SOMMARIO
ATTUALITA’
ED APPROFONDIMENTI
1. La discriminazione nell’accesso degli stranieri
agli impieghi presso le imprese del trasporto pubblico locale, conseguenza di
una normativa illegittima ed anacronistica. Il caso della COTRAL s.p.a. nel
Lazio.
GIURISPRUDENZA
NAZIONALE ED APPROFONDIMENTI
1. Accesso degli stranieri all’assegno sociale,
alle prestazioni sociali di invalidità e di maternità. L’ASGI chiede all’INPS di applicare gli
obblighi di parità di trattamento e di non discriminazione derivanti dalle norme di diritto internazionale
vincolanti per l’Italia. Una sentenza del Tribunale di Pistoia afferma
l’incompatibilità della normativa italiana con la Convenzione Europea dei diritti
dell’Uomo.
2. “Bonus-bebè”: discriminazione
nell’accesso alla prestazione, cattiva amministrazione, procedimenti penali.
Commenti alla giurisprudenza civile e penale. Tribunale di Biella, ordinanza
02.01.2007; G.i.p. Varese, sentenza n. 112/07 dd. 29.03.2007; G.u.p. Varese,
sentenza n. 24/07 dd. 23.01.2007; G.u.p. Perugia dd. 12.04.2007.
3. Il T.A.R. Lombardia, sezione di Brescia, rinvia
alla Corte Costituzionale la discussa legge regionale lombarda che, disciplinando
l’attività dei “phone center”, ha introdotto regole considerate
irragionevolmente restrittive e discriminatorie dagli imprenditori stranieri.
4. Uguaglianza di trattamento nell’accesso alle
misure alternative alla detenzione. Anche gli stranieri irregolari hanno la
possibilità di fruire della misure alternative alla pena detentiva. Commento
alla sentenza della Corte Costituzionale n. 78 dd. 5 marzo 2007 a cura
dell’avv. Marco Paggi dell’ASGI (tratto dal sito web: www.meltingpot.org )
ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE ATTIVE NEL SETTORE
DELLA LOTTA ALLE DISCRIMINAZIONI ETNICO-RAZZIALI. SITI INTERNET
Organizzazioni non governative attive nel settore
della lotta alle discriminazioni etnico-razziali nei paesi dell’Europa
orientale membri dell’Unione Europea.
SEGNALAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI
1.
La discriminazione nell’accesso degli stranieri
agli impieghi presso le imprese del trasporto pubblico locale, conseguenza di
una normativa illegittima ed anacronistica. Il caso della COTRAL s.p.a. nel
Lazio.
Contrariamente a quanto solitamente avviene negli
altri paesi europei e nei paesi d’immigrazione d’oltreoceano, in Italia un
cittadino straniero non può fare l’autista di un autobus del
servizio di trasporto urbano o extraurbano. Ciò per effetto di una normativa
del 1931, risalente ai tempi delle corporazioni fasciste, e sopravvissuta a
vent’anni di contrattazione collettiva. Una normativa illegittima perché in
contrasto con le norme internazionali. Una normativa tanto più anacronistica
oggi, quando il trasporto pubblico locale è soggetto ormai alle regole della concorrenza e del
libero mercato. Una normativa controproducente perché rende spesso difficile
per le imprese del settore trovare manodopera qualificata. Il nuovo contratto
collettivo nazionale degli autoferrotranvieri, in scadenza il prossimo 31
dicembre 2007, potrebbe porre finalmente fine a questa discriminazione. Una
sfida per i sindacati.
Un caso segnalato dalle RITA del Lazio in
relazione ad una recente selezione pubblica di personale indetta dall’impresa
di trasporti COTRAL s.p.a.
Di seguito il parere formulato dal Servizio di Supporto giuridico dell’ASGI.
Premessa
A seguito di delibere del CdA della COTRAL s.p.a., società per azioni a totale partecipazione
pubblica, n. 27 dd. 22.03.2007 e n. 49 dd. 10.05.2007, con le quali è stata
disposta l’assunzione di n. 350 persone con la qualifica di operatori di
esercizio (autisti) e a seguito di un accordo sottoscritto tra la COTRAL medesima e la Regione Lazio in
data 18 maggio 2007, con il quale è stato disposto che dette assunzioni
avvengano al termine di una selezione pubblica da effettuarsi per il tramite
dei centri provinciali per l’impiego, in data 28 maggio 2007 i centri per
l’impiego delle Province di Roma,
Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo hanno indetto appositi bandi/avvisi di
preselezione pubblica per le suddette posizioni lavorative, con l’istruzione
agli interessati di presentare personalmente la domanda di ammissione,
corredata dalla documentazione richiesta, entro il giorno 12 giugno 2007 cioè
entro il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione.
Una parte di queste
posizioni sono riservate alle donne quale azione positiva per incentivare
l’occupazione femminile in settori ove normalmente trovano esclusione (L.
125/91). Un’altra parte è riservata ai lavoratori e alle lavoratrici impegnati
nei Lavori Socialmente Utili.
Le posizioni lavorative presso la
COTRAL non costituiscono rapporti di impiego pubblico
Nonostante sia stata indetta una
procedura concorsuale per selezione pubblica affidata ai centri per l’impiego,
la posizione di autista presso la COTRAL s.p.a non
costituisce un rapporto di impiego pubblico, in quanto la COTRAL è dal marzo
2007 una società per azioni, sebbene controllata da amministrazioni pubbliche
(in quanto il capitale sociale è suddiviso tra amministrazioni pubbliche: la
Regione Lazio quale socio di maggioranza e le Province di Roma, Viterbo, Rieti
quali soci di minoranza). Di conseguenza, i contratti di lavoro presso la
COTRAL s.p.a. sono a tutti gli effetti contratti di diritto privato non
assoggettati alle norme sull’impiego pubblico di cui al d.lgs.
n.165/2001. Sulla base dell’art. 1 c. 2 del d.lgs. n. 165/2001, sussiste
rapporto di pubblico impiego assoggettato alle norme del medesimo strumento
normativo, incluse quelle che imporrebbero la cittadinanza italiana o
–entro i limiti del D.P.C.M 07.02.1994- quella di uno degli Stati membri dell’Unione Europea per
quanto riguarda il suo accesso (art. 38), quando il datore di lavoro fa parte
dell’amministrazione pubblica, nelle sue articolazioni territoriali, inclusi
gli enti pubblici non economici. Non essendo gli enti pubblici economici e
tanto meno le società per azioni a partecipazione pubblica ricompresi nell’elenco
di cui all’art. 1 c. 2 del d.lgs. n. 165/2001 è pacifico che i rapporti tra
detti soggetti imprenditoriali ed i terzi (quali i dipendenti) sono retti da
regole privatistiche. [1]
Ne deriva che l’esclusione dei cittadini extracomunitari
dall’impiego presso la COTRAL spa non trova giustificazione nelle norme
sull’impiego pubblico (art. 2 d.P.R. 487/94, art. 38 d.lgs. n. 165/2001), le
quali secondo il discusso indirizzo di Cassazione (Cass. n. 24170 dd.
16.11.2006) troverebbero copertura costituzionale negli artt. 51 e 97 Cost.
La fonte normativa dell’esclusione
dei cittadini extracomunitari dall’impiego in imprese di trasposto pubblico
locale. Contrasto con le norme
internazionali ed interne sulla
parità di trattamento dei cittadini migranti in materia di occupazione.
L’esclusione dei cittadini
extracomunitari dall’impiego presso le società di trasporto pubblico locale
trova invece unico fondamento nell’art. 10 del Regolamento allegato al
R. D. 8 gennaio 1931 n. 148 (Coordinamento delle norme sulla disciplina
giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento
giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di
navigazione interna in regime di concessione), applicabile anche ai lavoratori
dei servizi di trasporto pubblico urbano ed extraurbano per effetto della legge
3.11.1952 n. 628, che prevede appunto il requisito della cittadinanza italiana
per l’ammissione al servizio. Nonostante tali norme siano state sottoposte a
processo di delegificazione per effetto della legge 12.07.1988, n. 270 (G.U.
16.07.1988, n. 166), con la quale
è stato cioè introdotto il principio per cui le disposizioni contenute
nel regolamento A al regio decreto 1931, n. 148 possono essere derogate dalla
contrattazione nazionale di categoria, la clausola di cittadinanza è rimasta in
vigore in tutti questi anni, non essendo stata mai intaccata dalla contratti
nazionali collettivi di categoria, l’ultimo dei quali viene in scadenza il
prossimo dicembre 2007. Le norme del Regio decreto sono state
recepite anche nell’ordinamento regionale della Regione Lazio, che ha potestà
legislativa concorrente in materia di trasporto pubblico, per effetto
dell’art. 20 comma 2 bis della L.R. 16.07.1998, n. 30, così come modificato
dall’art. 21 comma 1 della L.R. 16.06.2003, n. 16: “Al personale impiegato
dalle aziende che costituiscono associazioni temporanee di imprese per lo
svolgimento del trasporto pubblico locale, considerato cumulativamente, si
applicano le disposizioni di cui al regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148…”.
Si ritiene che detta esclusione su basi
di nazionalità dalla capacità dei
cittadini di paesi terzi di assumere servizio presso un’impresa affidataria di
servizi per il trasporto pubblico locale sia illegittima e discriminatoria per
le seguenti ragioni:
a) viola il principio di parità di
trattamento tra cittadini extracomunitari e cittadini italiani per quanto
concerne l’ambito lavorativo, incluse le condizioni per l’assunzioni, di cui
all’art. 2 c. 3 del TU sull’immigrazione (D.lgs. n. 286/98) [La Repubblica
italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143/1975 ratificata con
legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri
regolarmente soggiornanti sul suo territorio e alle loro famiglie parità di
trattamento e piena uguaglianza di diritto rispetto ai lavoratori italiani]; norma che deriva dall’art. 10
della Convenzione OIL n. 143/1975[2],
sottoscritta e ratificata dall’Italia, la quale prevede all’art. 14 come eccezione a detto principio la clausola
degli interessi nazionali. [3]
Detta clausola, tuttavia, se potrebbe offrire forse fondamento alle
restrizioni operate nei rapporti di pubblico impiego, ove secondo
l’indirizzo menzionato della Cassazione sussisterebbe una riserva di
cittadinanza a fondamento costituzionale,
non potrebbe certo giustificare una limitazione su basi di nazionalità
con riferimento a contratti a tutti gli effetti di diritto privato, legati ad
un settore, quello del trasporto pubblico locale, non più soggetto al regime
monopolistico pubblico, ma aperto alla concorrenza e al libero mercato
per effetto del recepimento della normativa comunitaria, e dunque , oggetto
dell’iniziativa economica anche , se non prevalentemente, di soggetti privati.
In altri termini, se la restrizione nei rapporti di impiego basata sulla
nazionalità poteva soddisfare un interesse nazionale in passato
quando i servizi di trasporto pubblico locale erano erogati in regime di
monopolio da imprese pubbliche o da concessionari incaricati
dall’amministrazione, ora non appare suscettibile di realizzare detto
interesse nel momento in con
l’intervento del diritto comunitario si è superata l’idea di una gestione
totalmente pubblicistica del servizio pubblico, introducendo invece la regola
della concorrenza e dell’assenza
di limitazioni alla libera circolazione di mercato.
In base ai principi fondamentali di
diritto e specificatamente l’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice
civile,[4]
si dovrebbe ritenere che l’art. 2 c. 3 del D.lgs. n. 286/98 abbia abrogato implicitamente
la norma di cui all’art 10 del Regolamento allegato alla normativa del 1931 sul personale autoferrotranviario.
Quand’anche si ritenesse che l’art. 27 c. 3 del d.lgs. n. 286/98 [“Rimangono
ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per
lo svolgimento di determinate attività”] , ha fatto salva e mantenuto in vita la
norma del 1931 - con un’interpretazione che riterremmo errata, in quanto la
norma va interpretata in maniera sistematica, tenendo in considerazione la sua
collocazione all’interno dell’articolo (il 27 appunto) che riguarda gli
ingressi fuori dal sistema delle quote e dunque, andrebbe riferita soltanto a
queste categorie specifiche di cittadini migranti e non alla condizione del
cittadino migrante in generale - [5]
resta il fatto che l’art. 2 c. 3 del TU si riferisce esplicitamente ad una norma pattizia internazionale, la
quale prevale su quella interna ad essa contrastante e ne comporta di
conseguenza la disapplicazione, tanto più che si opera in un ambito, quello della
condizione giuridica dello straniero, sottoposto a riserva di legge rafforzata
(art. 10 c. 2 Cost: “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla
legge in conformità alle norme dei trattati internazionali…”). In tale senso va citata la sentenza di
Cassazione 19 luglio 2002 n. 10542 che ha condivisibilmente puntualizzato
che “il giudice nazionale, ove
ravvisi un contrasto con la disciplina nazionale, è tenuto a dare prevalenza
alla norma pattizia, che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso
concreto, anche ove ciò comporti una disapplicazione della norma interna”
(nello stesso senso, si vada Cass. 11 giugno 2004, n. 11096). In altri termini,
la norma di fonte internazionale, in questo caso per di più costituzionalizzata
in base all’art. 10 c. 2 Cost., gode pur sempre di una capacità di resistenza
rispetto alla previsione interna, anche se sopravvenuta. Giudizio, questo, condiviso dalla Corte Costituzionale [
sent. 19 gennaio 1993, n. 10] che ritiene trattasi di norme derivanti da una
fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali insuscettibili
di abrogazione o di modificazione
da parte di disposizioni di legge ordinaria.[6]
b) viola il principio di uguaglianza e
ragionevolezza secondo i criteri stabiliti dalla sentenza della Corte
Costituzionale n. 432/2005, poiché non si ravvede una motivazione logica,
ragionevole e proporzionata nel stabilire una disparità di
trattamento tra cittadini e stranieri nelle opportunità di impiego nelle
imprese, anche quelle private, del settore del trasporto pubblico quando tale
settore è oramai privatizzato per effetto della normativa comunitaria sulla
concorrenza e dunque non più riservato alle imprese pubbliche o a concessionari
incaricati dalla pubblica amministrazione. Ne deriva dunque un contrasto della
normativa risalente al 1931 non solo rispetto ai diritti costituzionali
fondamentali di eguaglianza (art. 3), e di accesso al lavoro (art. 1
e 4 Cost.), ma anche di libertà d’impresa e di iniziativa economica di cui
all’art. 41 (autonomia contrattuale).
Si
rammenta, infatti, che la Corte
Costituzionale con sentenza n. 432/2005 ha avuto già modo di chiarire che ogni trattamento differenziato tra
italiani e stranieri che una norma
voglia introdurre ai fini dell’ammissione ad un beneficio deve
rispondere a criteri di ragionevolezza da valutarsi in relazione alle finalità
e funzioni della norma medesima e degli istituti cui essa si riferisce.[7]
Si evince da tale sentenza che tali principi di eguaglianza a ragionevolezza
assurgono al ruolo di criterio interpretativo valido innanzi ad ogni norma che
preveda una disparità di trattamento, anche in ambiti non necessariamente
correlati ai diritti fondamentali, divenendo ulteriore metro in base al quale
misurare l’ammissibilità o meno di provvedimenti od iniziative pubbliche.
I rimedi giudiziari
Si ritiene pertanto che la
limitazione su basi di nazionalità contenuta nel bando per la selezione
pubblica di autisti per conto della COTRAL spa sia illegittima, in quanto trova
fondamento in una norma che si pone in
contrasto con il principio di parità di trattamento imposto da norme a
carattere prevalente, in quanto posteriori ovvero di rango superiore. Tale
bando, di conseguenza, pone in essere una discriminazione vietata dall’art. 43
del TU sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/98)[8]
e come tale rende possibile quale rimedio l’esercizio di un’azione giuridica
contro la discriminazione ex art. 44 del TU (d.lgs. n. 286/98). Tale azione può
essere esercitata dinanzi al giudice civile del lavoro,[9]
tanto dal soggetto passivo della discriminazione (l’eventuale cittadino
extracomunitario che si veda escluso dalla pre-selezione per mancanza del
requisito di cittadinanza), quanto direttamente dalla rappresentanze locali
delle organizzazioni sindacali più rappresentative trattandosi di una
discriminazione collettiva posta in essere da un datore di lavoro (COTRAL spa
in accordo con la Regione Lazio ed i centri per l’impiego (art. 44 c. 10 d.lgs.
n. 286/98). La normativa prevede pure la possibilità di un procedimento
d’urgenza (art. 44 c.5), che potrebbe tradursi nel caso in questione nell’ordine del giudice, impartito con apposita ordinanza,
di rimuovere le discriminazioni
accertate, ordinando alla COTRAL, alla Regione Lazio e ai Centri per l’Impiego di
sospendere la procedura di selezione pubblica, di modificare il bando
concorsuale per la preselezione pubblica con l’eliminazione della clausola
discriminatoria e la riapertura dei termini per la presentazione delle istanze
di partecipazione alla selezione, offrendo così materialmente ed effettivamente
ai cittadini di paesi terzi la possibilità di concorrere alla selezione.[10]
Dott. Walter Citti
GIURISPRUDENZA
NAZIONALE ED APPROFONDIMENTI
1.
La questione dell’accesso degli stranieri
all’assegno sociale, alle prestazioni sociali di invalidità e di
maternità. L’ASGI chiede al
Ministro del Lavoro e all’INPS di applicare gli obblighi di parità di
trattamento e di non discriminazione derivanti dalle norme di diritto internazionale vincolanti per
l’Italia. Una sentenza del Tribunale di Pistoia afferma l’incompatibilità della
normativa italiana con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.
Una recente sentenza del Tribunale di Pistoia [23
marzo 2007, giudice del lavoro] si è pronunciata sul diritto all’assegno
sociale per una cittadina straniera legalmente soggiornante, ma priva della
carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, ex D.
lgs. n. 3/2007). Nonostante le disposizioni della legge finanziaria 2001,
che, come è noto, hanno limitato
la fruizione delle prestazioni di assistenza sociale solo ai possessori della
carta di soggiorno, il giudice del lavoro di Pistoia ha risolto
favorevolmente la questione, sulla
base dell’incompatibilità della normativa interna con gli obblighi internazionali scaturenti dall’adesione del
nostro paese alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed al suo
Protocollo addizionale n. 1. La Convenzione europea dei diritti umani dispone,
infatti, all’art. 14 che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti
nella convenzione debba essere assicurato senza alcuna distinzione, ivi
compresa quella basata sulla nazionalità. Tra questi diritti vi è quello
espressamente indicato all’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla
Convenzione Europea medesima che riconosce, ad ogni persona, il diritto al
rispetto dei suoi beni patrimoniali. La giurisprudenza della Corte di
Strasburgo ha ritenuto che tra i diritti patrimoniali debbano essere incluse
anche le prestazioni sociali, quindi tutte le forme di assistenza sociale,
anche quelle che non si basano su un precedente rapporto di contribuzione.
Se è vero che le norme della Convenzione europea e la loro
interpretazione, fornita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non
comportano una diretta eseguibilità nel territorio nazionale, il giudice
nazionale resta comunque vincolato
all’applicazione di queste norme. In altri termini, appare difficile prevedere che il Ministero del Lavoro e l’INPS
si adegueranno immediatamente a quanto sancito dalla giurisprudenza della Corte
europea di Strasburgo, sancendo a livello amministrativo il diritto degli
stranieri legalmente residenti in Italia, ma privi del permesso di soggiorno
per lungo soggiornanti, ad usufruire delle prestazioni sociali a carattere non
contributivo. Tuttavia, tale diritto potrà essere riconosciuto previo ricorso
dinanzi al giudice del lavoro a fronte di un formale provvedimento di diniego
emanato dalla struttura territoriale competente dell’INPS.
A tale riguardo, si raccomanda agli interessati di
presentare formale istanza per il riconoscimento delle provvidenze e di
richiedere all’INPS di rilasciare un provvedimento scritto e motivato di
diniego, il quale potrà essere impugnato in giudizio dinanzi al giudice del
lavoro. Nel caso di auspicato accertamento del diritto, secondo le indicazioni
giurisprudenziali del giudice del lavoro di Pistoia, questo agisce anche per quanto riguarda l’obbligo di pagamento degli arretrati dalla data di
presentazione della domanda.
Tanto più lo stesso vale quando lo straniero rientri nelle situazioni protette
dal principio di “non-discriminazione” contenuto negli Accordi di associazione
euro-mediterranei, stipulati tra la Comunità Europea e gli Stati membri da un
lato, e rispettivamente l’Algeria, il Marocco, la Tunisia, la Turchia
dall’altro, ovvero nel Regolamento CE n. 859/2003. Tali situazioni, infatti,
derivando da norme di diritto comunitario, comportano un’immediata
disapplicazione della normativa interna ad esse contrastante; principio questo,
che l’INPS ed il Ministero del Lavoro non hanno voluto sinora riconoscere con
riferimento alle prestazioni sociali a carattere non contributivo. Per tali
ragioni, l’ASGI ha deciso di scrivere al Ministero del Lavoro e all’INPS
chiedendo il pieno adempimento agli obblighi internazionali vincolanti per il
nostro paese.
Di seguito il testo della lettera inviata
dall’ASGI all’on. Cesare Damiano, Ministro del Lavoro e alla Presidenza e
ai dirigenti dell’INPS.
Egr. Signori,
Con la presente,
il Servizio di Supporto Giuridico contro le discriminazioni
dell’A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione),
associazione che riunisce avvocati e operatori giuridici e sociali impegnati
sulle tematiche dell’immigrazione, intende segnalare alle istituzioni preposte, e
all’INPS in particolare, la scarsa chiarezza e la sostanziale disapplicazione
delle norme di diritto comunitario in materia di accesso, in condizioni di parità di trattamento con i cittadini
italiani, di talune categorie di stranieri non appartenenti a Paesi membri
dell’Unione Europea all’assegno sociale e alle altre provvidenze economiche che
costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia
di servizi sociali, inclusi quindi gli assegni e le indennità derivanti da
invalidità civile (art. 80 c. 19 l. n. 388/2000).
Come è largamente noto, l’accesso a tali provvidenze in condizioni di
parità con i cittadini italiani è finora limitato ai soli cittadini di paesi
terzi in possesso del permesso di
soggiorno di lungo periodo (ex carta di soggiorno), in virtù delle disposizioni
introdotte in sede di legge finanziaria 2001 (l. 388/2000), con l’aggiunta delle
particolari categorie dei rifugiati politici e degli apolidi, i quali
beneficiano delle norme più favorevoli previste dagli strumenti di diritto
internazionale che li riguardano (rispettivamente Convenzione di Ginevra del
1951 e Convenzione di New York del
1954).1
La sentenza della Corte
Costituzionale n. 324/2006 non ha risolto l’annosa questione dell’asserita incompatibilità della disposizione restrittiva introdotta
dalla legge finanziaria 2001 rispetto tanto ai principi costituzionali di
uguaglianza e ragionevolezza
quanto al principio di parità di trattamento e non-discriminazione sancito da
diversi strumenti di diritto internazionale (Convenzione OIL n. 143/1975,
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali).2 La sentenza della Corte Costituzionale,
limitandosi all’interpretazione dei c.d. “rapporti di durata”, ha infatti
dispiegato il suo ragionamento
soltanto sui rapporti già formatisi e costituiti sulla base della normativa
precedente alla legge finanziaria 2001, ma non è suscettibile di incidere sulla
questione principale riguardante i
potenziali fruitori di tali provvidenze che ne abbiano maturato i requisiti di
età e reddito o abbiano ottenuto il riconoscimento della condizione di
invalidità solo dopo l’entrata in vigore della citata normativa restrittiva.
Come affermato, peraltro, anche da una recente
giurisprudenza, il contrasto dell’art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000
con la norma della Convenzione
europea dei diritti dell’Uomo – Art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 congiuntamente
all’art. 14 della Convenzione-, in base alle indicazioni interpretative ormai
consolidate nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo- suggerisce la tesi
della vincolatività di quest’ultima e dunque della possibilità per il giudice
nazionale di disapplicare le norme
interne incompatibili, senza quindi la necessità di sollecitare l’intervento
della Consulta, alla pari di quanto oramai ritenuto pacifico riguardo al
rapporto tra norme interne e norme
di derivazione comunitaria. 3
Si ritiene, pertanto, possibile affermare che una disapplicazione
dell’art. 80 c. 19 della legge 23.12.2000, n. 388 con una conseguente
estensione delle prestazioni sociali di tipo non contributivo a tutti gli
stranieri regolarmente residenti
in Italia possa fin d’ora essere affermata sulla base dell’immediata
vincolatività della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Quand’anche si volesse sostenere che la tesi soprariassunta non sarebbe
ancora sufficientemente sorretta da una dottrina uniforme e da una
giurisprudenza consolidata, è
opinione del presente Servizio che l’accesso in condizioni di parità di
trattamento alle prestazioni sociali non contributive che costituiscono diritti
soggettivi in base alla legislazione vigente debba essere affermato -senza
margine di dubbio- per
talune categorie di cittadini di paesi terzi legalmente soggiornanti in Italia
ma non titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo, sulla base di norme
di diritto comunitario vigenti e pienamente vincolanti per l’Italia e dunque
prevalenti sulle norme di diritto interno ad esse incompatibili.
Si fa qui riferimento alle clausole di “non discriminazione” contenute negli Accordi di Associazione
euromediterranei stipulati tra la Comunità Europea e i relativi Stati
terzi. Si tratta, nello specifico, degli Accordi euromediterranei che
istituiscono un’Associazione tra le Comunità Europee e i loro Stati membri, da
un lato, e rispettivamente la Repubblica Tunisina, il Regno del Marocco e
l’Algeria, dall’altro, tutti ratificati con legge e vincolanti per l’Italia in
quanto membro della CE.4 .
Tali accordi, infatti, contengono espressamente una clausola di parità di
trattamento nella materia della “sicurezza sociale”. Recita, infatti, l’art. 68
dell’Accordo euromediterraneo con l’Algeria e clausole del tutto analoghe sono
contenute negli accordi con Marocco e
Tunisia, ma non invece in
quelli sottoscritti con Egitto,
Israele, Regno di Giordania, Palestina: “1.…i lavoratori di cittadinanza
algerina e i loro familiari conviventi godono, in materia di sicurezza sociale,
di un regime caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione basata sulla
cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali essi sono
occupati. 2. Il termine “sicurezza sociale” include i settori della sicurezza
sociale che concernono le prestazioni relative alla malattia e alla maternità,
all’invalidità, le prestazioni di vecchiaia e per i superstiti, i benefici
relativi agli infortuni sul lavoro, alle malattie professionali, al decesso, le
prestazioni relative alla disoccupazione e quelle familiari”. Il successivo art. 69 specifica
quali destinatari della previsione
sulla parità di trattamento “i cittadini delle parti contraenti residenti o legalmente impiegati nel territorio dei rispettivi paesi
ospiti”, fissando
dunque l’unico requisito della residenza o dell’attività lavorativa legale
svolta nel territorio della parte contraente.5
E’ opportuno ricordare al riguardo
l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di Giustizia
Europea, secondo la quale la nozione di “sicurezza sociale” contenuta nei citati Accordi
euromediterranei - ed ancor prima
negli accordi di cooperazione che li hanno preceduti- debba essere intesa allo
stesso modo dell’identica nozione contenuta nel regolamento Ce n. 1408/71.
Quest’ultimo, dopo le modifiche apportate dal Regolamento del Consiglio
30/4/1992 n. 1247 (G.U. L 136), include
nella nozione di “sicurezza sociale” le “prestazioni speciali a
carattere non contributivo”, [incluse quelle] destinate alla tutela specifica delle
persone con disabilità, […] ed
elencate nell’allegato II bis”, che per quanto concerne l‘Italia, menziona espressamente quelle
prestazioni che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione
vigente in materia di assistenza sociale cioè la pensione sociale, le pensioni
e le indennità ai mutilati ed invalidi civili, ai sordomuti, ai ciechi civili,
gli assegni per assistenza ai pensionati per inabilità.6 Al fine di essere chiari ed esaustivi,
vale la pena citare interamente le conclusioni tratte dalla Corte di Giustizia
Europea dopo essere stata interpellata dal giudice nazionale belga in merito
all’applicabilità della clausola di non-discriminazione in materia di
“sicurezza sociale” prevista dal
precedente accordo di cooperazione tra Comunità Europee e Algeria, firmato nel
1976 e poi sostituito dall’Accordo euromediterraneo di Associazione, in riferimento ad una prestazione
sociale non contributiva per
disabilità:
“Per quanto
riguarda,.., la nozione di previdenza sociale che figura in questa disposizione,
dalla citata sentenza Krid (punto 32) e, per analogia, dalle citate sentenze
Kziber (punto 25), Yousfi (punto 24) e Hallouzi-Choco (punto 25) risulta che
essa va intesa allo stesso modo dell’identica nozione contenuta nel regolamento
n. 1408/71. Ora dopo la modifica operata dal regolamento (Cee) del Consiglio
30/04/1992 n. 1247, il regolamento n. 1408/71 menziona esplicitamente all’art.
4, n. 2 bis, lett. b ) (vedi anche l’art. 10 bis, n. 1, e l’allegato II bis di
questo regolamento), le prestazioni destinate a garantire la tutela specifica
dei minorati. Del resto, anche prima di questa modifica del regolamento n.
1408/71, costituiva giurisprudenza costante, sin dalla sentenza 28/5/1974,
causa 187/73, Callemeyn (Racc. p. 553), che gli assegni per minorati
rientravano nell’ambito di applicazione ratione materiae di questo regolamento…
Di conseguenza, il principio,…, dell’accordo, che vieta qualsiasi
discriminazione basata sulla cittadinanza nel campo della previdenza sociale
dei lavoratori migranti algerini e dei loro familiari con essi residenti
rispetto ai cittadini degli Stati membri in cui essi sono occupati comporta che
le persone cui si riferisce questa disposizione possono aver diritto agli
assegni per minorati alle stesse condizioni che devono essere soddisfatte dai
cittadini degli Stati membri interessati” (Corte di Giustizia europea 15/01/1998
C-113/97 caso Henia Babahenini c. Stato Belga) .7
Con riferimento alla normativa
belga sul reddito minimo garantito per le persone anziane, l’equivalente dell’assegno
sociale italiano, e che escludeva
da tale provvidenza i cittadini
stranieri a meno che non beneficino già di una pensione di invalidità o
di reversibilità, la Corte di Giustizia Europea, nella recente ordinanza dd. 17
aprile 2007 (caso Mamate El Youssfi c. Office National des Pensions ) ha concluso che:
“l’art. 65, n. 1, primo
comma, dell’Accordo euromediterraneo che istituisce un’associazione tra le
Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e il Regno del Marocco,
dall’altra, firmato a Bruxelles il 26 febbraio 1996 e approvato a nome delle
dette Comunità con la decisione del Consiglio e della Commissione 24 gennaio
2000, 2000/204/CE, CECA, deve essere interpretato nel senso che esso osta
a che lo Stato membro ospitante rifiuti di accordare il reddito minimo
garantito per le persone anziane ad una cittadina marocchina che abbia
raggiunto i 65 anni di età e risieda legalmente nel territorio del detto Stato,
qualora costei rientri nell’ambito di applicazione della succitata disposizione
per avere essa stessa esercitato un’attività di lavoro dipendente nello Stato
membro di cui trattasi oppure a motivo della sua qualità di familiare di un
lavoratore di cittadinanza marocchina che è od è stato occupato in questo medesimo Stato”.8
Si rileva, pertanto, la necessità
che l’INPS si adegui finalmente agli obblighi scaturenti dalla piena validità
nel nostro ordinamento delle norme
contenute nei citati accordi di associazione, le quali, facendo parte del
diritto comunitario, hanno preminenza su qualsivoglia norma di diritto interno
ad esse incompatibili. Si chiede, pertanto, l’immediata estensione anche ai
cittadini marocchini, tunisini, algerini, turchi, legalmente residenti in
Italia ed in possesso dei requisiti soggettivi di età, reddito o condizioni
personali, delle prestazioni di sicurezza sociale non contributive che
costituiscono diritti soggettivi a norma della legislazione vigente e che sono
incluse nell’elenco di cui allegato II bis del citato regolamento comunitario,
anche a prescindere dal possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo.
Con la presente si richiama
inoltre l’INPS a dare piena
attuazione alle norme sulla parità
di trattamento in materia di sicurezza sociale, con riferimento anche alle
prestazioni a carattere non contributivo, contenute nel regolamento CE n.
859/2003 del 14 maggio 2003, che ha esteso le disposizioni dei precedenti
regolamenti CEE n. 1408/71 e 574/72 “ai cittadini di paesi terzi cui tali
disposizioni non fossero già applicabili unicamente a causa della nazionalità”.
Come indicato peraltro dal dodicesimo “considerando” e dall’art. 1 del
regolamento medesimo, e confermato dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia Europea (da ultima, la causa citata Mamate El Youssfi c. Office
National des Pensions, dd. 17 aprile 2007, para. 36-44; pure Khalil e altri, sentenza 11 ottobre
2001), le norme comunitarie in materia di coordinamento dei regimi nazionali di
previdenza sociale non sono applicabili alle situazioni i cui elementi si
collochino tutti all’interno di un solo Stato membro, e questo è in particolare il caso che si
verifica quanto la situazione dell’interessato presenta unicamente legami con
un paese terzo ed un solo Stato membro, quando cioè il lavoratore straniero ha
lasciato il paese di origine per
venire ad insediarsi direttamente nello Stato membro interessato. In altri termini, un lavoratore
extracomunitario, così come i suoi familiari, possono avvalersi della parità di
trattamento in materia di sicurezza sociale, riconosciuta dal citato regolamento,
solo dopo aver trasferito il loro soggiorno legale da uno Stato membro ad un
altro, così come reso possibile, ad esempio, in base alla direttiva n.
2003/109/CE dd 25.11.2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi
soggiornanti di lungo periodo, recentemente recepita in Italia con il d. lgs. 8
gennaio 2007, n. 3.9
Il Servizio legale contro le
discriminazioni dell’A.S.G.I. rileva al riguardo l’inadempienza dell’I.N.P.S. e
del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a riconoscere la piena e
diretta portata applicativa delle norme del regolamento comunitario n. 859/2003
che vincolano il nostro paese
senza che vi sia necessità
di ulteriori provvedimenti legislativi o interpretativi. Si sollecita dunque l’istituto
previdenziale ad estendere le prestazioni non contributive di sicurezza sociale
in oggetto e che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione
vigente, anche ai lavoratori di paesi terzi non appartenenti all’Unione Europea
e ai loro famigliari, che risiedano
legalmente in Italia,
qualora dimostrino di avere già soggiornato legalmente in un altro Stato membro
prima di giungere in Italia, e ciò a prescindere dal possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo di cui
al d.lgs. n. 8 gennaio 2007, n. 3.
Il presente Servizio dell’A.S.G.I.
sottolinea il carattere direttamente vincolante nel nostro ordinamento, tanto per la Pubblica
Amministrazione, in sede di applicazione delle norme, quanto per il giudice
nazionale, in sede di eventuale
contenzioso, dell’interpretazione della normativa comunitaria da parte della
Corte di Giustizia europea, come indicato dalla giurisprudenza costituzionale e
di legittimità (rispettivamente Corte Costituzionale n. 113/1985 e Cass. Sez. Un. 03/10/1999, n. 9653). Si precisa, infatti, che già con la sentenza della Corte
Costituzionale dell’8 giugno 1984 n. 170, era stato stabilito il principio per
cui il regolamento comunitario opera per forza propria con caratteristica di
immediatezza, prevalendo su ogni normativa nazionale, anche posteriore,
configgente con le disposizioni comunitarie. Con la sentenza n. 113/1985, La
Corte Costituzionale ha esteso il principio stesso dell’immediata applicabilità
delle disposizioni comunitarie oltre che ai regolamenti, anche alle
“statuizioni risultanti… dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia
Europea”. Infine, con sentenza n. 389 dell’11 luglio 1989, la Corte
Costituzionale ha previsto che “l’applicazione della normativa comunitaria
direttamente efficace all’interno dell’ordinamento italiano non dà luogo ad
ipotesi di abrogazione o dei deroga, né a forme di caducazione o di
annullamento per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce un
effetto di disapplicazione di quest’ultima, seppure
nei limiti di tempo e nell’ambito materiale entro cui le competenze comunitarie
sono legittimate a svolgersi” (sottolineatura nostra).
Di conseguenza, sarebbe del tutto
legittima ed, anzi doverosa secondo gli orientamenti della Corte
Costituzionale, un’iniziativa amministrativa del Ministero del Lavoro e
dell’INPS volta a disapplicare quanto previsto dall’art. 80 c. 19 della legge
n. 388/2000 riguardo al requisito della carta di soggiorno per l’accesso alle
provvidenze economiche previste, nei limiti dei contenuti materiali statuiti dalle norme di diritto comunitario citate.
Si rammenta, inoltre, che l’art. 1
c. 1213 della legge 27-12-2006 (legge finanziaria 2007) ha disposto l’obbligo
per le autonomie locali e gli enti
pubblici in generale di “adottare
ogni misura necessaria a porre tempestivamente rimedio alle violazioni, loro imputabili, degli obblighi
degli Stati nazionali derivanti dalla normativa comunitaria”, al fine di “prevenire
l’instaurazione delle procedure d’infrazione di cui agli artt. 226 ss. TCE o di
porre termine ad esse”.
Anche alla luce delle norme sopra
richiamate, si chiede, pertanto, all’INPS e al Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali di emanare con urgenza
le necessarie istruzioni affinché venga data piena ed immediata
attuazione agli obblighi di non discriminazione e parità di trattamento
nell’ambito della sicurezza sociale scaturenti dalle norme di diritto
comunitario citate, con riferimento alle prestazioni a carattere non
contributivo che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione nazionale
vigente e che sono incluse
nell’elenco di cui all’allegato II bis del regolamento comunitario n. 1408/71 e
successive modifiche.
Si trasmette la presente segnalazione all’UNAR (Ufficio Nazionale
Anti-Discriminazioni), presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri-
Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità affinché anch’esso possa,
eventualmente e se lo ritiene opportuno, formulare una raccomandazione ed un
parere in merito, avvalendosi delle prerogative assegnategli dall’art. 7 c. 2
lett. b) e e) del D.lgs. n. 215/2003.
Ringraziando per l’attenzione che Vorrete porre alla presente, cogliamo
l’occasione per porgere i nostri migliori saluti.
Avv. Lorenzo Trucco, Presidente ASGI
Dott. Walter Citti, consulente ASGI
Di seguito il testo della sentenza del
Tribunale di Pistoia dd. 23 marzo 2007
Sentenza del Tribunale di Pistoia
Assegno sociale
TRIBUNALE DI PISTOIA IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO Il Tribunale di
Pistoia, sezione lavoro, in persona del dott. Giuseppe De Marzo, ha
pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile
in primo grado, iscritta al n. 532/2005 del Ruolo della Sezione controversie
di lavoro TRA OGGETTO: Assegno sociale SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato il 26 maggio 2005, N.
K., premesso: di essere regolarmente soggiornante in Italia dal 16 febbraio
2001, data in cui aveva operato il ricongiungimento familiare con il figlio
M. K.; che l’INPS aveva respinto la domanda con la quale ella aveva chiesto
l’attribuzione dell’assegno sociale maggiorato; che l’art. 80, comma 19 della
l. 388/2000, nella parte in cui condiziona alla titolarità della carta di
soggiorno la fruizione dell’assegno sociale e delle provvidenze economiche
che costituiscono diritti soggettivi, deve essere disapplicato per contrasto
con l’art. 1 del regolamento CE 859/2003 del 14 maggio 2003, sia pure con
riguardo al periodo successivo al 1° giugno 2003, ai sensi dell’art. 2 del
medesimo regolamento; tutto ciò premesso, ha chiesto la condanna dell’INPS
all’erogazione dell’assegno sociale maggiorato. MOTIVI DELLA DECISIONE L’art. 80, comma 19 della l. 23 dicembre
2000, n. 388 dispone: Ai sensi dell’articolo 41 del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286, l’assegno sociale e le provvidenze economiche che
costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia
di servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla legislazione
medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le
altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani
è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso
di soggiorno di durata non inferiore ad un anno. Sono fatte salve le
disposizioni previste dal decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237, e dagli
articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e successive
modificazioni. Il raccordo tra le due norme rende palese
che la finalità perseguita dal legislatore è stata quella di innovare il
quadro normativo previgente, riducendo la platea dei beneficiari delle
prestazioni assistenziali e limitandola ai soli titolari di carta di
soggiorno. Alcuni giudici di merito (v. Trib. Verona 22
maggio 2006) hanno optato per un’interpretazione dell’art. 80, comma 19 cit.,
che ne restringe la portata alle sole prestazioni erogate nell’ambito di
servizi sociali gestiti localmente dagli enti comunali e preordinati allo
sviluppo economico e civile della comunità territoriale, che incidono negli
ambiti scolastici, di quartiere e territoriali. Tale lettura, però, non
appare convincente, perché introduce una distinzione non prevista dalla norma
(la quale piuttosto valorizza la consistenza della posizione soggettiva
riconosciuta allo straniero) e comunque non coerente con l’espressa menzione
dell’assegno sociale, che certo non rientra nel quadro dei servizi sociali
locali. In effetti, l’art. 1 del regolamento citato condiziona
l’estensione delle previsioni dei regolamenti CEE 1408/71 e 574/72 ai
cittadini di paesi terzi e ai loro familiari e superstiti al soggiorno legale
nel territorio di uno Stato membro e alla presenza di una situazione in cui
non tutti gli elementi si collochino all’interno dello Stato medesimo. La portata della previsione è chiarita dal dodicesimo
considerando, in cui si ribadisce che non opera l’estensione quando la
situazione di un cittadino di un paese terzo presenta unicamente legami con
un paese terzo e uno Stato membro. Il limitato risultato pratico conseguito
attraverso tale interpretazione non può condurre ad ignorare l’univoco
dettato normativo. La domanda piuttosto appare meritevole di accoglimento,
alla luce di considerazioni fondate sul rilievo diretto e prevalente che le
norme internazionali spiegano a seguito del loro recepimento nell’ordinamento
interno. Ciò posto, senza pertanto ipotizzare una totale
sovrapposizione tra problematiche legate all’applicazione del diritto
comunitario e questioni poste dalle norme della Convenzione, è difficile
sottrarsi all’idea che la medesima esigenza di certezza ed uniforme
applicazione delle regole operi anche con riferimento alla Convenzione
europea una volta che si considerino l’obbligo delle Alte Parti Contraenti di
riconoscere ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le
libertà definiti dal titolo I della Convenzione stessa (art. 1 di quest’ultima),
l’istituzione della corte europea, chiamata ad assicurare il rispetto degli
impegni derivanti per gli Stati (ossia per tutti gli organi dello Stato, ivi
inclusi i giudici) dalla Convenzione e dai suoi protocolli (art. 19 della
Convenzione), la competenza assegnata alla Corte, che si estende a tutte le
questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione
(art. 32 della Convenzione). Gennaio 2007, n. 2800, Dorigo). Peraltro, se è vero che la norma di fonte
internazionale, anche se non costituzionalizzata, gode pur sempre di una
capacità di resistenza rispetto alla contraria previsione interna
sopravvenuta (si veda, ad es., Corte cost. 19 gennaio 1993, n. 10, che
ritiene trattarsi di norme derivanti da una fonte riconducibile a una
competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di
modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria. Agli stessi
risultati, ma valorizzando il fatto che la norma internazionale è sorretta
non solo e non tanto dalla volontà che certi rapporti siano regolati in un
certo modo, quanto dalla volontà che gli obblighi internazionali siano
rispettati, è giunta anche la dottrina), diviene consequenziale riconoscere
che le indicazioni interpretative della Corte europea vincolano il giudice
interno, senza che sussista alcuna necessità di sollecitare l’intervento
della Consulta. Tale risultato potrà anche essere raggiunto,
valorizzando i parametri della legge fondamentale ed eventualmente
sollecitandone una lettura conforme all’esegesi delle previsioni della
Convenzione offerta dalla Corte. Tuttavia, esso rappresenta una mera
eventualità che non elide in alcun modo il dovere del giudice di non dare
applicazione alla norma nazionale che reputi (o che sia stata giudicata dalla
Corte europea) contrastante con i dettami della Convenzione. a) l’abrogazione della legge dello Stato si
verifica nelle sole ipotesi di cui agli art. 15 disp. prel. c.c. e 136 Cost.,
che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur quando
quest’ultimo possa avvalersi dell’interpretazione del giudice internazionale;
b)il giudice è soggetto soltanto alla legge, per cui ammettere un potere (o
addirittura un obbligo) di disapplicazione significherebbe ammettere un
pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione
di revisione legislativa da parte del potere giudiziario che appare estranea
al nostro sistema costituzionale; c) le norme della Convenzione europea sopra
citata non possono ritenersi “comunitarizzate”, ossia assoggettate al
medesimo regime che caratterizza le norme di derivazione comunitaria, in
virtù del par. 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992,
in quanto il rispetto dei diritti fondamentali della Convenzione costituisce
una direttiva per le istituzioni comunitarie, non una norma comunitaria
rivolta agli stati membri; d) poiché anche le limitazioni della sovranità
statale che consentono l’applicazione delle regole comunitarie incontrano i
controlimiti rappresentati dai principi fondamentali dell’ordinamento
costituzionale e dai diritti inalienabili della persona umana, deve in ogni
caso essere verificato il rispetto dei principi costituzionali. diritto alle prestazioni assistenziali. Esclusa quindi l’operatività dell’art. 80, comma 19 sopra
citato, deve prendersi altresì atto che, ai sensi dell’art. 3, comma 6 della
l. 8 agosto 1995, n. 335, con effetto dal 1° gennaio 1996, in luogo della
pensione sociale e delle relative maggiorazioni, ai cittadini italiani,
residenti in Italia, che abbiano compiuto 65 anni e si trovino nelle
condizioni reddituali indicate dalla medesima norma è corrisposto un assegno
di base non reversibile fino ad un ammontare annuo netto da imposta pari, per
il 1996, a lire 6.240.000, denominato “assegno sociale”. Ora, nella specie,
le dichiarazioni prodotte dalla ricorrente attestano il possesso del
requisito reddituale. La ricorrente è nata nel 1920, per cui sicuramente
integrato è anche il requisito anagrafico. Ella inoltre risiede legalmente in
Italia. P.Q.M. Il giudice, dott. Giuseppe De Marzo,
definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da N. K. nei confronti
dell’INPS, l’accoglie e, per l’effetto, condanna l’INPS al pagamento
dell’assegno sociale maggiorato, con decorrenza dal 1° luglio 2004 sino alla
data del riconoscimento in via amministrativa dello stesso trattamento
(dicembre 2006), oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli ratei
sino al saldo, nonché al pagamento delle spese del processo, liquidate in
euro 1.400,00 (euro 700,00 per diritti, euro 700,00 per onorari), oltre
accessori di legge, da versare, ex art. 133 d.p.r. 115/2202 in favore dello
Stato. Pistoia, 23 marzo 2007 |
2.
“Bonus-bebè”: discriminazione
nell’accesso alla prestazione, cattiva amministrazione, procedimenti penali.
Commenti alla giurisprudenza civile e penale. Tribunale di Biella, ordinanza
02.01.2007; G.i.p. Varese, sentenza n. 112/07 dd. 29.03.2007; G.u.p. Varese,
sentenza n. 24/07 dd. 23.01.2007; G.u.p. Perugia dd. 12.04.2007.
La questione del c.d. “bonus-bebé” è tornata di recente agli onori della
cronaca in ragione delle prime risultanze dei procedimenti giudiziari avviati
nei confronti dei cittadini
stranieri che erano stati indagati in quanto avrebbero indebitamente ritirato presso gli uffici postali
l’assegno riservato ai SOLI figli di cittadini italiani o stranieri comunitari
nati nel 2005, in base alle disposizioni di cui alla legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006,
commi da 330 a 334).
Si ricorda come all’origine della vicenda, vi è stato un atto di imperizia da parte del
precedente governo, cioè la
mancata selezione da parte degli Uffici preposti all’invio della lettera del
Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi, in cui si annunciava al nuovo
nato e alla famiglia il diritto al ritiro dell’assegno di mille euro presso gli
uffici postali, che ha fatto
sì che la comunicazione sia stata inviata indiscriminatamente a tutte le
famiglie attraverso la Sogei (anagrafe tributaria). Tale procedura e’ stata “ imposta “ dalla fretta dettata dall’allora imminente scadenza elettorale perchè “ai sensi della legge 22 febbraio 2000,
n. 28 ‘dalla data di convocazione
dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto
divieto a tutte le Amministrazioni pubbliche di svolgere attività di
comunicazione ed utilizzarla per la campagna elettorale, ad eccezione di quelle
effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento
delle proprie funzioni’”. Quindi vennero inviate migliaia di lettere, con finalità
indirettamente di propaganda elettorale ed uso di denaro pubblico, a persone
prive dei requisiti richiesti dalla legge per il ritiro della somma.
Molti cittadini stranieri vennero tratti in inganno, sia perché le lettere vennero
indirizzate personalmente al nuovo nato, sia italiano che straniero, dando così
l’impressione di essere destinate precisamente al proprio nucleo
familiare, sia perchè presso le Poste Italiane non venne
effettuato alcun controllo dell’identità
della persona che, comunque, per ritirare l’assegno, doveva presentare un
documento d’identità da cui chiaramente emergeva la sua cittadinanza straniera.
Dal ritiro del beneficio economico pur in assenza del requisito di
cittadinanza italiana dell’esercente la potestà sul minore, come invece
richiesto dalla norma, derivò la conseguenza per cui migliaia di cittadini stranieri vennero fatti oggetto di indagine penale in tutta Italia, con
le contestazioni di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico.
Ad un anno di distanza, cominciano ad essere emanati i primi
provvedimenti dell’autorità giudiziaria che sembrano orientarsi in una
direzione favorevole ai cittadini
stranieri che erano incappati nell’equivoco generato innanzitutto da una
normativa discriminatoria, nonché dalla cattiva amministrazione, dall’irresponsabilità
e la spregiudicatezza delle autorità di governo di allora.
Già nell’ottobre scorso, il Tribunale di Vicenza aveva archiviato la
posizione di un cittadino extracomunitario sostenendo che la notizia di reato,
cioè la denuncia di truffa aggravata e falso in autocertificazione, era infondata
per mancanza dell’intenzionalità, cioè di quello che viene chiamato l’elemento
ideologico del reato: il dolo, ovvero l’intenzione e la consapevolezza di
commettere un illecito (1). Il giudice di Vicenza ha riconosciuto l’assenza del
dolo, riconoscendo che l’interessato era stato, in buona fede, tratto in
inganno dalla comunicazione
inviatagli ad personam
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con relativo mandato di pagamento
presso l’ufficio postale, in concorso con la scarsa conoscenza della lingua
italiana e delle leggi dello Stato. A conclusioni analoghe è giunto più di
recente il giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Perugia, con la
sentenza dd. 12 aprile 2007, il quale non ha mancato di sottolineare l’evidente
imperizia e contraddittorietà dell’azione delle autorità di governo e
ministeriali nella vicenda, concludendo che se all’imputato va riconosciuta la
difficoltà di comprensione della lingua italiana, “fargli vivere un processo
penale fondato su tali presupposti e circostanze, lo porterebbe a non capire
gli italiani” (2) Al medesimo risultato dello scioglimento di ogni imputazione
a carico dei cittadini stranieri imputati è giunto anche il tribunale di Varese, con due diverse
sentenze, una pronunciata dal giudice per le indagini preliminari (n. 112/2007
dd. 29 marzo 2007), con la quale si è disposto il non luogo a procedere;
l’altra del giudice per l’udienza preliminare (n. 24/07 dd. 07.02.2007), con la
quale si sono assolti gli imputati perché il fatto non costituisce reato. Il
tribunale di Varese ha fondato il suo giudizio in maniera giuridicamente più
articolata, ricorrendo non solo alla questione già citata dell’assenza del
dolo, ma anche a quella della
corretta qualificazione dei reati. Facendo riferimento alla giurisprudenza di
legittimità (Cassazione, II n. 14817 dd. 6 marzo 2003), il Tribunale di Varese sostiene, infatti, che agli interessati
non può essere addebitato il reato di truffa aggravata, ma solo quello di
indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’art. 316 ter
del codice penale, introdotto dall’art. 4 della legge 29.09.2000, n. 300, in
quanto la condotta incriminata è consistita nella semplice attestazione di
fatti non confermi al vero, senza alcuna ulteriore condotta fraudolenta. Non
essendo tuttavia l’ammontare del “bonus-bebè” superiore alla soglia minima di
punibilità prevista dall’art. 316 ter comma 2 CP, la condotta degli stranieri non ha un rilievo penale ma
sarebbe sanzionabile solo in via amministrativa. Da qui l’insussistenza del reato. (3)
Sebbene i provvedimenti di assoluzione debbono essere accolti
positivamente, non si può mancare di rilevare come all’origine della vicenda vi
sia stata una normativa discriminatoria
a danno dei cittadini stranieri extracomunitari regolarmente
soggiornanti; una discriminazione che configge apertamente con i principi e gli
obblighi di eguaglianza e di parità di trattamento scaturenti dal rispetto
della nostra Carta Costituzionale (il cui art. 31 prevede che la Repubblica
agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia
e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie
numerose e protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli
istituti necessari a tale scopo), così come da precise norme internazionali che
ai sensi degli art. 10, comma 2 e 117 comma 1 Cost. sono vincolanti per ogni
legge del nostro paese (art. 18 Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a
New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio
1991, n. 176, art. 10 Convenzione O.I.L. n° 143 del 26 giugno 1975, ratificata
e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 158, art. 10 del Patto
internazionale sui diritti economici, sociali e culturali firmato a New York il
16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881,
art. 1 Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo in
collegamento con l’art. 14 della Convenzione medesima).
Già la Corte Costituzionale con sentenza n. 432/2005 aveva già avuto modo di chiarire che ogni
trattamento differenziato che una norma legislativa voglia introdurre ai fini
dell’ammissione ad un beneficio deve rispondere a criteri di ragionevolezza da
valutarsi in relazione alle finalità e funzioni della norma medesima. L’assegno sul sostegno ai neonati costituì dunque
una provvidenza a tutela dell’infanzia e della maternità, principi e
valori che non ammettono
distinzioni sulla base della nazionalità, a meno che non si intenda
tutelare la procreazione solo quanto essa è “etnicamente” italiana, ma un tale
ragionamento e i provvedimenti che ne conseguano, si collocano certamente al di
fuori del quadro costituzionale.
E’ del tutto ovvio dunque che la normativa sull’assegno ai neonati
approvata con la legge finanziaria 2006, era viziata ab origine da un fondamento discriminatorio contrario
ai principi e valori costituzionali.
E’ da salutare positivamente dunque la recente ordinanza del Tribunale
di Biella dd. 02.01.2007 (estensore giudice Brovarone), con la quale è stato
accolto il ricorso proposto da un cittadino straniero mediante azione civile
contro la discriminazione ex art. 44 del T.U., contro l’esclusione
dall’erogazione del “bonus-bebè”,
anche se l’approccio seguito dal giudice non appare condivisibile a chi scrive.
Il giudice di Biella, infatti, sembra sostenere che la normativa sul
“bonus-bebè” non era in sé discriminatoria, sebbene facesse esplicito
riferimento al requisito della cittadinanza italiana o comunitaria
dell’esercente la potestà sul minore beneficiario, in quanto la norma era suscettibile di interpretazione alla
luce dell’art. 41 del d.lgs. n.
286/98, che in materia di assistenza sociale introduce il principio di parità
di trattamento con i cittadini italiani degli stranieri titolari di carta di
soggiorno o di permesso di soggiorno della durata di almeno un anno. Di
conseguenza, il giudice di Biella conclude che ad attuare il comportamento
discriminatorio è stato il Ministero dell’economia e delle finanze quando, in
sede di applicazione della normativa, ha indicato nei modelli di dichiarazione prestampati e nei fogli
informativi inviati ai possibili beneficiari il requisito –giudicato
restrittivo- della cittadinanza italiana o comunitaria, e quando ha poi preteso la restituzione della somma ritenuta
indebitamente versata dagli uffici postali (4) .
Muovendo dalla giurisprudenza recentemente formulata dal Tribunale di
Verona (22 maggio 2006), il giudice di Biella opta per una distinzione che
sussisterebbe tra prestazioni di assistenza sociale da un lato e l’assegno
sociale e le prestazioni erogate nell’ambito dei servizi sociali dall’altro .
Le prime ricadrebbero nelle sfere applicative dell’art. 41 del d.lgs. n.
286/98, e dunque del principio di parità di trattamento con i cittadini degli stranieri regolarmente
soggiornanti con un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno;
principio che avrebbe di conseguenza una copertura costituzionale per effetto
della sua collocazione all’interno della legge organica sulla condizione giuridica
degli stranieri e come tale, parrebbe di capire, avrebbe una capacità di
resistenza anche a fonti normative successive; alle seconde, invece, farebbe
riferimento l’art. 80 c. 19 della legge finanziaria 2001 (l. n. 388/2000) che
come è noto, ha ristretto tale principio di parità di trattamento ai soli
stranieri titolari della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno di lunga
durata) “per l’assegno sociale e le prestazioni economiche che costituiscono
diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi
sociali”. Essendo il “bonus bebé” a tutti gli effetti una prestazione di
assistenza sociale, esso ricadrebbe nelle sfere applicative dell’art. 41 del
TU.
Come ritenuto anche da altri giudici di merito
(vedasi Tribunale di Pistoia sentenza dd. 23 marzo 2007, commentata sopra),
tale approccio non appare convincente innanzitutto perché introduce una
distinzione non prevista dalla norma, la quale piuttosto valorizza la
consistenza della posizione soggettiva riconosciuta dallo straniero, in secondo
luogo perché non appare coerente, in quanto distinguerebbe l’assegno sociale
dalle altre prestazioni assistenziali aventi natura di diritto soggettivo (ad
as. Assegno o pensioni di invalidità), collocando in maniera alquanto anomala
il primo assieme alla prestazioni discrezionali gestite dai servizi sociali
locali. Infine, tale ragionamento è suscettibile di esiti controproducenti nel
momento in cui sembrerebbe avallare la possibilità di comportamenti
discriminatori su base di nazionalità da parte delle amministrazioni,
innanzitutto quelle locali, nell’erogazione di prestazioni e servizi sociali,
al di fuori di un quadro e criterio di ragionevolezza.
Sarebbe stato dunque assai preferibile che il giudice
di Biella fosse giunto al medesimo risultato della constatazione del carattere
discriminatorio del mancato accesso dello straniero alla prestazione del bonus
bebè muovendo da presupposti
diversi, quali quelli della contrarietà di tale restrizione ai principi di
uguaglianza e ragionevolezza richiamati dalla Corte Costituzionale nella sentenza
n. 432/2005, così come del divieto di discriminazione nella fruizione di beni
patrimoniali, cui le prestazioni assistenziali sono assimilate per effetto
della lettura congiunta dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla
Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e dell’art. 14 della Convenzione
medesima. In tal senso, la richiamata giurisprudenza del Tribunale di Pistoia,
pubblicata sopra nel presente numero
della newsletter, appare molto più
favorevole ed utile alla causa della parità di trattamento e della difesa degli
stranieri dalla discriminazione.
Note
(1)
In proposito,
vedasi, Bonus Bebè – Sentenza di assoluzione per un cittadino
straniero, dal sito web: www.meltingpot.org/articolo10313.html
(2)
La sentenza è
reperibile sul sito web: www.altalex.it
(3)
Le sentenze del
Tribunale di Varese possono essere scaricate dal sito web: http://www.meltingpot.org/articolo10317.html)
(4)
Si ricorda
peraltro, che con l’art. 1 commi 1287 e 1288 della legge 27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria
2007), si sono dichiarate come irripetibili le somme elargite a soggetti non
rientranti tra quelli legittimati alla percezione del beneficio, rinunciando
dunque il Ministero delle Finanze alla restituzione delle somme.
L’ordinanza del tribunale di Biella dd.
02.01.2007 è consultabile sul sito del progetto Leader: www.leadernodiscriminazione.it
alla finestra “Tutela giuridica/giurisprudenza”.
3.
Il T.A.R. Lombardia, sezione di Brescia, rinvia
alla Corte Costituzionale la discussa legge regionale lombarda che, disciplinando
l’attività dei “phone center”, ha introdotto regole considerate
irragionevolmente restrittive e discriminatorie dagli imprenditori stranieri.
Il T.A.R. Lombardia, Sez. I di Brescia, con
ordinanza n. 380 dd. 16 maggio 2007 (U.A. e altri – Comune di Brescia,
ASL di Brescia), ha giudicato rilevante e non manifestamente
infondata, in relazione agli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, dell’art. 9 comma 1 lett.
c), e dell’art. 12 della LR 3 marzo 2006 n. 6, recante “Norme per
l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa”.
Sarà dunque la Corte Costituzionale a doversi
pronunciare sulla legittimità della normativa della Regione Lombardia che ha
inteso disciplinare l’attività dei phone center in Lombardia, prevedendo in
modo molto dettagliato i requisiti per l’esercizio di tale attività; requisiti
che hanno suscitato polemiche e proteste da parte degli imprenditori stranieri
esercenti tali attività, in quanto giudicati irragionevolmente restrittivi e, pertanto, condizionati da
logiche discriminatorie di natura
etnico- razziale nell’esercizio della libertà d’impresa e di iniziativa
economica.
Sebbene il giudice amministrativo di Brescia non
abbia voluto considerare la questione sotto il profilo specifico della
normativa anti-discriminazione, non mancano nel testo dell’ordinanza
considerazioni ispirate ai principi costituzionali di uguaglianza di
trattamento e di ragionevolezza, che sono a fondamento delle clausole di non-discriminazione e sulle quali
vale la pena dunque soffermarsi.
Il
giudice amministrativo rileva che
la normativa regionale, disciplinando rigidamente requisiti architettonici e
igienico-sanitari dei phone-center ha invaso, in maniera atipica, il campo di competenza tradizionalmente
lasciato alle amministrazioni comunali e alle Aziende Sanitarie. Fin qui nulla
di illegittimo – rileva il TAR – purchè tale normativa non presenti
caratteristiche di arbitrarietà e manifesta irragionevolezza che fondino forme illegittime di
disparità di trattamento, rispetto a normative disciplinanti l’esercizio
dell’attività economica e d’ impresa in
altri settori.
Sotto questo profilo, un primo profilo di irragionevolezza della norma
è da individuare nel carattere retroattivo della stessa, trovando applicazione
anche nei confronti degli esercizi già attivi alla data della sua entrata in
vigore, e a cui è stato chiesto di adeguarsi entro un anno ai nuovi requisiti,
pena la revoca dell’autorizzazione. L’ordinanza del TAR Lombardia rileva come
l’assenza di ogni possibilità di graduazione o deroga negli
interventi di cui alla L. R.
6/2006 fonda una disparità di trattamento rispetto alla regolamentazione di situazioni analoghe così come
previsto dal Regolamento locale di Igiene per altri settori di attività
commerciali.
Inoltre, gli stringenti requisiti
igienico-sanitari introdotti dalla
L.R. 6/2006 generano –secondo il TAR Lombardia - un’indebita
assimilazione dell’attività di phone center con attività commerciali quali la somministrazione di alimenti o altri servizi, quali cinema o teatri, mentre l’attività di phone center andrebbe inquadrata invece nell’attività di
servizio di comunicazione elettronica. Ne deriverebbe dunque che le limitazioni in tal modo operate
dalla legge regionale in questione, porrebbero questioni anche in merito alla
tutela della concorrenza sul mercato comunitario. In altri termini, nella
regolamentazione delle attività di phone centers, la Regione Lombardia avrebbe
dovuto tenere conto della disciplina comunitaria sui servizi di comunicazione
elettronica, che non ammette limitazioni alla libertà di iniziativa economica e
alla concorrenza, se non per esigenze di difesa e sicurezza dello Stato, della
protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell’ambiente e della
riservatezza. Sotto questo profilo, l’ordinanza del TAR Lombardia si spinge ad
affermare che il fatto che i gestori dei phone center siano cittadini stranieri
extracomunitari non ha alcuna rilevanza ai fini di eventuali limitazioni
relative ad esigenze di ordine pubblico, anche perché non vi sono norme interne
che prevedano un trattamento distinto.
L’ulteriore profilo di irragionevolezza riguarda
l’introduzione di standard igienico-sanitari nella L. R. 6/2006 che assimilano
i phone center alle attività di somministrazione di alimenti e bevande ovvero ad attività di gestione e
somministrazione di servizi di spettacolo quali cinema e teatri, quando, nel
primo caso, si vietano nel contempo a tali esercizi qualsiasi altra attività, ivi
compresa quella di
somministrazione di alimenti, mentre, nel secondo caso, non si tiene conto di
un livello di frequentazione e dei tempi di permanenza del pubblico di gran lunga inferiori a
quello degli esercizi citati.
Per
tale complesso di ragioni, il TAR Lombardia ha chiesto alla Corte
Costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della legge
regionale lombarda sui phone-center, sostenendo che essa ponga in essere una
violazione irragionevole e
contraria ai principi della buona amministrazione dei valori costituzionali di
uguaglianza e parità di trattamento in relazione all’esercizio dei diritti
fondamentali alla libertà d’impresa e di iniziativa economica, nonché eccede
alla potestà legislativa della regione in una materia disciplinata dalla
normativa comunitaria e nazionale.
Il testo
dell’ordinanza del Tar Lombardia, Sez. I di Brescia [ Ordinanza n. 380 del 16
maggio 2007, Pres. Morri, Rel. Pedron. U.A. ed altri – Comune di Brescia,
ASL di Brescia] può essere scaricato dal file GIURISPRUDENZA nel sito del
progetto Leader: www.leadernodiscriminazione.it
4.
Uguaglianza di
trattamento nell’accesso alle misure alternative alla detenzione. Anche gli
stranieri irregolari hanno la possibilità di fruire della misure alternative
alla pena detentiva.
Commento alla sentenza della Corte Costituzionale
n. 78 dd. 5 marzo 2007 a cura dell’avv. Marco Paggi dell’ASGI (tratto dal sito
web: www.meltingpot.org )
La sentenza n. 78
del 5 marzo 2007 emessa dalla Corte Costituzionale, è stata
depositata il 16 marzo scorso e si esprime in merito alla questione di
legittimità costituzionale della normativa in materia di ordinamento
penitenziario (legge 354/75 e successive modifiche ed integrazioni) che
disciplina anche la possibilità di accedere a misure alternative alla
detenzione, in relazione alla condizione giuridica dello straniero.
Una ordinanza del 24 maggio 2005 del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari ha
sollevato la questione di legittimità costituzionale della normativa vigente
con riferimento particolare alla esclusione dalla possibilità di fruire di misure alternative da parte
di cittadini stranieri privi di un regolare permesso di soggiorno.
L’ ordinanza della Corte di Cassazione
Secondo una ordinanza della Corte di Cassazione, che aveva ritrasmesso gli
atti al Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, la condizione di straniero
irregolarmente soggiornante sarebbe incompatibile con la possibilità di fruire
delle cosiddette misure alternative, in questo caso dell’affidamento in prova
al servizio sociale, perché si tratta di una forma di espiazione della pena che
non viene scontata fisicamente all’esterno del carcere.
La questione di diritto, molto interessante, sta proprio nella supposta
discriminazione che è stata ravvisata dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari
tra i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, i cittadini italiani, i
cittadini comunitari, ed invece i cittadini extracomunitari privi di permesso
di soggiorno che sarebbero, a giudizio della Corte di Cassazione, esclusi dalla
possibilità di fruire delle misure alternative alla detenzione in quanto la
condizione di irregolarità del soggiorno sarebbe concettualmente incompatibile
con la possibilità di soggiornare, seppur temporaneamente, in territorio
italiano, allo scopo di attuare la misura alternativa alla detenzione.
La sentenza afferma che il “clandestino” può stare in carcere, pur non avendo
diritto al soggiorno in Italia, mentre nel momento in cui risulta ammessa la
misura alternativa alla detenzione, questa, sarebbe incompatibile con la
condizione di irregolarità.
Questa forma di espiazione della pena, regolata in via generale dalla legge,
non sarebbe ammissibile per lo straniero irregolare, che potrebbe stare in
Italia solo in condizione di detenzione e non potrebbe invece fruire di nessuna
misura ad essa alternativa.
Secondo la Corte di Cassazione, la condizione di soggiornante irregolare,
sarebbe di per sé, senza particolari motivazioni aggiuntive, incompatibile con
la ammissione alle misure alternative.
La garanzia del principio della funzione rieducativa
della pena
Il Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, con
ordinanza del 24 maggio 2005, ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale, ovvero, si è rivolto alla Corte Costituzionale chiedendo di
pronunciarsi sulla compatibilità tra le norme che regolano il trattamento
penitenziario e le misure alternative, rispetto a quanto stabilito dall’art. 27 della Costituzione, che sancisce il
principio della funzione rieducativa della pena. La condanna da
scontare, nelle varie forme previste dalla legge, ha una funzione rieducativa,
questa verrebbe pregiudicata nei confronti dello straniero irregolare che non
potesse fruire, con le stesse modalità e le stesse forme degli altri cittadini
condannati, delle misure alternative alla detenzione.
Numerose sentenze della Corte di Cassazione, che è il massimo organo della
giurisdizione in Italia, hanno trattato questo argomento con orientamenti
difformi. Le Sezioni Unite della Cassazione si sono successivamente pronunciate
nel senso esattamente opposto rispetto alla sentenza che, invece, ritenendo incompatibile
con la condizione di irregolare soggiorno la fruibilità di misure alternative,
aveva dato luogo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal
Tribunale di Sorveglianza di Cagliari.
La questione di legittimità costituzionale
La Corte di Cassazione Sezione Unite, con la successiva sentenza n. 14500 del 28 marzo 2006,
è tornata sull’argomento, riconoscendo invece, con maggiore autorevolezza, che
la condizione di irregolarità del soggiorno non osterebbe, in linea di
principio, alla concessione di misure alternative.
La questione di legittimità costituzionale precedentemente sollevata dal
Tribunale di Sorveglianza di Cagliari è comunque pervenuta all’esame dalla
Corte Costituzionale che si è pronunciata sulla questione con la Sentenza del 5
marzo 2007 depositata il 16 marzo.
La sentenza merita un commento in quanto la Corte Costituzionale ha messo un
punto fermo, aggiungendo la propria interpretazione, e confermando quella già fatta
propria dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 354/75 ove
risultino interpretati nel senso che, allo straniero entrato irregolarmente nel
territorio dello Stato, o comunque privo di permesso di soggiorno, siano
precluse le misure alternative da essi previste.
Nessuna autorità giudiziaria, in
seguito a questa sentenza, potrà più affermare l’impossibilità
di ammettere lo straniero, condannato e detenuto, alle misure alternative, per
il solo fatto che egli risulti irregolarmente soggiornante fin dall’inizio del
suo soggiorno in Italia, o che, come più spesso accade, sia divenuto
irregolarmente soggiornante anche a seguito dei trascorsi giudiziari che lo
hanno portato in carcere. In nessuno di questi casi si potrà escludere, in
linea di principio, l’ammissibilità alle misure alternative, pertanto, lo straniero extracomunitario che sia privo o meno
di permesso di soggiorno, avrà la stessa legittimazione a proporre, tramite il
proprio difensore, la domanda di applicazione di una misura alternativa o di
più misure alternative, alle stesse condizioni previste per un cittadino
italiano.
Rimangono
difficoltà pratiche
Nella pratica si verifica che, per lo straniero in
condizione irregolare, è molto più difficile ottenere il riconoscimento di una
misura alternativa, perché, normalmente, ha una minore possibilità di difesa
tecnica, cioè minori possibilità di pagare un avvocato e di essere assistito in
maniera puntuale, meno radicamento nel territorio, meno riferimenti esterni
rispetto al carcere, con conseguenti maggiori difficoltà, ad esempio, a
trovarsi un’occupazione o un alloggio, condizioni essenziali per
l’ammissibilità della richiesta di alcune misure alternative.
Non sono
ammissibili discriminazioni nell’applicazione delle misure alternative di
espiazione della pena
A prescindere da questi problemi pratici, seppur non di poco
conto, dal punto di vista giuridico, questa sentenza mette fine alle controversie
sull’ammissibilità o meno delle persone senza documenti alle misure
alternative, riconoscendo che il
principio garantito a livello costituzionale, della funzione rieducativa della
pena, si deve applicare totalmente, ed in piena coerenza, anche ai cittadini
stranieri privi di un regolare permesso di soggiorno. La Corte
Costituzionale, in una delle ultime frasi della sentenza, precisa che il
legislatore potrebbe in linea teorica diversificare le forme sanzionatorie
previste, nel caso di stranieri entrati irregolarmente nel territorio dello
Stato, o privi di permesso di soggiorno, ma senza potersi spingere fino al
punto di sancire un divieto assoluto e generalizzato di accesso alle misure
alternative nei termini automatici della cosiddetta incompatibilità
concettuale, fatti propri dalla Corte di Cassazione nella sentenza citata e che
aveva dato luogo al procedimento. Un simile divieto contrasterebbe, secondo la
Corte Costituzionale, con i principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario
che, sulla base del principio dell’uguale dignità delle persone e della
funzione rieducativa della pena, non opera alcuna discriminazione in merito al
trattamento, sulla base della liceità della presenza del soggetto nel
territorio nazionale.
La Corte precisa inoltre che non può trovare spazio nel
nostro ordinamento costituzionale una incompatibilità concettuale tra le misure
alternative e il soggiorno irregolare, dal momento che la mancanza di un titolo abilitativo al soggiorno,
di per sé, non è sintomatica
in modo univoco né di una particolare
pericolosità sociale, che sarebbe quindi incompatibile con il
perseguimento di un percorso rieducativo attraverso qualsiasi misura
alternativa, né della sicura assenza
di un collegamento col territorio, che garantisca la proficua applicazione
della misura medesima.
In conseguenza di questo automatismo che sarebbe stato applicato dalla Corte di
Cassazione vengono quindi ad essere accomunate situazioni eterogenee; in altre
parole, se fosse vero, come ha sostenuto la Corte di Cassazione, che la
condizione di irregolarmente soggiornante è incompatibile con qualsiasi misura
alternativa, si verrebbe ad assoggettare alle stesse misure esclusive una serie
di situazioni soggettive diversificate, come ad esempio, secondo quanto
affermato dalla Corte Costituzionale, quella dello straniero entrato
clandestinamente nel territorio in violazione del divieto di reingresso, e
detenuto proprio per questo motivo, o quella dello straniero che abbia
semplicemente omesso di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno e che sia
detenuto per un reato che non riguarda la normativa in materia di immigrazione.
Si tratta di situazioni completamente diverse, che verrebbero appiattite in un
identico trattamento di esclusione, e questo non avrebbe nessuna ragione dal
punto di vista delle misure alternative che è appunto quello di rieducare e non
quello di affliggere o punire ulteriormente lo straniero detenuto.
La condizione
di persona soggetta all’esecuzione di una pena costituisce il titolo di
soggiorno
In merito alla incompatibilità tra la normativa e il Testo
Unico sull’immigrazione, ovvero tra la condizione di straniero irregolarmente
soggiornante e l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, che
costituirebbe l’argomento fondante di questa esclusione disposta a suo tempo
dalla Corte di Cassazione, proprio la condizione di persona soggetta
all’esecuzione della pena costituisce il titolo di soggiorno. Secondo quando
affermato dalla Corte Costituzionale, quando una persona è sottoposta
all’espiazione di una pena in Italia è obbligata a soggiornarvi. Il fatto di
essere sottoposti all’espiazione della pena, nel tempo della sua durata,
comporta un obbligo di soggiorno sul territorio nazionale. La pena stessa costituisce il titolo di soggiorno
che, non solo autorizza, ma obbliga al soggiorno sul territorio italiano. Se questo
è vero, secondo la Corte Costituzionale, non vi sarebbe un’incompatibilità fra
la condizione di irregolare e la condizione di soggetto che chiede
l’applicazione di misure alternative, poiché i presupposti che giustificano la
detenzione in carcere sono gli stessi che dovrebbero giustificare, di fronte ai
requisiti previsti dalla legge, la fruizione delle misure alternative.
La Corte Costituzionale ha con questa sentenza messo fine a qualsiasi
controversia al riguardo e si può dire che lo straniero irregolare non è
escluso dalle misure alternative.
La decisione riporta la situazione ad un minimo di parità di trattamento dal
punto di vista dello straniero condannato rispetto ai cittadini italiani o
rispetto ai cittadini regolarmente soggiornanti, nel senso che tutti, almeno in
astratto e salvo i problemi pratici e sostanziali ai quali si è fatto
riferimento, potrebbero essere ammessi alle stesse misure.
Dopo l’espiazione della pena riprende il procedimento di
espulsione
È utile specificare che, nel momento in cui la pena cessa, e
con essa la misura alternativa, con completa espiazione della pena, lo
straniero che si trovava in condizione di irregolare soggiorno prima di essere
arrestato e condannato, rimane irregolarmente soggiornante. Il fatto di aver
compiuto un reato ed espiato la relativa pena
non innesca una procedura di regolarizzazione; a quel punto può
riprendere corso il normale trattamento sanzionatorio previsto dalla legge per
lo straniero irregolarmente soggiornante, quindi l’espulsione. Naturalmente, la
sentenza si occupa soltanto di stabilire un principio di non discriminazione,
di fronte alla Costituzione, tra cittadini extracomunitari senza permesso di
soggiorno e cittadini con permesso di soggiorno o italiani, sotto il profilo
dell’uguale trattamento nell’ambito della espiazione della pena, sia quella
scontata in condizioni di detenzione, ma anche quella scontata secondo le
misure alternative disciplinate dalla legge. La questione riguarda solo questo
aspetto, non può cioè far sollevare allarme a chi volesse sostenere che la
Corte Costituzionale intenda favorire la permanenza di stranieri irregolari sul
territorio italiano.
Resta infatti chiaro che, una volta terminata l’espiazione della pena, anche
sotto forma alternativa, la condizione di irregolarità del soggiorno non può
che dar luogo al provvedimento di espulsione.
I casi particolari di inespellibilità
L’espulsione non può essere eseguita solo nei casi
particolari e rari previsti dalle legge, in cui vi siano condizioni oggettive o
soggettive dello straniero che consentano la permanenza sul territorio
italiano.
In base all’art.19 del T.U., uno
straniero irregolarmente soggiornante è inespellibile nel caso in cui corra il
rischio di subire persecuzioni, trattamenti disumani o degradanti, nel proprio
paese di origine, o nel paese in cui dovrebbe essere inviato a seguito del
provvedimento di espulsione.
Ancora, l’espulsione non può avere luogo nel
caso di persone che siano conviventi con cittadini italiani, o coniugi, o
parenti entro il quarto grado. Nel caso in cui vi sia
convivenza con persone aventi queste caratteristiche, l’art. 19 del Testo Unico
sull’immigrazione, prevede il divieto di espulsione, salvo che la persona non risulti pericolosa per la
sicurezza dello Stato, o l’ordine pubblico. In questo caso,
nonostante la condizione irregolare di soggiorno, l’applicazione di questa
norma, che prevede il divieto di espulsione in relazione a particolari rapporti
di parentela o di matrimonio con cittadini italiani e alla convivenza con
questi, permette di autorizzare il rilascio di un permesso di soggiorno per
motivi di famiglia valido anche per lavoro.
La giurisprudenza, sia pure in pochi casi sinora, ha anche elaborato in via interpretativa
la inespellibilità per motivi di salute, quando l’esecuzione dell’espulsione
potrebbe esporre lo straniero al rischio di morte o aggravamento della
malattia, a fronte della particolare condizione condizione di salute e della
necessità di cure non disponibili nel paese di destinazione (ad es. persone
affette da AIDS o in attesa di trapianto di organi). Inoltre, il D.Lgs.
n°5/2007, che recepisce a direttiva UE n°86/2003, avrebbe fatto venir meno
l’automatismo dell’espulsione, cui si dovrebbe sostituire una attenta
valutazione caso per caso, nel caso di persone che abbiano altri familiari in
Italia, sicché anche nel caso di stranieri condannati per delitti, la
valutazione della presenza di altri familiari e del loro grado di integrazione
nel territorio potrebbe comportare una decisione favorevole sulla domanda di
rinnovo del permesso di soggiorno come pure la revoca del provvedimento di
espulsione, nonostante le specifiche circostanze ostative previste dall’art.4
comma 3 del T.U.. Va detto, però, che l’interpretazione di questa norma di
recentissima introduzione nel nostro ordinamento non è ancora chiara, come poco
chiare risultano pure le scarne circolari al riguardo, e soprattutto la sua
applicazione non risulta ancora “assimilata” dalle questure, quindi non è
possibile per il momento tracciare con qualche seria approssimazione la sua
portata effettiva dal punto di vista pratico. Escludendo questi rari casi, la
condizione del cittadino irregolare, terminata l’espiazione della pena,
riprende il suo normale corso dal punto di vista dell’applicazione del sistema
sanzionatorio.
Il procedimento di espulsione e la vanificazione dei
processi di reinserimento
La condizione dello straniero che viene condannato e
incarcerato e poi partecipa a un programma di rieducazione con attività
partecipativa valutata positivamente, e che successivamente beneficia di misure
alternative, comportandosi bene, e dimostrando capacità e volontà di
reinserimento nel territorio, anche nei casi di persone da molti anni in
Italia, in possesso di regolare permesso di soggiorno perso proprio a causa di
successive vicende giudiziarie, preoccupano chi opera all’interno della
struttura penitenziaria.
In particolare, chi opera nei servizi sociali e nei progetti di reinserimento
sociale, ritiene che, questo sistema, faccia venir meno gli strumenti di
governo del fenomeno e anche di incentivo alla rieducazione dei soggetti.
E’ evidente che, se non c’è la possibilità di prospettare ad una persona che si
comporta bene, e che partecipa a un progetto di rieducazione, non solo la
possibilità ma nemmeno la speranza di continuare a vivere nel territorio in cui
ormai si è radicato, dove il soggetto ha stretto una rete di relazioni umane,
affettive e di lavoro, ben difficilmente si potrà sperare nella collaborazione
di ampi strati della popolazione penitenziaria.
Se non per motivi di giustizia per lo meno per motivi di pragmatismo, gli
operatori del settore si sentono fortemente a disagio perché vedono vanificato
il lavoro di facilitazione e di promozione del reinserimento sociale e della
rieducazione del detenuto, ogni qual volta il percorso viene interrotto, ed una
volta espiata la pena lo straniero si trovi ad essere espulso.
L’ auspicio è che si possa almeno prendere in considerazione, nell’ambito di
una valutazione discrezionale da parte degli stessi servizi
dell’amministrazione penitenziaria che sono preposti all’applicazione delle
misure alternative, la possibilità di misure pur discrezionali di reinserimento
e di risocializzazione dei condannati, che consentano di regolarizzare, in
particolari condizioni, la situazione di soggiorno; in particolare nei casi in
cui la persona viva da molti anni in Italia, non conservi più alcun legame con
familiari, parenti e la comunità del proprio paese, che, dopo un episodio
giudiziario che lo ha portato a una condanna, abbia partecipato fattivamente e
con buoni risultati valutati dall’amministrazione penitenziaria a un processo di
riabilitazione.
Al riguardo si registra un diffuso disagio a tutti i livelli
degli operatori dell’amministrazione penitenziaria, che sarebbe bene fosse
espresso e debitamente portato a conoscenza dell’amministrazione centrale.
Revoca del pds in seguito a condanna penale
La legge
Bossi-Fini ha ulteriormente appesantito le conseguenze per il permesso di
soggiorno a fronte di condanne penali, introducendo un vero e proprio
automatismo: infatti, il nuovo testo che è stato introdotto dalla legge Bossi Fini
nel 2002 (art. 4, comma 3 del T. U. sull’Immigrazione) prevede che, in via automatica, lo straniero che
risulti condannato per una serie di reati, con sentenza definitiva, non possa
più rinnovare il permesso di soggiorno e anzi, che questo, se in corso di
validità, debba essere revocato da parte dell’autorità di polizia. Questa
norma, stabilita dalla legge Bossi-Fini, legge 189 del 2002, ha suscitato serie
preoccupazioni proprio perché, a fronte di questo automatismo, in caso di
condanna, anche a seguito di semplice patteggiamento, automaticamente e senza
possibilità di effettuare una valutazione caso per caso, si prevede di fatto
l’ingresso nella clandestinità e la successiva espulsione.
Da un lato, dunque, chi era clandestino al momento dell’arresto, o lo è
divenuto successivamente, una volta espiata la pena deve essere espulso.
Dall’altro abbiamo una norma che, in caso di condanna, automaticamente produce
la clandestinità dello straniero, nel senso che comporta obbligatoriamente la
revoca dell’eventuale permesso di soggiorno che precedentemente fosse in suo
possesso.
Quando uno straniero entra in carcere,
se prima era clandestino rimane tale, e successivamente all’espiazione della
pena viene espulso. Se invece non era clandestino lo diventa, e quindi viene
comunque espulso una volta espiata la pena. Questo in relazione ad una lunga
serie di reati, senza distinguere nemmeno in relazione alla loro gravità.
Addirittura reati che di fatto non comportano una effettiva detenzione, reati
per i quali si applica la sospensione condizionale della pena, possono esporre
lo straniero, a seguito della sentenza divenuta definitiva, alla perdita del
permesso di soggiorno e alla successiva espulsione.
L’elenco dei reati che viene contemplato dall’art. 4, comma 3, del T.U. è molto lungo, comprende anche reati di modestissima entità, anche sottoposti ad un accertamento puramente formale, ad esempio nel caso di patteggiamento: in questo caso, la condanna non viene irrogata dopo un effettivo accertamento compiuto nel dibattimento, bensì in base al meccanismo della richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato (talvolta incautamente consigliata dal difensore, magari nominato d’ufficio, senza tener conto delle conseguenze sul piano amministrativo.
La lista dei reati che comportano questa
conseguenza della perdita del permesso di soggiorno una volta venuta definitiva
la sentenza di condanna, è molto lunga. Sono tutti i reati previsti dall’art. 380 commi 1 e 2 del Codice di
Procedura Penale, che comprende tutti i reati per cui è
previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, è sufficiente la condanna per un reato
di modestissima entità (furto con scasso di una bicicletta) per subire come
effetto automatico, in base al nuovo testo introdotto dalle legge Bossi- Fini,
la perdita del permesso di soggiorno e la successiva espulsione. In questa
lista rientrano anche reati di maggiore gravità, come quelli in materia di
stupefacenti, in materia di libertà sessuale, di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina, e in materia di sfruttamento della
prostituzione, che, ovviamente, possono avere diverse intensità e gravità. In
questi casi appunto, la legge ora prevede una sorta di automatismo.
È un automatismo che suscita qualche perplessità, proprio riguardo alla indiscriminata applicazione dello stesso
trattamento, a prescindere dalla gravità del fatto commesso, e
soprattutto senza che vi sia alcun
potere o dovere di valutazione del caso concreto, ma
un’applicazione semplicemente e puramente automatica.
ORGANIZZAZIONI NON
GOVERNATIVE E SITI INTERNET IN MATERIA DI NON-DISCRIMINAZIONE
Organizzazioni
non governative attive nel contrasto alle discriminazioni etnico-razziali negli
Stati dell’Europa orientale membri dell’Unione Europea .
Bulgarian Helsinki
Committee (Comitato di Helsinki
della Bulgaria)
Nato nel 1992 come
organizzazione non governativa per la promozione dei diritti umani, il
Bulgarian Helsinki Committee (BHC) si pone come obiettivo principale il rispetto del
principio di non discriminazione e la sua applicazione pratica attraverso l’attuazione
della legislazione internazionale e lo sviluppo della legislazione interna. Sin
dal 1995, il BHC ha sviluppato un programma di contrasto alle
discriminazione e ha vinto molte
importanti cause legali, in Bulgaria e in altri paesi, su tematiche come
l’eccessivo uso della forza da parte della polizia, le discriminazioni in vari
settori e le restrizioni alla libertà religiosa.
Center for Legal Resources, Romania
Il Center for Legal
Resources
è una delle principali organizzazioni che si occupano di lotta alle
discriminazioni in Romania. La sua attività mira a costituire un quadro
legislativo e istituzionale che permetta il godimento del diritto alla parità
di trattamento attraverso il miglioramento della legislazione
anti-discriminazione a livello nazionale, la corretta applicazione della
normativa nazionale ed internazionale, l’aumento della consapevolezza sul
fenomeno in generale e la pressione sulle autorità per indurle a prendere una
posizione contro politiche, atti o affermazioni razziste.
Poradna –
Centro per i diritti umani e civili, Repubblica di Slovacchia
Poradna pre Obcianske a
ludske prava
è un’organizzazione non governativa creata nel 2001, con sede a Kosice, che
lavora per il contrasto alla discriminazione razziale e per la protezione dei
diritti delle minoranze, in particolare della minoranza Rom, numerosa nella
Slovacchia orientale. Porodna porta avanti progetti e programmi di ricerca,
advocacy e supporto in cause legali strategiche, mirando soprattutto a
conseguire cambiamenti sistematici nelle pratiche e nelle procedure e ad
ottenere risarcimenti per le vittime delle discriminazioni.
SEGNALAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
1.
Daniele MAFFEIS, Offerta al
pubblico e divieto di discriminazione, INDICE SOMMARIO CAPITOLO I QUALITA' PERSONALI DELLA CONTROPARTE, PRECONCETTO DEL CONTRAENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE 1. La tradizionale rilevanza delle qualita' personali della controparte contrattuale e la recente introduzione del divieto legislativo di discriminazione nel contratto 1 2. La discriminazione negli spunti rapidi e discontinui della dottrina del contratto 18 3. La nascita del diritto contrattuale antidiscriminatorio. Il divieto di discriminazione e la politica di integrazione nel quadro del diritto antidiscriminatorio europeo 25 3.1. La distinzione tra divieto di discriminazione e principio di uguaglianza davanti alla legge 30 3.2. La scelta legislativa di fare del contratto uno strumento di integrazione 31 3.3. Il contraente privato come possibile soggetto attivo della discriminazione 34 3.4. Nozione di discriminazione nel contratto: condotta discriminatoria e preconcetto del contraente 36 3.5. La giustificazione politica del divieto di discriminazione 41 4. La pretesa antinomia tra liberta' contrattuale e divieto di discriminazione. Critica 46 CAPITOLO II RILEVANZA ECCEZIONALE E SIGNIFICATO DELLA DISPARITA' DI TRATTAMENTO 1. Significato del sintagma "parita' di trattamento" nella legislazione comunitaria: la rilevanza del confronto fra i trattamenti delle diverse controparti 57 2. La perdurante inesistenza di un divieto di disparita' di trattamento 72 2.1. L'inesistenza di un divieto di disparita' di trattamento come strumento di rimozione della disuguaglianza di fatto delle controparti 76 2.2. L'inesistenza di un divieto di disparita' di trattamento come strumento di tutela del consumatore 82 2.2.1. Parita' e disparita' spontanea nel trattamento dei consumatori 82 2.2.2. L'equivoco della parita' come strumento di tutela: l'uguaglianza dei consumatori nella soggezione 85 2.2.3. Tutela dei consumatori ed eterointegrazione del contratto 94 2.2.4. Il problema degli ostacoli alla trattativa individuale dei consumatori 97 2.2.5. Parita' di trattamento ed uguaglianza dei consumatori davanti alla legge 101 2.2.6. Conclusioni sulla liceita' della disparita' di trattamento nei contratti dei consumatori 105 2.3. L'inesistenza di un divieto di disparita' di trattamento nei contratti della pubblica amministrazione 105 3. Il pericolo di esclusione dal mercato e l'eccezionale divieto del trattamento ingiustificatamente peggiore dell'impresa in situazione di dipendenza economica 110 CAPITOLO III CARATTERI GENERALI DELLE LEGGI ANTIDISCRIMINATORIE 1. Varieta' dei fenomeni di esclusione sociale e dei fattori di discriminazione e categorie ordinanti del diritto privato 121 1.1. Il modello equal opportunity nell'accesso alla proprieta' e l'irrilevanza del mistake sugli attributes della controparte contrattuale negli Stati Uniti d'America 123 1.2. Il risalente Race Relations Act e l'irrilevanza del mistake sugli attributes nel Regno Unito 126 1.3. I precedenti giurisprudenziali sulla discriminazione come limite alla liberta' contrattuale e l'entrata in vigore delle leggi antidiscriminatorie in Francia 127 1.4. L'esitazione della dottrina tedesca e la forte resistenza del legislatore al riconoscimento di un divieto di discriminazione 129 1.5. Brevi cenni sullo stato di recepimento della Direttiva 2000/43/CE in altri paesi dell'Unione Europea 135 2. Carattere esclusivo della legislazione dello Stato ed esclusione della potesta' legislativa delle regioni 137 3. Soggetto attivo e soggetto passivo della discriminazione 140 3.1. Ambito soggettivo di applicazione 140 3.1.1. Il contraente, soggetto attivo della discriminazione nell'alienazione o nell'acquisto di beni e nella prestazione o nell'acquisto di servizi 140 3.1.2. La controparte contrattuale, soggetto passivo della discriminazione 145 3.2. L'eccezione del trattamento dello straniero non regolarmente soggiornante in Italia: accesso all'alloggio e condizione di reciprocita' 151 4. La natura dell'atto discriminatorio 158 4.1. Distinzione tra discriminazione ed emulazione 158 4.2. Il carattere determinante del consenso in via esclusiva della qualita' personale e la natura di illecito di dolo generico 159 4.3. Qualita' della persona e qualita' della prestazione 165 4.4. La prova del carattere determinante del consenso in via esclusiva della qualita' personale 171 5. La liceita' del rifiuto, individuale o concertato, di acquisto da parte del consumatore ed il boicottaggio 176 CAPITOLO IV IL PRINCIPIO GENERALE DI NON DISCRIMINAZIONE 1. Verso un principio generale di non discriminazione: dagli spunti della dottrina alla Carta di Nizza 179 2. Il presupposto della diffusione sociale del fenomeno e la natura di illecito di dolo generico 184 3. Applicazioni notevoli 191 3.1. Banche e fondi etici 191 3.2. Le opinioni politiche della controparte contrattuale 194 CAPITOLO V OFFERTA O INVITO RIVOLTI AL PUBBLICO, SVOLGIMENTO DELLA TRATTATIVA E FORMAZIONE DEL CONTRATTO: IL RIFIUTO DI TRATTARE O DI CONTRATTARE E LA PROPOSTA O LA PREDISPOSIZIONE DI CONDIZIONI PIU' SVANTAGGIOSE 1. Il messaggio pubblicitario 199 2. I contratti di scambio e l'applicazione del divieto di discriminazione alle dichiarazioni al pubblico ed ai contratti conclusi a seguito di un'offerta o di un invito ad offrire o a manifestare interesse rivolti al pubblico. I contratti associativi e l'applicazione del divieto di discriminazione alle clausole statutarie che regolano le condizioni di ammissione 203 2.1. Contratti di scambio e dichiarazioni al pubblico 203 2.2. Contratti associativi e condizioni di ammissione 214 3. La liceita' della discriminazione nella trattativa individualizzata 215 4. Il carattere limitato dei beni o dei servizi offerti al pubblico. Scelta del dichiarante tra piu' accettazioni contemporanee e mancata conclusione del contratto per esaurimento dei beni o dei servizi 218 5. Inesistenza di un vincolo di parita' di trattamento nelle trattative a carico del contraente 225 6. La disciplina preventiva di protezione dei dati sensibili 229 7. La proposta o la predisposizione di condizioni piu' svantaggiose. Pretesa manifestata nel corso della trattativa. Inserimento nel contenuto del contratto 230 8. Il contratto discriminatorio e l'inserimento di condizioni piu' svantaggiose 235 8.1. Carattere normativo o economico delle condizioni 235 8.2. Carattere solo eventuale del vantaggio per il contraente. Il carattere piu' vantaggioso alla luce del complessivo assetto di interessi del singolo contratto 236 9. Il contratto discriminatorio ed il mancato inserimento di condizioni piu' vantaggiose 239 10. La distinzione tra manifestazione del pensiero ed ordine di discriminare 241 CAPITOLO VI ESECUZIONE DEL CONTRATTO: LA SCELTA SE, COME, QUALE DEBITO ADEMPIERE E L'ESERCIZIO DEI POTERI CONTRATTUALI 1. Per l'effettivita' della tutela 245 2. Il rifiuto di adempiere 250 3. La scelta come adempiere le prestazioni di cose di genere e le prestazioni di fare. In particolare la prestazione di qualita' media, inferiore allo standard del debitore 251 4. La scelta quale debito adempiere nel caso di impossibilita' sopravvenuta di adempiere tutte le prestazioni 253 4.1. Esclusione della facolta' di non eseguire alcuna delle prestazioni 258 4.2. Critica del criterio della priorita' della data di conclusione 259 4.3. Critica del criterio dell'esecuzione parziale delle prestazioni e della teoria comunitaria della parita' di trattamento 260 4.4. Critica del criterio dell'esecuzione della prestazione di contenuto piu' ampio 261 4.5. La responsabilita' del debitore per inadempimento e la scelta quale debito adempiere come possibile elemento di un illecito discrimina torio 262 5. L'esercizio dei poteri contrattuali 267 CAPITOLO VII RIMEDI 1. Considerazioni d'insieme 271 2. Rilevanza economica del contratto 274 3. Rifiuto di contrattare e sentenza che produce gli effetti del contratto 277 4. Proposta o predisposizione di condizioni piu' svantaggiose e mancata proposta o predisposizione di condizioni vantaggiose 283 4.1. Pretesa manifestata nello svolgimento della trattativa 283 4.2. Inserimento di una condizione piu' svantaggiosa e rettifica 285 4.3. Mancato inserimento di una condizione vantaggiosa ed integrazione 287 5. Legittimazione all'esercizio dell'azione risarcitoria. Termine di prescrizione e decorrenza 287 6. Il risarcimento per equivalente dell'ulteriore danno patrimoniale e del danno non patrimoniale e la lesione dell'identita' personale 288 6.1. L'ulteriore danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale 288 6.2. Il preconcetto del contraente e l'identita' personale della controparte contrattuale 294 7. La responsabilita' personale di chi agisce in nome o per conto del soggetto collettivo 296 8. La legittimazione ad agire delle associazioni e degli enti iscritti nell'elenco a cura del Ministro del lavoro e del Dipartimento per le pari opportunita' istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. La legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti e delle associazioni di promozione sociale 297 9. I possibili indizi della discriminazione e l'evidenza statistica dell'intento discriminatorio 303 10. Efficacia erga omnes dell'offerta o dell'invito rivolti al pubblico discrimina tori 310 11. Discriminazione nell'esecuzione del contratto 311 12. Nullita' dei patti che vincolino all'attuazione di comportamenti discrimina tori 313 12.1. Le fattispecie 313 12.2. La nullita' 316 12.3. Discriminazione, buon costume e morale sociale 320 13. Nullita' degli ordini di discriminare e responsabilita' dell'autore 322 14. Inapplicabilita' in via analogica dei rimedi speciali dettati dalle leggi antidiscriminatorie alla violazione del principio generale di non discriminazione 323 CAPITOLO VIII APPLICAZIONI DEL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE 1. Contratti bancari: la discrezionalita' nella concessione del credito 331 2. Contratti di assicurazione: rischio e divieto di discriminazione nella determinazione dei premi 336 3. Acquisizione della legittimazione all'esercizio dei diritti sociali e limiti di validita' delle clausole statutarie di gradimento e di prelazione e dei patti parasociali 340 3.1. Clausole di gradimento non mero 340 3.2. Clausole di mero gradimento e di prelazione 346 3.3. Patti parasociali che pongono limiti al trasferimento della partecipazione 347 4. Carattere discriminatorio dei requisiti per l'ammissione di nuovi soci di societa' cooperative 348 5. Limiti alla discrezionalita' degli amministratori nell'accettazione dell'adesione ad associazioni riconosciute e non riconosciute 350 6. Le gratuita' (non liberali): comodato, trasporto gratuito e prelazione gratuita 354 6.1. Comodato 356 6.2. Trasporto gratuito 356 6.3. Prelazione gratuita 357 7. La promessa al pubblico 357 7.1. Limiti di liceita' della scelta dei destinatari della promessa 358 7.2. Insindacabilita' della scelta delle situazioni o delle azioni da premiare 359 8. Liceita' della discriminazione nella scelta dell'arbitro. La possibile discriminazione nel reperimento di arbitri da parte delle camere arbitrali 360 CAPITOLO IX CONCLUSIONI 1. Sintesi delle conclusioni 365 Bibliografia 389 Indice analitico-alfabetico 411
|
2.
Presidenza
del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per i Diritti e le Pari
Opportunità – UNAR Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, Un
anno di attività contro la discriminazione razziale. Rapporto 2006, dic. 2006.
Il Rapporto
sulle attività compiute nel corso del 2006 dall’UNAR, l’Autorità italiana
contro le discriminazioni etnico-razziali costituita ai sensi della normativa di
recepimento della direttiva europea n. 2000/43.
[1] In tale
direzione anche Cass., S.U., 17.2.1975, n. 618,
secondo cui si è in presenza, infatti,
di rapporto di pubblico impiego quando ricorrono determinate condizioni,
tra le quali quella che il datore di lavoro sia pubblico, ossia lo Stato
o un ente pubblico autarchico; si veda anche Cass. Civ. sez. unite,
01.10.2003, n. 14672: …”… tra i provvedimenti con i quali gli enti pubblici
economici esprimono la loro natura pubblica non sono annoverabili quelli
concernenti la gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti ( anche nella
fase di assunzione a seguito di concorso), che vengono emessi nell’esercizio di un’attività
privatistica propria di ciascun imprenditore”. Dunque se ciò vale per gli enti
pubblici economici, tanto più il principio si applica per le società per
azioni, sebbene a capitale pubblico .
[2] Art. 10 Convenzione OIL n.
143/1975, sottoscritta, ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge 10
aprile 1981, n. 158: “Ogni Stato
membro per il quale la Convenzione sia in vigore si impegna a formulare e ad
attuare una politica nazionale diretta a promuovere e a garantire, con metodi
adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e
trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale,
di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive
per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si
trovino legalmente sul suo territorio”
[3] Art. 14 Convenzione OIL n.
143/1975: “Ogni Stato membro può: […]c) respingere l’accesso a limitate
categorie di occupazione e di funzioni, qualora tale restrizione sia necessaria
nell’interesse dello Stato”.
[4] Art. 15 delle disposizioni
sulla legge in generale: “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori
per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove
disposizioni e le precedenti…”
[5] In tale direzione, si
esprime parte della dottrina: “L’art. 27 detta unicamente le condizioni particolari
per l’ingresso dall’estero di particolari tipologie di lavoratori al di fuori
delle “quote” e, quindi, non sembra suscettibile di alcuna influenza sullo
status di straniero regolarmente soggiornante, essendo peraltro ben noto che il
principio di parità di trattamento trova applicazione solo in tale frangente”,
cfr. Marco Paggi, Discriminazione e accesso al pubblico impiego, in Diritto,
Immigrazione, Cittadinanza, n. 2/2004, pag. 86. In senso contrario, P. Bonetti, Diritto
degli stranieri, Cedam, Padova, p. 149 – ss., il quale tuttavia non manca di
osservare come la disposizione dell’art. 27 comma 3 TU si riferirebbe
unicamente al rapporto di pubblico impiego, trovando in tale ambito la
limitazione su basi di nazionalità una copertura costituzionale per effetto
degli artt. 51 e 97 Cost.. Altrimenti,
la norma dell’art. 27 c. 3 del TU sarebbe incostituzionale, in quanto
non faceva parte del testo della legge sull’immigrazione n. 40/1998, ma è stata
introdotta in attuazione della delega legislativa cui si deve la compilazione
del TU. Se con il TU si fosse voluto introdurre anche le disposizioni eccedenti
l’ambito del pubblico impiego come quelle del R.D del 1931 ora in esame, il
legislatore avrebbe commesso una violazione dell’art. 76 Cost. perché sarebbero stati violati i
criteri e i principi direttivi posti dall’art. 47 comma 1 della legge n. 40/1998
per la delega legislativa alla redazione del testo unico. Tra tali principi è
previsto l’obbligo di includere nel testo unico soltanto le disposizioni della
legge n. 943/1986 compatibili con le disposizioni della legge n. 40/98. In tale
senso si rammenta che l’art. 1 della legge n. 943/86 per la prima volta ha
fatto esplicito riferimento alla parità di trattamento e piena uguaglianza di
diritti rispetto ai lavoratori italiani per i lavoratori extracomunitari
regolarmente residenti in Italia, in ossequio ai principi della Convenzione OIL
n. 143/1975.
[6] In questa direzione, anche Tribunale di Pistoia, Ksemzovska c. INPS, caso 532/05, sentenza 23 marzo 2007; Corte di Appello di Firenze, decreto
11333/2005 dd. 21.12.2005. Sul tema, deve anche ricordarsi che la sentenza della Corte
Costituzionale n. 454/98 ha
ritenuto che parità ed uguaglianza di trattamento previsti dall’art. 2 del TU
immigrazione trovano immediata applicazione nell’ordinamento, sicchè la garanzia legislativa equipara
l’extracomunitario al cittadino non solo con riferimento ai diritti
attinenti allo svolgimento del
rapporto di lavoro, ma anche con riguardo al diritto di aspettativa occupazionale.
La sentenza infatti riguardava il diniego opposto dal Ministero del Lavoro
all’iscrizione dei cittadini extracomunitari invalidi civili alle liste del
collocamento obbligatorio.
[7] La pronuncia della Corte
(Corte Costituzionale, sent. 28.11-2.12.2005, n. 432) ha riguardato la
legittimità costituzionale di una legge della Regione Lombardia nella parte in
cui non includeva le persone, di nazionalità straniera e regolarmente residenti
nella regione, totalmente invalide per cause civili, fra gli aventi diritto
alla circolazione gratuita sui mezzi pubblici, diritto di norma riconosciuto
agli invalidi cittadini italiani.
[8] In base all’Art. 43 c. 1 TU
costituisce discriminazione “ogni comportamento che, direttamente o
indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza
basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le
convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di
distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio,
in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in
campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della
vita pubblica”.
Il legislatore ha poi formulato, nel
secondo comma della disposizione, una tipizzazione delle condotte aventi sicuramente una valenza discriminatoria.
Va detto che l’elencazione fatta nel
2° comma non è da considerarsi tassativa, e quindi esaustiva, delle condotte
sostanzialmente discriminatorie e produttive di effetti pregiudizievoli,
rispetto alle quali soccorre la definizione generale del primo comma.
L’articolo prevede infatti che compia
“in ogni caso” una discriminazione:
a)
“il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la
persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle
sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che,
soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino
ingiustamente;”
[…]
c)
“chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti
di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla
formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente
soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o
di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;”
[9] Pur
trattandosi di una procedura concorsuale, il ricorso va presentato dinanzi al
giudice del lavoro, in quanto la riserva di giurisdizione amministrativa
prevista per le procedure concorsuali all'art. 63 IV c. del d.lgs. n. 165/2001
riguarda unicamente le procedure concorsuali relative ai rapporti di lavoro
nella PA . Come già ricordato tale concorso per autisti riguarda
rapporti di lavoro con la COTRAL , una società per azioni, che non fa parte quindi di un'amministrazione pubblica.
[10] Ovviamente in caso di
ricorso individuale contro il provvedimento del centro per l’impiego di
esclusione dall’ammissione alla preselezione per mancanza del requisito di
cittadinanza, si dovrà chiedere al giudice di ordinare al centro per l’impiego
l’ammissione del candidato e alla COTRAL di assumere l’interessato/a in caso di
inserimento nella graduatoria nelle posizioni che assicurino la preferenza e di
superamento di tutte le prove previste.
1 Si rileva, peraltro, che se per i rifugiati politici il riconoscimento del principio di parità di trattamento è stato generalmente riconosciuto dall’INPS, come ribadito di recente, con riferimento all’assegno di maternità di base ex art. 74 del D.lgs. 151/2001, dal messaggio INPS – Direzione Centrale Prestazioni a Sostegno del Reddito, n. 12712 dd 21.05.2007, nessuna menzione risulta effettuata nelle istruzioni amministrative sinora diramate circa l’estensione di detto principio anche agli apolidi, sebbene essi siano destinatari di norme di diritto internazionale del tutto analoghe rispetto a quelle previste per i rifugiati (artt. 23 e 24 Convenzione di New York relativa allo status degli apolidi del 1954, ratificata con L. 1 febbraio 1962, n. 306).
2 L’A.S.G.I., peraltro, ritiene che sia palese l’illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 80 c. 19 della L. n. 388/2000 per violazione della riserva di legge rinforzata in materia di condizione giuridica dello straniero prevista dall’art. 10 c. 2 Cost. , in quanto non appare conforme alle previsioni contenute nell’art. 10 della Convenzione OIL n. 143/75, all’art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, in collegamento con l’art. 14 della Convenzione medesima, alle norme della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, così come viola i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, secondo i criteri indicati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 422/2005, così come i principi costituzionali di cui agli artt. 31, 32, 35, 38 Cost. . A conferma di tale ragionamento, si cita la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (sentenza 16 settembre 1996 caso Gaygusuz c. Austria [ricorso n. 17371/90] e sentenza 30 settembre 2003 resa nel caso Koua Poirrez c. Francia [ricorso n. 40892/1998]), nonché la presa di posizione dell’HALDE (Haute Autorité de Lutte contre les Discriminations et pour l’Egalité), l’ Autorità indipendente francese contro le discriminazioni, creata quale organismo per la promozione dell’eguaglianza e della parità di trattamento dalla normativa francese di recepimento della direttiva europea n. 2000/43, la quale, con riferimento ad una problematica simile nel paese d’oltralpe, ha ribadito, in linea con la giurisprudenza di Strasburgo, che le prestazioni assistenziali costituiscono un bene patrimoniale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo- art. 1 del Protocollo addizionale n. 1-, con la conseguenza che ogni limitazione per motivi di nazionalità costituisce una violazione del principio di non-discriminazione “se non è sorretta da giustificazioni obiettive e ragionevoli, vale a dire se non persegue un obiettivo di pubblica utilità o se non è fondata su criteri obiettivi e razionali in relazione agli scopi che la legge persegue”; cfr. HALDE, Déliberation n. 2006-192, 18 settembre 2006, reperibile sul sito: www.halde.fr.
3 Al
riguardo, la recente sentenza del
Tribunale di Pistoia dd. 23 marzo
2007 (caso N. Ksendzovska c. INPS, ricorso n.
532/2005), che ha riconosciuto l’obbligo dell’INPS al pagamento dell’assegno
sociale anche in assenza del requisito della carta di soggiorno in ragione
dell’ operatività immediata nell’ordinamento interno delle sentenze
interpretative della Corte europea dei diritti dell’Uomo. La tesi della
vincolatività delle sentenze della Corte europea è stata già sostenuta dal
giudice di legittimità, tanto civile, quanto penale, in ambiti diversi da
quello ora in esame (Cass. Sez. Un. 23.12.2005, n. 28507; Cass. Pen. I,
12.07.2006 – 3.10.2006, n. 32678, Somogyi).
4 L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e l’Algeria dall’altra, è stato firmato il 22.04.2002 ed entrato in vigore il 10.10.2005 (Gazzetta Ufficiale CE L 265); L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e il Regno del Marocco, dall’altra, è stato firmato il 26.02.1996 ed entrato in vigore il 01.03.2000 (Gazzetta Ufficiale CE L 70/00); L’Accordo euromediterraneo che istituisce un’Associazione tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri da una parte, e la Tunisia dall’altra, è stato firmato il 17.07.1995 ed entrato in vigore il 01.03.1998 (Gazzetta Ufficiale CE L 97/98).
A tali accordi si deve aggiungere quello di associazione tra CEE e la Turchia, che contiene pure una clausola di “parità di trattamento” in materia di sicurezza sociale, applicabile a tutte le prestazioni, siano esse a carattere contributivo o non contributivo, per effetto della decisione del Consiglio di Associazione n. 3/1980; cfr. Artt. 3 c. 1, Art. 4 Decisione del Consiglio di Associazione n. 3/1980 dd. 19.09.1980, disponibile sul sito: http://ekutup.dpt.gov.tr/ab/okk2.pdf
5 Una guida ai contenuti degli accordi, suddivisi per materie, può essere scaricata dal sito web:
http://ec.europa.eu/comm/external_relations/euromed/asso_agree_guide_en.pdf .
6 La
versione consolidata dal Regolamento Ce n. 1408/71 e successive modificazioni
può essere scaricata dal seguente sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/consleg/1971/R/01971R1408-20060428-it.pdf
7 Il testo completo in lingua italiana della sentenza della Corte di Giustizia europea può essere scaricato dal seguente sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61997J0113:IT:HTML
8 Il testo dell’ordinanza può essere scaricato in lingua italiana dal sito della Corte di Giustizia Europea: http://curia.europa.eu/
9 L’art. 9 bis del d. lgs. n. 286/98, così come introdotto dall’art. 1 del d. lgs. n. 3/2007, prevede la possibilità per lo straniero, titolare di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo rilasciato da altro Stato membro dell’Unione Europea, e che intenda soggiornare in Italia per un periodo superiore a tre mesi, per motivi di lavoro, studio o altro scopo lecito, di ottenere per sé e per i propri famigliari, un permesso di soggiorno secondo le modalità previste dal T.U. . Tuttavia, ciò non significa che lo straniero abbia diritto al rilascio di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, in quanto la norma di recepimento prevede che esso possa essere rilasciato allo straniero che abbia usufruito delle norme sui lungo soggiornanti, solo dopo che egli abbia maturato nuovamente in Italia i requisiti di residenza , reddittuali e alloggiativi previsti dalla normativa italiana (art. 9 d.lgs. n. 286/98, come modificato dall’art. 1 del d.lgs. n. 3/2007). Di conseguenza, uno straniero lungo soggiornante in un altro Stato membro che si trasferisca in Italia ottenendo il permesso di soggiorno di cui all’art. 9 bis del d.lgs. n. 286/98, non potrà avere accesso alle provvidenze in materia di assistenza sociale che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente per effetto dell’art. 80 c. 19 L. 388/2000, in quanto privo del possesso del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti in Italia, ma potrà certamente invocare tale diritto in base alle norme di diritto comunitario del Regolamento CE n. 859/03. Risulta, peraltro, che nessuna disposizione in tale direzione sia stata finora emanata né dal Ministero del Lavoro né dagli organi centrali dell’INPS agli uffici periferici dell’istituto di previdenza che continuano a fare riferimento unicamente alle disposizioni di cui al cit. art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000, negando ogni portata applicativa immediata e diretta al citato regolamento comunitario n. 859/03 (si veda ad es. messaggio n. 012178 del 24/04/2006 Area Interventi Sociali, disponibile sul sito INPS: http://servizi.inps.it/informazioni/template/migranti/repository/node/N1242313472/msg2006-012178.pdf ).