10 del Regolamento allegato al R. D. 8 gennaio 1931 n. 148 (Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione), applicabile anche ai lavoratori dei servizi di trasporto pubblico urbano ed extraurbano per effetto della legge 3.11.1952 n. 628, che prevede appunto il requisito della cittadinanza italiana per l’ammissione al servizio. Nonostante tali norme siano state sottoposte a processo di delegificazione per effetto della legge 12.07.1988, n. 270 (G.U. 16.07.1988, n. 166), con la quale  è stato cioè introdotto il principio per cui le disposizioni contenute nel regolamento A al regio decreto 1931, n. 148 possono essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria, la clausola di cittadinanza è rimasta in vigore in tutti questi anni, non essendo stata mai intaccata dalla contratti nazionali collettivi di categoria, l’ultimo dei quali viene in scadenza il prossimo dicembre 2007.  Le  norme del Regio decreto sono state recepite anche nell’ordinamento regionale della Regione Lazio, che ha potestà legislativa concorrente in materia di trasporto pubblico,  per effetto dell’art. 20 comma 2 bis della L.R. 16.07.1998, n. 30, così come modificato dall’art. 21 comma 1 della L.R. 16.06.2003, n. 16: “Al personale impiegato dalle aziende che costituiscono associazioni temporanee di imprese per lo svolgimento del trasporto pubblico locale, considerato cumulativamente, si applicano le disposizioni di cui al regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148…”.

 

Si ritiene che detta esclusione su basi di  nazionalità dalla capacità dei cittadini di paesi terzi di assumere servizio presso un’impresa affidataria di servizi per il trasporto pubblico locale sia illegittima e discriminatoria per le seguenti ragioni:

 

a) viola il principio di parità di trattamento tra cittadini  extracomunitari e cittadini italiani per quanto concerne l’ambito lavorativo, incluse le condizioni per l’assunzioni, di cui all’art. 2 c. 3 del TU sull’immigrazione (D.lgs. n. 286/98) [La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143/1975 ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti sul suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritto rispetto ai lavoratori italiani]; norma che deriva dall’art. 10 della Convenzione OIL n. 143/1975[2], sottoscritta e ratificata dall’Italia, la quale prevede all’art. 14 come  eccezione a detto principio la clausola degli interessi nazionali. [3] Detta clausola, tuttavia, se potrebbe offrire forse   fondamento alle restrizioni operate nei rapporti di   pubblico impiego, ove secondo l’indirizzo menzionato della Cassazione sussisterebbe una riserva di cittadinanza a fondamento costituzionale,  non potrebbe certo giustificare una limitazione su basi di nazionalità con riferimento a contratti a tutti gli effetti di diritto privato, legati ad un settore, quello del trasporto pubblico locale, non più soggetto al regime monopolistico pubblico, ma aperto alla  concorrenza e al libero mercato per effetto del recepimento della normativa comunitaria, e dunque , oggetto dell’iniziativa economica anche , se non prevalentemente, di soggetti privati. In altri termini, se la restrizione nei rapporti di impiego basata sulla nazionalità poteva soddisfare un interesse nazionale  in passato  quando i servizi di trasporto pubblico locale erano erogati in regime di monopolio da imprese pubbliche o da concessionari incaricati dall’amministrazione, ora non appare suscettibile di realizzare detto interesse  nel momento in con l’intervento del diritto comunitario si è superata l’idea di una gestione totalmente pubblicistica del servizio pubblico, introducendo invece la regola della concorrenza e  dell’assenza di limitazioni alla libera circolazione di mercato.

In base ai principi fondamentali di diritto e specificatamente l’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile,[4] si dovrebbe ritenere che l’art. 2 c. 3 del D.lgs. n. 286/98 abbia abrogato implicitamente la norma di cui all’art 10 del Regolamento allegato alla normativa del  1931 sul personale autoferrotranviario. Quand’anche si ritenesse che l’art. 27 c. 3 del d.lgs. n. 286/98 [“Rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività”] , ha fatto salva e mantenuto in vita la norma del 1931 - con un’interpretazione che riterremmo errata, in quanto la norma va interpretata in maniera sistematica, tenendo in considerazione la sua collocazione all’interno dell’articolo (il 27 appunto) che riguarda gli ingressi fuori dal sistema delle quote e dunque, andrebbe riferita soltanto a queste categorie specifiche di cittadini migranti e non alla condizione del cittadino migrante in generale - [5] resta il fatto che l’art. 2 c. 3 del TU si riferisce esplicitamente ad una   norma pattizia internazionale, la quale prevale su quella interna ad essa contrastante e ne comporta di conseguenza la disapplicazione, tanto più che si opera in un ambito, quello della condizione giuridica dello straniero, sottoposto a riserva di legge rafforzata (art. 10 c. 2 Cost: “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità alle norme dei trattati internazionali…”).  In tale senso va citata la sentenza di Cassazione 19 luglio 2002 n. 10542 che ha condivisibilmente puntualizzato che  “il giudice nazionale, ove ravvisi un contrasto con la disciplina nazionale, è tenuto a dare prevalenza alla norma pattizia, che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, anche ove ciò comporti una disapplicazione della norma interna” (nello stesso senso, si vada Cass. 11 giugno 2004, n. 11096). In altri termini, la norma di fonte internazionale, in questo caso per di più costituzionalizzata in base all’art. 10 c. 2 Cost., gode pur sempre di una capacità di resistenza rispetto alla previsione interna, anche se sopravvenuta. Giudizio, questo,  condiviso dalla Corte Costituzionale [ sent. 19 gennaio 1993, n. 10] che ritiene trattasi di norme derivanti da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali insuscettibili di  abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria.[6]

 

b) viola il principio di uguaglianza e ragionevolezza secondo i criteri stabiliti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 432/2005, poiché non si ravvede una motivazione  logica,   ragionevole e proporzionata nel stabilire una disparità di trattamento tra cittadini e stranieri nelle opportunità di impiego nelle imprese, anche quelle private, del settore del trasporto pubblico quando tale settore è oramai privatizzato per effetto della normativa comunitaria sulla concorrenza e dunque non più riservato alle imprese pubbliche o a concessionari incaricati dalla pubblica amministrazione. Ne deriva dunque un contrasto della normativa risalente al 1931 non solo rispetto ai diritti costituzionali fondamentali di eguaglianza (art. 3), e di accesso al lavoro  (art. 1 e  4 Cost.), ma anche di libertà d’impresa e di iniziativa economica di cui all’art. 41 (autonomia contrattuale).

Si  rammenta, infatti, che  la Corte Costituzionale con sentenza n. 432/2005 ha avuto già  modo di chiarire che ogni trattamento differenziato tra italiani e stranieri che una norma  voglia introdurre ai fini dell’ammissione ad un beneficio deve rispondere a criteri di ragionevolezza da valutarsi in relazione alle finalità e funzioni della norma medesima e degli istituti cui essa si riferisce.[7] Si evince da tale sentenza che tali principi di eguaglianza a ragionevolezza assurgono al ruolo di criterio interpretativo valido innanzi ad ogni norma che preveda una disparità di trattamento, anche in ambiti non necessariamente correlati ai diritti fondamentali, divenendo ulteriore metro in base al quale misurare l’ammissibilità o meno di provvedimenti od iniziative pubbliche.

 

 I rimedi giudiziari

Si ritiene pertanto che la limitazione  su basi di nazionalità contenuta nel bando per la selezione pubblica di autisti per conto della COTRAL spa sia illegittima, in quanto trova fondamento in una norma che si pone in  contrasto con il principio di parità di trattamento imposto da norme a carattere prevalente, in quanto posteriori ovvero di rango superiore. Tale bando, di conseguenza, pone in essere una discriminazione vietata dall’art. 43 del TU sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/98)[8] e come tale rende possibile quale rimedio l’esercizio di un’azione giuridica contro la discriminazione ex art. 44 del TU (d.lgs. n. 286/98). Tale azione può essere esercitata dinanzi al giudice civile del lavoro,[9] tanto dal soggetto passivo della discriminazione (l’eventuale cittadino extracomunitario che si veda escluso dalla pre-selezione per mancanza del requisito di cittadinanza), quanto direttamente dalla rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali più rappresentative trattandosi di una discriminazione collettiva posta in essere da un datore di lavoro (COTRAL spa in accordo con la Regione Lazio ed i centri per l’impiego (art. 44 c. 10 d.lgs. n. 286/98). La normativa prevede pure la possibilità di un procedimento d’urgenza (art. 44 c.5),  che potrebbe tradursi nel caso in questione  nell’ordine del giudice, impartito con apposita ordinanza, di  rimuovere le discriminazioni accertate, ordinando    alla COTRAL, alla Regione Lazio e ai Centri per l’Impiego di sospendere la procedura di selezione pubblica, di modificare il bando concorsuale per la preselezione pubblica con l’eliminazione della clausola discriminatoria e la riapertura dei termini per la presentazione delle istanze di partecipazione alla selezione, offrendo così materialmente ed effettivamente ai cittadini di paesi terzi la possibilità di concorrere alla selezione.[10]

 

Dott. Walter Citti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIURISPRUDENZA NAZIONALE ED APPROFONDIMENTI

 

1.

 

 

La questione dell’accesso degli stranieri all’assegno sociale, alle prestazioni sociali di invalidità e di maternità.  L’ASGI chiede al Ministro del Lavoro e all’INPS di applicare gli obblighi di parità di trattamento e di non discriminazione derivanti  dalle norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia. Una sentenza del Tribunale di Pistoia afferma l’incompatibilità della normativa italiana con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.

 

Una recente sentenza del Tribunale di Pistoia [23 marzo 2007, giudice del lavoro] si è pronunciata sul diritto all’assegno sociale per una cittadina straniera legalmente soggiornante, ma priva della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, ex D. lgs. n. 3/2007). Nonostante le disposizioni della legge finanziaria 2001, che,  come è noto, hanno limitato la fruizione delle prestazioni di assistenza sociale solo ai possessori della carta di soggiorno, il giudice del lavoro di Pistoia ha risolto favorevolmente  la questione, sulla base dell’incompatibilità della normativa interna  con gli obblighi internazionali scaturenti dall’adesione del nostro paese alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed al suo Protocollo addizionale n. 1. La Convenzione europea dei diritti umani dispone, infatti, all’art. 14 che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella convenzione debba essere assicurato senza alcuna distinzione, ivi compresa quella basata sulla nazionalità. Tra questi diritti vi è quello espressamente indicato all’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione Europea medesima che riconosce, ad ogni persona, il diritto al rispetto dei suoi beni patrimoniali. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha ritenuto che tra i diritti patrimoniali debbano essere incluse anche le prestazioni sociali, quindi tutte le forme di assistenza sociale, anche quelle che non si basano su un precedente rapporto di contribuzione.

Se è vero che  le norme della Convenzione europea e la loro interpretazione, fornita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non comportano una diretta eseguibilità nel territorio nazionale, il giudice nazionale resta  comunque vincolato all’applicazione di queste norme. In altri termini,  appare difficile prevedere che il Ministero del Lavoro e l’INPS si adegueranno immediatamente a quanto sancito dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, sancendo a livello amministrativo il diritto degli stranieri legalmente residenti in Italia, ma privi del permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, ad usufruire delle prestazioni sociali a carattere non contributivo. Tuttavia, tale diritto potrà essere riconosciuto previo ricorso dinanzi al giudice del lavoro a fronte di un formale provvedimento di diniego emanato dalla struttura territoriale competente dell’INPS.

A tale riguardo, si raccomanda agli interessati di presentare formale istanza per il riconoscimento delle provvidenze e di richiedere all’INPS di rilasciare un provvedimento scritto e motivato di diniego, il quale potrà essere impugnato in giudizio dinanzi al giudice del lavoro. Nel caso di auspicato accertamento del diritto,  secondo le indicazioni giurisprudenziali del giudice del lavoro di Pistoia, questo  agisce anche  per quanto riguarda l’obbligo di pagamento  degli arretrati dalla data di presentazione della domanda.

 

Tanto più lo stesso  vale quando lo straniero rientri nelle situazioni protette dal principio di “non-discriminazione” contenuto negli Accordi di associazione euro-mediterranei, stipulati tra la Comunità Europea e gli Stati membri da un lato, e rispettivamente l’Algeria, il Marocco, la Tunisia, la Turchia dall’altro, ovvero nel Regolamento CE n. 859/2003. Tali situazioni, infatti, derivando da norme di diritto comunitario, comportano un’immediata disapplicazione della normativa interna ad esse contrastante; principio questo, che l’INPS ed il Ministero del Lavoro non hanno voluto sinora riconoscere con riferimento alle prestazioni sociali a carattere non contributivo. Per tali ragioni, l’ASGI ha deciso di scrivere al Ministero del Lavoro e all’INPS chiedendo il pieno adempimento agli obblighi internazionali vincolanti per il nostro paese.

 

 

Di seguito il testo della lettera inviata dall’ASGI all’on. Cesare Damiano, Ministro del Lavoro e alla Presidenza e ai  dirigenti dell’INPS.

 

 

 

 

 

 

 

Egr. Signori,

 

 

Con la presente,  il Servizio di Supporto Giuridico contro le discriminazioni dell’A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), associazione che riunisce avvocati e operatori giuridici e sociali impegnati sulle tematiche dell’immigrazione,    intende segnalare alle istituzioni preposte, e all’INPS in particolare, la scarsa chiarezza e la sostanziale disapplicazione delle norme di diritto comunitario in materia di accesso, in condizioni di  parità di trattamento con i cittadini italiani, di talune categorie di stranieri non appartenenti a Paesi membri dell’Unione Europea all’assegno sociale e alle altre provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali, inclusi quindi gli assegni e le indennità derivanti da invalidità civile (art. 80 c. 19 l. n. 388/2000).

Come è largamente noto, l’accesso a tali provvidenze in condizioni di parità con i cittadini italiani è finora limitato ai soli cittadini di paesi terzi in  possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo (ex carta di soggiorno), in virtù delle disposizioni introdotte in sede di legge finanziaria 2001 (l. 388/2000), con l’aggiunta delle particolari categorie dei rifugiati politici e degli apolidi, i quali beneficiano delle norme più favorevoli previste dagli strumenti di diritto internazionale che li riguardano (rispettivamente Convenzione di Ginevra del 1951 e  Convenzione di New York del 1954).1

 La sentenza della Corte Costituzionale n. 324/2006 non ha risolto l’annosa   questione dell’asserita  incompatibilità della disposizione restrittiva introdotta dalla legge finanziaria 2001 rispetto tanto ai principi costituzionali di uguaglianza e  ragionevolezza quanto al principio di parità di trattamento e non-discriminazione sancito da diversi strumenti di diritto internazionale (Convenzione OIL n. 143/1975, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali).2 La sentenza della Corte Costituzionale, limitandosi all’interpretazione dei c.d. “rapporti di durata”, ha infatti dispiegato  il suo ragionamento soltanto sui rapporti già formatisi e costituiti sulla base della normativa precedente alla legge finanziaria 2001, ma non è suscettibile di incidere sulla questione principale  riguardante i potenziali fruitori di tali provvidenze che ne abbiano maturato i requisiti di età e reddito o abbiano ottenuto il riconoscimento della condizione di invalidità solo dopo l’entrata in vigore della citata normativa restrittiva.

 

Come affermato, peraltro, anche da una recente giurisprudenza, il contrasto dell’art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000 con  la norma della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo – Art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 congiuntamente all’art. 14 della Convenzione-, in base alle indicazioni interpretative ormai consolidate nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo- suggerisce la tesi della vincolatività di quest’ultima e dunque della possibilità per il giudice nazionale di disapplicare  le norme interne incompatibili, senza quindi la necessità di sollecitare l’intervento della Consulta, alla pari di quanto oramai ritenuto pacifico riguardo al rapporto tra norme interne e norme  di derivazione comunitaria. 3

 

Si ritiene, pertanto, possibile affermare che una disapplicazione dell’art. 80 c. 19 della legge 23.12.2000, n. 388 con una conseguente estensione delle prestazioni sociali di tipo non contributivo a tutti gli stranieri regolarmente residenti  in Italia possa fin d’ora essere affermata sulla base dell’immediata vincolatività della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

 

Quand’anche si volesse sostenere che la tesi soprariassunta non sarebbe ancora sufficientemente sorretta da una dottrina uniforme e da una giurisprudenza consolidata,  è opinione del presente Servizio che l’accesso in condizioni di parità di trattamento alle prestazioni sociali non contributive che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente debba essere affermato -senza margine di dubbio-   per talune categorie di cittadini di paesi terzi legalmente soggiornanti in Italia ma non titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo, sulla base di norme di diritto comunitario vigenti e pienamente vincolanti per l’Italia e dunque prevalenti sulle norme di diritto interno ad esse incompatibili.

Si fa qui riferimento alle clausole  di “non discriminazione” contenute negli  Accordi di  Associazione  euromediterranei stipulati tra la Comunità Europea e i relativi Stati terzi. Si tratta, nello specifico, degli Accordi euromediterranei che istituiscono un’Associazione tra le Comunità Europee e i loro Stati membri, da un lato, e rispettivamente la Repubblica Tunisina, il Regno del Marocco e l’Algeria, dall’altro, tutti ratificati con legge e vincolanti per l’Italia in quanto membro della CE.4 .

Tali accordi, infatti,  contengono espressamente una clausola di parità di trattamento nella materia della “sicurezza sociale”. Recita, infatti, l’art. 68 dell’Accordo euromediterraneo con l’Algeria e clausole del tutto analoghe sono contenute negli accordi con Marocco e  Tunisia,  ma non invece in quelli sottoscritti con  Egitto, Israele, Regno di Giordania, Palestina: “1.…i lavoratori di cittadinanza algerina e i loro familiari conviventi godono, in materia di sicurezza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali essi sono occupati. 2. Il termine “sicurezza sociale” include i settori della sicurezza sociale che concernono le prestazioni relative alla malattia e alla maternità, all’invalidità, le prestazioni di vecchiaia e per i superstiti, i benefici relativi agli infortuni sul lavoro, alle malattie professionali, al decesso, le prestazioni relative alla disoccupazione e quelle familiari”. Il successivo art. 69 specifica quali destinatari  della previsione sulla parità di trattamento “i cittadini delle parti contraenti  residenti o legalmente impiegati  nel territorio dei rispettivi paesi ospiti”, fissando dunque l’unico requisito della residenza o dell’attività lavorativa legale svolta nel territorio della parte contraente.5

E’ opportuno ricordare al riguardo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, secondo la quale la nozione di   “sicurezza sociale” contenuta nei citati Accordi euromediterranei  - ed ancor prima negli accordi di cooperazione che li hanno preceduti- debba essere intesa allo stesso modo dell’identica nozione contenuta nel regolamento Ce n. 1408/71. Quest’ultimo, dopo le modifiche apportate dal Regolamento del Consiglio 30/4/1992 n. 1247 (G.U. L 136), include  nella nozione di “sicurezza sociale” le “prestazioni speciali a carattere non contributivo”, [incluse quelle] destinate alla tutela specifica delle persone con disabilità,   […] ed elencate nell’allegato II bis”, che per quanto concerne l‘Italia, menziona espressamente quelle prestazioni che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di assistenza sociale cioè la pensione sociale, le pensioni e le indennità ai mutilati ed invalidi civili, ai sordomuti, ai ciechi civili, gli assegni per assistenza ai pensionati per inabilità.6 Al fine di essere chiari ed esaustivi, vale la pena citare interamente le conclusioni tratte dalla Corte di Giustizia Europea dopo essere stata interpellata dal giudice nazionale belga in merito all’applicabilità della clausola di non-discriminazione in materia di “sicurezza sociale” prevista  dal precedente accordo di cooperazione tra Comunità Europee e Algeria, firmato nel 1976 e poi sostituito dall’Accordo euromediterraneo di Associazione,  in riferimento ad una prestazione sociale non contributiva   per disabilità:

 

 Per quanto riguarda,.., la nozione di previdenza sociale che figura in questa disposizione, dalla citata sentenza Krid (punto 32) e, per analogia, dalle citate sentenze Kziber (punto 25), Yousfi (punto 24) e Hallouzi-Choco (punto 25) risulta che essa va intesa allo stesso modo dell’identica nozione contenuta nel regolamento n. 1408/71. Ora dopo la modifica operata dal regolamento (Cee) del Consiglio 30/04/1992 n. 1247, il regolamento n. 1408/71 menziona esplicitamente all’art. 4, n. 2 bis, lett. b ) (vedi anche l’art. 10 bis, n. 1, e l’allegato II bis di questo regolamento), le prestazioni destinate a garantire la tutela specifica dei minorati. Del resto, anche prima di questa modifica del regolamento n. 1408/71, costituiva giurisprudenza costante, sin dalla sentenza 28/5/1974, causa 187/73, Callemeyn (Racc. p. 553), che gli assegni per minorati rientravano nell’ambito di applicazione ratione materiae di questo regolamento… Di conseguenza, il principio,…, dell’accordo, che vieta qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza nel campo della previdenza sociale dei lavoratori migranti algerini e dei loro familiari con essi residenti rispetto ai cittadini degli Stati membri in cui essi sono occupati comporta che le persone cui si riferisce questa disposizione possono aver diritto agli assegni per minorati alle stesse condizioni che devono essere soddisfatte dai cittadini degli Stati membri interessati” (Corte di Giustizia europea 15/01/1998 C-113/97 caso Henia Babahenini c. Stato Belga) .7

 

Con riferimento alla normativa belga sul reddito minimo garantito per le persone anziane, l’equivalente dell’assegno sociale italiano,  e che escludeva da tale provvidenza i cittadini  stranieri a meno che non beneficino già di una pensione di invalidità o di reversibilità, la Corte di Giustizia Europea, nella recente ordinanza dd. 17 aprile 2007 (caso Mamate El Youssfi c. Office National des Pensions ) ha concluso che:

l’art. 65, n. 1, primo comma, dell’Accordo euromediterraneo che istituisce un’associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e il Regno del Marocco, dall’altra, firmato a Bruxelles il 26 febbraio 1996 e approvato a nome delle dette Comunità con la decisione del Consiglio e della Commissione 24 gennaio 2000, 2000/204/CE, CECA, deve essere interpretato nel senso che esso osta a che lo Stato membro ospitante rifiuti di accordare il reddito minimo garantito per le persone anziane ad una cittadina marocchina che abbia raggiunto i 65 anni di età e risieda legalmente nel territorio del detto Stato, qualora costei rientri nell’ambito di applicazione della succitata disposizione per avere essa stessa esercitato un’attività di lavoro dipendente nello Stato membro di cui trattasi oppure a motivo della sua qualità di familiare di un lavoratore di cittadinanza marocchina che è od  è stato occupato in questo medesimo Stato”.8

Si rileva, pertanto, la necessità che l’INPS si adegui finalmente agli obblighi scaturenti dalla piena validità nel nostro ordinamento delle norme  contenute nei citati accordi di associazione, le quali, facendo parte del diritto comunitario, hanno preminenza su qualsivoglia norma di diritto interno ad esse incompatibili. Si chiede, pertanto, l’immediata estensione anche ai cittadini marocchini, tunisini, algerini, turchi, legalmente residenti in Italia ed in possesso dei requisiti soggettivi di età, reddito o condizioni personali, delle prestazioni di sicurezza sociale non contributive che costituiscono diritti soggettivi a norma della legislazione vigente e che sono incluse nell’elenco di cui allegato II bis del citato regolamento comunitario, anche a prescindere dal possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo.

Con la presente si richiama inoltre l’INPS a dare   piena attuazione alle norme  sulla parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, con riferimento anche alle prestazioni a carattere non contributivo, contenute nel regolamento CE n. 859/2003 del 14 maggio 2003, che ha esteso le disposizioni dei precedenti regolamenti CEE n. 1408/71 e 574/72 “ai cittadini di paesi terzi cui tali disposizioni non fossero già applicabili unicamente a causa della nazionalità”. Come indicato peraltro dal dodicesimo “considerando” e dall’art. 1 del regolamento medesimo, e confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (da ultima, la causa citata Mamate El Youssfi c. Office National des Pensions, dd. 17 aprile 2007, para. 36-44; pure Khalil e altri, sentenza 11 ottobre 2001), le norme comunitarie in materia di coordinamento dei regimi nazionali di previdenza sociale non sono applicabili alle situazioni i cui elementi si collochino tutti all’interno di un solo Stato membro, e  questo è in particolare il caso che si verifica quanto la situazione dell’interessato presenta unicamente legami con un paese terzo ed un solo Stato membro, quando cioè il lavoratore straniero ha lasciato il paese di origine  per venire ad insediarsi direttamente nello Stato membro interessato.  In altri termini, un lavoratore extracomunitario, così come i suoi familiari, possono avvalersi della parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, riconosciuta dal citato regolamento, solo dopo aver trasferito il loro soggiorno legale da uno Stato membro ad un altro, così come reso possibile, ad esempio, in base alla direttiva n. 2003/109/CE dd 25.11.2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, recentemente recepita in Italia con il d. lgs. 8 gennaio 2007, n. 3.9

Il Servizio legale contro le discriminazioni dell’A.S.G.I. rileva al riguardo l’inadempienza dell’I.N.P.S. e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a riconoscere la piena e diretta portata applicativa delle norme del regolamento comunitario n. 859/2003 che vincolano il nostro paese  senza che vi sia  necessità di ulteriori provvedimenti legislativi o interpretativi.  Si sollecita dunque l’istituto previdenziale ad estendere le prestazioni non contributive di sicurezza sociale in oggetto e che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente, anche ai lavoratori di paesi terzi non appartenenti all’Unione Europea e ai loro famigliari, che risiedano  legalmente  in Italia, qualora dimostrino di avere già soggiornato legalmente in un altro Stato membro prima di giungere in Italia, e ciò a prescindere dal  possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo di cui al d.lgs. n. 8 gennaio 2007, n. 3.

 

Il presente Servizio dell’A.S.G.I. sottolinea il carattere direttamente vincolante  nel nostro ordinamento, tanto per la Pubblica Amministrazione, in sede di applicazione delle norme, quanto per il giudice nazionale,  in sede di eventuale contenzioso, dell’interpretazione della normativa comunitaria da parte della Corte di Giustizia europea, come indicato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità (rispettivamente Corte Costituzionale n. 113/1985 e  Cass.  Sez. Un. 03/10/1999, n. 9653). Si precisa, infatti, che  già con la sentenza della Corte Costituzionale dell’8 giugno 1984 n. 170, era stato stabilito il principio per cui il regolamento comunitario opera per forza propria con caratteristica di immediatezza, prevalendo su ogni normativa nazionale, anche posteriore, configgente con le disposizioni comunitarie. Con la sentenza n. 113/1985, La Corte Costituzionale ha esteso il principio stesso dell’immediata applicabilità delle disposizioni comunitarie oltre che ai regolamenti, anche alle “statuizioni risultanti… dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia Europea”. Infine, con sentenza n. 389 dell’11 luglio 1989, la Corte Costituzionale ha previsto che “l’applicazione della normativa comunitaria direttamente efficace all’interno dell’ordinamento italiano non dà luogo ad ipotesi di abrogazione o dei deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce un effetto di disapplicazione di quest’ultima, seppure nei limiti di tempo e nell’ambito materiale entro cui le competenze comunitarie sono legittimate a svolgersi” (sottolineatura nostra).

Di conseguenza, sarebbe del tutto legittima ed, anzi doverosa secondo gli orientamenti della Corte Costituzionale, un’iniziativa amministrativa del Ministero del Lavoro e dell’INPS volta a disapplicare quanto previsto dall’art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000 riguardo al requisito della carta di soggiorno per l’accesso alle provvidenze economiche previste, nei limiti  dei contenuti materiali  statuiti dalle norme di diritto comunitario citate.

Si rammenta, inoltre, che l’art. 1 c. 1213 della legge 27-12-2006 (legge finanziaria 2007) ha disposto l’obbligo per  le autonomie locali e gli enti pubblici in generale di “adottare  ogni misura necessaria a porre tempestivamente  rimedio alle violazioni, loro imputabili, degli obblighi degli Stati nazionali derivanti dalla normativa comunitaria”, al fine di “prevenire l’instaurazione delle procedure d’infrazione di cui agli artt. 226 ss. TCE o di porre termine ad esse”.

Anche alla luce delle norme sopra richiamate, si chiede, pertanto, all’INPS e al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di emanare con urgenza  le necessarie istruzioni affinché venga data piena ed immediata attuazione agli obblighi di non discriminazione e parità di trattamento nell’ambito della sicurezza sociale scaturenti dalle norme di diritto comunitario citate, con riferimento alle prestazioni a carattere non contributivo che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione nazionale vigente  e che sono incluse nell’elenco di cui all’allegato II bis del regolamento comunitario n. 1408/71 e successive modifiche.

 

Si trasmette la presente segnalazione all’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità affinché anch’esso possa, eventualmente e se lo ritiene opportuno, formulare una raccomandazione ed un parere in merito, avvalendosi delle prerogative assegnategli dall’art. 7 c. 2 lett. b) e e) del D.lgs. n. 215/2003.

 

 

Ringraziando per l’attenzione che Vorrete porre alla presente, cogliamo l’occasione per porgere i nostri migliori saluti.

 

Avv. Lorenzo Trucco, Presidente  ASGI

Dott. Walter Citti, consulente ASGI

 

 

 

 

Di seguito il testo della sentenza del Tribunale di Pistoia dd. 23 marzo 2007

 

Sentenza del Tribunale di Pistoia

Assegno sociale

TRIBUNALE DI PISTOIA
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Tribunale di Pistoia, sezione lavoro, in persona del dott. Giuseppe De Marzo, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in primo grado, iscritta al n. 532/2005 del Ruolo della Sezione controversie di lavoro

TRA
N. K., con l’avv. Daniela Breschi
Ricorrente
E
INPS, con l’avv. Massimiliano Minicucci
Resistente

OGGETTO: Assegno sociale

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 26 maggio 2005, N. K., premesso: di essere regolarmente soggiornante in Italia dal 16 febbraio 2001, data in cui aveva operato il ricongiungimento familiare con il figlio M. K.; che l’INPS aveva respinto la domanda con la quale ella aveva chiesto l’attribuzione dell’assegno sociale maggiorato; che l’art. 80, comma 19 della l. 388/2000, nella parte in cui condiziona alla titolarità della carta di soggiorno la fruizione dell’assegno sociale e delle provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi, deve essere disapplicato per contrasto con l’art. 1 del regolamento CE 859/2003 del 14 maggio 2003, sia pure con riguardo al periodo successivo al 1° giugno 2003, ai sensi dell’art. 2 del medesimo regolamento; tutto ciò premesso, ha chiesto la condanna dell’INPS all’erogazione dell’assegno sociale maggiorato.
Nel costituirsi in giudizio, l’INPS ha contestato il fondamento della domanda.
All’udienza di discussione la causa è stata decisa come da separato dispositivo

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’art. 80, comma 19 della l. 23 dicembre 2000, n. 388 dispone: Ai sensi dell’articolo 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno. Sono fatte salve le disposizioni previste dal decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237, e dagli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e successive modificazioni.
L’art. 41 d. lgs. 286/1998, dal canto suo, dispone che gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti.

Il raccordo tra le due norme rende palese che la finalità perseguita dal legislatore è stata quella di innovare il quadro normativo previgente, riducendo la platea dei beneficiari delle prestazioni assistenziali e limitandola ai soli titolari di carta di soggiorno.

Alcuni giudici di merito (v. Trib. Verona 22 maggio 2006) hanno optato per un’interpretazione dell’art. 80, comma 19 cit., che ne restringe la portata alle sole prestazioni erogate nell’ambito di servizi sociali gestiti localmente dagli enti comunali e preordinati allo sviluppo economico e civile della comunità territoriale, che incidono negli ambiti scolastici, di quartiere e territoriali. Tale lettura, però, non appare convincente, perché introduce una distinzione non prevista dalla norma (la quale piuttosto valorizza la consistenza della posizione soggettiva riconosciuta allo straniero) e comunque non coerente con l’espressa menzione dell’assegno sociale, che certo non rientra nel quadro dei servizi sociali locali.
Peraltro, nel caso di specie, proprio dell’attribuzione dell’assegno sociale si tratta. E con riferimento a tale provvidenza, la stessa S.C. ha chiarito che l’art. 80, comma 19 cit. non ha efficacia retroattiva, con ciò implicitamente riconoscendo che i presupposti della misura in esame devono, per il futuro, ritenersi integrati dal requisito della titolarità della carta di soggiorno (Cass. 20 gennaio 2005, n. 1117).
Ciò posto, deve del pari escludersi che la disapplicazione della norma sia imposta dal regolamento CE n. 859/2003 del 14 maggio 2003.

 In effetti, l’art. 1 del regolamento citato condiziona l’estensione delle previsioni dei regolamenti CEE 1408/71 e 574/72 ai cittadini di paesi terzi e ai loro familiari e superstiti al soggiorno legale nel territorio di uno Stato membro e alla presenza di una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all’interno dello Stato medesimo.

 La portata della previsione è chiarita dal dodicesimo considerando, in cui si ribadisce che non opera l’estensione quando la situazione di un cittadino di un paese terzo presenta unicamente legami con un paese terzo e uno Stato membro. Il limitato risultato pratico conseguito attraverso tale interpretazione non può condurre ad ignorare l’univoco dettato normativo.

 La domanda piuttosto appare meritevole di accoglimento, alla luce di considerazioni fondate sul rilievo diretto e prevalente che le norme internazionali spiegano a seguito del loro recepimento nell’ordinamento interno.
In particolare, viene in questione la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali (CEDU), resa esecutiva in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 14 CEDU dispone che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza alcuna discriminazione. E fra le ragioni discriminanti esemplificativamente previste dall’art. 14 cit. v’è proprio quella fondata sull’origine nazionale.
L’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto dei suoi beni. La Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata ad occuparsi dell’ambito oggettivo di operatività dell’art. 1 del Protocollo, ha, tuttavia, incluso senza esitazioni tra i diritti patrimoniali anche le prestazioni sociali, ivi incluse quelle di tipo non contributivo [si veda, in particolare, a coronamento di un’evoluzione iniziata nel 1996 con la sentenza resa nel caso Gaygusuz c. Austria
(ricorso n. 17371/90), la sentenza del 30 settembre 2003, resa nel caso Koua Poirrez c. Francia (ricorso n. 40892/1998]. Proprio la sentenza appena citata ha riconosciuto che tali diritti soggiacciono al divieto di discriminazione su base esclusivamente nazionale e in assenza di giustificazioni – nella specie del tutto assenti – obiettive e ragionevoli.
In giurisprudenza è stato affermato (v., ad es., Cons. Stato, 9 aprile 2003, n. 1926/02) che, a differenza di quanto previsto nel Trattato CE (art. 244 e 256), nessuna norma della Convenzione europea rende le sentenze della Corte di Strasburgo direttamente eseguibili negli ordinamenti nazionali. In realtà, gli articoli richiamati riguardano l’efficacia esecutiva in relazione a provvedimenti da cui discende un obbligo pecuniario.
In effetti, la regola generale, secondo la quale i principi enunciati nelle decisioni della Corte di giustizia s’inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, assumendo valore di fonte del diritto e di jus superveniens
(la regola enunciata da Corte cost. 23 aprile 1985, n. 113 è stata di recente ribadita da Corte cost. 20 aprile 2004, n. 125 e 14 marzo 2003, n. 62) trova il suo fondamento nell’esigenza di uniforme interpretazione del diritto comunitario nell’ambito territoriale definito dal Trattato, esigenza che si correla all’istituzione di una Corte chiamata ad assicurare il rispetto del diritto, nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato.

 

Ciò posto, senza pertanto ipotizzare una totale sovrapposizione tra problematiche legate all’applicazione del diritto comunitario e questioni poste dalle norme della Convenzione, è difficile sottrarsi all’idea che la medesima esigenza di certezza ed uniforme applicazione delle regole operi anche con riferimento alla Convenzione europea una volta che si considerino l’obbligo delle Alte Parti Contraenti di riconoscere ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti dal titolo I della Convenzione stessa (art. 1 di quest’ultima), l’istituzione della corte europea, chiamata ad assicurare il rispetto degli impegni derivanti per gli Stati (ossia per tutti gli organi dello Stato, ivi inclusi i giudici) dalla Convenzione e dai suoi protocolli (art. 19 della Convenzione), la competenza assegnata alla Corte, che si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione (art. 32 della Convenzione).
A fronte di tali indicazioni, si comprende che, per quanto generali possano essere le previsioni della Convenzione, esse sono destinate a divenire di stringente precettività a seguito delle puntualizzazioni interpretative della Corte europea. A tal proposito, Cass. 19 luglio 2002, n. 10542 ha condivisibilmente puntualizzato che il “giudice nazionale, ove ravvisi un contrasto con la disciplina nazionale, è tenuto a dare prevalenza alla norma pattizia, che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, anche ove ciò comporti una disapplicazione della norma interna” (nello stesso senso, si veda Cass. 11 giugno 2004, n. 11096). La vincolatività delle sentenze della Corte europea è stata ribadita di recente sia dalla giurisprudenza civile (v. Sez. Un. 23 dicembre 2005, n. 28507), sia la giurisprudenza penale (Cass., sez. I, 12 luglio 2006 - 3 ottobre 2006, n. 32678, Somogyi, la quale è giunta ad affermare che, in materia di violazione dei diritti umani il giudice nazionale italiano sia tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato; v. anche Cass, sez. I, 1° dicembre 2006 – 25

Gennaio 2007, n. 2800, Dorigo).

 

Peraltro, se è vero che la norma di fonte internazionale, anche se non costituzionalizzata, gode pur sempre di una capacità di resistenza rispetto alla contraria previsione interna sopravvenuta (si veda, ad es., Corte cost. 19 gennaio 1993, n. 10, che ritiene trattarsi di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria. Agli stessi risultati, ma valorizzando il fatto che la norma internazionale è sorretta non solo e non tanto dalla volontà che certi rapporti siano regolati in un certo modo, quanto dalla volontà che gli obblighi internazionali siano rispettati, è giunta anche la dottrina), diviene consequenziale riconoscere che le indicazioni interpretative della Corte europea vincolano il giudice interno, senza che sussista alcuna necessità di sollecitare l’intervento della Consulta.

Tale risultato potrà anche essere raggiunto, valorizzando i parametri della legge fondamentale ed eventualmente sollecitandone una lettura conforme all’esegesi delle previsioni della Convenzione offerta dalla Corte. Tuttavia, esso rappresenta una mera eventualità che non elide in alcun modo il dovere del giudice di non dare applicazione alla norma nazionale che reputi (o che sia stata giudicata dalla Corte europea) contrastante con i dettami della Convenzione.
Va aggiunto che, in senso contrario, ossia nel senso della necessità di provocare il sindacato della Corte costituzionale non depone il novellato art. 117 Cost. Quest’ultimo oggi dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Tale norma, se per un verso, pare dissipare i dubbi sulla possibilità per il legislatore ordinario di sottrarsi ai vincoli internazionali manifestando la specifica volontà di disattendere l’obbligo pattizio, per altro verso, non appare dotata, anche per la specifica sedes
, di alcuna efficacia innovativa quanto ai meccanismi di controllo della legittimità della norma interna. In particolare, l’accostamento delle norme costituzionali con quelle internazionali non rende necessario, in caso di ritenuto contrasto con queste ultime, lo scrutinio della Consulta. Se tale ricostruzione fosse esatta, ne dovrebbe discendere che, anche in caso di contrasto della disciplina con le norme comunitarie, occorrerebbe passare attraverso il filtro del giudice delle leggi, il che appare assolutamente contrastante con le acquisizioni raggiunte sul punto dalla stessa Corte costituzionale (Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170).
La ricostruzione appena operata dei rapporti tra corte di Strasburgo e giudici nazionali può creare disagio nella misura in cui, sviluppando potenzialità sinora poco avvertite persino nel rapporto con l’ordinamento comunitario, realizza un controllo polverizzato tra le corti di merito della legittimità delle leggi in un sistema caratterizzato dal sindacato centralizzato della Corte costituzionale. Tuttavia, essa appare consequenziale alla giuridicità del diritto internazionale quale si manifesta essenzialmente nella capacità degli operatori giuridici interni di dare concreta e stabile attuazione alle regole pattizie concordate dagli Stati.
In senso contrario rispetto a tale ricostruzione sono stati prospettati dalla S.C. con l’ordinanza 20 maggio 2006, n. 11887, i seguenti argomenti:

a) l’abrogazione della legge dello Stato si verifica nelle sole ipotesi di cui agli art. 15 disp. prel. c.c. e 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur quando quest’ultimo possa avvalersi dell’interpretazione del giudice internazionale; b)il giudice è soggetto soltanto alla legge, per cui ammettere un potere (o addirittura un obbligo) di disapplicazione significherebbe ammettere un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario che appare estranea al nostro sistema costituzionale; c) le norme della Convenzione europea sopra citata non possono ritenersi “comunitarizzate”, ossia assoggettate al medesimo regime che caratterizza le norme di derivazione comunitaria, in virtù del par. 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto dei diritti fondamentali della Convenzione costituisce una direttiva per le istituzioni comunitarie, non una norma comunitaria rivolta agli stati membri; d) poiché anche le limitazioni della sovranità statale che consentono l’applicazione delle regole comunitarie incontrano i controlimiti rappresentati dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona umana, deve in ogni caso essere verificato il rispetto dei principi costituzionali.
Si tratta, tuttavia, di argomenti poco persuasivi, alla luce delle considerazioni sopra sviluppate, in quanto il potere diretto di disapplicazione è talmente poco contrastante con il nostro ordinamento da essere attribuito al giudice, in presenza di regole interne contrastanti con quelle comunitarie. Inoltre, non è dato ravvisare alcuna violazione, nelle regole CEDU che vengono in applicazione nel caso di specie, di principi fondamentali del nostro ordinamento. Se così fosse, occorrerebbe piuttosto prospettarsi il dubbio della legittimità della norma interna che ha previsto il recepimento della fonte internazionale contrastante con tali principi.
Deve, pertanto, in relazione alle suesposte considerazioni, ritenersi prevalente l’operatività del principio di cui all’art. 14 CEDU che vieta la discriminazione per ragioni di origine nazionale in ordine al godimento del

diritto alle prestazioni assistenziali.

 Esclusa quindi l’operatività dell’art. 80, comma 19 sopra citato, deve prendersi altresì atto che, ai sensi dell’art. 3, comma 6 della l. 8 agosto 1995, n. 335, con effetto dal 1° gennaio 1996, in luogo della pensione sociale e delle relative maggiorazioni, ai cittadini italiani, residenti in Italia, che abbiano compiuto 65 anni e si trovino nelle condizioni reddituali indicate dalla medesima norma è corrisposto un assegno di base non reversibile fino ad un ammontare annuo netto da imposta pari, per il 1996, a lire 6.240.000, denominato “assegno sociale”. Ora, nella specie, le dichiarazioni prodotte dalla ricorrente attestano il possesso del requisito reddituale. La ricorrente è nata nel 1920, per cui sicuramente integrato è anche il requisito anagrafico. Ella inoltre risiede legalmente in Italia.
L’accoglimento della domanda è limitato al periodo anteriore alla data del riconoscimento in via amministrativa del trattamento richiesto, in ragione dell’avvenuto conseguimento della carta di soggiorno, ai sensi dell’art. 9, comma 2 d.lgs. 286/1998. Le spese seguono la soccombenza. Tenuto conto della natura e del valore della controversia nonché delle questioni trattate, si liquidano come da dispositivo. Tenuto conto che la ricorrente è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, le competenze devono essere versate in favore dello Stato.

 

P.Q.M.

Il giudice, dott. Giuseppe De Marzo, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da N. K. nei confronti dell’INPS, l’accoglie e, per l’effetto, condanna l’INPS al pagamento dell’assegno sociale maggiorato, con decorrenza dal 1° luglio 2004 sino alla data del riconoscimento in via amministrativa dello stesso trattamento (dicembre 2006), oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli ratei sino al saldo, nonché al pagamento delle spese del processo, liquidate in euro 1.400,00 (euro 700,00 per diritti, euro 700,00 per onorari), oltre accessori di legge, da versare, ex art. 133 d.p.r. 115/2202 in favore dello Stato.

Pistoia, 23 marzo 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.

 

 

“Bonus-bebè”: discriminazione nell’accesso alla prestazione, cattiva amministrazione, procedimenti penali. Commenti alla giurisprudenza civile e penale. Tribunale di Biella, ordinanza 02.01.2007; G.i.p. Varese, sentenza n. 112/07 dd. 29.03.2007; G.u.p. Varese, sentenza n. 24/07 dd. 23.01.2007; G.u.p. Perugia dd. 12.04.2007.

 

La questione del c.d. “bonus-bebé” è tornata di recente agli onori della cronaca in ragione delle prime risultanze dei procedimenti giudiziari avviati nei confronti dei  cittadini stranieri che erano stati indagati in quanto avrebbero indebitamente  ritirato presso gli uffici postali l’assegno riservato ai SOLI figli di cittadini italiani o stranieri comunitari nati nel 2005, in base alle disposizioni di cui alla legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006, commi da 330 a 334).

Si ricorda come all’origine della vicenda, vi è stato un atto di imperizia da parte del precedente governo, cioè  la mancata selezione da parte degli Uffici preposti all’invio della lettera del Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi, in cui si annunciava al nuovo nato e alla famiglia il diritto al ritiro dell’assegno di mille euro presso gli uffici postali, che   ha fatto sì che la comunicazione sia stata inviata indiscriminatamente a tutte le famiglie attraverso la Sogei (anagrafe tributaria). Tale procedura  e’ stata “ imposta “  dalla fretta  dettata dall’allora imminente scadenza elettorale perchè  “ai sensi della legge 22 febbraio 2000, n. 28  ‘dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto divieto a tutte le Amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ed utilizzarla per la campagna elettorale, ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni’”. Quindi vennero inviate migliaia di lettere, con finalità indirettamente di propaganda elettorale ed uso di denaro pubblico, a persone prive dei requisiti richiesti dalla legge per il ritiro della somma.

Molti cittadini stranieri vennero tratti in inganno,  sia perché le lettere vennero indirizzate personalmente al nuovo nato, sia italiano che straniero, dando così l’impressione di essere destinate precisamente al proprio nucleo familiare,  sia perchè  presso le Poste Italiane non venne effettuato alcun  controllo dell’identità della persona che, comunque, per ritirare l’assegno, doveva presentare un documento d’identità da cui chiaramente emergeva la sua cittadinanza straniera.

Dal ritiro del beneficio economico pur in assenza del requisito di cittadinanza italiana dell’esercente la potestà sul minore, come invece richiesto dalla norma, derivò la conseguenza per cui  migliaia di cittadini stranieri vennero fatti oggetto  di indagine penale in tutta Italia, con le contestazioni di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico.

Ad un anno di distanza, cominciano ad essere emanati i primi provvedimenti dell’autorità giudiziaria che sembrano orientarsi in una direzione favorevole  ai cittadini stranieri che erano incappati nell’equivoco generato innanzitutto da una normativa discriminatoria, nonché dalla cattiva amministrazione, dall’irresponsabilità e la spregiudicatezza delle autorità di governo di allora.

Già nell’ottobre scorso, il Tribunale di Vicenza aveva archiviato la posizione di un cittadino extracomunitario sostenendo che la notizia di reato, cioè la denuncia di truffa aggravata e falso in autocertificazione, era infondata per mancanza dell’intenzionalità, cioè di quello che viene chiamato l’elemento ideologico del reato: il dolo, ovvero l’intenzione e la consapevolezza di commettere un illecito (1). Il giudice di Vicenza ha riconosciuto l’assenza del dolo, riconoscendo che l’interessato era stato, in buona fede, tratto in inganno  dalla comunicazione inviatagli ad personam dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con relativo mandato di pagamento presso l’ufficio postale, in concorso con la scarsa conoscenza della lingua italiana e delle leggi dello Stato. A conclusioni analoghe è giunto più di recente il giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Perugia, con la sentenza dd. 12 aprile 2007, il quale non ha mancato di sottolineare l’evidente imperizia e contraddittorietà dell’azione delle autorità di governo e ministeriali nella vicenda, concludendo che se all’imputato va riconosciuta la difficoltà di comprensione della lingua italiana, “fargli vivere un processo penale fondato su tali presupposti e circostanze, lo porterebbe a non capire gli italiani” (2) Al medesimo risultato dello scioglimento di ogni imputazione a carico dei cittadini stranieri imputati è  giunto anche il tribunale di Varese, con due diverse sentenze, una pronunciata dal giudice per le indagini preliminari (n. 112/2007 dd. 29 marzo 2007), con la quale si è disposto il non luogo a procedere; l’altra del giudice per l’udienza preliminare (n. 24/07 dd. 07.02.2007), con la quale si sono assolti gli imputati perché il fatto non costituisce reato. Il tribunale di Varese ha fondato il suo giudizio in maniera giuridicamente più articolata, ricorrendo non solo alla questione già citata dell’assenza del dolo, ma anche a quella  della corretta qualificazione dei reati. Facendo riferimento alla giurisprudenza di legittimità (Cassazione, II n. 14817 dd. 6 marzo  2003), il Tribunale di Varese sostiene, infatti, che agli interessati non può essere addebitato il reato di truffa aggravata, ma solo quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’art. 316 ter del codice penale, introdotto dall’art. 4 della legge 29.09.2000, n. 300, in quanto la condotta incriminata è consistita nella semplice attestazione di fatti non confermi al vero, senza alcuna ulteriore condotta fraudolenta. Non essendo tuttavia l’ammontare del “bonus-bebè” superiore alla soglia minima di punibilità prevista dall’art. 316 ter comma 2 CP,  la condotta degli stranieri non ha un rilievo penale ma sarebbe sanzionabile solo in via amministrativa.  Da qui l’insussistenza del reato. (3)

 

Sebbene i provvedimenti di assoluzione debbono essere accolti positivamente, non si può mancare di rilevare come all’origine della vicenda vi sia stata una normativa discriminatoria  a danno dei cittadini stranieri extracomunitari regolarmente soggiornanti; una discriminazione che configge apertamente con i principi e gli obblighi di eguaglianza e di parità di trattamento scaturenti dal rispetto della nostra Carta Costituzionale (il cui art. 31 prevede che la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose e protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo), così come da precise norme internazionali che ai sensi degli art. 10, comma 2 e 117 comma 1 Cost. sono vincolanti per ogni legge del nostro paese (art. 18 Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, art. 10 Convenzione O.I.L. n° 143 del 26 giugno 1975, ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 158, art. 10 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali firmato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, art. 1 Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo in collegamento con l’art. 14 della Convenzione medesima).

Già la Corte Costituzionale con sentenza n. 432/2005 aveva già  avuto modo di chiarire che ogni trattamento differenziato che una norma legislativa voglia introdurre ai fini dell’ammissione ad un beneficio deve rispondere a criteri di ragionevolezza da valutarsi in relazione alle finalità e funzioni della norma medesima.  L’assegno  sul sostegno ai neonati  costituì dunque  una provvidenza a tutela dell’infanzia e della maternità, principi e valori che non ammettono  distinzioni sulla base della nazionalità, a meno che non si intenda tutelare la procreazione solo quanto essa è “etnicamente” italiana, ma un tale ragionamento e i provvedimenti che ne conseguano, si collocano certamente al di fuori del quadro costituzionale.

E’ del tutto ovvio dunque che la normativa sull’assegno ai neonati approvata con la legge finanziaria 2006, era viziata ab origine da un fondamento discriminatorio contrario ai principi e valori costituzionali.

E’ da salutare positivamente dunque la recente ordinanza del Tribunale di Biella dd. 02.01.2007 (estensore giudice Brovarone), con la quale è stato accolto il ricorso proposto da un cittadino straniero mediante azione civile contro la discriminazione ex art. 44 del T.U., contro l’esclusione dall’erogazione del  “bonus-bebè”, anche se l’approccio seguito dal giudice non appare condivisibile a chi scrive.

Il giudice di Biella, infatti, sembra sostenere che la normativa sul “bonus-bebè” non era in sé discriminatoria, sebbene facesse esplicito riferimento al requisito della cittadinanza italiana o comunitaria dell’esercente la potestà sul minore beneficiario, in quanto la norma era  suscettibile di interpretazione alla luce dell’art. 41 del  d.lgs. n. 286/98, che in materia di assistenza sociale introduce il principio di parità di trattamento con i cittadini italiani degli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno della durata di almeno un anno. Di conseguenza, il giudice di Biella conclude che ad attuare il comportamento discriminatorio è stato il Ministero dell’economia e delle finanze quando, in sede di applicazione della normativa, ha indicato nei modelli di  dichiarazione prestampati e nei fogli informativi inviati ai possibili beneficiari il requisito –giudicato restrittivo- della cittadinanza italiana o comunitaria, e quando ha poi preteso  la restituzione della somma ritenuta indebitamente versata dagli uffici postali (4) .

Muovendo dalla giurisprudenza recentemente formulata dal Tribunale di Verona (22 maggio 2006), il giudice di Biella opta per una distinzione che sussisterebbe tra prestazioni di assistenza sociale da un lato e l’assegno sociale e le prestazioni erogate nell’ambito dei servizi sociali dall’altro . Le prime ricadrebbero nelle sfere applicative dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/98, e dunque del principio di parità di trattamento con i cittadini degli   stranieri regolarmente soggiornanti con un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno; principio che avrebbe di conseguenza una copertura costituzionale per effetto della sua collocazione all’interno della legge organica sulla condizione giuridica degli stranieri e come tale, parrebbe di capire, avrebbe una capacità di resistenza anche a fonti normative successive; alle seconde, invece, farebbe riferimento l’art. 80 c. 19 della legge finanziaria 2001 (l. n. 388/2000) che come è noto, ha ristretto tale principio di parità di trattamento ai soli stranieri titolari della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno di lunga durata) “per l’assegno sociale e le prestazioni economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali”. Essendo il “bonus bebé” a tutti gli effetti una prestazione di assistenza sociale, esso ricadrebbe nelle sfere applicative dell’art. 41 del TU.

Come ritenuto anche da altri giudici di merito (vedasi Tribunale di Pistoia sentenza dd. 23 marzo 2007, commentata sopra), tale approccio non appare convincente innanzitutto perché introduce una distinzione non prevista dalla norma, la quale piuttosto valorizza la consistenza della posizione soggettiva riconosciuta dallo straniero, in secondo luogo perché non appare coerente, in quanto distinguerebbe l’assegno sociale dalle altre prestazioni assistenziali aventi natura di diritto soggettivo (ad as. Assegno o pensioni di invalidità), collocando in maniera alquanto anomala il primo assieme alla prestazioni discrezionali gestite dai servizi sociali locali. Infine, tale ragionamento è suscettibile di esiti controproducenti nel momento in cui sembrerebbe avallare la possibilità di comportamenti discriminatori su base di nazionalità da parte delle amministrazioni, innanzitutto quelle locali, nell’erogazione di prestazioni e servizi sociali, al di fuori di un quadro e criterio di ragionevolezza.

Sarebbe stato dunque assai preferibile che il giudice di Biella fosse giunto al medesimo risultato della constatazione del carattere discriminatorio del mancato accesso dello straniero alla prestazione del bonus bebè muovendo  da presupposti diversi, quali quelli della contrarietà di tale restrizione ai principi di uguaglianza e ragionevolezza richiamati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 432/2005, così come del divieto di discriminazione nella fruizione di beni patrimoniali, cui le prestazioni assistenziali sono assimilate per effetto della lettura congiunta dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e dell’art. 14 della Convenzione medesima. In tal senso, la richiamata giurisprudenza del Tribunale di Pistoia, pubblicata  sopra nel presente numero della newsletter,  appare molto più favorevole ed utile alla causa della parità di trattamento e della difesa degli stranieri dalla discriminazione.

 

Note

(1)   In proposito, vedasi, Bonus Bebè – Sentenza di assoluzione per un cittadino straniero, dal sito web: www.meltingpot.org/articolo10313.html

(2)   La sentenza è reperibile  sul sito web: www.altalex.it

(3)   Le sentenze del Tribunale di Varese possono essere scaricate dal sito web: http://www.meltingpot.org/articolo10317.html)

(4)   Si ricorda peraltro, che con l’art. 1 commi 1287 e 1288 della legge  27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria 2007), si sono dichiarate come irripetibili le somme elargite a soggetti non rientranti tra quelli legittimati alla percezione del beneficio, rinunciando dunque il Ministero delle Finanze alla restituzione delle somme.

 

L’ordinanza del tribunale di Biella dd. 02.01.2007 è consultabile sul sito del progetto Leader: www.leadernodiscriminazione.it alla finestra “Tutela giuridica/giurisprudenza”.

 

 

 

 

 

 

3.

 

Il T.A.R. Lombardia, sezione di Brescia, rinvia alla Corte Costituzionale la discussa legge regionale lombarda che, disciplinando l’attività dei “phone center”, ha introdotto regole considerate irragionevolmente restrittive e discriminatorie dagli imprenditori stranieri.

 

Il T.A.R. Lombardia, Sez. I di Brescia, con ordinanza n. 380 dd. 16 maggio 2007 (U.A. e altri – Comune di Brescia, ASL  di Brescia), ha giudicato  rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, dell’art. 9 comma 1 lett. c), e dell’art. 12 della LR 3 marzo 2006 n. 6, recante “Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa”.

Sarà dunque la Corte Costituzionale a doversi pronunciare sulla legittimità della normativa della Regione Lombardia che ha inteso disciplinare l’attività dei phone center in Lombardia, prevedendo in modo molto dettagliato i requisiti per l’esercizio di tale attività; requisiti che hanno suscitato polemiche e proteste da parte degli imprenditori stranieri esercenti tali attività, in quanto giudicati  irragionevolmente restrittivi e, pertanto, condizionati da logiche discriminatorie di natura  etnico- razziale nell’esercizio della libertà d’impresa e di iniziativa economica.

Sebbene il giudice amministrativo di Brescia non abbia voluto considerare la questione sotto il profilo specifico della normativa anti-discriminazione, non mancano nel testo dell’ordinanza considerazioni ispirate ai principi costituzionali di uguaglianza di trattamento e di ragionevolezza, che sono a fondamento delle clausole  di non-discriminazione e sulle quali vale la pena dunque soffermarsi.

 Il giudice amministrativo  rileva che la normativa regionale, disciplinando rigidamente requisiti architettonici e igienico-sanitari dei phone-center ha invaso, in maniera atipica,  il campo di competenza tradizionalmente lasciato alle amministrazioni comunali e alle Aziende Sanitarie. Fin qui nulla di illegittimo – rileva il TAR – purchè tale normativa non presenti caratteristiche di arbitrarietà e manifesta irragionevolezza  che fondino forme illegittime di disparità di trattamento, rispetto a normative disciplinanti l’esercizio dell’attività economica e d’ impresa in  altri settori.

Sotto questo profilo, un primo  profilo di irragionevolezza della norma è da individuare nel carattere retroattivo della stessa, trovando applicazione anche nei confronti degli esercizi già attivi alla data della sua entrata in vigore, e a cui è stato chiesto di adeguarsi entro un anno ai nuovi requisiti, pena la revoca dell’autorizzazione. L’ordinanza del TAR Lombardia rileva come l’assenza di ogni possibilità di graduazione o  deroga  negli interventi  di cui alla L. R. 6/2006 fonda una disparità di trattamento rispetto alla regolamentazione  di situazioni analoghe così come previsto dal Regolamento locale di Igiene per altri settori di attività commerciali.

Inoltre, gli stringenti requisiti igienico-sanitari  introdotti dalla L.R. 6/2006 generano –secondo il TAR Lombardia - un’indebita assimilazione dell’attività di phone center con  attività commerciali quali la  somministrazione di alimenti o  altri servizi, quali cinema o teatri, mentre  l’attività di phone center andrebbe  inquadrata invece nell’attività di servizio di comunicazione elettronica. Ne deriverebbe dunque che  le limitazioni in tal modo operate dalla legge regionale in questione, porrebbero questioni anche in merito alla tutela della concorrenza sul mercato comunitario. In altri termini, nella regolamentazione delle attività di phone centers, la Regione Lombardia avrebbe dovuto tenere conto della disciplina comunitaria sui servizi di comunicazione elettronica, che non ammette limitazioni alla libertà di iniziativa economica e alla concorrenza, se non per esigenze di difesa e sicurezza dello Stato, della protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell’ambiente e della riservatezza. Sotto questo profilo, l’ordinanza del TAR Lombardia si spinge ad affermare che il fatto che i gestori dei phone center siano cittadini stranieri extracomunitari non ha alcuna rilevanza ai fini di eventuali limitazioni relative ad esigenze di ordine pubblico, anche perché non vi sono norme interne che prevedano un trattamento distinto.

L’ulteriore profilo di irragionevolezza riguarda l’introduzione di standard igienico-sanitari nella L. R. 6/2006 che assimilano i phone center alle attività di somministrazione di alimenti e bevande  ovvero ad attività di gestione e somministrazione di servizi di spettacolo quali cinema e teatri, quando, nel primo caso, si vietano nel contempo a tali esercizi qualsiasi altra attività, ivi compresa quella  di somministrazione di alimenti, mentre, nel secondo caso, non si tiene conto di un livello di frequentazione e dei tempi di permanenza  del pubblico di gran lunga inferiori a quello  degli esercizi citati.

 Per tale complesso di ragioni, il TAR Lombardia ha chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della legge regionale lombarda sui phone-center, sostenendo che essa ponga in essere una violazione irragionevole  e contraria ai principi della buona amministrazione dei valori costituzionali di uguaglianza e parità di trattamento in relazione all’esercizio dei diritti fondamentali alla libertà d’impresa e di iniziativa economica, nonché eccede alla potestà legislativa della regione in una materia disciplinata dalla normativa comunitaria e nazionale.

 

 

Il testo dell’ordinanza del Tar Lombardia, Sez. I di Brescia [ Ordinanza n. 380 del 16 maggio 2007, Pres. Morri, Rel. Pedron. U.A. ed altri – Comune di Brescia, ASL di Brescia] può essere scaricato dal file GIURISPRUDENZA nel sito del progetto Leader: www.leadernodiscriminazione.it

 

 

 

 

 

 

 

4.

 

 Uguaglianza di trattamento nell’accesso alle misure alternative alla detenzione. Anche gli stranieri irregolari hanno la possibilità di fruire della misure alternative alla pena detentiva.

Commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 78 dd. 5 marzo 2007 a cura dell’avv. Marco Paggi dell’ASGI (tratto dal sito web: www.meltingpot.org )

 

La sentenza n. 78 del 5 marzo 2007 emessa dalla Corte Costituzionale, è stata depositata il 16 marzo scorso e si esprime in merito alla questione di legittimità costituzionale della normativa in materia di ordinamento penitenziario (legge 354/75 e successive modifiche ed integrazioni) che disciplina anche la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione, in relazione alla condizione giuridica dello straniero.
Una ordinanza del 24 maggio 2005 del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della normativa vigente con riferimento particolare alla esclusione dalla possibilità di fruire di misure alternative da parte di cittadini stranieri privi di un regolare permesso di soggiorno.

L’ ordinanza della Corte di Cassazione


Secondo una ordinanza della Corte di Cassazione, che aveva ritrasmesso gli atti al Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, la condizione di straniero irregolarmente soggiornante sarebbe incompatibile con la possibilità di fruire delle cosiddette misure alternative, in questo caso dell’affidamento in prova al servizio sociale, perché si tratta di una forma di espiazione della pena che non viene scontata fisicamente all’esterno del carcere.
La questione di diritto, molto interessante, sta proprio nella supposta discriminazione che è stata ravvisata dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari tra i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, i cittadini italiani, i cittadini comunitari, ed invece i cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno che sarebbero, a giudizio della Corte di Cassazione, esclusi dalla possibilità di fruire delle misure alternative alla detenzione in quanto la condizione di irregolarità del soggiorno sarebbe concettualmente incompatibile con la possibilità di soggiornare, seppur temporaneamente, in territorio italiano, allo scopo di attuare la misura alternativa alla detenzione.
La sentenza afferma che il “clandestino” può stare in carcere, pur non avendo diritto al soggiorno in Italia, mentre nel momento in cui risulta ammessa la misura alternativa alla detenzione, questa, sarebbe incompatibile con la condizione di irregolarità.
Questa forma di espiazione della pena, regolata in via generale dalla legge, non sarebbe ammissibile per lo straniero irregolare, che potrebbe stare in Italia solo in condizione di detenzione e non potrebbe invece fruire di nessuna misura ad essa alternativa.
Secondo la Corte di Cassazione, la condizione di soggiornante irregolare, sarebbe di per sé, senza particolari motivazioni aggiuntive, incompatibile con la ammissione alle misure alternative.

La garanzia del principio della funzione rieducativa della pena

Il Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, con ordinanza del 24 maggio 2005, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, ovvero, si è rivolto alla Corte Costituzionale chiedendo di pronunciarsi sulla compatibilità tra le norme che regolano il trattamento penitenziario e le misure alternative, rispetto a quanto stabilito dall’art. 27 della Costituzione, che sancisce il principio della funzione rieducativa della pena. La condanna da scontare, nelle varie forme previste dalla legge, ha una funzione rieducativa, questa verrebbe pregiudicata nei confronti dello straniero irregolare che non potesse fruire, con le stesse modalità e le stesse forme degli altri cittadini condannati, delle misure alternative alla detenzione.
Numerose sentenze della Corte di Cassazione, che è il massimo organo della giurisdizione in Italia, hanno trattato questo argomento con orientamenti difformi. Le Sezioni Unite della Cassazione si sono successivamente pronunciate nel senso esattamente opposto rispetto alla sentenza che, invece, ritenendo incompatibile con la condizione di irregolare soggiorno la fruibilità di misure alternative, aveva dato luogo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari.

La questione di legittimità costituzionale

La Corte di Cassazione Sezione Unite, con la successiva sentenza n. 14500 del 28 marzo 2006, è tornata sull’argomento, riconoscendo invece, con maggiore autorevolezza, che la condizione di irregolarità del soggiorno non osterebbe, in linea di principio, alla concessione di misure alternative.
La questione di legittimità costituzionale precedentemente sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari è comunque pervenuta all’esame dalla Corte Costituzionale che si è pronunciata sulla questione con la Sentenza del 5 marzo 2007 depositata il 16 marzo.
La sentenza merita un commento in quanto la Corte Costituzionale ha messo un punto fermo, aggiungendo la propria interpretazione, e confermando quella già fatta propria dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 354/75 ove risultino interpretati nel senso che, allo straniero entrato irregolarmente nel territorio dello Stato, o comunque privo di permesso di soggiorno, siano precluse le misure alternative da essi previste.
Nessuna autorità giudiziaria, in seguito a questa sentenza, potrà più affermare l’impossibilità di ammettere lo straniero, condannato e detenuto, alle misure alternative, per il solo fatto che egli risulti irregolarmente soggiornante fin dall’inizio del suo soggiorno in Italia, o che, come più spesso accade, sia divenuto irregolarmente soggiornante anche a seguito dei trascorsi giudiziari che lo hanno portato in carcere. In nessuno di questi casi si potrà escludere, in linea di principio, l’ammissibilità alle misure alternative, pertanto, lo straniero extracomunitario che sia privo o meno di permesso di soggiorno, avrà la stessa legittimazione a proporre, tramite il proprio difensore, la domanda di applicazione di una misura alternativa o di più misure alternative, alle stesse condizioni previste per un cittadino italiano.

Rimangono difficoltà pratiche

Nella pratica si verifica che, per lo straniero in condizione irregolare, è molto più difficile ottenere il riconoscimento di una misura alternativa, perché, normalmente, ha una minore possibilità di difesa tecnica, cioè minori possibilità di pagare un avvocato e di essere assistito in maniera puntuale, meno radicamento nel territorio, meno riferimenti esterni rispetto al carcere, con conseguenti maggiori difficoltà, ad esempio, a trovarsi un’occupazione o un alloggio, condizioni essenziali per l’ammissibilità della richiesta di alcune misure alternative.

Non sono ammissibili discriminazioni nell’applicazione delle misure alternative di espiazione della pena

A prescindere da questi problemi pratici, seppur non di poco conto, dal punto di vista giuridico, questa sentenza mette fine alle controversie sull’ammissibilità o meno delle persone senza documenti alle misure alternative, riconoscendo che il principio garantito a livello costituzionale, della funzione rieducativa della pena, si deve applicare totalmente, ed in piena coerenza, anche ai cittadini stranieri privi di un regolare permesso di soggiorno. La Corte Costituzionale, in una delle ultime frasi della sentenza, precisa che il legislatore potrebbe in linea teorica diversificare le forme sanzionatorie previste, nel caso di stranieri entrati irregolarmente nel territorio dello Stato, o privi di permesso di soggiorno, ma senza potersi spingere fino al punto di sancire un divieto assoluto e generalizzato di accesso alle misure alternative nei termini automatici della cosiddetta incompatibilità concettuale, fatti propri dalla Corte di Cassazione nella sentenza citata e che aveva dato luogo al procedimento. Un simile divieto contrasterebbe, secondo la Corte Costituzionale, con i principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che, sulla base del principio dell’uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena, non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento, sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale.

La Corte precisa inoltre che non può trovare spazio nel nostro ordinamento costituzionale una incompatibilità concettuale tra le misure alternative e il soggiorno irregolare, dal momento che la mancanza di un titolo abilitativo al soggiorno, di per sé, non è sintomatica in modo univoco né di una particolare pericolosità sociale, che sarebbe quindi incompatibile con il perseguimento di un percorso rieducativo attraverso qualsiasi misura alternativa, né della sicura assenza di un collegamento col territorio, che garantisca la proficua applicazione della misura medesima.
In conseguenza di questo automatismo che sarebbe stato applicato dalla Corte di Cassazione vengono quindi ad essere accomunate situazioni eterogenee; in altre parole, se fosse vero, come ha sostenuto la Corte di Cassazione, che la condizione di irregolarmente soggiornante è incompatibile con qualsiasi misura alternativa, si verrebbe ad assoggettare alle stesse misure esclusive una serie di situazioni soggettive diversificate, come ad esempio, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale, quella dello straniero entrato clandestinamente nel territorio in violazione del divieto di reingresso, e detenuto proprio per questo motivo, o quella dello straniero che abbia semplicemente omesso di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno e che sia detenuto per un reato che non riguarda la normativa in materia di immigrazione.
Si tratta di situazioni completamente diverse, che verrebbero appiattite in un identico trattamento di esclusione, e questo non avrebbe nessuna ragione dal punto di vista delle misure alternative che è appunto quello di rieducare e non quello di affliggere o punire ulteriormente lo straniero detenuto.

La condizione di persona soggetta all’esecuzione di una pena costituisce il titolo di soggiorno

In merito alla incompatibilità tra la normativa e il Testo Unico sull’immigrazione, ovvero tra la condizione di straniero irregolarmente soggiornante e l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, che costituirebbe l’argomento fondante di questa esclusione disposta a suo tempo dalla Corte di Cassazione, proprio la condizione di persona soggetta all’esecuzione della pena costituisce il titolo di soggiorno. Secondo quando affermato dalla Corte Costituzionale, quando una persona è sottoposta all’espiazione di una pena in Italia è obbligata a soggiornarvi. Il fatto di essere sottoposti all’espiazione della pena, nel tempo della sua durata, comporta un obbligo di soggiorno sul territorio nazionale. La pena stessa costituisce il titolo di soggiorno che, non solo autorizza, ma obbliga al soggiorno sul territorio italiano. Se questo è vero, secondo la Corte Costituzionale, non vi sarebbe un’incompatibilità fra la condizione di irregolare e la condizione di soggetto che chiede l’applicazione di misure alternative, poiché i presupposti che giustificano la detenzione in carcere sono gli stessi che dovrebbero giustificare, di fronte ai requisiti previsti dalla legge, la fruizione delle misure alternative.
La Corte Costituzionale ha con questa sentenza messo fine a qualsiasi controversia al riguardo e si può dire che lo straniero irregolare non è escluso dalle misure alternative.
La decisione riporta la situazione ad un minimo di parità di trattamento dal punto di vista dello straniero condannato rispetto ai cittadini italiani o rispetto ai cittadini regolarmente soggiornanti, nel senso che tutti, almeno in astratto e salvo i problemi pratici e sostanziali ai quali si è fatto riferimento, potrebbero essere ammessi alle stesse misure.

Dopo l’espiazione della pena riprende il procedimento di espulsione

È utile specificare che, nel momento in cui la pena cessa, e con essa la misura alternativa, con completa espiazione della pena, lo straniero che si trovava in condizione di irregolare soggiorno prima di essere arrestato e condannato, rimane irregolarmente soggiornante. Il fatto di aver compiuto un reato ed espiato la relativa pena non innesca una procedura di regolarizzazione; a quel punto può riprendere corso il normale trattamento sanzionatorio previsto dalla legge per lo straniero irregolarmente soggiornante, quindi l’espulsione. Naturalmente, la sentenza si occupa soltanto di stabilire un principio di non discriminazione, di fronte alla Costituzione, tra cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno e cittadini con permesso di soggiorno o italiani, sotto il profilo dell’uguale trattamento nell’ambito della espiazione della pena, sia quella scontata in condizioni di detenzione, ma anche quella scontata secondo le misure alternative disciplinate dalla legge. La questione riguarda solo questo aspetto, non può cioè far sollevare allarme a chi volesse sostenere che la Corte Costituzionale intenda favorire la permanenza di stranieri irregolari sul territorio italiano.
Resta infatti chiaro che, una volta terminata l’espiazione della pena, anche sotto forma alternativa, la condizione di irregolarità del soggiorno non può che dar luogo al provvedimento di espulsione.

I casi particolari di inespellibilità

L’espulsione non può essere eseguita solo nei casi particolari e rari previsti dalle legge, in cui vi siano condizioni oggettive o soggettive dello straniero che consentano la permanenza sul territorio italiano.
In base all’art.19 del T.U., uno straniero irregolarmente soggiornante è inespellibile nel caso in cui corra il rischio di subire persecuzioni, trattamenti disumani o degradanti, nel proprio paese di origine, o nel paese in cui dovrebbe essere inviato a seguito del provvedimento di espulsione.
Ancora, l’espulsione non può avere luogo nel caso di persone che siano conviventi con cittadini italiani, o coniugi, o parenti entro il quarto grado. Nel caso in cui vi sia convivenza con persone aventi queste caratteristiche, l’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione, prevede il divieto di espulsione, salvo che la persona non risulti pericolosa per la sicurezza dello Stato, o l’ordine pubblico. In questo caso, nonostante la condizione irregolare di soggiorno, l’applicazione di questa norma, che prevede il divieto di espulsione in relazione a particolari rapporti di parentela o di matrimonio con cittadini italiani e alla convivenza con questi, permette di autorizzare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di famiglia valido anche per lavoro.
La giurisprudenza, sia pure in pochi casi sinora, ha anche elaborato in via interpretativa la inespellibilità per motivi di salute, quando l’esecuzione dell’espulsione potrebbe esporre lo straniero al rischio di morte o aggravamento della malattia, a fronte della particolare condizione condizione di salute e della necessità di cure non disponibili nel paese di destinazione (ad es. persone affette da AIDS o in attesa di trapianto di organi). Inoltre, il D.Lgs. n°5/2007, che recepisce a direttiva UE n°86/2003, avrebbe fatto venir meno l’automatismo dell’espulsione, cui si dovrebbe sostituire una attenta valutazione caso per caso, nel caso di persone che abbiano altri familiari in Italia, sicché anche nel caso di stranieri condannati per delitti, la valutazione della presenza di altri familiari e del loro grado di integrazione nel territorio potrebbe comportare una decisione favorevole sulla domanda di rinnovo del permesso di soggiorno come pure la revoca del provvedimento di espulsione, nonostante le specifiche circostanze ostative previste dall’art.4 comma 3 del T.U.. Va detto, però, che l’interpretazione di questa norma di recentissima introduzione nel nostro ordinamento non è ancora chiara, come poco chiare risultano pure le scarne circolari al riguardo, e soprattutto la sua applicazione non risulta ancora “assimilata” dalle questure, quindi non è possibile per il momento tracciare con qualche seria approssimazione la sua portata effettiva dal punto di vista pratico. Escludendo questi rari casi, la condizione del cittadino irregolare, terminata l’espiazione della pena, riprende il suo normale corso dal punto di vista dell’applicazione del sistema sanzionatorio.

Il procedimento di espulsione e la vanificazione dei processi di reinserimento

La condizione dello straniero che viene condannato e incarcerato e poi partecipa a un programma di rieducazione con attività partecipativa valutata positivamente, e che successivamente beneficia di misure alternative, comportandosi bene, e dimostrando capacità e volontà di reinserimento nel territorio, anche nei casi di persone da molti anni in Italia, in possesso di regolare permesso di soggiorno perso proprio a causa di successive vicende giudiziarie, preoccupano chi opera all’interno della struttura penitenziaria.
In particolare, chi opera nei servizi sociali e nei progetti di reinserimento sociale, ritiene che, questo sistema, faccia venir meno gli strumenti di governo del fenomeno e anche di incentivo alla rieducazione dei soggetti.
E’ evidente che, se non c’è la possibilità di prospettare ad una persona che si comporta bene, e che partecipa a un progetto di rieducazione, non solo la possibilità ma nemmeno la speranza di continuare a vivere nel territorio in cui ormai si è radicato, dove il soggetto ha stretto una rete di relazioni umane, affettive e di lavoro, ben difficilmente si potrà sperare nella collaborazione di ampi strati della popolazione penitenziaria.
Se non per motivi di giustizia per lo meno per motivi di pragmatismo, gli operatori del settore si sentono fortemente a disagio perché vedono vanificato il lavoro di facilitazione e di promozione del reinserimento sociale e della rieducazione del detenuto, ogni qual volta il percorso viene interrotto, ed una volta espiata la pena lo straniero si trovi ad essere espulso.
L’ auspicio è che si possa almeno prendere in considerazione, nell’ambito di una valutazione discrezionale da parte degli stessi servizi dell’amministrazione penitenziaria che sono preposti all’applicazione delle misure alternative, la possibilità di misure pur discrezionali di reinserimento e di risocializzazione dei condannati, che consentano di regolarizzare, in particolari condizioni, la situazione di soggiorno; in particolare nei casi in cui la persona viva da molti anni in Italia, non conservi più alcun legame con familiari, parenti e la comunità del proprio paese, che, dopo un episodio giudiziario che lo ha portato a una condanna, abbia partecipato fattivamente e con buoni risultati valutati dall’amministrazione penitenziaria a un processo di riabilitazione.

Al riguardo si registra un diffuso disagio a tutti i livelli degli operatori dell’amministrazione penitenziaria, che sarebbe bene fosse espresso e debitamente portato a conoscenza dell’amministrazione centrale.

Revoca del pds in seguito a condanna penale

La legge Bossi-Fini ha ulteriormente appesantito le conseguenze per il permesso di soggiorno a fronte di condanne penali, introducendo un vero e proprio automatismo: infatti, il nuovo testo che è stato introdotto dalla legge Bossi Fini nel 2002 (art. 4, comma 3 del T. U. sull’Immigrazione) prevede che, in via automatica, lo straniero che risulti condannato per una serie di reati, con sentenza definitiva, non possa più rinnovare il permesso di soggiorno e anzi, che questo, se in corso di validità, debba essere revocato da parte dell’autorità di polizia. Questa norma, stabilita dalla legge Bossi-Fini, legge 189 del 2002, ha suscitato serie preoccupazioni proprio perché, a fronte di questo automatismo, in caso di condanna, anche a seguito di semplice patteggiamento, automaticamente e senza possibilità di effettuare una valutazione caso per caso, si prevede di fatto l’ingresso nella clandestinità e la successiva espulsione.
Da un lato, dunque, chi era clandestino al momento dell’arresto, o lo è divenuto successivamente, una volta espiata la pena deve essere espulso. Dall’altro abbiamo una norma che, in caso di condanna, automaticamente produce la clandestinità dello straniero, nel senso che comporta obbligatoriamente la revoca dell’eventuale permesso di soggiorno che precedentemente fosse in suo possesso.
Quando uno straniero entra in carcere, se prima era clandestino rimane tale, e successivamente all’espiazione della pena viene espulso. Se invece non era clandestino lo diventa, e quindi viene comunque espulso una volta espiata la pena. Questo in relazione ad una lunga serie di reati, senza distinguere nemmeno in relazione alla loro gravità. Addirittura reati che di fatto non comportano una effettiva detenzione, reati per i quali si applica la sospensione condizionale della pena, possono esporre lo straniero, a seguito della sentenza divenuta definitiva, alla perdita del permesso di soggiorno e alla successiva espulsione.

L’elenco dei reati che viene contemplato dall’art. 4, comma 3, del T.U. è molto lungo, comprende anche reati di modestissima entità, anche sottoposti ad un accertamento puramente formale, ad esempio nel caso di patteggiamento: in questo caso, la condanna non viene irrogata dopo un effettivo accertamento compiuto nel dibattimento, bensì in base al meccanismo della richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato (talvolta incautamente consigliata dal difensore, magari nominato d’ufficio, senza tener conto delle conseguenze sul piano amministrativo.

La lista dei reati che comportano questa conseguenza della perdita del permesso di soggiorno una volta venuta definitiva la sentenza di condanna, è molto lunga. Sono tutti i reati previsti dall’art. 380 commi 1 e 2 del Codice di Procedura Penale, che comprende tutti i reati per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, è sufficiente la condanna per un reato di modestissima entità (furto con scasso di una bicicletta) per subire come effetto automatico, in base al nuovo testo introdotto dalle legge Bossi- Fini, la perdita del permesso di soggiorno e la successiva espulsione. In questa lista rientrano anche reati di maggiore gravità, come quelli in materia di stupefacenti, in materia di libertà sessuale, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e in materia di sfruttamento della prostituzione, che, ovviamente, possono avere diverse intensità e gravità. In questi casi appunto, la legge ora prevede una sorta di automatismo.
È un automatismo che suscita qualche perplessità, proprio riguardo alla indiscriminata applicazione dello stesso trattamento, a prescindere dalla gravità del fatto commesso, e soprattutto senza che vi sia alcun potere o dovere di valutazione del caso concreto, ma un’applicazione semplicemente e puramente automatica.

 

 

 



 

 

 

ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE E SITI INTERNET IN MATERIA DI NON-DISCRIMINAZIONE

 

 

Organizzazioni non governative attive nel contrasto alle discriminazioni etnico-razziali negli Stati dell’Europa orientale membri dell’Unione Europea .

 

 

Bulgarian Helsinki Committee  (Comitato di Helsinki della Bulgaria)

www.bghelsinki.org

 

Nato nel 1992 come organizzazione non governativa per la promozione dei diritti umani, il Bulgarian Helsinki Committee (BHC) si pone come obiettivo principale il rispetto del principio di non discriminazione e la sua applicazione pratica attraverso l’attuazione della legislazione internazionale e lo sviluppo della legislazione interna. Sin dal 1995, il BHC ha sviluppato un programma di contrasto alle discriminazione  e ha vinto molte importanti cause legali, in Bulgaria e in altri paesi, su tematiche come l’eccessivo uso della forza da parte della polizia, le discriminazioni in vari settori e le restrizioni alla libertà religiosa.

 

 

 

Center for Legal Resources, Romania

www.crj.ro

 

Il Center for Legal Resources è una delle principali organizzazioni che si occupano di lotta alle discriminazioni in Romania. La sua attività mira a costituire un quadro legislativo e istituzionale che permetta il godimento del diritto alla parità di trattamento attraverso il miglioramento della legislazione anti-discriminazione a livello nazionale, la corretta applicazione della normativa nazionale ed internazionale, l’aumento della consapevolezza sul fenomeno in generale e la pressione sulle autorità per indurle a prendere una posizione contro politiche, atti o affermazioni razziste.

 

 

Poradna – Centro per i diritti umani e civili, Repubblica di Slovacchia

www.poradna-prava.sk

 

Poradna pre Obcianske a ludske prava è un’organizzazione non governativa creata nel 2001, con sede a Kosice, che lavora per il contrasto alla discriminazione razziale e per la protezione dei diritti delle minoranze, in particolare della minoranza Rom, numerosa nella Slovacchia orientale. Porodna porta avanti progetti e programmi di ricerca, advocacy e supporto in cause legali strategiche, mirando soprattutto a conseguire cambiamenti sistematici nelle pratiche e nelle procedure e ad ottenere risarcimenti per le vittime delle discriminazioni.

 

 

 

 

 

 

 

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 

1.

 

Daniele MAFFEIS, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione,
GIUFFRE' EDITORE  (2007)
Series Universita' degli Studi di Milano-Facolta' di Giurisprudenza-Studi di Diritto Privato

                   
 
 
                    INDICE SOMMARIO
                           
 
 
                               CAPITOLO I
              QUALITA' PERSONALI DELLA CONTROPARTE,
    PRECONCETTO DEL CONTRAENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE
1.    La tradizionale rilevanza delle qualita' personali della
      controparte contrattuale e la recente introduzione del
      divieto legislativo di discriminazione nel contratto          1
2.    La discriminazione negli spunti rapidi e discontinui della
      dottrina del contratto                                       18
3.    La nascita del diritto contrattuale antidiscriminatorio. Il
      divieto di discriminazione e la politica di integrazione
      nel quadro del diritto antidiscriminatorio europeo           25
      3.1.  La distinzione tra divieto di discriminazione e
            principio di uguaglianza davanti alla legge            30
      3.2.  La scelta legislativa di fare del contratto uno
            strumento di integrazione                              31
      3.3.  Il contraente privato come possibile soggetto attivo
            della discriminazione                                  34
      3.4.  Nozione di discriminazione nel contratto: condotta
            discriminatoria e preconcetto del contraente           36
      3.5.  La giustificazione politica del divieto di
            discriminazione                                        41
4.    La pretesa antinomia tra liberta' contrattuale e divieto di
      discriminazione. Critica                                     46
                          CAPITOLO II
              RILEVANZA ECCEZIONALE E SIGNIFICATO
                DELLA DISPARITA' DI TRATTAMENTO
1.    Significato del sintagma "parita' di trattamento" nella
      legislazione comunitaria: la rilevanza del confronto fra i
      trattamenti delle diverse controparti                        57
2.    La perdurante inesistenza di un divieto di disparita' di
      trattamento                                                  72
      2.1.  L'inesistenza di un divieto di disparita' di
            trattamento come strumento di rimozione della
            disuguaglianza di fatto delle controparti              76
      2.2.  L'inesistenza di un divieto di disparita' di
            trattamento come strumento di tutela del
            consumatore                                            82
            2.2.1. Parita' e disparita' spontanea nel trattamento
                   dei consumatori                                 82
            2.2.2. L'equivoco della parita' come strumento di
                   tutela: l'uguaglianza dei consumatori nella
                   soggezione                                      85
            2.2.3. Tutela dei consumatori ed eterointegrazione
                   del contratto                                   94
            2.2.4. Il problema degli ostacoli alla trattativa
                   individuale dei consumatori                     97
            2.2.5. Parita' di trattamento ed uguaglianza dei
                   consumatori davanti alla legge                 101
            2.2.6. Conclusioni sulla liceita' della disparita' di
                   trattamento nei contratti dei
                   consumatori                                    105
      2.3.  L'inesistenza di un divieto di disparita' di
            trattamento nei contratti della pubblica
            amministrazione                                       105
3.    Il pericolo di esclusione dal mercato e l'eccezionale
      divieto del trattamento ingiustificatamente peggiore
      dell'impresa in situazione di dipendenza economica          110
                          CAPITOLO III
       CARATTERI GENERALI DELLE LEGGI ANTIDISCRIMINATORIE
1.    Varieta' dei fenomeni di esclusione sociale e dei fattori
      di discriminazione e categorie ordinanti del diritto
      privato                                                     121
      1.1.  Il modello equal opportunity nell'accesso alla
            proprieta' e l'irrilevanza del mistake sugli
            attributes della controparte contrattuale negli Stati
            Uniti d'America                                       123
      1.2.  Il risalente Race Relations Act e l'irrilevanza del
            mistake sugli attributes nel Regno Unito              126
      1.3.  I precedenti giurisprudenziali sulla discriminazione
            come limite alla liberta' contrattuale e l'entrata in
            vigore delle leggi antidiscriminatorie in
            Francia                                               127
      1.4.  L'esitazione della dottrina tedesca e la forte
            resistenza del legislatore al riconoscimento di un
            divieto di discriminazione                            129
      1.5.  Brevi cenni sullo stato di recepimento della
            Direttiva 2000/43/CE in altri paesi dell'Unione
            Europea                                               135
2.    Carattere esclusivo della legislazione dello Stato ed
      esclusione della potesta' legislativa delle regioni         137
3.    Soggetto attivo e soggetto passivo della
      discriminazione                                             140
      3.1.  Ambito soggettivo di applicazione                     140
            3.1.1. Il contraente, soggetto attivo della
                   discriminazione nell'alienazione o
                   nell'acquisto di beni e nella prestazione o
                   nell'acquisto di servizi                       140
            3.1.2. La controparte contrattuale, soggetto passivo
                   della discriminazione                          145
      3.2.  L'eccezione del trattamento dello straniero non
            regolarmente soggiornante in Italia: accesso
            all'alloggio e condizione di reciprocita'             151
4.    La natura dell'atto discriminatorio                         158
      4.1.  Distinzione tra discriminazione ed emulazione         158
      4.2.  Il carattere determinante del consenso in via
            esclusiva della qualita' personale e la natura di
            illecito di dolo generico                             159
      4.3.  Qualita' della persona e qualita' della
            prestazione                                           165
      4.4.  La prova del carattere determinante del consenso in
            via esclusiva della qualita' personale                171
5.    La liceita' del rifiuto, individuale o concertato, di
      acquisto da parte del consumatore ed il
      boicottaggio                                                176
                          CAPITOLO IV
          IL PRINCIPIO GENERALE DI NON DISCRIMINAZIONE
1.    Verso un principio generale di non discriminazione: dagli
      spunti della dottrina alla Carta di Nizza                   179
2.    Il presupposto della diffusione sociale del fenomeno e la
      natura di illecito di dolo generico                         184
3.    Applicazioni notevoli                                       191
      3.1.  Banche e fondi etici                                  191
      3.2.  Le opinioni politiche della controparte
            contrattuale                                          194
                           CAPITOLO V
        OFFERTA O INVITO RIVOLTI AL PUBBLICO, SVOLGIMENTO
    DELLA TRATTATIVA E FORMAZIONE DEL CONTRATTO: IL RIFIUTO
           DI TRATTARE O DI CONTRATTARE E LA PROPOSTA
      O LA PREDISPOSIZIONE DI CONDIZIONI PIU' SVANTAGGIOSE
1.    Il messaggio pubblicitario                                  199
2.    I contratti di scambio e l'applicazione del divieto di
      discriminazione alle dichiarazioni al pubblico ed ai
      contratti conclusi a seguito di un'offerta o di un invito
      ad offrire o a manifestare interesse rivolti al pubblico. I
      contratti associativi e l'applicazione del divieto di
      discriminazione alle clausole statutarie che regolano le
      condizioni di ammissione                                    203
      2.1.  Contratti di scambio e dichiarazioni al
            pubblico                                              203
      2.2.  Contratti associativi e condizioni di
            ammissione                                            214
3.    La liceita' della discriminazione nella trattativa
      individualizzata                                            215
4.    Il carattere limitato dei beni o dei servizi offerti al
      pubblico. Scelta del dichiarante tra piu' accettazioni
      contemporanee e mancata conclusione del contratto per
      esaurimento dei beni o dei servizi                          218
5.    Inesistenza di un vincolo di parita' di trattamento nelle
      trattative a carico del contraente                          225
6.    La disciplina preventiva di protezione dei dati
      sensibili                                                   229
7.    La proposta o la predisposizione di condizioni piu'
      svantaggiose. Pretesa manifestata nel corso della
      trattativa. Inserimento nel contenuto del contratto         230
8.    Il contratto discriminatorio e l'inserimento di condizioni
      piu' svantaggiose                                           235
      8.1.  Carattere normativo o economico delle
            condizioni                                            235
      8.2.  Carattere solo eventuale del vantaggio per il
            contraente. Il carattere piu' vantaggioso alla luce
            del complessivo assetto di interessi del singolo
            contratto                                             236
9.    Il contratto discriminatorio ed il mancato inserimento di
      condizioni piu' vantaggiose                                 239
10.   La distinzione tra manifestazione del pensiero ed ordine di
      discriminare                                                241
                          CAPITOLO VI
      ESECUZIONE DEL CONTRATTO: LA SCELTA SE, COME, QUALE
     DEBITO ADEMPIERE E L'ESERCIZIO DEI POTERI CONTRATTUALI
1.    Per l'effettivita' della tutela                             245
2.    Il rifiuto di adempiere                                     250
3.    La scelta come adempiere le prestazioni di cose di genere e
      le prestazioni di fare. In particolare la prestazione di
      qualita' media, inferiore allo standard del
      debitore                                                    251
4.    La scelta quale debito adempiere nel caso di impossibilita'
      sopravvenuta di adempiere tutte le prestazioni              253
      4.1.  Esclusione della facolta' di non eseguire alcuna
            delle prestazioni                                     258
      4.2.  Critica del criterio della priorita' della data di
            conclusione                                           259
      4.3.  Critica del criterio dell'esecuzione parziale delle
            prestazioni e della teoria comunitaria della parita'
            di trattamento                                        260
      4.4.  Critica del criterio dell'esecuzione della
            prestazione di contenuto piu' ampio                   261
      4.5.  La responsabilita' del debitore per inadempimento e
            la scelta quale debito adempiere come possibile
            elemento di un illecito discrimina torio              262
5.    L'esercizio dei poteri contrattuali                         267
                          CAPITOLO VII
                             RIMEDI
1.    Considerazioni d'insieme                                    271
2.    Rilevanza economica del contratto                           274
3.    Rifiuto di contrattare e sentenza che produce gli effetti
      del contratto                                               277
4.    Proposta o predisposizione di condizioni piu' svantaggiose
      e mancata proposta o predisposizione di condizioni
      vantaggiose                                                 283
      4.1.  Pretesa manifestata nello svolgimento della
            trattativa                                            283
      4.2.  Inserimento di una condizione piu' svantaggiosa e
            rettifica                                             285
      4.3.  Mancato inserimento di una condizione vantaggiosa ed
            integrazione                                          287
5.    Legittimazione all'esercizio dell'azione risarcitoria.
      Termine di prescrizione e decorrenza                        287
6.    Il risarcimento per equivalente dell'ulteriore danno
      patrimoniale e del danno non patrimoniale e la lesione
      dell'identita' personale                                    288
      6.1.  L'ulteriore danno patrimoniale ed il danno non
            patrimoniale                                          288
      6.2.  Il preconcetto del contraente e l'identita' personale
            della controparte contrattuale                        294
7.    La responsabilita' personale di chi agisce in nome o per
      conto del soggetto collettivo                               296
8.    La legittimazione ad agire delle associazioni e degli enti
      iscritti nell'elenco a cura del Ministro del lavoro e del
      Dipartimento per le pari opportunita' istituito presso la
      Presidenza del Consiglio dei Ministri. La legittimazione ad
      agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti e
      delle associazioni di promozione sociale                    297
9.    I possibili indizi della discriminazione e l'evidenza
      statistica dell'intento discriminatorio                     303
10.   Efficacia erga omnes dell'offerta o dell'invito rivolti al
      pubblico discrimina tori                                    310
11.   Discriminazione nell'esecuzione del contratto               311
12.   Nullita' dei patti che vincolino all'attuazione di
      comportamenti discrimina tori                               313
      12.1. Le fattispecie                                        313
      12.2. La nullita'                                           316
      12.3. Discriminazione, buon costume e morale
            sociale                                               320
13.   Nullita' degli ordini di discriminare e responsabilita'
      dell'autore                                                 322
14.   Inapplicabilita' in via analogica dei rimedi speciali
      dettati dalle leggi antidiscriminatorie alla violazione del
      principio generale di non discriminazione                   323
                          CAPITOLO VIII
          APPLICAZIONI DEL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE
1.    Contratti bancari: la discrezionalita' nella concessione
      del credito                                                 331
2.    Contratti di assicurazione: rischio e divieto di
      discriminazione nella determinazione dei premi              336
3.    Acquisizione della legittimazione all'esercizio dei diritti
      sociali e limiti di validita' delle clausole statutarie di
      gradimento e di prelazione e dei patti parasociali          340
      3.1.  Clausole di gradimento non mero                       340
      3.2.  Clausole di mero gradimento e di prelazione           346
      3.3.  Patti parasociali che pongono limiti al trasferimento
            della partecipazione                                  347
4.    Carattere discriminatorio dei requisiti per l'ammissione di
      nuovi soci di societa' cooperative                          348
5.    Limiti alla discrezionalita' degli amministratori
      nell'accettazione dell'adesione ad associazioni
      riconosciute e non riconosciute                             350
6.    Le gratuita' (non liberali): comodato, trasporto gratuito e
      prelazione gratuita                                         354
      6.1.  Comodato                                              356
      6.2.  Trasporto gratuito                                    356
      6.3.  Prelazione gratuita                                   357
7.    La promessa al pubblico                                     357
      7.1.  Limiti di liceita' della scelta dei destinatari della
            promessa                                              358
      7.2.  Insindacabilita' della scelta delle situazioni o
            delle azioni da premiare                              359
8.    Liceita' della discriminazione nella scelta dell'arbitro.
      La possibile discriminazione nel reperimento di arbitri da
      parte delle camere arbitrali                                360
                          CAPITOLO IX
                          CONCLUSIONI
1.    Sintesi delle conclusioni                                   365
Bibliografia                                                      389
Indice analitico-alfabetico                                       411
 

 

 

 

 

 

 

 

2.

 

Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità – UNAR Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, Un anno di attività contro la discriminazione razziale. Rapporto 2006, dic. 2006.

 

Il Rapporto sulle attività compiute nel corso del 2006 dall’UNAR, l’Autorità italiana contro le discriminazioni etnico-razziali costituita ai sensi della normativa di recepimento della direttiva europea n. 2000/43.

 

 

 



[1] In tale direzione anche  Cass., S.U., 17.2.1975, n. 618, secondo cui si è in presenza, infatti,  di rapporto di pubblico impiego quando ricorrono determinate condizioni, tra le quali quella che il datore di lavoro sia pubblico, ossia lo Stato o un ente pubblico autarchico; si veda anche Cass. Civ. sez. unite, 01.10.2003, n. 14672: …”… tra i provvedimenti con i quali gli enti pubblici economici esprimono la loro natura pubblica non sono annoverabili quelli concernenti la gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti ( anche nella fase di assunzione a seguito di concorso), che vengono  emessi nell’esercizio di un’attività privatistica propria di ciascun imprenditore”. Dunque se ciò vale per gli enti pubblici economici, tanto più il principio si applica per le società per azioni, sebbene a capitale pubblico .



[2] Art. 10 Convenzione OIL n. 143/1975, sottoscritta, ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge 10 aprile 1981, n. 158:  “Ogni Stato membro per il quale la Convenzione sia in vigore si impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e a garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio”

 

[3] Art. 14 Convenzione OIL n. 143/1975: “Ogni Stato membro può: […]c) respingere l’accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni, qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato”.

 

[4] Art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale: “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti…”

 

[5] In tale direzione, si esprime parte della dottrina: “L’art. 27 detta unicamente le condizioni particolari per l’ingresso dall’estero di particolari tipologie di lavoratori al di fuori delle “quote” e, quindi, non sembra suscettibile di alcuna influenza sullo status di straniero regolarmente soggiornante, essendo peraltro ben noto che il principio di parità di trattamento trova applicazione solo in tale frangente”, cfr. Marco Paggi, Discriminazione e accesso al pubblico impiego, in Diritto, Immigrazione, Cittadinanza, n. 2/2004, pag. 86. In senso contrario, P. Bonetti, Diritto degli stranieri, Cedam, Padova, p. 149 – ss., il quale tuttavia non manca di osservare come la disposizione dell’art. 27 comma 3 TU si riferirebbe unicamente al rapporto di pubblico impiego, trovando in tale ambito la limitazione su basi di nazionalità una copertura costituzionale per effetto degli artt. 51 e 97 Cost.. Altrimenti,  la norma dell’art. 27 c. 3 del TU sarebbe incostituzionale, in quanto non faceva parte del testo della legge sull’immigrazione n. 40/1998, ma è stata introdotta in attuazione della delega legislativa cui si deve la compilazione del TU. Se con il TU si fosse voluto introdurre anche le disposizioni eccedenti l’ambito del pubblico impiego come quelle del R.D del 1931 ora in esame, il legislatore avrebbe commesso una violazione dell’art. 76 Cost.  perché sarebbero stati violati i criteri e i principi direttivi posti dall’art. 47 comma 1 della legge n. 40/1998 per la delega legislativa alla redazione del testo unico. Tra tali principi è previsto l’obbligo di includere nel testo unico soltanto le disposizioni della legge n. 943/1986 compatibili con le disposizioni della legge n. 40/98. In tale senso si rammenta che l’art. 1 della legge n. 943/86 per la prima volta ha fatto esplicito riferimento alla parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani per i lavoratori extracomunitari regolarmente residenti in Italia, in ossequio ai principi della Convenzione OIL n. 143/1975.

 

[6] In questa direzione, anche Tribunale di Pistoia, Ksemzovska c. INPS, caso 532/05, sentenza 23 marzo 2007;  Corte di Appello di Firenze, decreto 11333/2005 dd. 21.12.2005. Sul tema, deve anche ricordarsi che la sentenza della Corte Costituzionale  n. 454/98 ha ritenuto che parità ed uguaglianza di trattamento previsti dall’art. 2 del TU immigrazione trovano immediata applicazione  nell’ordinamento, sicchè la garanzia legislativa equipara l’extracomunitario al cittadino non solo con riferimento ai diritti attinenti  allo svolgimento del rapporto di lavoro, ma anche con riguardo al diritto di aspettativa occupazionale. La sentenza infatti riguardava il diniego opposto dal Ministero del Lavoro all’iscrizione dei cittadini extracomunitari invalidi civili alle liste del collocamento obbligatorio.

 

[7] La pronuncia della Corte (Corte Costituzionale, sent. 28.11-2.12.2005, n. 432) ha riguardato la legittimità costituzionale di una legge della Regione Lombardia nella parte in cui non includeva le persone, di nazionalità straniera e regolarmente residenti nella regione, totalmente invalide per cause civili, fra gli aventi diritto alla circolazione gratuita sui mezzi pubblici, diritto di norma riconosciuto agli invalidi cittadini italiani.

 

[8] In base all’Art. 43 c. 1 TU costituisce discriminazione “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

Il legislatore ha poi formulato, nel secondo comma della disposizione, una tipizzazione delle condotte aventi sicuramente una valenza discriminatoria.

Va detto che l’elencazione fatta nel 2° comma non è da considerarsi tassativa, e quindi esaustiva, delle condotte sostanzialmente discriminatorie e produttive di effetti pregiudizievoli, rispetto alle quali soccorre la definizione generale del primo comma.

L’articolo prevede infatti che compia “in ogni caso” una discriminazione:

 

a)il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente;

[…]

c)chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

 

[9] Pur trattandosi di una procedura concorsuale, il ricorso va presentato dinanzi al giudice del lavoro, in quanto la riserva di giurisdizione amministrativa prevista per le procedure concorsuali all'art. 63 IV c. del d.lgs. n. 165/2001 riguarda unicamente le procedure concorsuali relative ai rapporti di lavoro nella PA .  Come già ricordato tale concorso per autisti riguarda rapporti di lavoro con la COTRAL , una società per azioni,  che non fa parte  quindi  di un'amministrazione pubblica.

 

[10] Ovviamente in caso di ricorso individuale contro il provvedimento del centro per l’impiego di esclusione dall’ammissione alla preselezione per mancanza del requisito di cittadinanza, si dovrà chiedere al giudice di ordinare al centro per l’impiego l’ammissione del candidato e alla COTRAL di assumere l’interessato/a in caso di inserimento nella graduatoria nelle posizioni che assicurino la preferenza e di superamento di tutte le prove previste.

1 Si rileva, peraltro, che se per i rifugiati politici il riconoscimento del principio di parità di trattamento è stato generalmente riconosciuto dall’INPS, come ribadito di recente, con riferimento all’assegno di maternità di base  ex art. 74 del D.lgs. 151/2001, dal messaggio INPS – Direzione Centrale Prestazioni a Sostegno del Reddito, n. 12712 dd 21.05.2007, nessuna menzione risulta effettuata nelle istruzioni amministrative sinora diramate circa l’estensione di detto principio anche agli apolidi, sebbene essi siano destinatari di norme di diritto internazionale del tutto analoghe rispetto a quelle previste per i rifugiati (artt. 23 e 24 Convenzione di New York relativa allo status degli apolidi del 1954, ratificata con L. 1 febbraio 1962, n. 306).

 

2 L’A.S.G.I., peraltro,  ritiene che sia palese l’illegittimità costituzionale    della norma di cui all’art. 80  c. 19 della L. n. 388/2000 per violazione della riserva di legge rinforzata in materia di condizione giuridica dello straniero prevista dall’art. 10 c. 2 Cost. , in quanto   non appare conforme alle previsioni contenute nell’art. 10 della Convenzione OIL n. 143/75, all’art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, in collegamento con  l’art. 14 della Convenzione medesima, alle norme della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, così come viola i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, secondo i criteri indicati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 422/2005, così come i principi costituzionali di cui agli artt. 31, 32, 35, 38 Cost. . A conferma di tale ragionamento, si cita la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (sentenza 16 settembre 1996 caso Gaygusuz c. Austria [ricorso n. 17371/90] e sentenza  30 settembre 2003 resa nel caso Koua Poirrez c. Francia [ricorso n. 40892/1998]), nonché la presa di posizione dell’HALDE (Haute Autorité de Lutte contre les Discriminations et pour l’Egalité), l’ Autorità indipendente francese contro le discriminazioni, creata quale organismo per la promozione dell’eguaglianza e della parità di trattamento dalla  normativa francese di recepimento della direttiva europea n. 2000/43, la quale,  con riferimento ad una problematica simile nel paese d’oltralpe, ha ribadito, in linea con la giurisprudenza di Strasburgo, che le prestazioni assistenziali costituiscono un bene patrimoniale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo- art. 1 del Protocollo addizionale n. 1-, con la conseguenza che ogni limitazione per motivi di nazionalità costituisce una violazione del principio di non-discriminazione “se non è sorretta da giustificazioni obiettive e ragionevoli, vale a dire se non persegue un obiettivo di pubblica utilità o se non è fondata su criteri obiettivi e razionali in relazione agli scopi che la legge persegue”; cfr. HALDE, Déliberation n. 2006-192, 18 settembre 2006, reperibile sul sito: www.halde.fr.

 

3 Al riguardo,  la recente sentenza del Tribunale di Pistoia  dd. 23 marzo 2007 (caso N. Ksendzovska c. INPS, ricorso n. 532/2005), che ha riconosciuto l’obbligo dell’INPS al pagamento dell’assegno sociale anche in assenza del requisito della carta di soggiorno in ragione dell’ operatività immediata nell’ordinamento interno delle sentenze interpretative della Corte europea dei diritti dell’Uomo. La tesi della vincolatività delle sentenze della Corte europea è stata già sostenuta dal giudice di legittimità, tanto civile, quanto penale, in ambiti diversi da quello ora in esame (Cass. Sez. Un. 23.12.2005, n. 28507; Cass. Pen. I, 12.07.2006 – 3.10.2006, n. 32678, Somogyi).

 

 

4 L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e l’Algeria dall’altra, è stato firmato il 22.04.2002 ed entrato in vigore il 10.10.2005 (Gazzetta Ufficiale CE L 265); L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e il Regno del Marocco, dall’altra, è stato firmato il 26.02.1996 ed entrato in vigore il 01.03.2000 (Gazzetta Ufficiale CE L 70/00); L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e la Tunisia dall’altra, è stato firmato il 17.07.1995 ed entrato in vigore il 01.03.1998 (Gazzetta Ufficiale CE L 97/98).

A tali accordi si deve aggiungere quello di associazione tra CEE e la Turchia, che contiene pure una clausola di “parità di trattamento” in materia di sicurezza sociale, applicabile a tutte le prestazioni, siano esse a carattere contributivo o non contributivo, per effetto della decisione del Consiglio di Associazione n. 3/1980; cfr. Artt. 3 c. 1, Art. 4  Decisione del Consiglio di Associazione n. 3/1980 dd. 19.09.1980, disponibile sul sito: http://ekutup.dpt.gov.tr/ab/okk2.pdf

 

 

5   Una guida ai contenuti degli accordi, suddivisi per materie, può essere scaricata dal sito web:

 http://ec.europa.eu/comm/external_relations/euromed/asso_agree_guide_en.pdf .

 

 

6 La versione consolidata dal Regolamento Ce n. 1408/71 e successive modificazioni può essere scaricata dal seguente sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/consleg/1971/R/01971R1408-20060428-it.pdf

7  Il testo completo in lingua italiana della sentenza della Corte di Giustizia europea può essere scaricato dal seguente sito:  http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61997J0113:IT:HTML

8 Il testo dell’ordinanza può essere scaricato in lingua italiana dal sito della Corte di Giustizia Europea: http://curia.europa.eu/

 

9 L’art. 9 bis del d. lgs. n. 286/98, così come  introdotto dall’art. 1 del d. lgs. n. 3/2007, prevede la possibilità per lo straniero, titolare di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo rilasciato da altro Stato membro dell’Unione Europea, e che  intenda soggiornare in Italia per un periodo superiore a tre mesi, per motivi di lavoro, studio o altro scopo lecito, di ottenere per sé e per i propri famigliari, un permesso di soggiorno secondo le modalità previste dal T.U. . Tuttavia, ciò non significa che lo straniero abbia diritto al rilascio di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, in quanto la norma di recepimento prevede che esso possa essere rilasciato allo straniero che abbia usufruito delle norme sui lungo soggiornanti, solo dopo che egli abbia maturato nuovamente in Italia i requisiti di residenza , reddittuali e alloggiativi previsti dalla normativa italiana (art. 9 d.lgs. n. 286/98, come modificato dall’art. 1 del  d.lgs. n. 3/2007). Di conseguenza, uno straniero lungo soggiornante in un altro Stato membro che si trasferisca in Italia ottenendo il permesso di soggiorno di cui all’art. 9 bis del d.lgs. n. 286/98, non potrà avere accesso alle provvidenze in materia di assistenza  sociale che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente per effetto dell’art. 80 c. 19 L. 388/2000, in quanto privo del   possesso del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti in Italia, ma potrà certamente invocare tale diritto in base alle norme di diritto comunitario del Regolamento CE n. 859/03. Risulta, peraltro, che nessuna disposizione in tale direzione sia stata finora  emanata né dal Ministero del Lavoro né dagli organi centrali dell’INPS agli uffici periferici dell’istituto di previdenza che continuano a fare riferimento unicamente alle disposizioni di cui al cit. art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000, negando ogni portata applicativa immediata e diretta al citato regolamento comunitario n. 859/03 (si veda ad es. messaggio n. 012178 del 24/04/2006 Area Interventi Sociali, disponibile sul sito INPS: http://servizi.inps.it/informazioni/template/migranti/repository/node/N1242313472/msg2006-012178.pdf ).