NEWSLETTER N. 6
17 MAGGIO 2007

 

SERVIZIO DI SUPPORTO GIURIDICO

 

 

SOMMARIO

 

 

ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI

 

  1. Discriminazioni etnico-razziali  e attività delle forze di polizia. Una discussione sull’”ethnic profiling”.

 

2.   Mass-media, discriminazioni e xenofobia. Una riflessione sull’uso degli stereotipi etnici da parte degli organi di informazione.

 

3. No alla discriminazione degli studenti stranieri nelle elezioni universitarie. L’ASGI scrive al Rettore dell’Università di Bergamo.

 

 

GIURISPRUDENZA NAZIONALE

 

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza 8 marzo 2007, n. 9793: "Manifestazioni agonistiche ed esibizione di emblemi o simboli di organizzazioni razziste o nazionaliste".

 

 

RAPPORTI E DOCUMENTI

 

 

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 

SITI INTERNET

 

 

 

 

 

 


 

ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI

 

 

 

1.

 

 

DISCRIMINAZIONI ETNICO-RAZZIALI E ATTIVITA’ DELLE FORZE DI POLIZIA. UNA DISCUSSIONE SULL’”ETHNIC-PROFILING”.

 

 

 

Definizione e fenomeno dell’”ethnic profiling”.

 

La  vicenda degli incidenti scoppiati lo scorso 12 aprile  in via Paolo Sarpi a Milano, che hanno visto confrontarsi appartenenti alla comunità cinese con le forze dell’ordine e della polizia municipale, dovrebbe suscitare un dibattito nel nostro paese su  una questione di politiche pubbliche  ancora poco nota e che nei paesi anglosassoni viene definita con il termine di “ethnic profiling”.

 In una lettera del 7 luglio 2006, la Commissione Europea ha definito il concetto di “ethnic profiling” come “comprendente qualsiasi comportamento o pratica discriminatoria effettuata dalle autorità di polizia e pubblica sicurezza o altri attori pubblici, nei confronti di individui e giustificata in ragione della loro razza, religione, origine nazionale, piuttosto che del loro comportamento individuale o del fatto che essi rispondano alla descrizione di una persona ‘sospettata’”. [1] Più in generale, per ‘ethnic profiling’ - che in italiano potremmo tradurre con “definizione di profili etnici” – possiamo intendere la pratica di classificare sistematicamente gli individui in base alla loro origine etnico-nazionale o religiosa e di agire  nei loro confronti in base a tale visione stereotipata. La nozione si riferisce, tuttavia,  in particolare all’operato delle forze di polizia e, più in generale, di sicurezza, per cui  si intende per ‘ethnic profiling’, “l’uso o l’influenza di stereotipi razziali, etnici e religiosi da parte delle forze di polizia nelle proprie  attività e con riferimento  alle decisioni concernenti il fermo, l’arresto, la perquisizione, l’identificazione ed il controllo dei documenti delle persone, l’inserimento di dati personali in database, la raccolta di informazioni di intelligence e rispetto ad altre tecniche investigative”.[2] In termini concreti, un fenomeno di  ethnic profiling’ sussiste  ad esempio quando le autorità di polizia, nell’esercizio delle loro attività di controllo del territorio e di accertamenti ed eventuale identificazione e perquisizione di persone ‘sospette”, vengono influenzate da pregiudizi e stereotipi per cui certe attività criminali vengono attribuite ad un determinato gruppo etnico-nazionale in generale sulla base di una  supposta prossimità di tale gruppo a tali attività ovvero una sua  propensione al crimine, etnicamente connotata. Ne consegue che  i membri di tale gruppo (generalmente immigrati o minoranze etniche) diventano il target sistematico di tali operazioni di controllo ed identificazione con il risultato che  essi hanno una probabilità molto più elevata di essere fermati  da agenti di polizia per  semplici accertamenti e  controllo dei documenti rispetto a quanto avviene per  individui dell’etnia ‘maggioritaria’ e ciò per il solo fatto dell’appartenenza etnico-razziale, a prescindere da ogni altro fattore comportamentale. [3]

 

 

Riflessioni sulla vicenda di Milano.

Ritornando al discorso iniziale, che cosa c’entra   la  questione dell’’ethnic profiling’ con le vicende degli incidenti di Milano del 12 aprile scorso?

La miccia che ha fatto accendere quegli scontri è stata la frustrazione dei commercianti cinesi in relazione all’applicazione del divieto all’uso di carrellini per il trasporto merci con conseguenti multe ai trasgressori. Le reazioni immediate di alcuni esponenti politici, tra cui lo stesso Sindaco di Milano, Letizia Moratti,  agli scontri sono state improntate ad un atteggiamento “legalista”: la legge, in sostanza vale per tutti e non ammette eccezioni o ‘zone franche’. Ma da una parte della comunità cinese il provvedimento sul divieto dell’uso dei  carrellini è stato percepito come applicato in modo discriminatorio e penalizzante. Un video realizzato da studenti di giornalismo dell’Università Cattolica riprende un finto facchino italiano che trasporta, con un carrellino, un pacco di cartone all’interno del quale   una telecamera nascosta mostra chiaramente il diverso atteggiamento dei vigili verso i trasgressori italiani rispetto a quelli cinesi, tolleranza verso i primi; repressione verso i secondi.[4]

 

Conseguenze ed effetti sociali dell’’ethnic profiling’

La vicenda di Milano ha messo in evidenza ancora una volta ciò che corrisponde ad una percezione spesso diffusa tra gli immigrati nel nostro paese ed in particolare tra quelli che hanno delle connotazioni somatiche che li rendono più facilmente distinguibili rispetto alla popolazione maggioritaria italiana: il fatto di essere fermati e sottoposti a controlli identificativi da parte delle autorità di polizia in misura proporzionalmente maggiore rispetto a quanto avviene per le persone autoctone; ciò sulla base di atteggiamenti degli appartenenti alle forze dell’ordine non necessariamente apertamente razzisti, ma che certo spesso rispondono a stereotipi subconsci in base ai quali determinate appartenenze etnico-razziali e relativi tratti somatici vengono considerati quali indizi di una eventuale   condizione di clandestinità o, peggio, associati a fenomeni o comportamenti criminali o devianti. Pur mancando dati e ricerche specifiche sull’argomento, l’esperienza diffusa sembra confermare tale percezione, accresciuta sensibilmente dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, che hanno diffuso nell’immaginario collettivo l’applicazione   a talune componenti etnico-religiose mediorientali di stereotipi legati alla minaccia di fatti e comportamenti particolarmente gravi come quelli del terrorismo e dell’estremismo politico e religioso.

Le conseguenze di tali atteggiamenti di ethnic profiling nelle attività  delle forze dell’ordine sono particolarmente negative. Innanzitutto   per gli appartenenti alle comunità etniche che ne sono il target, i quali con il passare del tempo finiscono per sviluppare atteggiamenti di impotenza ma anche di risentimento nei confronti delle forze dell’ordine, con conseguente esacerbarsi delle relazioni tra le comunità e le istituzioni, e  danno alla coesione sociale nel suo complesso. Gli esperti, tuttavia, sottolineano pure gli effetti controproducenti che l’’ethnic profiling” viene a produrre    per l’efficacia dell’attività repressiva della criminalità da parte delle stesse forze di polizia, che richiede infatti innanzitutto  un buon rapporto di fiducia con il tessuto delle comunità immigrate, sul quale soltanto può costruirsi quella rete di informazioni e di “intelligence” che risulta molto più efficace nella prevenzione e repressione della criminalità di una politica di fermi e controlli a tappeto, indiscriminati ed “etnicamente” determinati. [5]

 

 

La giurisprudenza internazionale sull’’ethnic profiling’

 

L’”ethnic profiling”, tuttavia, oltre ad essere una tecnica inappropriata e controproducente per i negativi effetti sociali che a lungo andare tende a produrre, costituisce comunque di per sé una condotta illegittima, discriminatoria e spesso in violazione di diritti umani fondamentali.

Ciò non è spesso compreso dagli appartenenti alle forze dell’ordine, che richiamandosi all’ampio potere discrezionale assegnato dalle leggi in materia di identificazione e, date certe condizioni, anche di perquisizione,[6] ritengono di essere legittimati a compiere dette operazioni nei confronti di chiunque appaia loro sospetto, in base ad una  valutazione  soggettiva, senza pertanto che possa avere un rilievo, disciplinare, civile o penale,  l’eventuale incidenza di atteggiamenti e pregiudizi, se non razzisti, comunque influenzati da stereotipi più o meno diffusi. In sostanza, molto spesso viene a valere l’espressione: “Fermo e controllo chiunque io voglia!”.

Una tale condotta tuttavia non è legittima, in quanto le attività di controllo e perquisizione attuate dalle forze dell’ordine, incidendo sulla libertà personali dell’individuo, debbono essere esercitate avendo a riguardo dei principi di necessità e proporzionalità, che trovano fondamento ultimo nella soddisfazione del requisito del ragionevole sospetto. A sua volta, la sussistenza di questo requisito non può essere basata esclusivamente sull’apparenza esteriore dell’individuo, i suoi tratti somatici, la sua appartenenza etnica o religiosa, ma deve avere un fondamento obiettivo, avendo in considerazione le circostanza di tempo e luogo della situazione specifica. Altrimenti, anche l’attività di controllo delle forze dell’ordine può determinare una limitazione su base discriminatoria  dei diritti della persona, la quale a sua volta  costituisce una violazione degli standard internazionali e costituzionali dei diritti dell’uomo.

In questa direzione di ragionamento, vanno segnalati tanto recenti provvedimenti di soft-law emanati da organismi internazionali, quanto una giurisprudenza vera e propria prodotta da giurisdizioni internazionali e nazionali.

Per quanto concerne i primi, va segnalata la Raccomandazione Generale adottata nel 2005 dal Comitato ONU per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale, il quale,  “avendo in considerazione  i rischi di aumento della discriminazione nell’amministrazione e nel funzionamento del sistema di giustizia penale, anche in conseguenza della crescita dell’immigrazione, che ha indotto forme di pregiudizio e sentimenti di xenofobia ed intolleranza in certi settori della popolazione e anche delle forze dell’ordine,  e avendo presente come le politiche di sicurezza e le misure anti-terrorismo adottate da molti Stati abbiano incoraggiato tra l’altro l’emergere di sentimenti anti-arabi e islamofobi o, per reazione, atteggiamenti anti-semiti, in diversi paesi”,  ha enfatizzato in particolare che “gli Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per prevenire i fermi, le interrogazioni  e le perquisizioni  che sono in realtà fondate esclusivamente sull’apparenza esteriore di una persona, sul suo colore della pelle, le sue caratteristiche, la sua appartenenza etnica o razziale, od ogni altro profilo che la esponga ad un maggiore sospetto” (General Recommendation XXXI on the prevention of racial discrimination in the administration and functioning of the criminal justice system (2005), para. 20).[7]

Riguardo alla giurisprudenza,  diverse giurisdizioni hanno affrontato il tema dell’”ethnic profiling”, contribuendo a creare una casistica tanto interessante, quanto ancora sconosciuta nel nostro paese.

Per la sua importanza ed autorevolezza, vale la pena iniziare citando la posizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, la quale, fu chiamata ad esprimersi sul ricorso presentato contro la Federazione Russa da un avvocato di origine cecena, il sig. Timishev, al quale le  autorità di polizia  avevano impedito l’ingresso nel suo attuale territorio di residenza, la Repubblica di Kabardino –Balkaria,  per il solo fatto della sua appartenenza etnica . Nella sentenza, la Corte di Strasburgo, rilevando che le autorità russe non avevano offerto alcuna giustificazione per la differenza di trattamento tra persone di origine cecena e non in materia di godimento della libertà di movimento,  concluse che “nessuna differenza di trattamento basata esclusivamente o in misura decisiva sull’origine etnica della persona è suscettibile di ottenere obiettiva giustificazione in una società contemporanea fondata sui principi del pluralismo ed il rispetto per le differenti culture”. [8] Spostandoci sulle giurisdizioni nazionali, va citata innanzitutto la sentenza della Corte Costituzionale slovena del 30 marzo 2006, nella quale si afferma che le norme regolanti  i poteri di identificazione, perquisizione e sorveglianza attribuiti all’autorità di polizia debbono contenere indicazioni  precise circa il modo e le condizioni nelle quali tali poteri possono essere esercitati, al fine di ottemperare ai principi di legalità ed evitare il rischio di arbitrio. Nella fattispecie, la Corte dichiarò incostituzionale la parte della norma della legge sulla pubblica sicurezza che consentiva  agli ufficiali di polizia di effettuare i controlli identificativi delle persone considerate “sospette” anche per la sola ragione della loro apparenza esteriore.[9] Alcune sentenze giudiziarie o provvedimenti di autorità indipendente  di tutela dei diritti dei cittadini,  hanno ribadito il principio per cui l’azione concreta degli ufficiali di polizia non può essere dettata unicamente dalle caratteristiche etnico-somatiche della persona, pena il compimento di un atto di discriminazione razziale. Così in Francia,  sebbene le modifiche apportate alla legislazione  relativa ai controlli e agli accertamenti sull’identità, con la legge del 10 agosto 1993, consentono in linea di principio che gli accertamenti amministrativi possano avere luogo su qualsiasi persona, “indipendentemente dal suo comportamento” (art. 78-2, c. 3 del codice di procedura penale), il Consiglio Costituzionale  ha imposto una importante riserva interpretativa con la decisione del 5 agosto 1993. In essa, viene chiaramente espresso che “la prassi di controlli di identità generalizzati e discrezionali   sarebbe incompatibile con il rispetto della libertà individuale” . Il Consiglio Costituzionale precisa che, malgrado la legge usi la formula secondo cui i controlli possono essere effettuati “indipendentemente dal comportamento” individuale, “rimane che l’autorità proposta deve giustificare, in tutti i casi, le circostanze particolari fondanti il rischio di offesa all’ordine pubblico che hanno motivato il controllo”.[10] Sulla base della giurisprudenza della Corte di Cassazione, dopo la legge del 10.08.1993, tali controlli non esigono più un nesso tra il comportamento individuale e delitti  o infrazioni  precedentemente commessi nei luoghi considerati (Cass. 2 Civ. 26.04.2001). Ciò nonostante, viene richiesto che il numero e la gravità dei delitti commessi in quei determinati luoghi e le circostanze nelle quali ha luogo l’operazione evidenzino “riguardo alla sicurezza delle persone e dei beni, un rischio sufficiente tale da giustificare  il  controllo amministrativo d’identità” (Cass. 2 Civ., 29.06.2000, n. 99-50010).[11] In  Austria, la Corte Costituzionale ha accolto il ricorso di una cittadina austriaca di colore, nata in Ghana, la quale denunciò come forma di discriminazione razziale il fatto di aver subito da parte di diversi ufficiali di polizia due controlli del proprio bagaglio a mano durante un viaggio in treno, con ulteriore sottoposizione ad un controllo personale ai raggi X. La Corte Costituzionale austriaca concluse che, sulla base delle evidenze disponibili,  gli ufficiali di polizia avevano  effettuato i controlli sulla cittadina austriaca  unicamente in ragione del  suo colore della pelle, con ciò sostanziando il reato di discriminazione razziale.[12] Particolarmente avanzato in questa direzione l’approccio della giurisprudenza del Canada, la quale non solo ha affermato il carattere discriminatorio di un controllo di polizia fondato unicamente sull’apparenza etnico-razziale della persona, ma ha stabilito un principio di inversione dell’onere della prova, per cui,  in quelle situazioni ove viene affermata una presunzione di discriminazione, è l’ufficiale di polizia a dover dimostrare che la ragione del controllo non era arbitraria, ma motivata da elementi “obiettivamente ragionevoli” e “chiaramente espressi”. [13] Nei Paesi Bassi, nel caso 1992/876, l’Ombudsman accolse il reclamo di un cittadino olandese il quale si era visto sottoporre ad un controllo identificativo di polizia, con richiesta di esibizione della carta di identità, per il solo fatto di essere di colore, con la conseguente supposizione dell’ufficiale di polizia circa una sua condizione di straniero irregolarmente residente. Citando una mozione approvata dal Parlamento olandese nel 1984, l’Ombudsman affermò che l’apparenza esteriore di una persona e i suoi tratti somatici non possono essere un fattore che deve guidare l’ufficiale di polizia nella  presunzione del  mancato possesso della cittadinanza olandese.[14] La questione dei controlli di polizia ai fini della verifica dell’identità e della situazione amministrativa in relazione alla normativa sull’immigrazione, e basati su indizi collegati all’appartenenza etnico-razziale della persona, ha suscitato peraltro pronunce e punti di vista diversi e controversi.[15] La Corte Costituzionale spagnola ha affermato che “certe caratteristiche fisiche o etniche della persona possono essere prese in considerazione dalla polizia come indicatori ragionevoli di una sua possibile appartenenza straniera”. In tal modo,  la Corte considerò legittimo il comportamento degli ufficiali di polizia che avevano fermato e sottoposto a procedura identificativa una cittadina spagnola di origine africana, mentre il marito che l’accompagnava, spagnolo per nascita, non venne sottoposto ad alcun fermo. [16]

Considerazioni per certi aspetti analoghe sono state adottate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Cissé c. Francia. La Corte venne investita di un ricorso secondo il quale le autorità di polizia francesi avrebbero violato il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione in collegamento con l’art. 5 della medesima (diritto alla libertà) nell’aver proceduto ad arresti selettivi,   sulla base all’appartenenza etnico-razziale delle persone, dopo aver  installato dei posti di blocco all’uscita di una chiesa dalla quale venivano fatte evacuare alcune centinaia di immigrati sans papiers unitamente a volontari di organismi di solidarietà. La Corte dichiarò inammissibile il ricorso sostenendo che “il sistema messo in piedi dalla polizia all’uscita della chiesa per il controllo delle identità era inteso a verificare l’identità delle persone sospette di essere immigrati illegali e pertanto non si poteva concludere che l’interessato sia stato soggetto a discriminazione sulla base dell’appartenenza razziale”.[17] La giurisprudenza del Regno Unito, appare, invece, più incline alla condanna dell’”ethnic profiling”, anche quando siano in gioco questioni delicate come la politica dell’immigrazione e la lotta al terrorismo; frutto, questo,  anche di una legislazione che estende espressamente il divieto di discriminazione razziale anche alle attività delle autorità pubbliche ad ogni livello, incluse le attività della polizia e dei dipartimenti ministeriali.[18] Nel caso R (ricorso presentato dall’European Roma Rights Center) v. Immigration Officer at Prague Airport, l’House of Lords fu chiamato ad esprimersi sul supposto carattere  discriminatorio nei confronti delle persone di etnia Rom delle procedure seguite dagli ufficiali dell’immigrazione operanti presso l’aeroporto di Praga in relazione agli imbarchi su voli diretti nel Regno Unito. L’House of Lord confermò le risultanze fornite dall’osservazione compiuta dall’ERRC che i potenziali viaggiatori di etnia rom venivano sottoposti a colloqui molto più lunghi, intensivi e intrusivi degli altri cittadini cechi di altra etnia, concludendo che il fatto che nelle settimane precedenti vi fosse stato in Regno Unito un massiccio afflusso di richiedenti asilo di etnia rom provenienti dalla Repubblica Ceca, non giustificava un trattamento così palesemente differenziato da essere “intrinsecamente  e sistematicamente discriminatorio e, dunque, illegale”.[19]

In un’altra più recente decisione, Gillan v Commissioner of Police for the Metropolis,  la House of Lords confermò la legittimità dell’uso dei poteri di fermo, identificazione e perquisizione previsti dalla legge sul terrorismo (Terrorist  Act 2000,44). Tuttavia, vanno annotate le opinioni di due Lords riguardo alla decisione, che confermano la giurisprudenza espressa nel caso precedente. Così Lord Hope of Craighead afferma che “un ufficiale di polizia che ferma e controlla una persona di sembianze asiatiche nell’esercizio dei poteri attribuitegli dalla sezione 44 deve avere altre ed ulteriori buone ragioni per fare ciò. Non si deve mai  smettere di sottolineare che il mero fatto dei tratti somatici asiatici di una persona non è di per sé una legittima ragione per l’uso di tali poteri”.[20]

Lord Brown of Eaton-under-Heywood ritiene che : “una cosa è accettare che l’origine etnica di una persona sia parte (ed in certi casi una parte significativa) del profilo: un’altra cosa (e certamente inaccettabile) è definire un profilo solo con riferimento all’etnicità. Nel decidere se esercitare o meno i poteri di controllo e perquisizione, gli ufficiali di polizia devono avere riguardo anche di altri fattori”.[21]

In materia di “ethnic profiling” nelle attività investigative anti-terrorismo, va segnalata l’interessante decisione della Corte Costituzionale Federale tedesca del 4 aprile 2006. La Corte venne investita del ricorso presentato da uno studente universitario di nazionalità marocchina, che aveva scoperto di essere stato posto sotto sorveglianza a seguito dell’applicazione di una vasta operazione di definizione automatizzata di profili chiamata Rasterfahndung attuata dalla polizia tedesca nel periodo 2001-2003, intersecando dati personali e sensibili provenienti da diversi database pubblici e privati inerenti tra l’altro all’età, alla nazionalità, al credo religioso, agli studi compiuti, al possesso di licenze per pilota, a prescindere da ogni altra considerazione o informazione attinente al proprio comportamento personale. L’interessato ritenne che tale operazione aveva violato il suo diritto alla protezione dei dati personali. La Corte Costituzionale federale tedesca accolse il ricorso sostenendo che un’operazione di definizione automatizzata di profili fondata sull’uso di dati personali e sensibili al fine di restringere la cerchia di persone da porre sotto osservazione e cercare così di identificare potenziali sospetti di attività criminose poteva ritenersi ammissibile solo  qualora le autorità agiscano in risposta a specifiche minacce  all’ordine pubblico e ai diritti individuali e non quindi come pratica ordinaria e continuativa.[22]

 

 

La normativa italiana.

 

Come è largamente noto,  in Italia, il recepimento della direttiva europea in materia di discriminazione etnica e razziale (Dir. n. 2000/43/CE) è avvenuto con l’adozione del d.lgs. n. 215/2003. La direttiva europea, tuttavia, ha un ambito di applicazione limitato ratione materiae. In particolare  essa non estende la proibizione della discriminazione alle funzioni di pubblica sicurezza esercitate dall’autorità di polizia. Di conseguenza, il d.lgs. n. 215/2003 non può essere utilizzato per contrastare eventuali fenomeni o episodi di ‘ethnic profiling’.  Tuttavia, il d.lgs. n. 215/2003  non ha abolito le pre-esistenti norme anti-discriminatorie contenute nel T.U. sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/98 e successive modifiche); al contrario, l’art. 2 comma 2 del decreto n. 215/2003 fa salve le disposizioni dell’art. 43 del T.U. che impongono un divieto generale di non-discriminazione, anche ai pubblici ufficiali, inclusi dunque gli agenti di polizia, come si evince in particolare dalla lettura del comma 2 : “In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnica o nazionalità, lo discriminino ingiustamente”. Tale proibizione protegge dalla discriminazione non solo i cittadini stranieri, ma anche quelli italiani (comma 3). Alla mancanza nella normativa attuativa della direttiva europea di una norma abrogativa o modificativa in peius delle disposizioni preesistenti del T.U. sull’immigrazione, ed anzi alla previsione di una norma di salvaguardia delle medesime, deve aggiungersi pure  il riferimento alla previsione contenuta nella direttiva europea di una clausola di non regresso (punto 25 dei considerando e art. 6.2 del testo): “L’attuazione della presente normativa non può servire da giustificazione per un regresso rispetto alla situazione preesistente in ciascuno Stato membro”. Di conseguenza non sussistono dubbi che  comportamenti, atti, provvedimenti di “ethnic profiling” compiuti dalle autorità di pubblica sicurezza possono essere sanzionati in Italia ai sensi della normativa anti-discriminazione di cui al T.U. sull’immigrazione ed essere quindi oggetto di un’azione civile contro la discriminazione prevista dall’art. 44 del  D.lgs. n. 286/98.

 

“Ethnic profiling”,  “ronde” notturne leghiste e norme anti-discriminazione.

Tali considerazioni, peraltro, sono valide anche in quelle situazioni in cui gruppi privati, più o meno organizzati, e  politicamente sponsorizzati, predispongono attività “volontarie” di vigilanza e controllo del territorio, con l’asserita motivazione di  contribuire in questo modo al  contrasto delle  attività criminose quali furti o rapine nelle ville. Dai resoconti pubblicati sulla stampa nazionale relativamente al concreto svolgimento di tali “ronde” notturne organizzate e praticate  in particolar modo da appartenenti ed affiliati alla Lega Nord, emerge chiaramente come  tali gruppi  individuino come target individui o persone etnicamente caratterizzate (stranieri di colore, appartenenti a gruppi Rom), le cui attività e movimenti vengono  spiati e   monitorati sulla base di un’ evidente operazione di ‘ethnic profiling’. [23] Appare ragionevole concludere dunque che  tali condotte determinino un’interferenza arbitraria con il diritto alla privacy e al rispetto delle vita privata  degli individui   in quanto non sono regolate ovviamente da alcuna norma di legge e vengono applicate in maniera discriminatoria, avendo come fondamento  del loro concreto svolgimento stereotipi e pregiudizi etnico-razziali. Si potrebbe dunque affermare che tali “ronde notturne” fondino  una presunzione di comportamento discriminatorio su basi etnico-razziali , che probabilmente giustificherebbe l’attivazione di azioni giudiziarie civili contro la discriminazione ex artt. 43 e  44 del T.U.

 

Come si vede, non mancano spazi e riflessioni per l’avvio nel nostro paese anche sulla questione dell’”ethnic profiling” di possibili cause pilota o forme di strategic litigation. Un’opportunità che la società civile anti-razzista e le organizzazioni in difesa dei diritti dei migranti dovrebbero  cogliere,  consapevoli dei gravi rischi per la democrazia e la coesione sociale che il  quotidiano  stillicidio di comportamenti e episodi di ethnic profiling vengono a comportare, creando risentimenti e sentimenti di esclusione sociale, alimentando e diffondendo la criminalizzazione sociale di intere  categorie di persone mediante stereotipi e pregiudizi fondati su presunte associazioni tra attività criminose e appartenenze etnico-razziali, senza per questo condurre ad una più efficacia azione di repressione e prevenzione del crimine, che anzi richiede  innanzitutto  una maggiore co-operazione da parte delle comunità etniche con l’apparato giudiziario e di sicurezza e dunque  un atteggiamento di reciproca fiducia e rispetto, che invece l’ethnic profiling non contribuisce certo a   generare.

 

Walter Citti

 

 

 

POSSIBILI ESEMPI PRATICI DI ETHNIC-PROFILING

 

  1. A seguito di una segnalazione su possibili atti terroristici di fonte islamica in Italia, viene  disposta la perquisizione ed il controllo delle rosticcerie e ristoranti kebab cittadini con conseguenti accertamenti e controlli identificativi delle persone impiegate e dei clienti,  in mancanza di qualsiasi informazione confidenziale che colleghi alcuna di tali attività commerciali ad attività criminose.

 

  1. A seguito di un delitto compiuto da un cittadino di una determinata origine razziale, che ha fatto successivamente perdere le sue tracce, vengono disposti controlli ed accertamenti   identificativi di polizia su tutti i cittadini della medesima appartenenza razziale domiciliati in quella città, a prescindere dalle altre caratteristiche dell’identikit della persona sospettata (altezza, abbigliamento, età,…)

 

  1. La Guardia di Finanza esegue una seria di controlli a tappeto sulla regolarità degli adempimenti amministrativi e fiscali degli esercizi commerciali di una determinata zona  della città, ma ispeziona soltanto  quegli esercizi posseduti da appartenenti alla comunità cinese, non visitando invece gli esercizi commerciali gestiti da cittadini italiani o di altre nazionalità.

 

 

 

 

    

 

 

 

 

2.

 

Mass-media, discriminazioni e xenofobia.

Una riflessione sull’uso degli stereotipi etnici da parte degli organi di informazione.

 

E’ con grave preoccupazione e sconcerto che stiamo assistendo da tempo, ma in particolare nell’ultimo periodo, ad un inquietante aumento di espressioni ed atteggiamenti xenofobi e discriminatori negli organi di informazione.

Significativo è il racconto relativo al drammatico fatto di cronaca avvenuto a Roma allorché all’interno della metropolitana una ragazza è morta a seguito di un colpo di ombrello infertole in un occhio da parte di una delle due ragazze con le quali era scoppiato un diverbio. Le due ragazze, dileguatesi dopo il fatto, sono state rintracciate e arrestate con l’accusa di omicidio. Pochi giorni dopo in occasione dei funerali dei funerali della ragazza, molti dei presenti,  hanno pronunciato dure invettive nei confronti non solo delle due ragazze coinvolte, ma dell’intera popolazione romena (le due ragazze accusate di omicidio sono rumene) e di quella straniera in genere.

Alla luce di quanto è accaduto,  l’atteggiamento tenuto dagli organi di informazione che hanno dato notizia di questi fatti risulta sconcertante. E’ infatti evidente che dell’accadimento si sarebbe potuta dare una versione corretta e veritiera senza  rimarcare ed evidenziare a più riprese l’origine  nazionale delle due ragazze.

Già nei giorni immediatamente seguenti all’incidente, ancora prima che le persone venissero arrestate dalla polizia, i mezzi di informazione parlavano della probabile nazionalità delle due (indicate prima come Rom, poi come donne dell’Est Europa, forse Rumene), come se si trattasse di un dato necessario per una migliore rappresentazione di quanto accaduto.

Si deve dire che così non era: è infatti innegabile che per un avere corretto “identikit” fosse necessario evidenziare genere, età, corporatura, capigliatura, abbigliamento, perfino il colore della pelle, delle fuggitive; altrettanto non può dirsi però per quanto riguarda la nazionalità, trattandosi di un elemento palesemente privo di una sua configurazione somatica “visibile”, perciò del tutto superfluo per la descrizione delle ragazze, e assolutamente non inerente alla modalità tragica secondo la quale si erano svolti i fatti.

Si è tratto spunto da uno degli ultimi fatti di cronaca, perchè risulti evidente la prassi, tipica ormai di gran parte degli organi di informazione nostrani, di presentare ogni fatto rientrante nella cosiddetta “cronaca nera” rimarcando in modo ossessivo l’origine nazionale delle persone coinvolte in quei casi in cui l’autore del crimine non sia un italiano.

Tale atteggiamento giornalistico è contrario al Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica, in particolare all’articolo 5, in quanto è evidente che il principio di essenzialità dell’informazione non viene rispettato in tutti quei casi in cui per descrivere un fatto si tiene conto di elementi non solo superflui, ma del tutto estranei, secondo un punto di vista logico-consequenziale, rispetto al fatto stesso.

In secondo luogo, la normativa antirazzista (sulla quale peraltro si basa l’art. 9 del Codice dell’Ordine, relativo al divieto di discriminazione), non esclude certo dall’ambito dei dati sensibili oggetto di tutela l’elemento della origine nazionale, quando la pratica di classificare secondo la loro appartenenza nazionale gli individui, per di più accostandoli in maniera sistematica ed automatica ad eventi negativi, divenga il viatico per la diffusione in seno alla società  di pensieri, comportamenti ed atteggiamenti fondati sulla discriminazione e l’intolleranza.

Si considera infatti razzismo quel fenomeno per cui una persona, prima ancora che per i suoi meriti e demeriti, viene giudicata per lo Stato da cui proviene, per la sua razza o per l’etnia a cui appartiene.

E’ del tutto evidente la sempre maggiore importanza dei media nel processo di formazione delle persone ai concetti di tolleranza e di non discriminazione.

E’ infatti innegabile (alla luce di una purtroppo sempre più diffusa mentalità popolare, che peraltro subisce un’indubbia influenza proprio da parte dei mass media) che l’origine razziale, la provenienza nazionale, etnica, religiosa, da molti non sono più considerate come elementi propri di culture diverse, che in quanto tali non andrebbero considerati né migliori, né peggiori rispetto a quelli tipici della propria,  bensì come segni distintivi dei due grandi sottoinsiemi “qualitativi” in cui dividere l’intera società: gli Italiani e gli immigrati, o, più semplicemente, i “nostri” e i “loro”.

In altri termini, la prassi di caratterizzare i soggetti coinvolti in fatti delinquenziali tramite il ricorso alla loro origine nazionale sortisce progressivamente l’effetto di far percepire come negativo un dato che invece dovrebbe sempre più, in una ottica di progressiva convivenza dei popoli, rivestire carattere del tutto neutro.

C’è da chiedersi se è proprio questo che si vuole ottenere: che il semplice fatto di non essere cittadino italiano divenga nell’immaginario collettivo sinonimo di disvalore.

Si sottolinea come la Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI), nel suo terzo Rapporto sull’Italia, esaminando i vari ambiti di applicazione della normativa antidiscriminazione, avendo già  preso atto in precedenza che alcuni settori dei media hanno continuato a riferire episodi riguardanti  immigrati utilizzando stereotipi e titoli sensazionali, abbia adottato le seguenti  specifiche “RACCOMANDAZIONI”: “L’ ECRI incoraggia le autorità italiane a rendere partecipi i media, senza interferire con la loro indipendenza redazionale, della necessità di garantire che quanto riferiscono non contribuisca a creare un’ atmosfera di ostilità e di rifiuto nei confronti di membri di qualsiasi minoranza, ivi compresi gli extracomunitari, i Rom, i Sinti e i mussulmani. L’ECRI raccomanda alle autorità italiane di avviare un dibattito con i media e con membri degli altri gruppi interessati della società civile sulle migliori  modalità per ottenere risultati positivi in questo campo”.

 

E’ assolutamente prioritario che la stessa categoria dei giornalisti, proprio in funzione del compito così vitale da loro svolto, recuperi  immediatamente  e con vigore quei valori di correttezza informativa e di non discriminazione che sono il fulcro portante e irrinunciabile della loro attività. In questo senso un nuovo e più pregnante codice deontologico risulta non solo fortemente auspicabile ma necessario, proprio al fine di rendere effettiva la salvaguardia di tali principi.

Ma è tutta la società civile che deve trovare la forza di opporsi e reagire con ogni mezzo a questa deriva informativa che, ben oltre il dato di violazione normativa, rappresenta una ferita gravissima inferta ai principi di uguaglianza e rispetto della dignità della persona umana che sono imprescindibili in una società democratica.

 

a cura di Alessandro Maiorca, collaboratore ASGI

 

 

 

I riferimenti normativi

 

ORDINE DEI GIORNALISTI
Consiglio nazionale

Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica ai sensi dell'art. 25 della legge 31 dicembre 1996, n. 675
(pubblicato sulla G.U. n. 179 del 3/8/1998)

 

Articolo 5
Diritto all'informazione e dati personali

1. Nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, il giornalista garantisce il diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.

 

Articolo 9
Tutela del diritto alla non discriminazione

1. Nell'esercitare il diritto-dovere di cronaca, il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3.

 

No alla discriminazione degli studenti stranieri nelle elezioni universitarie. L’ASGI scrive al Rettore dell’Università di Bergamo.

 

In occasione delle elezioni universitarie del 16-17 maggio, sulla base di una norma del Regolamento Studenti dell’Università di Bergamo, gli studenti stranieri sono stati inizialmente esclusi dalla condizione di eleggibilità alla posizione di rappresentante degli studenti negli organi di ateneo. L’esclusione dei candidati è successivamente rientrata dopo un intervento del Ministro per la Ricerca e l’Università. L’ASGI chiede la modifica della norma con la cancellazione di ogni clausola discriminatoria e segnala il caso all’UNAR.

 Di seguito il testo della lettera dell’ASGI.

 

 

 

 

  Servizio di Supporto Giuridico contro le discriminazione etnico-razziali e religiose

 

 

Chiar.mo Prof. Alberto Castoldi

                Rettore dell’Università di Bergamo

                Università di Bergamo

 

 

 OGGETTO: Elezione dei rappresentanti degli studenti negli organi di ateneo. Contenuti discriminatori della norma contenuta nel Regolamento Studenti.

 

 

 

 

Chiar.mo Prof. Castoldi,

 

 

Le scrivo a nome dell’A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione), un network di circa 200 tra avvocati e consulenti legali che in tutta Italia si occupano  dello studio delle problematiche giuridiche attinenti alla condizione degli immigrati e dei richiedenti asilo nel nostro Paese.

 

Il nostro Servizio per il contrasto alle discriminazioni etniche, razziali e religiose è  sorto per monitorare l’attuazione nel nostro paese della normativa antidiscriminatoria di cui agli art. 43 e 44 del T.U. delle norme sulla condizione giuridica dello straniero (D. lgs.n. 286/98 e successive modificazioni) e ai d. lgs. nn. 215 e 216/2003, attuativi delle direttive comunitarie, rispettivamente n. 43/2000/CE  e n. 78/2000/CE. Il Servizio  partecipa al progetto europeo LEADER nell’ambito del programma europeo EQUAL II.

 

Abbiamo appreso dalla stampa nazionale che, in vista delle  elezioni dei rappresentanti degli studenti in seno agli organi di autogoverno dell’Università di Bergamo, i candidati di nazionalità straniera, benché  regolarmente iscritti all’Università di Bergamo, sono stati inizialmente esclusi dalla competizione, per decisione del competente ufficio elettorale. Questo in applicazione della norma contenuta nel Regolamento degli Studenti, entrato in vigore con del Decreto rettoriale  dd. 27 marzo 2007, e poi confermata nel decreto rettoriale di indizione delle elezioni dd. 6 aprile 2007,  la quale, subordinando lo stato di eleggibilità ad apposita dichiarazione dello studente candidato che attesti il godimento dei diritti politici,  è di fatto suscettibile di escludere gli studenti stranieri dal corpo degli eleggibili, essendo noto che i cittadini stranieri non godono nel nostro paese dei diritti politici in virtù della limitazione costituzionale di cui all’art. 48 della Cost.

 

Il nostro Servizio esprime perplessità e serie riserve giuridiche circa la legittimità della norma in oggetto, ritenendo che essa fondi una discriminazione  basata sull’origine nazionale  in contrasto con l’ art. 2 c. 2, l’art. 39 c. 1  e l’art. 43 del d.lgs. n. 286/98 (art. 2 c. 2: “Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente […]”; art. 39 c. 1: “In materia di accesso all’istruzione universitaria e di relativi interventi per il diritto allo studio è assicurata la parità di trattamento tra lo straniero e il cittadino italiano, […]; art. 43 c. 1: “Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione, o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico , sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.)

 

Si rileva, infatti, che le istituzioni nelle quali si esprime l’autogoverno e l’autonomia universitaria (Consiglio di amministrazione, Senato accademico, Consigli di Facoltà,…) non partecipano all’esercizio della sovranità politica e, dunque, della rappresentanza politica. Di conseguenza, non sussiste alcuna ragione per invocare le norme costituzionali sui rapporti politici (art. 48 e seguenti  Cost.) ai fini della determinazione del requisito di eleggibilità dei rappresentanti degli studenti in seno a tali organismi, e, dunque, potenzialmente  escludere l’eleggibilità degli studenti stranieri.1

D’altro canto, in nessuna delle norme riferite all’autonomia degli Atenei italiani e all’organizzazione del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica (L. 168/1989) viene precisato un requisito di cittadinanza per la rappresentanza degli studenti negli organi di ateneo, ma si fa soltanto riferimento alla categoria di “studenti” in generale.

 

Si ravvisa, pertanto, come non sussista alcuna norma nell’ordinamento italiano su cui possa fondarsi l’esclusione degli studenti stranieri dalla condizione di eleggibilità alla posizione di rappresentante degli studenti in seno agli organi di autogoverno universitari .

Al contrario, si rammentano le norme già citate all’inizio che equiparano pienamente  i cittadini stranieri regolarmente soggiornati (e dunque anche gli studenti stranieri) ai cittadini italiani con riferimento ai diritti in materia civile (art. 2 c. 2 d.lgs. n. 286/98), così come all’accesso all’istruzione universitaria e al diritto allo studio, nonché impongono a tutti, soggetti pubblici e privati, il rispetto di una clausola generale di non–discriminazione, diretta o indiretta, per ragioni di razza, colore, ascendenza o origine nazionale o etnica, convinzioni o pratiche religiose, nei confronti di cittadini stranieri, ma anche italiani o apolidi (art. 43  d.lgs. n. 286/98).

 

Per quanto concerne gli studenti di Stati membri dell’Unione Europea soltanto, va  aggiunto che la loro potenziale esclusione dalla condizione di eleggibilità dalla posizione di rappresentanti degli studenti   appare in violazione  del divieto generale di non-discriminazione contenuto nell’art. 12 del Trattato sulla Comunità Europea.

 

E’ evidente, a nostro avviso, che la norma contenuta nel Regolamento Studenti dell’Università di Bergamo viola le disposizioni citate, introducendo una illegittima discriminazione diretta a danno degli studenti stranieri regolarmente iscritti all’Università di Bergamo, ma impossibilitati, almeno sulla base di un’interpretazione letterale della norma,  ad essere eleggibili alla posizione di rappresentanti degli studenti in senso agli organi di autogoverno dell’Università.

 

A nulla varrebbe l’eventuale richiamo all’autonomia ordinamentale ed organizzativa dell’Università, in quanto la legislazione statuale, e dunque  il principio di eguaglianza di trattamento e non discriminazione contenuto nel d.lgs. n. 286/98, costituisce un limite insuperabile a detta autonomia universitaria, in virtù del precetto costituzionale di cui all’art. 33 della Costituzione, ultimo comma: “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato2 (sottolineatura nostra).

 

L’ASGI con la presente rammenta, inoltre, che  la Corte Costituzionale con sentenza n. 432/2005 ha avuto già  modo di chiarire che ogni trattamento differenziato tra italiani e stranieri che una norma  voglia introdurre ai fini dell’ammissione ad un beneficio deve rispondere a criteri di ragionevolezza da valutarsi in relazione alle finalità e funzioni della norma medesima e degli istituti cui essa si riferisce. 3

Nel caso in questione, gli organi di autogoverno dell’Università non esercitano competenze che incidano sulla rappresentanza politica e la sovranità popolare, bensì quelle  collegate alla programmazione e al coordinamento delle attività didattiche e di ricerca (Senato accademico), alla gestione amministrativa, finanziaria e patrimoniale dell’Ateneo (Consiglio di Amministrazione), cioè funzioni che incidono sulla vita quotidiana e l’attività formativa di tutti gli studenti iscritti e, per tale ragione, gli studenti sono chiamati a partecipare a tali organismi eleggendo i propri rappresentanti. L’istituto della rappresentanza studentesca ha lo scopo dunque di consentire agli studenti di disporre degli strumenti per difendere e rappresentare i propri interessi e non si vede dunque una ragione logica e razionale per introdurre una limitazione alla loro eleggibilità passiva fondata sul criterio di nazionalità, che finirebbe per escludere gli studenti stranieri da una tale prerogativa, nel momento in cui essi sono parte integrante   del corpo degli studenti iscritti, in condizioni di parità di diritti e di doveri con gli studenti italiani. Tale irragionevolezza della distinzione tra studenti stranieri e italiani in merito alle regole  sulla rappresentanza si  palesa anche con riferimento all’elezione del rappresentante degli studenti nel Comitato Regionale per il Diritto allo Studio, organo consultivo per l’attuazione a livello universitario del diritto allo studio e degli interventi regionali in materia (L. R. Regione Lombardia n. 33, art. 6) . La normativa nazionale sulla condizione giuridica dello straniero  ha, infatti, stabilito esplicitamente  il principio della parità di trattamento tra lo straniero ed il cittadino italiano in materia di accesso all’istruzione universitaria e di relativi interventi per il diritto allo studio (art. 39 c. 1 D.lgs. n. 286/98). Non si vede pertanto come ci possa essere  un nesso logico di ragionevolezza tra il godimento dello studente straniero di una piena eguaglianza di trattamento in materia di diritto allo studio e la sua esclusione dall’eleggibilità negli organi aventi poteri e funzioni consultive nella medesima materia.

L’istituto della rappresentanza studentesca in seno agli organi di ateneo - per essere ragionevole e coerente rispetto i propri scopi e funzioni ed in relazione anche agli scopi e le funzioni di tali organi medesimi – deve   essere dunque  necessariamente collegato a principi universalistici fondati sul concetto della “cittadinanza studentesca”. La rappresentanza studentesca, dunque, non può che essere estesa  a tutti gli studenti regolarmente iscritti, senza distinzione di nazionalità, pena la violazione, oltrechè della citata normativa anti-discriminatoria, anche  dei  principi costituzionali di eguaglianza e  di ragionevolezza richiamati dalla citata sentenza dalla Corte Costituzionale.4 Si desume da tale sentenza che tali principi di eguaglianza a ragionevolezza assurgono al ruolo di criterio interpretativo valido innanzi ad ogni norma che preveda una disparità di trattamento, anche in ambiti non necessariamente correlati ai diritti fondamentali, divenendo ulteriore metro in base al quale misurare l’ammissibilità o meno di provvedimenti od iniziative pubbliche.

 

            Si è peraltro appreso che, probabilmente anche a seguito  del parere espresso  dal Ministero per la Ricerca e l’Università,  gli studenti stranieri candidati alle elezioni per gli organi di autogoverno universitari sono stati alla fine  riammessi alla competizione elettorale sulla base di un’interpretazione della norma in oggetto del Regolamento Studenti  per cui il requisito del godimento dei diritti politici verrebbe per loro interpretato come riferito al paese di origine anzichè all’Italia. Si riconosce come una tale “creativa” soluzione interpretativa  possa nell’immediato ovviare ai problemi che si erano posti e consentire, probabilmente, un normale svolgimento della competizione elettorale. Tuttavia, si ritiene che essa, sotto un profilo prettamente giuridico, non appaia soddisfacente per le seguenti ragioni:

a)     trattandosi di un intervento meramente interpretativo della norma contestata, che rimane pertanto inalterata, la discriminazione posta da quest’ultima potrebbe ripresentarsi in futuro in presenza di una difforme volontà “politica” degli organi accademici;

b)     l’interpretazione fornita è, peraltro, ancora suscettibile di determinare una discriminazione per origine nazionale a danno di talune categorie di studenti non in possesso dello status civitatis italiano e, specificatamente, gli apolidi, cioè coloro che non sono in possesso di alcuna cittadinanza, e dunque non godono dei diritti politici né in Italia né in un altro paese, e i rifugiati politici ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, i quali non possono rivolgersi alle autorità consolari del proprio paese di origine in Italia per ottenere la dichiarazione di godimento dei diritti politici  per un evidente timore di persecuzione per sé o per i propri familiari eventualmente rimasti nel paese di origine; né possono rilasciare un’autocertificazione in ragione di  quanto previsto dall’art. 2 c. 1 e 2 del d.P.R. 31.08.1999, n. 394, per cui i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia possono rilasciare dichiarazioni sostitutive solo per i fatti, stati e qualità certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici o privati italiani.

c)     la norma, anche così interpretata, rimane priva di un contenuto di ragionevolezza perché subordina il diritto alla rappresentanza e all’eleggibilità negli organi di autogoverno universitario e in quelli consultivi in materia di diritto allo studio al requisito del godimento dei diritti politici in un paese estero, senza che vi siano un nesso logico e razionale tra tale requisito e gli obiettivi  e le funzioni tanto dell’istituto della rappresentanza studentesca quanto  degli organi medesimi.

 

Per tali ragioni, si raccomanda alle autorità accademiche competenti (Senato Accademico) dell’Università di Bergamo di addivenire quanto prima ad una modifica del Regolamento Studenti che determini il venire meno di qualsiasi forma di discriminazione in base alla cittadinanza per quanto concerne la rappresentanza e l’ eleggibilità degli studenti negli organi di ateneo e per il diritto allo studio, mediante l’affermazione del principio consolidato della “cittadinanza studentesca”,  spettante a tutti gli studenti iscritti regolarmente iscritti senza distinzione di nazionalità.

 

Si trasmette la presente segnalazione all’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità affinché anch’esso possa, eventualmente e se lo ritiene opportuno, formulare una raccomandazione ed un parere in merito, avvalendosi delle prerogative assegnateli dall’art. 7 c. 2 lett. b) e e) del D.lgs. n. 215/2003.

 

 

Certi dell’attenzione che Vorrà porre alla presente, cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri più cordiali saluti.

 

 

 

p. l’ASGI

Servizio di Supporto Giuridico

Contro le Discriminazioni

 

Dott. Walter Citti

 

 

 

 

 

 

 

GIURISPRUDENZA NAZIONALE

 

 

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza 8 marzo 2007, n. 9793: "Manifestazioni agonistiche ed esibizione di emblemi o simboli di organizzazioni razziste o nazionaliste".

 


Con la sentenza n. 9793 dd. 8 marzo 2007, la Corte di Cassazione ha confermato come sussista il reato di cui all'art. 2, comma 2, della legge 25 giugno 1993 n. 205, laddove chi accede a luoghi dove si svolgano manifestazioni agonistiche rechi con se emblemi o simboli di gruppi o associazioni razziste, nazionaliste e simili, sebbene non iscritto a tali gruppi o associazioni, perché anche in quest'ultimo caso ricorre lesione del bene penalmente tutelato.

 

 

 

Il testo dell’art. 2 commi 1 e  2 della legge n. 205/1993:

 

1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 , è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila .

2. È vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli di cui al comma 1. Il contravventore è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno.

 

Nota:

Art. 3 L. 13.10.1975, n.654: “È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni”.

 

 

 

 

 

 

Il testo della sentenza



LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Signori:

Dott. Enrico PAPA Presidente
Dott. Pierluigi ONORATO (est.) Consigliere
Dott. Alfredo TERESI Consigliere
Dott. Margherita MARMO Consigliere
Dott. Antonio IANNIELLO Consigliere

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso proposto per L.G. nato a Tivoli il 4.9.1972, avverso la ordinanza resa il 12.2.2006 dal g.i.p. del tribunale di Roma.

Visto il provvedimento denunciato e il ricorso,
Udita la relazione svolta in camera di consiglio dal consigliere Pierluigi Onorato,
Letta la requisitoria del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Vito D'Ambrosio, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso,

Osserva:

Svolgimento del procedimento

1- Con ordinanza del 12.2.2006 il g.i.p. del tribunale di Roma ha convalidato il provvedimento emesso dal questore romano in data 6.2.2006, nella parte in cui, ai sensi dell'art. 6 della legge 13.12.1989 n. 401, imponeva a G. L. di comparire personalmente innanzi al Commissariato PS di Tivoli trenta minuti dopo l'inizio del primo tempo, trenta minuti dopo l'inizio del secondo tempo e venti minuti dopo il termine di ogni incontro di calcio disputato dalla squadra della Roma per la durata di tre anni (così ridotta la durata di cinque anni stabilita nel provvedimento questorile).

In particolare, il giudice ha osservato che – secondo gli atti trasmessi al suo ufficio – il L. era stato denunciato nel corso degli ultimi cinque anni (e precisamente il 3.2.2006) per il reato di cui all'art. 5 legge 22.5.1975 n. 152 (uso in luogo pubblico o aperto al pubblico di caschi protettivi e di qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona) e per quello di cui all'art. 2, comma 2, della legge 25.6.1993 n. 205 (uso di simboli propri delle organizzazioni razziste o nazionaliste), perché aveva assistito alla partita di calcio disputata il 29.1.2006 tra le squadre di Roma e Livorno, parzialmente travisato ed esponendo una bandiera con l'effige di Benito Mussolini e col fascio littorio.

2 – Il difensore di L. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi a sostegno.

In particolare lamenta:

2.1 – Violazione del diritto di difesa, giacché l'interessato aveva avuto a disposizione un lasso di tempo troppo ristretto per poterlo esercitare. Infatti, il provvedimento questorile gli era stato notificato il giorno 10.2.2006 alle ore 11.30, il pubblico ministero ne aveva chiesto la convalida il giorno 11.2.2006 e il g.i.p. aveva provveduto il giorno 12.2.2006 (domenica), senza far certificare l'ora del deposito, che peraltro era anteriore alle 15.26 (ora in cui era stato spedito alla questura il fax per la notifica del provvedimento stesso);

2.2 – violazione e falsa applicazione dell'art. 2, comma 2, della legge 25.6.1993 n. 205, perché il reato previsto in questa norma – secondo la giurisprudenza – presuppone che chi fa uso degli emblemi e simboli vietati appartenga concretamente a un'organizzazione dedita allo incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali. Poiché questo presupposto non emergeva dal fascicolo, il giudice non poteva convalidare la misura di prevenzione;

2.3 – violazione dell'art. 6 commi 1 e 2, legge 401/1989. Sostiene il difensore che l'obbligo di presentarsi all'autorità di PS: a) è illegittimo perché, facendo riferimento anche alle partite amichevoli giocate dalla Roma, manca del necessario requisito di specificità, posto che non esiste un calendario ufficiale delle partite amichevoli; b) è inoltre eccessivamente vessatorio laddove impone un "triplo" obbligo di firma (cioè durante il primo tempo, durante il secondo e dopo la fine della partita) anche per le partite giocate dalla Roma fuori sede.

Motivi della decisione

3 – In ordine alla prima censura (n. 21), va osservato che il provvedimento questorile era stato effettivamente notificato alle ore 11.30 del 10.02.2006 e che l'ordinanza di convalida è stata emessa verosimilmente nelle ore antimeridiane del 12.2.2006, comunque molto oltre il termine di 24 ore, che la costante giurisprudenza di questa corte ritiene ormai sufficiente per consentire all'interessato l'esercizio del diritto di difesa.

La censura è quindi infondata.

4 – Neppure la seconda doglianza (n. 2,2) può essere accolta.

Premesso che un presupposto della misura di prevenzione di cui trattasi è la denuncia o la condanna per uno dei reati elencati nell'art. 6 comma 1, legge 401/1989, tra i quali è compreso sia il reato previsto dall'art. 5 della legge 22.5.1975 n. 152, sia il reato previsto dall'art. 2, comma 2, della legge 25.6.1993 n. 205, è evidente che basta la denuncia o la condanna per uno di questi ultimi reati per giustificare la misura stessa.

Orbene, neppure il difensore ricorrente contesta che il L. sia stato denunciato per il reato di uso in luogo pubblico o aperto al pubblico di caschi protettivi e di qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona (art. 5 cit. della legge 152/1975). Sotto questo profilo, quindi, la misura prevenzionale è indubbiamente legittima.

Si può però aggiungere che, secondo una interpretazione corretta del citato art. 2, comma 2, della legge 205/1993, il reato ivi previsto sussiste quando chi accede ai luoghi dove si svolgono manifestazioni agonistiche reca con se emblemi o simboli di gruppi o associazioni razziste, nazionaliste e simili, anche se non è iscritto a tali gruppi o associazioni, perché anche in quest'ultimo caso ricorre evidentemente la lesione del bene penalmente tutelato.

5 – Va infine disatteso l'ultimo motivo di ricorso (n. 2.3).

Citando una pronuncia di questa corte (Sez. III, n. 680 del 18.5.2005, Sernicoli) il ricorrente sostiene che quando il questore vieta l'accesso alle partite di calcio e prescrive l'obbligo di presentarsi all'autorità di P.S. in concomitanza con dette partite, queste devono essere specificamente indicate (ex art. 6, comma 1, ultimo periodo, legge 401/1989), ma non sono specificate se il questore fa riferimento a tutte le partite amichevoli, posto che in tal caso esse sono decise dalle stesse società calcistiche e non dalla F.I.G.C.

Conviene quindi tener presente l'argomentazione adottata sul punto della sentenza Sernicoli, la quale ha osservato quanto segue:

"Al riguardo, occorre premettere che quando la norma di legge fa riferimento alle manifestazioni sportive "specificamente indicate" intende richiedere che queste siano non tanto individuate nominatim (cosa normalmente impossibile) quanto piuttosto determinabili dal destinatario in modo certo sulla base degli elementi di identificazione forniti nel provvedimento e di elementi di fatto esterni al provvedimento ma generalmente noti, quali ad esempio i calendari ufficiali dei campionati e dei tornei. In tal modo infatti è ugualmente garantito lo scopo del legislatore, che è quello di rendere determinato il divieto comportamentale per non esporre il destinatario a divieti indeterminati che non sarebbe in grado di rispettare.

Alla luce di questo principio, si deve concludere che nel provvedimento questorile de quo è legittimamente specificata l'indicazione delle manifestazioni sportive laddove queste sono individuate negli incontri di calcio disputate (in Italia o all'estero) dalle squadre della Roma e della Lazio nell'ambito dei campionati e tornei nazionali e internazionali.

Manca invece una idonea specificazione laddove il provvedimento richiama anche gli incontri di calcio amichevoli delle due squadre, giacché in tal caso i destinatari dell'obbligo, pur essendo "tifosi" appassionati e informati, possono non essere a conoscenza di tutti gli incontri amichevoli disputati dalla squadra del cuore. Sottolinea sintomaticamente il ricorrente che "il tribunale di Roma è intasato di sentenze di assoluzione perché i sottoposti all'obbligo non si presentano a firmare in occasione delle competizioni estive, organizzate all'ultimo istante contro sconosciute rappresentative di categoria".

Insomma per gli incontri amichevoli, genericamente indicati, manca il requisito della sicura determinabilità da parte del destinatario dell'obbligo; come anche fa difetto quella esigibilità dell'obbligo, che la menzionata sentenza n. 512/2002 della Corte costituzionale impone al giudice di controllare in sede di convalida del provvedimento questorile".

Orbene, re melius perpensa, osserva il collegio che: a ) va sicuramente confermato il principio secondo cui la specifica indicazione delle manifestazioni sportive deve essere intesa come sicura determinabilità della stessa: b) il requisito della determinabilità delle manifestazioni vietate, tuttavia, va verificato in concreto, caso per caso, e non può essere valutato aprioristicamente in astratto.

Ciò significa che il divieto di accedere alle manifestazioni sportive, e soprattutto l'obbligo strumentale (che interessa in questa sede) di presentarsi a un ufficio di pubblica sicurezza in concomitanza con tali manifestazioni, resta valido anche per le manifestazioni sportive amichevoli, quando queste siano preventivamente e adeguatamente pubblicizzate, ferma sempre la possibilità che nel processo di merito per la violazione dell'obbligo, prevista come delitto dall'art. 6, comma 6, legge 401/1989, risulti che la manifestazione sportiva amichevole non era concretamente conosciuta e conoscibile dall'interessato, con la conseguente mancanza di responsabilità per difetto di dolo.

In questo senso, il controllo sulla "esigibilità" dell'obbligo di presentazione, menzionato dalla Consulta nelle sentenze 136/1998 e 512/2002, e affidato al giudice della convalida, si traduce in un controllo sulla "conoscibilità" dell'obbligo, in relazione alla concreta manifestazione sportiva amichevole, affidato al giudice di merito.

In conclusione, anche le manifestazioni amichevoli sono predeterminabili, a meno che si effettuino senza adeguata pubblicità e restino perciò ignote alla sfera della tifoseria locale alla quale generalmente appartiene il destinatario della misura di prevenzione.

Per conseguenza, il provvedimento restrittivo della libertà emesso nei confronti del L. deve ritenersi legittimo anche sotto questo profilo.

6 – La ulteriore doglianza circa il carattere eccessivamente vessatorio del triplo obbligo di presentazione e di firma per ogni partita di calcio, attiene alla cennata esigibilità dell'obbligo . Ma deve essere disattesa, giacché è la stessa legge, con il secondo comma del citato art. 6, a prevedere l'obbligo di comparire personalmente "una o piu' volte negli orari indicati" in relazione allo svolgimento della manifestazione sportiva. Evidentemente il legislatore ha avuto presente la necessità di evitare facili elusioni del divieto di accesso alle manifestazioni sportive, dove si può esprimere la pericolosità del destinatario della misura, prevedendo la possibilità che l'obbligo di presentazione, che è strumentale a quel divieto, possa essere plurimo al fine di assicurare il raggiungimento del suo scopo.

7 – In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Ai sensi dell'art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali . Considerato il contenuto del ricorso, non si ritiene di irrogare anche la sanzione pecuniaria che detta norma consente.

In conclusione , il ricorso deve essere respinto.

P.Q.M.

La Corte suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 29.11.2006

Il Presidente
(Enrico Papa)

Il consigliere estensore
(Pierluigi Onorato)

DEPOSITATO IN CANCELLERIA l'8 marzo 2007





 

 

 

RAPPORTI E DOCUMENTI

 

 

ILO-OIL (International Labour Office- Organizzazione Internazionale del Lavoro) Global Report: "Equality at work: Tackling the challenge"

 

Il Rapporto del Direttore Generale dell’OIL, con sede a Ginevra, reso noto  e diffuso il 10 maggio scorso, fornisce un quadro su scala globale delle discriminazioni nel mondo del lavoro, citando i progressi, ma anche i fallimenti registrati nella lotta contro le discriminazioni, tanto quelle tradizionali, di genere, fondate sulla razza, la religione, quanto quelle che hanno messo piede più di recente, basate sull’età, l’orientamento sessuale, le invalidità e le patologia da AIDS. Il Rapporto illustra molti casi concreti di discriminazione fondate sulla razza, la religione, le origini sociali, così come le discriminazioni che interessano i lavoratori migranti.

 

Il Rapporto può essere scaricato in lingua inglese, francese, spagnola, tedesca o russa dal sito web:

http://www.ilo.org/global/What_we_do/Publications/Officialdocuments/lang--en/docName--WCMS_082607/PDF

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 

1.

Rolla Giancarlo, Eguali, ma diversi. Identita' ed autonomia secondo   la giurisprudenza della Corte Suprema del Canada, Giuffrè editore, 2006.

 

 

INDICE


G. Rolla, I caratteri di una società libera e democratica secondo la giurisprudenza della Corte suprema del Canada 1
N. Olivetti Rason
, Vicende della Corte suprema del Canada: problemi e prospettive del principio costituzionale d’uguaglianza 36
E. Ceccherini
, Un antico dilemma: integrazione o riconoscimento della differenza? La costituzionalizzazione dei diritti delle popolazioni aborigene 58
E. Di Benedetto
, Il “Civil Marriage Act”: un difficile equilibrio tra divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale e libertà religiosa 114
M. Dicosola
, Tecniche di bilanciamento tra libertà di religione e laicità dello Stato. Il principio del duty of accomodation 135
L. Scaffardi
, Istigazione all’odio e società multietnica: il Canada e l’hate speech 163
A. Pitino
, Il principio di non discriminazione e l’adverse effect discrimination in materia di diritto alla salute in alcuni recenti casi giurisprudenziali 184
S. Sileoni
, La partecipazione in una realtà multiculturale: la tavola rotonda transculturale sulla sicurezza in Canada 210
G. Passaniti
, Gli Arbitration Tribunals nella realtà multietnica canadese, multiculturalismo vs. uguaglianza 232

 

 

2.

 

Marchei Natascia, "Sentimento religioso" e bene giuridico. Tra giurisprudenza costituzionale e novella legislativa, Giuffrè editore, Milano, 2006.

INDICE

Capitolo I
PROSPETTIVE DEFINITORIE E TERMINOLOGICHE
1.1. Il ‘‘sentimento religioso’’: contenuto del bene e caratteristiche della tutela 1
1.2. Segue. Distinzione da beni affini: la liberta` religiosa e la personalita` (del
singolo o delle collettivita` organizzate) 13
1.2.1. I reati contro la ‘‘liberta` religiosa’’ 13
1.2.2. I reati contro la ‘‘personalita` ’’ e la ‘‘dignita`’’ dei singoli e dei
gruppi 17
1.3. I destinatari della tutela: beni individuali e beni collettivi 26
1.4. Brevi considerazioni conclusive. 30

Capitolo II
L’IMPIANTO ORIGINARIO DEL CODICE ROCCO
2.1. I reati contro il ‘‘sentimento religioso’’ 35
2.2. Segue. La tutela della ‘‘religione dello Stato’’ 53
2.2.1. L’efficacia meramente dichiarativa della formula 55
2.2.2. L’efficacia costitutiva della riaffermazione pattizia 58
2.2.3. L’autonomia delle norme penali dalla norma pattizia 60
2.2.4. La ‘‘religione dello Stato’’ come elemento normativo giuridico 62
2.3. Segue. La tutela dei ‘‘culti ammessi’’ 70
2.4. La tutela della ‘‘liberta` di culto’’ collettiva 77

Capitolo III
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA:
RICOSTRUZIONE DI NUOVI OGGETTI DI TUTELA
3.1. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e le questioni di costituzionalita`
della normativa penale 83
3.2. La tutela della ‘‘religione cattolica’’ 94
3.2.1. L’elemento normativo ‘‘religione dello Stato’’ si trasforma in quello descrittivo di religione cattolica: la giurisprudenza della Corte costituzionale 94
3.2.2. La ricerca di una ratio compatibile con la Costituzione: i percorsi della dottrina 98
3.2.3. Segue. La religione cattolica ‘‘come religione della maggioranza dei cittadini’’: il criterio statistico 102
3.2.4. Segue. La religione cattolica ‘‘come valore culturale’’: il criterio storico 104
3.3. Dalla tutela dei ‘‘culti ammessi’’ alla tutela della ‘‘fede religiosa’’ 111
3.3.1. Dai ‘‘culti ammessi’’ nello Stato alle ‘‘confessioni religiose’’: (i progetti di modifica del codice Rocco e) la legge 24 febbraio 2006, n. 85 111
3.3.2. Il bene ‘‘religione’’ lato sensu: la tutela della ‘‘religiosita` diffusa’’ 134
3.4. La tutela della ‘‘fede religiosa’’ di tutti e di ciascuno: i diversi punti di
approdo della giurisprudenza costituzionale e del legislatore 140
3.5. La tutela della liberta` di religione e di culto del singolo e della collettivita` 145

Capitolo IV
REATI IN MATERIA DI RELIGIONE, LAICITA ` E PLURALISMO
4.1. La tutela del ‘‘sentimento religioso’’ 153
4.1.1. I rapporti con il principio di eguaglianza dei singoli ed eguale liberta`
delle confessioni 153
4.1.2. I rapporti con il principio supremo di laicita` dello Stato 162
4.1.3. I rapporti con il diritto alla libera manifestazione del pensiero 170
4.2. La tutela della liberta` di religione 182

Capitolo V
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 187
Bibliografia 201
Indice degli Autori citati 221

 

 

 

 

 

 

 

SITI INTERNET

 

www.olir.it

Sito internet dell’Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

 

L'Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose (OLIR) contiene dati, informazioni, riflessioni e idee su tutto ciò che riguarda il diritto e le religioni: in Italia innanzitutto, ma anche in altri paesi. Esso non intende fornire soltanto materiali giuridici, ma anche organizzare questi materiali in pagine dove essi sono accompagnati da riflessioni, indicazioni bibliografiche, riferimenti per ulteriori approfondimenti. L'obiettivo di OLIR è dunque quello di costituire qualcosa di più di una semplice banca-dati: le leggi, le sentenze, i documenti contenuti in questo sito costituiscono infatti il punto di partenza per un percorso che consenta al lettore di ottenere un'informazione, sintetica ma completa, sulla tematica a cui è interessato.

 

 



[1] E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  Brussels, dec. 2006, pag. 9-10.

[2] Tale definizione è proposta da  J. Goldston, Direttore esecutivo dell’Open Society Justice Initiative in Ethnic profiling and counter-Terrorism: Trends, Dangers and Alternatives, June 2006. L’organizzazione Open Society Justice Initiative, con sede europea  a Budapest, ha lanciato negli ultimi anni una serie di iniziative e ricerche in diversi paesi europei, ed in particolare in Ungheria, Spagna, Bulgaria e Regno Unito, per promuovere un dibattito ed un’azione di contrasto verso tale fenomeno in Europa. Si veda in proposito il sito: www.justiceinitiative.org

[3] Per una discussione sull’ethnic profiling tratta dalla giurisprudenza canadese: “La definizione di profili etnici o razziali si riferisce a quel fenomeno  per cui certe attività criminali sono associate  ad un gruppo identificato nella società in base al colore della pelle o all’appartenenza etnica, ciò risultando in una pressione sproporzionata esercitata nei confronti degli appartenenti a tale gruppo. In questo contesto, la razza è usata impropriamente ed illegittimamente  come fattore  associato all’attività criminale o ad una supposta  propensione al crimine di un intero gruppo etnico-razziale”; in R. v. Richards (1999), 26 C.R. (5th) 286 (Ontario, Canada), in E.U. Network on Indipendente Experts…, Ethnic Profiling, op. cit. , page 14.  Ad esempio, ricerche statistiche del Ministero dell’Interno della Gran Bretagna sulle attività delle forze di polizia relativamente al  fermo e  controllo delle persone nel periodo 2003-2004 mostrano che persone di colore (Blacks) hanno una probabilità di sei volte maggiore di essere fermate e controllate dalla polizia rispetto a persone di razza bianca, mentre le persone di origine asiatica hanno una probabilità doppia rispetto ai ‘bianchi’, cfr. in B. Hayes, A Failure to Regulate: Data Protection and Ethnic Profiling in the Police Sector in Europe, in Justice Initiatives, June 2005, page 36. In Ungheria e Bulgaria, una ricerca ha dimostrato che un passante di etnia Roma ha una probabilità tre volte maggiore di essere sottoposto ad un controllo di polizia di un passante di etnia non Rom; cfr. Open Society Justice Iniziative, I can stop and search whoever I want. Police stops and ethnic minorities in Bulgaria, Hungary and Spain, New Yord, 2007, disponibile sul web-site: www.justiceinitiative.org

 

 

[4] Marco Wong, Dove c’è il confronto i problemi si superano, in La Repubblica/Metropoli, edizione del 6 maggio 2007, pag.  11. L’esempio fornito dagli studenti di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano mette in evidenza ancora una volta la decisiva importanza dei “test situazionali” come strumento di raccolta delle evidenze probatorie nei casi di discriminazione etnico-razziale; importanza che è stata  di recente riconosciuta ed enfatizzata anche dall’UNAR nel suo rapporto annuale, cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità, L’efficacia degli strumenti di tutela nel contrasto alle discriminazioni razziali. Relazione 2006, Roma, pp. 42-48.  Sull’uso e le caratteristiche dei test situazionali si rimanda a W. Citti, I test situazionali come strumento di prova delle discriminazioni. Esperienze europee a confronto, working paper a cura dell’ASGI, novembre 2006,  scaricabile dal sito: http://www.leadernodiscriminazione.it/modules/contenuti/contents.php?id=75

 

[5] Si veda al riguardo la testimonianza di Richard Keenan, ispettore di polizia del Regno Unito, sull’esperienza  nella stazione di polizia del distretto di Leicestershire: “Era chiaro che la  persistente molestia degli appartenenti alle minoranze etniche da parte degli agenti di polizia  avrebbe esacerbato le relazioni tra la polizia e le comunità etniche senza risolvere le cause di fondo delle attività criminali nel Leicester. Di conseguenza, il fermo ed il controllo delle persone è usato di rado ed entro determinati parametri, nel quadro ed in base alle concrete informazioni di intelligence  disponibili. La dimensione etnica, in altre parole, non è mai usata per definire profili di intervento in Leicester […] Così facendo abbiamo sviluppato un circolo virtuoso. Poiché abbiamo agito secondo le preoccupazioni della comunità e abbiamo usato gli strumenti del fermo e del controllo delle persone (stop and search) con intelligenza, abbiamo conquistato la fiducia di molti. Così la comunità locale si è resa più disponibile ad impegnarsi con noi e fornirci maggiori informazioni. Le informazioni di intelligence provenienti dalle comunità etniche  rappresentano il 30% delle informazioni di intelligence disponibili ai miei ufficiali di polizia”, cfr. R. Keenan, Stop and Search: The Leicestershire Experience, in Justice Initiatives, op. cit., pagg. 82-87. Altri esempi vengono citati nelle pubblicazioni specializzate sull’argomento. Così nel 1999, il servizio doganale degli Stati Uniti rispose alle critiche di ethnic profiling nello svolgimento delle proprie attività, introducendo riforme  nelle proprie direttive operazionali. L’appartenenza razziale venne eliminata tra i fattori da considerare nell’individuazione delle persone sospette, mentre maggiore enfasi venne posta sui comportamenti tali da suscitare sospetto. L’anno successivo, i dati dimostrarono che i controlli (perquisizione dei bagagli) erano diminuiti del 70%, ma il tasso di individuazione degli illeciti era cresciuto del 15%; cfr. Ramirez Jennifer and Quinlan, Defining Racial Profiling in a Post- September 11 World, in American Criminal Law Review 40, n. 3, pp. 1206.  Una pubblicazione  dello stesso  Ministero dell’Interno del Regno Unito (Home Office) suggerisce come “appaia sufficientemente comprovato che lo studio del comportamento delle persone, unito ad una particolare enfasi sulla raccolta di informazioni confidenziali (intelligence), fornisce maggiori indicazioni ad un ufficiale di polizia sul probabile coinvolgimento di una persona in attività criminali che concentrarsi soltanto sull’appartenenza etnica”, cfr. Miller Bland Quinton, The Impact of Stops and Searches on Crime and the Community, Home Office, Police Reasearch Series Paper , 127, 2000, cit. in  Open Society Justice Iniziative, I can stop and search whoever I want, op. cit. p. 80.

[6] Per quanto concerne la legislazione italiana, occorre citare l’art. 4 della legge di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S. . 773/1931: “L’autorità di pubblica sicurezza ha la facoltà di ordinare che le persone pericolose o sospette e coloro che non sono in grado o si rifiutano di provare la loro identità siano sottoposti a rilievi segnaletici”, così come l’art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152: “In casi eccezionali di necessità ed urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell’autorità giudiziaria, gli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria e della forza pubblica nel corso di operazioni di polizia possono procedere, oltre che all’identificazione, all’immediata perquisizione sul posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la cui presenza, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo non appaiono giustificabili”.  Per quanto concerne la perquisizione dei locali e dei domicili privati durante operazioni di polizia si veda anche quanto previsto dall’art. 25 bis d.l. 8.6.1992, n. 306 (conv. In l. 7.8.1992, n. 356), in base al quale, fermo restando quanto previsto dalle disposizioni antimafia, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono procedere nei confronti di interi edifici o blocchi di edifici qualora abbiano fondato motivo di ritenere che si trovino armi, munizioni od esplosivi ovvero che sia rifugiato un latitante o un evaso in relazione a taluno dei delitti indicati nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p. ovvero a delitti con finalità di terrorismo.

[7] Da citare anche il Codice Etico Europeo del Consiglio d’Europa per le attività degli organi di polizia che esplicitamente raccomanda che “la polizia svolga le sue funzioni in maniera equa, guidata in particolare dai principi di imparzialità e non discriminazione” , Raccomandazione  REC (2001) del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sul Codice Etico Europeo di Polizia.

[8] Timishev v. Russia (Appl. N. 55762/00 e 55974/00), sentenza del 13 dicembre 2005 (depositata il 13 marzo 2006, paragrafi 54-57).

[9] Corte Costituzionale della Repubblica di Slovenia, sentenza U-I-152/03, 30 marzo 2006, pubblicata in appendice a E.U.  Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  Brussels, dec. 2006, pp. 84-96. La decisione della Corte Costituzionale slovena venne adottata sulla base del ricorso presentato dall’Ombudsman sloveno, nel quale si specificava tra l’altro che “condurre una procedura per l’identificazione di una persona in ragione soltanto della sua apparenza esteriore implica spesso un’immotivata interferenza con la libertà di un individuo che rispetta l’ordine legale, e tale interferenza non è necessariamente efficace  dal punto di vista della prevenzione e dell’individuazione di attività criminose […] il sospetto che una persona perpetrerà, sta perpetuando, o ha perpetuato un crimine o un delitto deve basarsi su circostanze obiettive, deve avere un fondamento concreto e non deve essere invece basato soltanto sulle caratteristiche esteriori di un individuo, o su opinioni condizionate da stereotipi per cui appartenenti a determinati gruppi sarebbero maggiormente inclini ad attività criminali”.

[10] Conseil Constitutionnel , Décision 5.8.1993, AJDA 1993 p. 815, note Wachsman) ; cit. in cfr. Université de Rouen, Cours en matière de libertés fondamentales  2006-2007, pag. 144, disponibile sul sito: www.univ-rouen.fr

[11] Decisione sull’illegalità degli accertamenti effettuati su un tunisino in un caffébar , giustificato dagli ufficiali di polizia  in ragione degli atti di vandalismo e le aggressioni verificatesi in quel quartiere e i cui autori sarebbero soliti trovare rifugio negli esercizi pubblici somministranti  bevande posti nelle vicinanze, cit. in Université de Rouen, Cours en matière de libertés fondamentales  2006-2007, pag. 144, disponibile sul sito: www.univ-rouen.fr

 

[12]  No. B1128/02, del 9 ottobre 2003, Raccolta n. 17017, cit. in E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  op.cit., pp. 45-46. Nell’esperienza austriaca in materia di ‘ethnic profiling’, va segnalato pure   il caso riportato dai media nella primavera dal 2005, quando, a seguito di una seria di brutali rapine compiute ai danni di postini da due uomini di colore, il Dipartimento per le investigazioni criminali del Ministero dell’Interno diramò  una direttiva interna indirizzata a tutti gli ufficiali di polizia, con la quale veniva data istruzione di fermare per accertamenti ed identificazione tutti i neri africani che venissero trovati in luogo pubblico in coppia. A seguito di una critica pubblica espressa in particolare da Hanz Meyer, un rispettabile professore di diritto pubblico all’Università di Vienna, che affermò il carattere discriminatorio del provvedimento, la direttiva venne ritirata e sostituita con un’altra, in cui si precisò che il fermo non doveva riguardare tutte le coppie di neri africani, bensì solo quelle che rispondevano ad un più circostanziato identikit in termini di età, altezza, corporatura, abbigliamento, cfr. Kurier of 9 March 2005, p. 12; Falter volume 11/05, p. 15, cit in E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  op.cit., pp. 48.

 

[13] The Queen v. Campbell, Court of Quebec (Criminal Division) (n. 500-01-004657-042-001, sentenza del 27 gennaio 2005, para 34; R. v Brown, 173 CCC (3rd) 23, para.44; cit in E.U.  Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  Brussels, dec. 2006, pp. 23-24.

 

[14] Caso 1992/876 del 21 Novembre 1992, cit. in in E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  op.cit., pp. 46.

 

 

[15] Si ricorda in proposito quanto prevede la legislazione italiana sull’immigrazione: art. 6 c. 3 D.lgs. n. 286/98: “Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno è punito con l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino a € 413”; c. 4: “Qualora vi sia motivo di dubitare della identità personale dello straniero, questi è sottoposto a rilievi fotodattiloscopici e segnaletici”. Inoltre, ai sensi del comma 7 dell'art. 12 d.lgs. n. 286/98, nel corso di operazioni di polizia finalizzate al contrasto delle immigrazioni clandestine, disposte nell’ambito delle direttive  di cui all’art. 11 comma 3 del medesimo decreto, gli ufficiali ed agenti di PS operanti nelle zone di confine e nelle acque territoriali possono procedere al controllo e alle ispezioni dei mezzi di trasporto e delle cose trasportate, quando, anche in relazione a specifiche circostanze di tempo e luogo sussistono fondati motivi di ritenere che  possano essere utilizzati per uno dei reati previsti dal medesimo articolo, purchè venga trasmesso processo verbale al Procuratore della Repubblica  entro 48 ore e quest’ultimo lo convalidi entro le 48 ore successive. Nelle medesime circostanze gli ufficiali di polizia giudiziaria possono altresì procedere a perquisizioni, con l'osservanza delle disposizioni di cui all'art. 352, commi 3 e 4 del codice di procedura penale.

Si segnala in proposito un interessante caso di giurisprudenza, con il quale il Tribunale di Trieste ha disposto l’annullamento di un provvedimento espulsivo emanato nei confronti di un cittadino straniero per irregolarità del soggiorno, accertato dopo che ufficiali di squadra mobile avevano fatto accesso ad un domicilio privato fuori dalle condizioni e senza le autorizzazioni previste dalla legge. Il Tribunale affermò di conseguenza che il decreto di espulsione era stato emanato in conseguenza di un  accertamento di polizia  illegittimo, effettuato in violazione dei diritti costituzionalmente garantiti all’inviolabilità del domicilio privato e alla non interferenza nella vita familiare e, pertanto,  risultava anch’esso  viziato da illegittimità (Tribunale di Trieste, ordinanza 24.07.2004, est. Ozbic, pubblicato sulla rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”, Franco Angeli editore, n. 3/2005, pp. 129-132). Tale orientamento di giurisprudenza è suscettibile di estendersi  a tutti quei casi in cui l’accertamento della condizione di irregolarità ed il conseguente provvedimeno espulsivo hanno avuto quale presupposto un accertamento amministrativo di polizia fondato unicamente sulla presunzione della condizione di straniero basata sull’appartenenza etnico-razziale e, dunque su criteri di ethnic profiling. Si veda in proposito  la sentenza del Tribunale amministrativo di Lyon (Francia), 19 aprile 1994 (JCP 1995.II.22414 note Blanc), con la quale è stato annullato il provvedimento espulsivo emanato a carico di un cittadino marocchino, il cui soggiorno irregolare  in Francia era stato evidenziato a seguito di un accertamento di polizia che il giudice aveva ritenuto illegittimo in quanto l’autorità di polizia non aveva fornito  argomenti tali da convincere che il controllo non fosse avvenuto sulla base soltanto  di una presunzione della condizione di straniero della persona interessata fondata sulla sua appartenenza etnico- razziale, bensì sul carattere sospetto del suo comportamento; cfr. Université de Rouen, Cours en matière de libertés fondamentales  2006-2007, pag. 144, op. cit.

 

[16] Tribunal Constitutionl, Sala Segunda, Sentenzia 13/2001 de 29 Ene 2001, rec. 490/1997, Rosalind Williams Lecraft. Nel settembre 2006, una coalizione di ONG per la tutela dei diritti umani ha  impugnato tale controversa sentenza dinanzi al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, chiedendo che quest’ultimo si esprima per l’esclusione dell’appartenenza razziale quale criterio regolativo delle attività di controllo e perquisizione da parte delle autorità di polizia.

 

[17] Cissé c. Francia, Appl. N. 51346/99, decisione sull’ammissibilità del 16 gennaio 2001.

 

[18] Sezione 19 B(1) della Legge sulle Relazioni Razziali (Race Relations Act), come emendato nel 2000, così prevede:

“E’ illegale per l’autorità pubblica nel compimento delle proprie funzioni compiere qualsiasi atto che possa costituire una discriminazione”. Il Preambolo chiarisce che lo scopo dell’emendamento del 2000 è quello di “estendere l’applicazione della legge sulle relazioni interrazziali del 1976 alla polizia e alle altre autorità pubbliche […]”. Al fine di consentire un effettivo monitoraggio e controllo interno sul rispetto dei principi di non discriminazione da parte degli ufficiali di polizia,  la legge inglese  prevede che, in occasione di ogni controllo personale e perquisizione effettuata (stop and search), l’ufficiale di polizia  debba motivare alla persona interessata le ragioni del controllo e riportare sul verbale il dato dell’ appartenenza etnica della medesima (Code A on Stop and Search, Police and Criminal Evidence Act 1984). Questo consente al Ministero dell’Interno del Regno Unito di disporre di statistiche etniche tali da evidenziare possibili casi di ethnic profiling nelle attività compiute da determinati commissariati di polizia e reagire di conseguenza. Per maggiori e più dettagliate indicazioni sulle linee guida della polizia del Regno Unito in materia di ethnic profiling, si veda: Home Office, Stop and Search Action Team Interim Guidance, 2004 scaricabile dal sito:  http://police.homeoffice.gov.uk/news-and-publications/publication/operational-policing/Guidance26July.pdf; Home Office’s Policing and Reducing Crime Unit, Police Stops and Searches: lessons from a Programme of Research, 2006, disponibile sul sito: http://www.homeoffice.gov.uk/rds/prgpdfs/polstop.pdf

 

[19] R (on the application of European Roma Rights Centre) v Immigration Officer at Prague Airport [2004]UKHL, 55, 9 December 2004.

 

[20] Lord Hope of  Craighead così continua: “Età, comportamento, apparenza generale al di fuori dell’appartenenza razziale o etnica  giocheranno un ruolo nel suggerire se una determinata  persona potrebbe essere in possesso di materiale da usare in connessione ad atti di terrorismo. Fattezze che indicano che una persona è di origini asiatiche potrebbero attrarre inizialmente  l’attenzione dell’ufficiale di polizia. Tuttavia,  un ulteriore processo di selezione deve essere intrapreso, certo nell’immediatezza del momento, altrimenti l’opportunità viene meno, prima che il potere di controllo venga esercitato. E’ tale ulteriore processo di selezione che differenzia ciò che intrinsecamente discriminatorio da ciò che non lo è” (UKHL 12, par. 43-46); cit. in  E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  op.cit., pp. 43-44.

 

[21] Ibidem, par. 91.

 

[22] Decisione del 4 aprile 2006 – 1BvR 518/02, Neue Juristiche Wochernschrift 2006, N. 27, page 1939; cit in E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling,  op.cit., pp. 47-48.

Per quanto riguarda la legislazione italiana sul trattamento  la protezione dei dati personali, va citato innanzitutto l’art 14 del Codice  sulla protezione dei dati personali (D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196):  “1. Nessun atto o provvedimento giudiziario o amministrativo che implichi una valutazione  del comportamento umano può essere fondato unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato”, che risulta applicabile anche in relazione alle attività dei servizi di informazione e sicurezza (CESIS, SISMI, SISDE) (art. 58 c. 1).

[23] Si veda a titolo di esempio i resoconti sulle ronde leghiste pubblicati su “La Repubblica” (edizione del 5 aprile 2007).

1 A tale riguardo si richiama un precedente giurisprudenziale, il quale sebbene riferito ad una realtà estera, nella fattispecie la Francia, è fonte di utili osservazioni comparative, per l’evidente analogia con il caso in oggetto.

Con decreto dd. 27 agosto 2004 (artt. 2 e 5)  vennero modificate le condizioni per l’eleggibilità alla Camera dei Mestieri dell’Alsazia e della Mosella, un organo di rappresentanza degli interessi degli artigiani di quelle regioni, con l’esclusione degli artigiani che non fossero titolari della cittadinanza francese o di uno degli Stati membri dell’Unione Europeo o dello Spazio Economico Europeo . L’HALDE (Haute Autorité pour la Lutte contre les Discriminations et pour l’Egalité), l’Authority indipendente contro le discriminazioni, costituita al fine di recepire in Francia la direttiva europea anti-discriminazioni (n. 2000/43), investita della questione, si espresse per il carattere illegittimamente discriminatorio della disposizione, sostenendo fra l’altro che l’istituto della Camera dei Mestieri “non  partecipa all’esercizio della sovranità nazionale” e anche per tale ragione, così come in ragione dei suoi scopi e delle sue funzioni, non possono trovare giustificazione le restrizioni nelle condizioni di eleggibilità. Di conseguenza, l’HALDE si espresse per la soppressione della discriminazione contenuta nel citato decreto, cfr. HALDE, Delibération n. 2005-17 del 4 luglio 2005 (caso n. 35), scaricabile dal sito: http://www.halde.fr/haute-autorite-1/avis-recommandations-25/discrimination-resultant-regimes-droit-84/discrimination-resultant-regimes-droit-9031.html.

A causa dell’inerzia dell’autorità  legislativa, la norma venne poi effettivamente soppressa per effetto della sentenza del Conseil d’Etat (Consiglio di Stato) n. 272638, n. 273639 dd. 31 marzo 2006; cfr. la sentenza è scaricabile dal sito: http://www.legifrance.gouv.fr/WAspad/UnDocument?base=JADE&nod=JGXAX2006X05X000000273638

 

2 A tale proposito, si veda  la recente ordinanza del Tribunale di Bologna (Jing Jing Huang c. Università Bocconi, dd. 28.12.2006, scaricabile dal sito: www.meltingpot.org/IMG/pdf/ordinanza_tribunalebologna.pdf), che ha condannato come discriminatoria la pratica dell’Università privata Bocconi di Milano, che prevedeva per l’immatricolazione  degli studenti extracomunitari l’applicazione  automatica della retta annuale di costo più alto, indipendentemente dal reddito. Una studentessa cinese ricorse al Tribunale di Bologna, dove risiede, chiedendo che il comportamento della Università privata fosse dichiarato "discriminatorio" per gli effetti dell’art. 43 TU immigrazione, D. Lgs. n. 286/1998, e dell’art. 2 del D.lgs. n. 215/2003, e quindi di essere ammessa alla Università alle stesse condizioni richieste ai cittadini italiani in ragione del reddito familiare, per quanto concerne il pagamento delle tasse scolastiche.
Con ordinanza immediatamente esecutiva del 23 dicembre 2006,  il Tribunale di Bologna, ha condannato l’Università ad ammettere la ricorrente cinese al corso di laurea a parità di condizioni con i cittadini italiani con riferimento al pagamento delle tasse scolastiche. Il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso, affermando che il comportamento dell’Università è discriminatorio in quanto prevede un trattamento differenziato nei confronti degli stranieri di paesi terzi privo di una specifica, trasparente e razionale causa giustificatrice, e, pertanto , irragionevole in base ai criteri indicati dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 432/2005. A nulla valse il richiamo dell’Università ai principi dell’autonomia finanziaria ed ordinamentale, in quanto la Corte precisò che detti principi  debbono esplicarsi nei limiti e nel rispetto delle leggi dello Stato e, dunque, pure della normativa antidiscriminatoria e per la parità di trattamento.

 

3 La pronuncia della Corte (Corte Costituzionale, sent. 28.11-2.12.2005, n. 432) ha riguardato la legittimità costituzionale di una legge della Regione Lombardia nella parte in cui non includeva le persone, di nazionalità straniera e regolarmente residenti nella regione, totalmente invalide per cause civili, fra gli aventi diritto alla circolazione gratuita sui mezzi pubblici, diritto di norma riconosciuto agli invalidi cittadini italiani.

 

4 Si richiama, per uno spunto comparativo, alla già citata vicenda francese della normativa discriminatoria in materia di elezione dei rappresentanti degli artigiani presso la Camera dei Mestieri della Regione dell’Alsazia e Mosella. L’HALDE,  auspicando la soppressione della norma, affermò tra l’altro: “Il ritiro del diritto di voto alle elezioni della Camera dei Mestieri a una parte importante degli artigiani esercitanti la loro attività in Francia,  allorché queste elezioni mirano a designare i membri di un’istituzione avente per scopo quello di rappresentare e difendere gli interessi collettivi degli artigiani, in ragione unicamente di un criterio di nazionalità, non sembra fondarsi su giustificazioni obiettive e ragionevoli collegate con tali finalità”, cit. ; così nella sentenza del Conseil d’Etat che poi venne a sopprimere la norma discriminatoria si legge: “Avendo al riguardo le funzioni delle Camere dei Mestieri, che sono chiamate  presso i poteri pubblici a rappresentare gli interessi generali dell’artigianato, non esiste differenza di situazione tra gli artigiani derivante dalla loro nazionalità che giustifichi una differenza di trattamento  nell’attribuzione del diritto di voto alle elezioni dei membri delle Camere dei mestieri. […], par. 335, cit. vedi sopra nota n. 1.