Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'Accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione - Martedì 19 febbraio 2008


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ALLEGATO

Indagine conoscitiva sulla immigrazione e l'integrazione.

DOCUMENTO CONCLUSIVO

Capitolo I - Introduzione.

Finalità dell'indagine conoscitiva.

L'aumento negli ultimi decenni dei movimenti migratori ha portato in primo piano il problema dell'integrazione e della convivenza tra persone di culture diverse. La questione che si pone in Italia come in molti altri paesi sviluppati è come vivere meglio insieme in società divenute più composite e complesse.
La presenza di stranieri regolari in Italia è costantemente cresciuta nel corso degli anni. La problematica dell'integrazione ha assunto un rilievo centrale.
L'integrazione può intendersi ai fini in esame come un processo bilaterale che comporta reciprocamente diritti e obblighi tra gli immigrati e i cittadini del Paese che li accoglie. Un processo bilaterale richiedente adattamenti reciproci, nel pieno rispetto dei valori e dei principi della società di accoglienza.
Nel processo di adeguamento della normativa a questi nuovi mutamenti sociali è divenuta prioritaria l'esigenza di individuare le misure atte a favorire l'integrazione degli immigrati regolari, identificando nello stesso tempo i meccanismi in grado di verificarne l'efficacia.
Il Comitato si è proposto con questa indagine di avviare, nell'ambito delle specifiche competenze che la legge 30 luglio 2002 n. 189 gli attribuisce in materia di immigrazione, un percorso di approfondimento delle politiche nazionali di accoglienza che consenta di individuare modelli di integrazione che favoriscano la partecipazione degli immigrati alla vita sociale, economica, culturale e civile, il loro accesso a beni e servizi, nonché la condivisione dei principi fondamentali del nostro ordinamento.
Al fine della definizione di un quadro nazionale di riferimento in materia di integrazione, l'indagine si è posta come l'obiettivo, di analizzare la condizione degli immigrati rispetto al lavoro, alle esigenze abitative, alla sanità e all'istruzione, identificando i problemi e le difficoltà più diffuse e rilevanti che ostacolano l'integrazione, sia sotto il profilo dell'accoglienza da parte della società sia nell'ottica della capacità di integrazione da parte degli immigrati. Infine, è stata verificata l'efficacia degli strumenti utilizzati per realizzare adeguate politiche di integrazione e individuando possibili nuove strategie ed interventi.
L'analisi avviata riguardo all'efficacia degli strumenti utilizzati in materia di immigrazione, integrazione e occupazione, attraverso un programma di audizioni, ha consentito di approfondire alcuni aspetti e acquisire chiarimenti in merito alle politiche e alle procedure esistenti.
Nel quadro nazionale, al fine di individuare le caratteristiche dell'immigrazione presente in Italia, si è proceduto prioritariamente ad una disamina dei dati relativi alla presenza, provenienza, età, tempo di permanenza in Italia, tipi di lavoro svolti, livello economico, coinvolgimento in fenomeni di criminalità e devianza, scolarizzazione analizzando alcuni settori propri dell'integrazione: la scuola, il lavoro, la casa e la salute.
Sono stati identificati alcuni dei problemi e delle difficoltà più diffuse e rilevanti che non consentono una piena integrazione: discriminazione e razzismo, diversità


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culturali, linguistiche e religiose, disinformazione ma anche le esperienze e le «buone pratiche» in Italia e in particolare il ruolo svolto dalle Istituzioni e dagli Enti locali.
Al fine di una definizione comune di integrazione e di criteri condivisi si è reso altresì necessario, nel corso dello svolgimento dell'indagine, un approfondimento del quadro europeo di riferimento per meglio conoscere le misure adottate in alcuni Paesi europei a favore dell'integrazione degli immigrati legali presenti nel loro territorio, nonché ad individuare le iniziative avviate dall'Unione europea per identificare le «migliori prassi» in materia.

Capitolo II - Il quadro normativo europeo.

Nell'ambito del quadro normativo europeo in materia di immigrazione vengono di seguito analizzati i due aspetti centrali: l'immigrazione legale e l'immigrazione illegale; anche alla luce del recente allargamento dell'Unione europea.

Piano d'azione sull'immigrazione legale.

Il 26 settembre 2007 il Parlamento europeo ha approvato una relazione 2006/2251(INI) sul «Piano d'azione per l'immigrazione legale» presentato dalla Commissione il 21 dicembre 2005 e sul quale si basa la politica dell'Unione in materia di immigrazione legale. Constatando l'aumento della mobilità internazionale della manodopera per motivi economici e politici, nonché la crescita demografica negativa prevista per i prossimi anni nell'Unione europea, la Commissione europea ritiene che «una politica efficace nel settore dell'immigrazione non può limitarsi a degli strumenti per l'ammissione degli immigrati. Sono necessarie altre misure legislative e operative ugualmente importanti, dal momento che l'immigrazione rappresenta un fenomeno realmente complesso che deve essere affrontato coerentemente in tutti i suoi aspetti. L'ammissione di coloro che immigrano per motivi economici è inseparabile tanto, da una parte, dalle misure sull'integrazione quanto, dall'altra, dalla lotta contro l'immigrazione clandestina e il lavoro nero e contro la tratta degli esseri umani». Il Piano d'azione prevede dunque un approccio globale al fenomeno dell'immigrazione, come richiesto dal Consiglio europeo nel dicembre 2005, e tra le misure legislative da adottare prevede: una direttiva quadro generale e quattro direttive specifiche.
La proposta di direttiva quadro generale è stata presentata il 23 ottobre 2007 (COM638/2007) ed ha l'obiettivo di garantire un quadro comune di diritti per tutti i cittadini di paesi terzi legalmente occupati già ammessi in uno Stato membro, ma non ancora in possesso dello status di residenti di lunga durata. La proposta prevede una procedura autorizzativa unica per i cittadini di paesi terzi che richiedano di lavorare o soggiornare nel territorio dell'Unione. Un capo apposito è dedicato nella proposta di direttiva al diritto alla parità di trattamento tra i lavoratori provenienti da paesi terzi ed i lavoratori nazionali almeno per quanto riguarda: condizioni di lavoro, libertà di associazione, istruzione e formazione, riconoscimento di titoli di studio, previdenza sociale, il pagamento dei diritti di quiescenza in caso di spostamento in un paese terzo, vantaggi fiscali e accesso a beni e servizi pubblici.
Le quattro direttive specifiche riguardano le condizioni di ingresso e soggiorno di particolari categorie di lavoratori: altamente qualificati, stagionali, in trasferimento all'interno di società multinazionali e tirocinanti retribuiti.
La proposta di direttiva relativa all'ammissione nell'Unione di migranti per posti di lavoro altamente qualificati (COM 637/2007) è stata presentata il 23 ottobre 2007. La proposta di direttiva ha l'obiettivo di instaurare una procedura speciale per l'ingresso e il soggiorno di cittadini di paesi terzi che richiedano di risiedere nell'Unione europea per occupare posti di lavoro altamente qualificati per un periodo superiore a tre mesi. Per definire la nozione di «impiego altamente qualificato


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» la proposta di direttiva si basa su due elementi: l'obbligo di esercitare un'attività economica dipendente e l'elevata qualificazione professionale per la quale è richiesto un titolo di istruzione superiore o almeno tre anni di esperienza professionale equivalente. Il richiedente deve inoltre presentare un contratto di lavoro, o un'offerta sicura di impiego, in cui sia indicato uno stipendio pari almeno a tre volte il salario minimo fissato a livello nazionale. Il richiedente in possesso dei requisiti previsti riceverà un permesso di soggiorno denominato «carta blu europea» con una validità di due anni che consentirà il soggiorno negli stati membri dell'Unione europea. La proposta di direttiva prevede il ricongiungimento familiare immediato.
Allo scopo di garantire la mobilità geografica dei lavoratori altamente qualificati, la proposta di direttiva autorizza il cumulo di periodi di soggiorno in altri Stati membri (fino a tre) ai fini del riconoscimento dello status di residenti di lunga durata. La proposta prevede inoltre che periodi di assenza dall'Unione europea non pregiudichino la maturazione dei requisiti di residente di lungo periodo, così da evitare una eventuale «fuga di cervelli» dai paesi di origine e sostenere la politica UE in materia di migrazione circolare.
Il Piano d'azione considera l'integrazione come un fenomeno riguardante diversi settori della vita pubblica tra cui lavoro, politiche urbane e l'istruzione. Anche il rispetto dei diritti fondamentali, la non discriminazione e pari opportunità per tutti sono elementi cardine dell'integrazione. Il piano riprende i concetti espressi nella comunicazione «Un'agenda comune per l'integrazione», presentata dalla Commissione il 1o settembre 2005 (COM 389/2005). Tra le misure raccomandate nei diversi settori interessati c'è il miglioramento dei programmi e delle attività di accoglienza per gli immigrati legali e per le persone a loro carico. Esse dovrebbero includere dei fascicoli informativi per gli immigrati appena arrivati, nonché corsi di orientamento linguistico e di educazione civica finalizzati a far sì che gli immigrati comprendano e rispettino i valori comuni nazionali ed europei, e ne traggano beneficio.
Per attuare misure di integrazione servono fondi adeguati. L'UE sostiene le politiche d'integrazione degli Stati membri attraverso una serie di strumenti finanziari. Le azioni preparatorie per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi (INTI) hanno avuto un ruolo importante nel promuovere attività a livello locale, consolidando le reti e lo scambio d'informazioni e buone pratiche fra Stati membri, autorità regionali e locali e altri attori interessati. Nelle prospettive finanziarie 2007-2013 la Commissione ha proposto nuovi strumenti di solidarietà, fra i quali il Fondo europeo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi, basandosi sui principi fondamentali comuni. Gli obiettivi del Fondo integrano quelli del Fondo sociale europeo (FSE) che a sua volta si avvale dell'esperienza dell'iniziativa comunitaria EQUAL nel sostegno a approcci innovativi intesi a evitare la discriminazione dei migranti sul mercato del lavoro. La proposta della Commissione per gli interventi del Fondo sociale europeo nel periodo 2007-2013 pone particolare enfasi sul rafforzamento dell'inclusione sociale delle persone svantaggiate.
Nell'approvare il Piano d'azione il Parlamento europeo ha voluto sottolineare che l'integrazione degli immigranti richiede misure globali volte ad assicurare il loro inserimento nel mercato del lavoro nonché i diritti sociali, economici e politici, ma che essa comporta anche obblighi per l'immigrante. Si rende necessario, tra l'altro,incoraggiare l'organizzazione di corsi per l'apprendimento della lingua della società d'accoglienza nonché di corsi di educazione civica e di programmi d'insegnamento, concernenti tra l'altro la parità tra uomini e donne, e di rafforzare l'integrazione tramite il lavoro, la facilitazione del ricongiungimento familiare, la lotta contro i ghetti e la partecipazione politica alle elezioni locali.
Nel corso del vertice informale dei ministri UE responsabili dell'immigrazione, tenutosi a Potsdam il 10-11 maggio


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2007, la Commissione ha presentato la seconda edizione del «Manuale sull'integrazione» dei cittadini di paesi terzi.
Il manuale, rivolto a chiunque si occupi di integrazione sia a livello legislativo nazionale che a livello di attuazione locale, ha come obiettivo la cooperazione e gli scambi tra gli operatori del settore. Esso esamina le strutture e i meccanismi utilizzati per le strategie politiche di integrazione, le misure riguardanti alloggi e ambiente urbano, l'integrazione economica e la «governance» dell'integrazione.
L'11 settembre 2007 la Commissione ha presentato la «Terza relazione annuale su migrazione e integrazione» (COM(2007)512) dove è ribadito che il nesso fra le politiche relative all'immigrazione legale e le strategie d'integrazione va costantemente rafforzato.
Il Consiglio europeo del 14 dicembre 2007, ribadendo che l'integrazione è un elemento centrale della politica migratoria globale europea, ha chiesto un migliore coordinamento tra le politiche migratorie e d'integrazione, invitando nel contempo la Commissione e gli Stati membri a porre in risalto, nel quadro dell'Anno europeo del dialogo interculturale (2008) le opportunità, i vantaggi e le sfide della migrazione in un'Europa plurale.

Piano d'azione sull'immigrazione illegale.

Il 26 settembre 2007 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulle priorità politiche nella lotta contro l'immigrazione clandestina di cittadini di paesi terzi. Nel documento sono indicati i principali obiettivi nella lotta all'immigrazione clandestina.
Preliminarmente troviamo la cooperazione con i paesi terzi. Il carattere pluridimensionale dell'immigrazione esige una stretta collaborazione con l'insieme dei paesi terzi interessati. Le conferenze ministeriali di Rabat e di Tripoli del 2006 hanno dato avvio al dialogo necessario tra i paesi di origine e di transito e gli Stati membri europei destinatari dell'immigrazione. Il dialogo deve essere finalizzato alla creazione di un partenariato effettivo con questi paesi, gettando nel contempo le basi del co-sviluppo. La lotta contro l'immigrazione clandestina, inoltre, deve consentire di instaurare o di migliorare il funzionamento degli accordi di riammissione. Occorre inoltre sviluppare le capacità dei paesi di origine e di transito in materia di gestione della loro emigrazione, in modo tale che dispongano delle istituzioni e dei mezzi per controllarla (amministrazione pubblica e legislazione idonee, formazione ed equipaggiamenti per le guardie di frontiera e i corpi di polizia per contrastare i trafficanti, ecc.).
Il controllo delle frontiere esterne rappresenta, evidentemente, la prima condizione per contrastare l'immigrazione illegale. In sua assenza non è possibile avere una politica credibile.
L'Agenzia per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, FRONTEX, deve ottenere le risorse necessarie per agire e gli Stati membri devono mantenere la promessa di apportare i propri mezzi logistici e umani a sostegno delle operazioni che devono poter essere svolte tutto l'anno nelle zone a rischio. Il 24 maggio 2007 FRONTEX ha lanciato il programma «Rete di pattuglie europea» (EPN), primo sistema di coordinamento delle pattuglie di sorveglianza delle frontiere marittime dell'Unione europea, per contrastare l'immigrazione clandestina. Il progetto interessa le coste atlantiche e mediterranee, al fine di sincronizzare le misure adottate dagli Stati membri e permettere la loro integrazione alle attività comuni dell'UE.
In questo ambito, nel corso del 2007, è stato adottato il regolamento (COM (2006) 401), relativo ai poteri ed al finanziamento di squadre di intervento rapido (RABIT), comprendenti guardie di frontiera distaccate in un altro Stato membro per fornirvi assistenza tecnica ed operativa; sono state adottate conclusioni sulla necessità di rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri, la Commissione e l'agenzia Frontex in materia di rimpatrio, nell'ambito del sostegno che sarà fornito dal Fondo per il rimpatrio 2008-2013; il Consiglio europeo ha invitato tutti gli interessati a prodigare


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gli sforzi per rendere operative al più presto le squadre di intervento rapido e per sfruttare al massimo le nuove possibilità offerte dalla rete di pattuglie costiere e dal registro centralizzato delle attrezzature tecniche o toolbox (CRATE), gestito da Frontex, la cui utilizzazione è subordinata alla firma di specifici memorandum di intesa tra Frontex e gli Stati membri coinvolti; infine il Consiglio giustizia e affari interni ha adottato conclusioni sull'ulteriore rafforzamento delle frontiere marittime meridionali dell'UE nelle quali esorta gli Stati membri, in uno spirito di solidarietà e di responsabilità condivisa, a fornire supporto, in modo bilaterale, a singoli Stati membri che siano sottoposti a particolari pressioni. Tali pressioni sono acuite anche da fattori quali la loro posizione geografica, il livello di impegno degli Stati terzi confinanti nell'adempiere ai loro obblighi internazionali in materia di ricerca e salvataggio e lo stato attuale della cooperazione con detti paesi.
La sicurezza dei documenti di viaggio e di identità è di fondamentale importanza; in questo ambito si fa affidamento allo sviluppo di strumenti biometrici. Tali sviluppi sono utili, ma devono essere realizzati nel rispetto della protezione dei dati, conformemente alla direttiva 95/46/CE; senza un'idonea protezione dei dati personali, non si può prevedere un sistema automatizzato che regoli gli ingressi e le uscite sul territorio dell'Unione. Particolare importanza assume, secondo il Comitato, l'accordo politico raggiunto il 12 giugno 2007 in seno al Consiglio, sul pacchetto legislativo inteso ad attuare il sistema di informazione visti (VIS).
La lotta contro la tratta di esseri umani deve essere incentrata sui trafficanti e sulle organizzazioni criminali che ne traggono profitto, evitando nella maniera più assoluta di implicare o recare pregiudizio alle vittime di tali traffici. A tale scopo, è necessario avvalersi di EUROPOL e dell'insieme degli strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia in Europa.
Il problema delle regolarizzazioni, procedure che rientrano nel potere discrezionale degli Stati membri, deve essere affrontato conformemente ai principi di cooperazione leale e di solidarietà reciproca, nella consapevolezza che la modifica della politica sull'immigrazione in uno Stato membro può influire sui flussi migratori e l'evoluzione in altri Stati membri.
Il lavoro clandestino è uno dei fattori principali di attrazione dell'immigrazione. La Commissione ha presentato una Proposta di direttiva che introduce sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi soggiornanti illegalmente nell'Unione europea (COM(2007)249). La proposta intende ridurre questo fattore di richiamo colpendo specificamente l'offerta di lavoro ai cittadini di paesi terzi soggiornanti.
La politica di ritorno prevede accordi di riammissione con i paesi d'origine e di transito; essa è una priorità facente parte di una più ampia strategia di lotta contro l'immigrazione clandestina. Per attuarla è necessario disporre di norme comuni, chiare, trasparenti ed eque sul rimpatrio, rispettose al tempo stesso della dignità e dell'integrità fisica delle persone. Con una decisione del 7 maggio 2007 è stato istituito il «Fondo europeo per il rimpatrio», con una dotazione di 676 milioni di euro per il periodo 2008-2013.
Le raccomandazioni del Parlamento si concludono ricordando la necessità di migliorare lo scambio d'informazioni mediante gli attuali strumenti e un richiamo alla responsabilità di chi organizza i viaggi illegali di persone.

L'allargamento dell'Unione europea e dello spazio Schengen.

Nel corso dell'indagine il Comitato ha avuto l'opportunità di audire i rappresentanti della Rete Accademica di Studi Giuridici sull'immigrazione e l'asilo in Europa (Odysseus) con i quali si è stabilito un dibattito circa la concreta attuazione della Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.


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Nel corso del dibattito è emerso che la direttiva 2004/38/CE si colloca nella prospettiva dell'attuazione di un diritto fondamentale a circolare liberamente nell'Unione europea e nello spazio di Schengen. Tale diritto non è incondizionato. Un individuo, per poter circolare liberamente, deve soddisfare alcune condizioni minime: disporre di un documento di identità, di risorse finanziarie sufficienti per il proprio soggiorno e di una copertura sanitaria. Si deve rilevare però che in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia, le condizioni per attuare questo diritto tendono a sparire, trasformandolo di fatto in un diritto pressoché assoluto.
Quando tali condizioni non sono soddisfatte si dovrebbe concludere che gli individui che non dispongono di questi requisiti non dovrebbero avere diritto a circolare e dovrebbero quindi poter essere rimandati nel loro Stato d'origine. L'allontanamento di un cittadino che non soddisfi le condizioni per la libertà di circolazione tuttavia non può essere automatica. Stando alla giurisprudenza della Corte devono essere previste delle possibilità di accomodamento: un cittadino europeo deve disporre, ad esempio, di un tempo ragionevole per dimostrare la propria qualifica, qualora non abbia una carta di identità o un passaporto in mano; in mancanza di risorse o di copertura sanitaria, non può essere espulso se non quando ciò costituisca un onere irragionevole per lo Stato membro di accoglienza.
Ogni sforzo di rimpatriare un cittadino europeo è vano, in particolare il divieto di soggiorno sul territorio in base alla decisione di rimpatrio è vietato, se fondato sulla sola mancanza di una delle condizioni. L'articolo 27 della direttiva prevede che si possa limitare la circolazione di un cittadino dell'Unione o di un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Ma la sola esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l'adozione di tali provvedimenti. Il comportamento personale deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società.
Le disposizioni della direttiva 2004/38/CE non sono state concepite per lottare contro gli abusi, ma solo nella prospettiva dell'attuazione di un diritto fondamentale a spostarsi liberamente all'interno dell'Unione Europea. Il legislatore era più interessato al processo di integrazione europeo che non a considerare la possibilità di abusi derivanti dalla normativa. In particolare numerose modifiche sono state apportate nel corso del processo legislativo da Consiglio dei Ministri e Parlamento Europeo.
Le vicende derivanti dall'allargamento dell'Unione europea pone nuovi problemi come per esempio la questione dei Rom. Si pensa che oggi siano circa 1.000.000 o 1.500.00 a circolare negli altri Stati membri dell'UE. In Francia sono circa 300.000 o 400.000. Oggi queste persone sono cittadini dell'Unione che godono di un diritto assoluto alla libera circolazione. Il diritto comunitario si oppone drasticamente ad allontanamenti di un numero elevato di cittadini europei aventi la stessa nazionalità e la probabilità di soccombere di fronte a ricorsi presentati davanti alla Corte di giustizia o alla Corte europea dei diritti dell'uomo sono alti. Non è possibile - ad esempio - immaginare uno Stato membro dell'Unione possa assumere un quarto dei provvedimenti di allontanamento nei confronti di un gruppo nazionale o etnico, in quanto ciò è contrario ai principi fondamentali del diritto europeo. Il contrasto con il principio di non discriminazione, nonché con il divieto di «espulsioni collettive di stranieri» costituirebbe una violazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, esponendo lo Stato al rischio di sanzioni.
La Commissione sta preparando un rapporto sull'attuazione della direttiva 2004/38/CE che sarà presentato nel corso del 2008; in occasione della sua discussione sarà possibile evidenziare alcuni dei problemi su esposti e anche valutare l'opportunità e la possibilità di modificare e adattare la direttiva esaminata.


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Capitolo III - Il quadro normativo nazionale.

La politica migratoria richiede adattamenti continui, basati sull'evoluzione del fenomeno sulle esperienze comuni e sulle caratteristiche e criticità dei singoli paesi.
Proprio per questa ragione l'evoluzione della normativa costituisce una delle chiavi di lettura che ci permettono di delineare una prima ricostruzione storica del fenomeno. Il dato più significativo della situazione di questi ultimi anni è indubbiamente rappresentato dalla crescente consapevolezza della necessità di superare un approccio di tipo emergenziale. L'immigrazione è ormai un aspetto strutturale della nostra società e richiede nuovi interventi politici e legislativi. Il modello italiano si è sviluppato in questi anni per approssimazioni successive, ricercando, di volta in volta, il punto di equilibrio tra le diverse spinte, interne ed esterne, ma non ha ancora trovato una sintesi efficace per un percorso autonomo e maturo.
Peraltro alcune linee di sviluppo della normativa italiana non sono molto diverse da quelle degli altri Paesi dell'Unione europea.
La limitazione dell'immigrazione irregolare è uno dei punti su cui più si concentra l'attenzione del mondo politico e dell'opinione pubblica. Su questo aspetto è stata più volte lamentata la scarsa efficacia dei controlli alle frontiere e l'assenza di norme e di strutture adeguate a garantire l'esecuzione dei provvedimenti di espulsione.
A tal riguardo alcuni Paesi europei si sono sicuramente dotati di strumenti più efficaci di quelli italiani, ma non tali da eliminare il fenomeno; anzi, la sempre maggiore diffusione dell'immigrazione clandestina su scala mondiale dovrebbe far seriamente riflettere sulla possibilità di fermare un processo sociale di tale ampiezza con meri strumenti repressivi.
Proprio per superare questi limiti una delle linee su cui si muovono i governi dei Paesi sviluppati è quella di adottare nuove strategie di contenimento, non basate esclusivamente sull'irrigidimento dei controlli alle frontiere, ma tese a coinvolgere nella gestione del problema anche i Paesi di provenienza dei flussi. Considerata la complessità del fenomeno i Paesi membri dell'Unione europea cominciano ad affrontare il problema come una questione di interesse comune e non demandata solamente ai Paesi più direttamente coinvolti dagli arrivi.
È chiaro a tutti, infatti, che le politiche in materia di immigrazione attuate in un Paese hanno inevitabilmente effetto anche sugli altri Paesi. Emerge pertanto la necessità di un approccio coordinato di questo fenomeno, sia in materia di ingresso e di soggiorno, sia in materia di integrazione dei migranti: l'immigrazione rappresenta così una sfida tanto per il diritto interno quanto per il diritto comunitario ed internazionale. Sono trattati in seguito alcuni aspetti della normativa nazionale riguardante l'immigrazione di cui il Comitato si è occupato nel corso della sua indagine.

Le politiche d'ingresso.

Le audizioni svolte dal Comitato hanno in vario modo evidenziato l'impossibilità di basarsi unicamente su di un approccio restrittivo, tanto per ragioni economiche, quanto per considerazioni umanitarie. L'approccio di fondo, sul quale vi è una forte convergenza anche a livello europeo, «consiste nel ritenere che lo strumento più importante per combattere l'immigrazione illegale risieda nell'aprire canali di immigrazione legale».
In questa prospettiva, la gestione del flusso d'ingresso dei lavoratori extracomunitari dovrebbe rispondere con più flessibilità alle esigenze delle imprese e delle famiglie. La normativa vigente stabilisce il numero massimo di lavoratori extracomunitari da ammettere ogni anno nel Paese al termine di una procedura di concertazione complessa che si conclude con l'emanazione di un decreto del Presidente del consiglio. Questa procedura non riesce ad adeguarsi alle fluttuanti esigenze del mercato del lavoro. Potrebbe essere opportuno pensare ad una programmazione pluriennale


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dei flussi che preveda la rideterminazione annuale dei flussi con una procedura semplificata rispetto all'attuale.
La determinazione quantitativa pluriennale dei flussi di lavoratori extracomunitari può essere modulata tenendo conto dell'andamento complessivo dell'economia e dell'occupazione, delle dinamiche demografiche e sociali. La procedura annuale semplificata potrebbe tener conto delle esigenze delle imprese e delle famiglie; è indispensabile che le quote d'ingresso siano determinate in base alla specifica domanda di manodopera straniera nei vari settori produttivi.
Ad esempio, nel corso delle varie audizioni, è emersa la necessità di migliorare e facilitare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Il permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro consentirebbe allo straniero l'iscrizione a Centri per l'impiego e la possibilità di accedere a colloqui ed interviste oppure ad altre forme di reclutamento presso imprese e unità produttive e potrebbe essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro con procedure più semplici.
In alcuni ambiti, come quello domestico-assistenziale, sembra inevitabile tener conto del rapporto diretto e personale tra famiglia italiana datrice di lavoro e lavoratrice (o eventualmente lavoratore). Sembra irrealistico pretendere di far rientrare nel sistema delle quote annuali e delle chiamate dall'estero questi rapporti di lavoro, anche perché il fabbisogno può sorgere in maniera repentina e imprevedibile. L'impossibilità di regolarizzare l'assunzione rischia anche di diventare una buona scusa per mantenere nel sommerso, talvolta per anni, l'assistente domiciliare. Meglio allora, in presenza di effettive necessità, prevedere la possibilità di una rapida conversione del permesso di soggiorno, per esempio da turistico a lavorativo.
Una disciplina più flessibile dovrebbe riguardare i ricongiungimenti familiari, come premessa per un'immigrazione più integrata e «normale». Anziché inquadrare il ricongiungimento come una concessione da elargire, previa verifica severa di una serie di condizioni economiche, abitative e normative, questa soluzione dovrebbe essere vista come utile strumento di integrazione, una volta raggiunto un minimo di stabilità dell'insediamento, oltre a rappresentare una conseguenza logica dell'interesse delle società riceventi a contrastare le possibili derive anomiche di un'immigrazione sradicata e dispersa.
Nell'immigrazione per lavoro, la principale anomalia italiana rispetto ai principali paesi sviluppati, consiste nello scarso richiamo esercitato nei confronti dei lavoratori altamente qualificati. Come è stato ricordato nell'audizione del rappresentante di Confindustria «mentre in Europa l'immigrazione di qualità copre una percentuale minima rispetto alla massa degli immigrati provenienti, negli Stati Uniti la tendenza è esattamente opposta, in quanto l'immigrazione di qualità raggiunge circa l'80 per cento». Un sistema a punti, in grado di premiare titoli di studio, esperienze professionali, competenze linguistiche e legami familiari, come quello da tempo adottato in Canada e poi da vari altri paesi (in Europa il primo è stato il Regno Unito), potrebbe aiutare non solo il sistema economico a dotarsi di competenze da mettere in campo nel mercato globalizzato, ma anche migliorare le rappresentazioni sociali degli immigrati. Più in generale, la conoscenza certificata della lingua nazionale potrebbe rappresentare un requisito preferenziale per i nuovi ingressi. L'incontro legale tra domanda e offerta di manodopera può essere ulteriormente favorito dalla compilazione di liste di cittadini extracomunitari disponibili a lavorare in Italia. Tali liste informatizzate, disponibili per la consultazione da parte delle imprese interessate ad assumere personale straniero, debbono essere strutturate in base a criteri di selezione come, ad esempio, nazionalità, titoli professionali, conoscenza della lingua italiana, o eventuale partecipazione a programmi di istruzione e formazione nei Paesi di origine.
Per favorire il lavoro stagionale poi, che ha conosciuto negli ultimi anni un forte incremento ed esige una adeguata tempestività


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al fine di soddisfare la domanda, si potrebbe considerare la concessione di contratti e di permessi pluriennali.

I centri per gli immigrati.

Il Comitato ha audito, nel corso dell'indagine, il presidente della Commissione per le verifiche e le strategie dei centri per gli immigrati, ambasciatore Staffan De Mistura. Dalla relazione svolta si evince un dubbio rapporto costi benefici della gestione dei centri. Infatti, i quattordici centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) presenti nel paese hanno una capienza di 1.940 persone e per essi sono transitati nel 2006 circa 22 mila immigrati all'anno, di cui sono state identificate circa 8.400. Nella gestione dei centri sono coinvolti 970 agenti di polizia. Il costo medio di un CPT e di circa 6 milioni di euro e la sua gestione costa all'erario 1,3 milioni di euro. Sono state espulse dal territorio nazionale circa 6000 persone con un costo medio per espulsione di 15.000 euro. I centri sono necessari in base agli obblighi derivanti dall'accordo di Schengen. Tuttavia è necessario rivedere vari aspetti operativi.
In effetti i provvedimenti espulsivi risultano difficilmente eseguibili sia per il loro numero eccessivo, nel 2006 ci sono stati 73.771 provvedimenti di espulsione ordinati dai Questori di cui 72.805 inottemperanti, sia perché l'irregolare non vede alcuna convenienza in un comportamento collaborativo con le autorità. Occorre dunque superare un approccio prevalentemente repressivo e punitivo del fenomeno e ricorrere ai provvedimenti di espulsione quando tutte le altre alternative siano concretamente impossibili. Va segnalata la proposta della Commissione di rivedere i CPT in particolare per quelle categorie di persone per le quali non c'è una reale necessità ne utilità di trattenimento tra cui: ex-detenuti che devono essere identificai e rimpatriati a fine pena direttamente dalle carceri (in questo senso il Ministro dell'interno di concerto con il Ministro della giustizia ha emanato una direttiva che, attraverso una più stretta collaborazione tra le autorità carcerarie e le forze di polizia, consentirà l'espletamento di tutte le pratiche necessarie all'identificazione durante la permanenza in carcere degli extracomunitari); potenziali vittime di tratta e di grave sfruttamento nel lavoro che dovrebbero essere orientati verso la protezione sociale con rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo; cittadini non comunitari «di ritorno» (overstayers) che dovrebbero poter ottenere un soggiorno per ricerca di lavoro e quindi una opportunità di tornare alla regolarità, o qualora questo non sia possibile, aderire ad un programma di rimpatrio concordato ed assistito; cittadini non comunitari, entrati irregolarmente nel territorio, che collaborano per la loro identificazione e aderiscono a programmi di rimpatrio concordato.

Capitolo IV - Politiche d'integrazione sociale.

Un altro ordine di considerazioni riguarda la gestione dei processi di integrazione Anche in Italia, andrebbe valutata l'opportunità di ricorrere ad un «contratto di integrazione» tra lo Stato italiano e i nuovi arrivati, sull'esempio di varie iniziative che si stanno sviluppando in diversi paesi europei. In queste iniziative si può cogliere l'intento condivisibile di responsabilizzare gli immigrati e sviluppare percorsi condivisi di integrazione. Le istituzioni pubbliche dovrebbero però andare oltre la richiesta di rispetto della Costituzione e delle leggi del nostro Paese, assumendo un ruolo attivo attraverso un'esplicita offerta di opportunità di integrazione: la prima e fondamentale sarebbe un'azione forte e tendenzialmente obbligatoria di alfabetizzazione alla lingua, alle istituzioni e al patrimonio culturale nazionale. Servirebbe poi un rilancio su vasta scala dell'educazione permanente degli adulti. Oltre alla scuola pubblica, comuni, sindacati dei lavoratori e organizzazioni solidaristiche potrebbero essere chiamati a contribuire all'iniziativa. La frequenza e l'apprendimento potrebbero essere incoraggiati prevedendo alcuni benefici


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per chi supera la verifica conclusiva: per esempio, una riduzione del tempo necessario per accedere alla cittadinanza o a determinati diritti civili e amministrativi o ad altri benefici specifici.
Un altro tassello delle politiche di integrazione riguarda l'impegno contro le discriminazioni, dirette e indirette. Vanno ricordate, tra queste ultime, le mille difficoltà che incontrano gli immigrati nel veder riconosciuti i loro titoli di studio. Anche per questa via gli immigrati più istruiti vengono scoraggiati dal venire verso l'Italia e altri paesi europei, e coloro che l'hanno comunque scelta vedono sottoutilizzato il proprio capitale umano. L'immagine della popolazione immigrata rimane appiattita verso il basso e anche il nostro mercato del lavoro ottiene dai lavoratori immigrati un apporto inferiore a quello che potrebbero fornire in base alle loro qualifiche.
Occorre poi dare maggior rilievo all'impegno delle istituzioni nella lotta contro le discriminazioni, che ha visto finora una scarsa efficacia applicativa delle norme legislative vigenti. Una proposta precisa, per il caso italiano e per altri paesi che hanno un problema analogo, potrebbe riferirsi alla trasformazione in Autorità indipendente dell'attuale Ufficio nazionale contro le discriminazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L'innovazione può sembrare soltanto apparente, ma in realtà, giacché molte discriminazioni avvengono per effetto di procedure, di regolamenti o di scelte operative dell'apparato pubblico, l'incardinamento dell'organismo che dovrebbe combattere le discriminazioni presso la sede del governo appare quanto meno improprio. L'indipendenza istituzionale dell'organismo di controllo rappresenterebbe una garanzia di imparzialità, di autorevolezza, e auspicabilmente di maggiore efficacia.
Tra le risorse sociali che concorrono a costruire forme di integrazione rispettose dell'autonomia delle persone immigrate vanno collocate le religioni. Come è noto, si tratta di un altro argomento sensibile e controverso, soprattutto quando entra in gioco il fattore islamico. Le varie opzioni possibili, dall'indifferenza, allo stretto controllo di polizia, all'impedimento pratico della libertà di culto mediante comportamenti ostativi delle amministrazioni locali, non preparano un futuro sereno per la convivenza. Sebbene non immune da rischi, come quello dell'intromissione dello Stato nella libera organizzazione dei gruppi religiosi, una strada praticabile potrebbe essere intrapresa sviluppando in Italia iniziative esistenti in altri paesi: oltre all'individuazione degli interlocutori più significativi, alla costituzione di un organismo consultivo e alla sottoscrizione di reciproci impegni, si può pensare ad un investimento nella formazione pubblica dei responsabili religiosi e alla richiesta di una preparazione adeguata, anche sotto il profilo della conoscenza del paese e della lingua nazionale, per chi viene chiamato a ricoprire incarichi di guida nelle comunità religiose locali.
Non vanno però dimenticate le altre minoranze religiose, protestanti, ortodosse, induiste, buddiste e altre ancora, il cui apporto nei processi di integrazione rischia di essere compromesso dalla concentrazione dell'attenzione sulla questione islamica. Ne consegue l'opportunità di prevedere l'introduzione nelle scuole di insegnamenti di storia delle religioni, come già avviene in alcuni paesi.

Le politiche nei confronti dei Paesi di origine: programmi di cooperazione e accordi bilaterali.

Le caratteristiche strutturali del fenomeno migratorio mondiale spingono a considerare le migrazioni sotto vari profili: repressione dei flussi illegali, apertura ai flussi legali, integrazione dei migranti legali e sviluppo economico dei paesi di origine. La complessità del fenomeno richiede la cooperazione di tutti gli attori in campo anche se gli interessi dei paesi di origine del fenomeno migratorio ed i paesi sviluppati, ricettori del flusso, sono diversi; i primi tendono a favorire la emigrazione dei propri cittadini al fine di allentare tensioni sociali e ottenere risorse economiche attraverso le rimesse, i secondi sono


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interessati fondamentalmente a controllare il flusso migratorio. Una corretta gestione delle migrazioni presuppone un'azione comune che si basi su spirito di partenariato, responsabilità condivisa, benefici reciproci e solidarietà.
La strategia della cooperazione italiana mira ad incidere sui flussi migratori attraverso il sostegno allo sviluppo economico dei paesi di origine, la riduzione della povertà, la promozione dei diritti umani e della democrazia.
I settori prioritari di intervento sono: infrastrutture, sanità, istruzione, agricoltura, approvvigionamento idrico, ambiente. Più direttamente legati alle attività di controllo dei flussi migratori e di contrasto dell'emigrazione clandestina sono gli interventi volti alla creazione, in alcuni Paesi, di sistemi di controllo delle coste e del traffico marittimo. In Marocco e in Egitto la collaborazione con l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) è particolarmente attiva. Il progetto «Sistema di gestione integrato di informazione sulla Migrazione» (IMIS), ad esempio, finanziato con un contributo di 1,7 milioni di euro, è orientato a rafforzare le capacità istituzionali e tecniche del Governo Egiziano, al fine di una corretta gestione dell'emigrazione per motivi di lavoro. L'Italia partecipa inoltre ad alcuni progetti cofinanziati a livello europeo: il programma Across Sahara 2, presentato dal Ministero dell'interno in partnership con la Libia e l'OIM, relativo ad azioni di assistenza tecnica in materia di immigrazione clandestina sulla frontiera libico-algerina; il programma East Africa migration route, presentato dal Ministero dell'interno britannico con la partecipazione del nostro Ministero dell'interno, relativo alla cooperazione tra gli esperti di immigrazione delle ambasciate dell'Unione europea nell'Africa orientale e le autorità di tali Paesi; del programma Facilitating coherent migration management approach in Ghana, Nigeria, Senegal e Libia presentato dalla OIM, con la partecipazione dei nostri Ministeri dell'interno e della solidarietà sociale, per promuovere la collaborazione operativa tra tali Paesi nella gestione delle migrazioni.
Il nostro paese ha firmato accordi bilaterali in materia di regolamentazione e gestione dei flussi migratori per motivi di lavoro con Moldavia (novembre 2003), Marocco (novembre 2005) ed Egitto (novembre 2005). Gli accordi bilaterali rappresentano un importante strumento che consente di rafforzare i canali legali di ingresso di lavoratori stranieri ed i meccanismi di incontro tra domanda e offerta di lavoro mediante lo scambio di informazioni sui fabbisogni del mercato del lavoro, redazione di liste di lavoratori, programmi di formazione professionale e di lingua italiana e scambio di esperienze; essi assumono un'importanza strategica nei rapporti con i paesi di origine, anche in termini di «contropartita» rispetto ad intese spesso impopolari quali gli accordi di riammissione.
L'accordo di riammissione disciplina il rimpatrio dei cittadini, rinvenuti in posizione irregolare o entrati clandestinamente nel nostro Paese, negli Stati di appartenenza. Tale strumento sancisce la cooperazione tra il nostro Paese e quello di provenienza o di transito dei flussi migratori irregolari, al fine di contrastare l'immigrazione clandestina, spesso gestita dalle organizzazioni malavitose.
L'accordo di riammissione è un importantissimo strumento di collaborazione in materia di gestione dei flussi migratori perché, da un lato permette di garantire allo Stato interessato quote «privilegiate» di ingressi nell'ambito del cosidetto «decreto flussi» annuale, dall'altro è una premessa per la negoziazione di accordi in materia di lavoro. L'Italia ha firmato 30 accordi di riammissione, di cui 26 già entrati in vigore.
Appare evidente che, per la gestione dei fenomeni migratori, la cooperazione allo sviluppo costituisca uno degli strumenti principali, agendo direttamente sulla causa del fenomeno. L'azione svolta dall'Italia in Albania ne è una prova; la drammatica situazione in questo paese, nonostante la sopravivenza di alcune difficoltà, è stata


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risolta attraverso una cooperazione stretta tra i due paesi in campo economico sociale, giudiziario e di polizia. Anche il fenomeno migratorio rumeno può essere visto in questa ottica; durante la missione del Comitato in Romania e Bulgaria del 12-14 marzo 2007, è stata esaminata, con il Segretario di Stato Gheorghiu, competente per la Diaspora rumena, la situazione della comunità rumena residente in Italia e le sue dinamiche d'integrazione. Secondo il Segretario di Stato, la circostanza che l'economia rumena sia in una fase di sostenuta crescita, grazie anche ai finanziamenti europei, fa presupporre che, in un lasso di tempo relativamente breve, molti emigrati rumeni all'estero prendano in considerazione l'idea di rientrare nel loro Paese, come è successo in passato in altri paesi che hanno aderito all'Unione Europea partendo da livelli di sviluppo economico molto al di sotto della media europea.

Modalità di accesso a:

Lavoro.

Il volume complessivo del lavoro immigrato nel sistema produttivo italiano continua a crescere, e l'ulteriore bisogno di manodopera è dimostrato dalla richiesta di un consistente aumento delle quote di lavoratori immigrati da parte degli imprenditori. Nell' affrontare alcuni temi legati all'inserimento lavorativo degli immigrati, si guarda con particolare attenzione al punto di vista delle imprese e degli imprenditori, visto il ruolo rivestito nel concorrere all'arrivo dei flussi di migranti nonché alle prospettive di un maggior coinvolgimento di tali attori nei processi di integrazione sociale degli stranieri oltre che in quelli di inserimento lavorativo.
Le scelte effettuate, in merito allo stile di impresa e di lavoro da mantenere e al ruolo da riservare alla manodopera immigrata, influenzano non solo il modello di sviluppo economico ma anche gli assetti sociali della nostra comunità. Assumono cosi un'importanza particolare gli orientamenti e le strategie con le quali gli imprenditori hanno affrontato i forti cambiamenti intervenuti negli anni nella composizione e nelle caratteristiche della manodopera disponibile nonché le iniziative che gli stessi sono disposti a mettere in campo per favorire l'inserimento lavorativo degli immigrati.
Le Associazioni dei datori di lavoro hanno evidenziato la necessità di una maggiore flessibilità nelle procedure che consentono l'incontro tra la domanda e l'offerta di manodopera. Si sono inoltre manifestati particolarmente sensibili ai problemi relativi all'inserimento sociale dei loro dipendenti stranieri e al fine di garantire la loro stabilità lavorativa, sono stati disponibili ad una maggiore flessibilità nella gestione dei periodi lavorativi (ad esempio, accumulo di periodi di ferie per garantire il ritorno ai loro paesi di origine senza la perdita di benefici).
Il lavoro autonomo riveste una particolare importanza nell'economia italiana ed il lavoro autonomo svolto dall'imprenditoria immigrata costituisce un notevole fattore di integrazione economico sociale. L'imprenditoria immigrata è cresciuta nel 2006 ad un tasso del 12,7 per cento ed è arrivata a quota 230.000 unità. Non sono imprese etniche in senso stretto, rivolte cioè ad un mercato costituito essenzialmente da connazionali, bensì all'intero mercato nazionale. Gli imprenditori stranieri lavorano per lo più nel commercio: quasi 95.000. Nel settore edile sono 68.000, nel manifatturiero 25.000 e nei trasporti 11.000. Vivono prevalentemente in Lombardia (42.000), Toscana (24.000), Emilia-Romagna (23.000), Veneto (21.000), Lazio (20.000) e Piemonte (18.000). Tra le province, il record va a Milano, con oltre 20.000 imprenditori stranieri residenti, seguita da Roma (16.000), Torino (10.000) e Firenze (7.000). Tali imprenditori sono egiziani e marocchini (40.000), cinesi (26.000), albanesi (20.000) e rumeni (17.000) e sono in maggioranza uomini (185.000). Le associazioni di categoria rappresentano una certa difficoltà nel rapporto con le banche, ed il loro modello di sviluppo è fondamentalmente autoreferenziale,


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anche se si riscontra, secondo le dichiarazioni dei rappresentanti della Centrale dei rischi finanziari (CRIF), un'inversione di tendenza con un aumento del ricorso ai finanziamenti. È importante sottolineare che solo una piccola parte dei profitti derivanti dall'attività imprenditoriale è utilizzato per le rimesse, quasi la totalità è reinvestita, il che dimostra un alto grado di integrazione degli operatori economici immigrati. Altre difficoltà che devono affrontare gli imprenditori immigrati sono: l'accesso alle normative ed alle informazioni riguardanti gli adempimenti necessari per svolgere correttamente l'attività d'impresa; l'apprendimento della lingua e la scarsa rappresentatività delle associazioni degli immigrati.

Istruzione e formazione.

L'istruzione nel nostro ordinamento è considerata come un diritto-dovere: diritto a ottenere istruzione e insieme obbligo di frequentare le scuole. Il diritto-dovere all'istruzione è garantito al cittadino straniero regolarmente soggiornante in Italia a parità di condizioni con il cittadino italiano.
I minori stranieri hanno diritto all'istruzione indipendentemente dal loro status o dalla regolarità dei loro genitori, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani; sono soggetti all'obbligo scolastico secondo le disposizioni vigenti in materia e possono richiedere l'iscrizione in qualunque periodo dell'anno scolastico.
I minori stranieri stimati dalla Caritas-Migrantes sono 586 mila, quasi un quinto di tutta la popolazione straniera. Di questi, gli iscritti nelle scuole, nell'anno scolastico 2005-2006, sono stati quasi 425 mila, con una massiccia presenza soprattutto della scuola di primo grado. Il Ministero dell'istruzione pubblica ogni anno un rapporto sugli studenti stranieri iscritti nelle scuole, che riporta anche i tassi di promozione, che sono più bassi tra la popolazione immigrata rispetto alla popolazione autoctona; ciò rimanda a problemi non solo linguistici, ma anche legati all'inadeguatezza di una didattica realmente interculturale su cui è necessario lavorare. L'alta «mortalità» di iscrizioni nel passaggio tra la scuola dell'obbligo e le scuole superiori, che aumenta se si considera gli iscritti nelle università, evidenzia serie difficoltà, anche se si deve sottolineare una crescita nel periodo 2005/06 del 80 per cento rispetto all'anno scolastico precedente. Nello stesso periodo si sono iscritti presso le Università italiane 41.589 studenti stranieri, il 2,28 per cento della popolazione studentesca, una cifra molto esigua rispetto a quella di altri paesi, che da una parte ci fa dubitare sulle possibilità di formazione qualificata che il nostro paese offre alla popolazione immigrata, dall'altra si congiunge al tema del riconoscimento dei titoli di studio, che nel nostro paese è ancora molto complesso e farraginoso. Peraltro nell'ultimo censimento dell'Istat è emerso che la popolazione straniera residente ha un tasso di istruzione superiore mediamente più alto della popolazione italiana nel suo complesso (i laureati stranieri sono il 12 per cento, contro il 7,5 per cento degli italiani; mentre gli stranieri che hanno la licenza media superiore sono il 28 per cento, contro il 26 degli italiani). Le politiche pubbliche dovrebbero prendere in considerazione tre questioni. La prima riguarda l'accompagnamento dei ragazzi ricongiunti, a varie età, nel rapporto con la scuola. Le risorse oggi dedicate a questo obiettivo sono in vari paesi, tra cui l'Italia, manifestamente inadeguate, con un numero di insegnanti molto esiguo rispetto al numero degli alunni interessati. Il problema dell'inserimento scolastico di ragazzi che arrivano senza conoscere la lingua viene lasciato per lo più alla buona volontà di alcuni dirigenti scolastici, insegnanti o compagni di scuola. Ne risultano ritardi scolastici ed esperienze frustranti, mentre si profila il fenomeno della fuga delle famiglie autoctone dalle scuole con un numero molto elevato di alunni di origine immigrata. Occorrerebbe invece un investimento molto più consistente e incisivo nell'apprendimento della lingua nazionale, con programmi mirati che prevedano molte ore settimanali di lingua nelle prime settimane,


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alternate ad attività e materie in cui si possa sviluppare la socializzazione con i ragazzi autoctoni; in seguito, una riduzione progressiva delle ore di italiano per stranieri dovrebbe condurre ad una piena integrazione nelle classi scolastiche. Inoltre la definizione giuridica della figura professionale del mediatore interculturale appare un complemento necessario degli investimenti in questo campo.La seconda questione attiene alla socializzazione con i coetanei, in special modo nell'adolescenza. Si sente spesso ripetere che la scuola dovrebbe favorire l'incontro, la conoscenza e la mutua comprensione tra ragazzi con differenti origini etniche. Ma questo, se può valere tra i banchi delle elementari, e forse nella scuola media, si scontra più avanti con l'autonomia che conquistano gli adolescenti nella scelta delle amicizie e delle attività del tempo libero. Serve allora una mobilitazione tanto della società civile quanto delle istituzioni pubbliche locali, per moltiplicare servizi educativi, centri di aggregazione, infrastrutture sportive gratuite, animatori ed educatori di strada, soprattutto nei quartieri di periferia in cui si percepiscono al tempo stesso i segni del disagio e della mescolanza interetnica. La terza questione rimanda a un punto molto avvertito, almeno a parole, nel dibattito pubblico: quello della formazione di cittadini consapevoli e leali verso le istituzioni del paese che li ha accolti insieme con le loro famiglie. Una volta chiarito che conta molto di più fare esperienze dirette, di vita associativa e di cittadinanza attiva, rispetto a quanto è possibile insegnare attraverso i programmi scolastici, si può convenire che un serio rilancio dell'educazione civica soddisferebbe una prima esigenza basilare, quella conoscitiva.

Servizi sanitari e alloggio.

Nel nostro ordinamento sull'immigrazione, dal Testo Unico in poi, la parte sanitaria è quella sicuramente più avanzata, anche al livello europeo. Pertanto, attualmente il problema meno emergenziale sembra essere proprio quello sanitario. Infatti, sin dall'inizio il servizio sanitario nazionale ha risposto in modo ottimale in tutte le sue articolazioni, in relazione al problema dei medici di famiglia, agli ospedali, ai servizi sul territorio.
Per i cittadini stranieri, comunitari e non, l'iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale garantisce tutta l'assistenza sanitaria prevista dal nostro ordinamento e comporta parità di trattamento rispetto ai cittadini italiani, per quanto attiene all'obbligo contributivo, all'assistenza erogata in Italia dal Servizio ed alla sua validità temporale.
Il diritto alle cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o essenziali, anche se continuative, per malattia e infortunio, nelle strutture pubbliche o private convenzionate, all'assistenza sanitaria di base, ai ricoveri urgenti e non e in regime di day-hospital, alle cure ambulatoriali e ospedaliere, urgenti o comunque essenziali, anche se continuative, per malattie o infortunio è riconosciuto anche all'immigrato irregolare.
L'accesso alle strutture sanitarie non comporta alcun tipo di segnalazione alle pubbliche autorità.
Per quanto riguarda le politiche abitative manca invece una reale politica sulla casa. Le risorse allocate alle regioni e ai comuni, in seguito al passaggio di competenze dallo stato alle regioni, è del tutto insufficiente. Ciò costituisce una contraddizione reale che viene vissuta soprattutto nei comuni ad alta e media densità di popolazione come ad esempio Roma e Milano o in altri comuni dove la presenza dei flussi migratori è più rilevante, anche se solo stagionalmente. In merito a tale problema diventa una urgente priorità la predisposizione di un adeguato piano di rilancio delle politiche abitative a livello nazionale prevedendo alcune misure quali l'incentivazione del canone concordato e un potenziamento del fondo sociale per l'affitto. Per realizzare una integrazione efficace occorre poi, una nuova politica sull'edilizia residenziale pubblica ed agevolata. Appare evidente come il tema del sostegno all'accesso all'alloggio sia legato in maniera molto forte al problema dell'integrazione e che di conseguenza le


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politiche abitative rappresentino un aspetto fondamentale del complesso percorso dell'integrazione. La mancanza di un piano nazionale sull'abitazione rappresenta un problema anche di altri paesi europei. Il problema più serio che si riscontra nelle grandi città è quello della creazione di quartieri ghetto, problema di non facile soluzione, mentre nei piccoli comuni tale problema non è presente. Infatti, al di sotto dei cinquemila abitanti è difficile formare quartieri ghetto, e una volta superate le diffidenze è più facile costruire un rapporto tra immigrati ed autoctoni. In alcune città italiane, peraltro, si è potuto constatare che, laddove le problematiche connesse alla creazione dei ghetti urbani - specialmente di quelli costituiti da un'unica etnia - e al disagio abitativo non sono state gestite, o lo sono state solo in parte, sono intervenuti problemi di emarginazione e di violenza. La questione dell'accesso all'alloggio viene dunque ad avere un forte impatto, non solo sulle condizioni degli stranieri, ma anche sulla percezione della sicurezza e della ghettizzazione.

Servizi finanziari.

Rispetto ad altri paesi Europei, l'Italia si presenta con indici di indebitamento contenuti e, nonostante la crescita dell'accesso al credito, si conferma un paese fondamentalmente «risparmiatore». Il rapporto tra credito al consumo e PIL ad esempio è in Italia del 4,20 per cento contro il 16 per conto del Regno Unito. Un'indagine realizzata a fine 2006 dal CRIF su un campione rappresentativo di piccole imprese gestite da imprenditori immigrati dimostra una richiesta di credito più rilevante in termini percentuali rispetto alle imprese avviate da cittadini italiani. Il numero medio di contratti in capo ai piccoli operatori immigrati è tendenzialmente crescente; l'accesso al credito cresce non solo perché sono presenti nuove imprese immigrate che per la prima volta richiedono un finanziamento, ma anche perché ci sono dei piccoli operatori economici immigrati che chiedono un nuovo credito o rinnovano ed aumentano la loro richiesta di finanziamento; ciò testimonia che il credito costituisce una leva importante per lo sviluppo della loro attività di impresa. Anche gli importi sono significativamente crescenti nel tempo, il che significa che il sistema bancario e finanziario mostra una crescente fiducia nella capacità di tale categoria di soggetti a ripagare i loro finanziamenti. La rischiosità di credito complessiva dei piccoli operatori economici, a prescindere della loro nazionalità è rimasta stabile negli ultimi anni poco al di sopra del 10 per cento; i piccoli operatori immigrati invece presentano un aumento della rischiosità che passa dal 9,22 per cento nel 2003 al 14,41 per cento nel 2006. Questo aumento è interpretato, da alcuni studiosi, come il risultato del significativo tasso di crescita del credito erogato e destinato a rientrare. I piccoli operatori economici immigrati che presentano un profilo strutturato, con maggiori dimensioni e capacità di investimento, accedono al sistema bancario con più facilità e le loro richieste in termini di qualità tendono a modificarsi verso servizi più sofisticati. Tuttavia per quella parte crescente della popolazione che presenta bassi salari, poche garanzie da prestare o non ha una storia di credito, tra cui gli immigrati, l'accesso al credito risulta difficoltoso. Spesso questa difficoltà è dovuta alla mancanza di informazioni che gli istituti bancari e finanziari possono utilizzare per valutare il merito creditizio che può comportare un aumento del costo del credito e il rischio di fare ricorso a circuiti alternativi e rischiosi di credito quali l'usura. Complessivamente la difficoltà di accesso al credito si traduce in un rallentamento del processo di sviluppo personale e, nel caso degli immigrati, in un freno all'integrazione sociale e finanziaria. L'utilizzo di informazioni alternative a quelle tradizionali quali bollette dei servizi di pubblica utilità, bollette telefoniche e simili, consentirebbe ai richiedenti credito senza «storia creditizia», tra cui gli immigrati, di accedere al credito legalmente ed in maniera agevole, riducendo il ricorso all'usura e sviluppando i propri piani


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personali con una conseguente maggiore integrazione nel tessuto sociale. Una ricerca americana ha dimostrato che l'utilizzo di dati alternativi per la valutazione del merito creditizio ha comportato un aumento generale del 10 per cento nell'accettazione delle richieste di finanziamento, che sale al 20 per cento per gli immigrati, ed una riduzione del 10 per cento del rischio di credito.

Diritti politici.

L'argomento della rappresentanza e della concessione di diritti politici ai cittadini extracomunitari residenti nel nostro paese da lunga data genera accese discussioni politiche. Il Vice presidente dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), Fabio Sturani, nel corso della sua audizione, ha riferito che, nel corso di una indagine svolta dall'associazione, è emerso che soltanto il 3 per cento dei comuni campione ha adottato i consiglieri stranieri aggiunti, e che si registra la costituzione del Consiglio degli stranieri nel 2 per cento dei casi e della Consulta degli stranieri nel 5 per cento. Si tratta sostanzialmente di una percentuale minima, soprattutto concentrata nelle città medio grandi, che dimostra un deficit di rappresentanza degli immigrati residenti nel nostro paese. L'ANCI si è inoltre dichiarato favorevole al diritto di voto nelle elezioni amministrative per i cittadini non appartenenti all'Unione europea, diritto che è già riconosciuto a questa categoria di cittadini in altri paesi europei. Ed è previsto dalla Convenzione di Strasburgo del 5 febbraio 1992. Secondo l'ANCI, la possibilità di esercitare il diritto di voto nelle elezioni locali può rappresentare uno strumento di partecipazione alla vita politica della comunità di accoglienza.
Questo argomento chiama in causa il «codice della cittadinanza», tema complesso e legato a specificità storiche dei diversi paesi, ma su cui è auspicabile un cammino di armonizzazione. Per l'Italia, si tratta di un nodo irrisolto di una legislazione che, con la riforma del 1992, ha scelto di concentrarsi sull'eredità della nostra storia di emigrazione, senza considerare le necessità di convivenza e partecipazione in società sempre più plurali. Il tema è stato nel corso della legislatura l'oggetto di un conflitto politico che ha impedito la ricerca di soluzioni anche soltanto moderatamente innovative. Si può rilevare al riguardo che la legislazione italiana rimane tra le più restrittive d'Europa, particolarmente per le nuove generazioni. Una congrua riduzione del periodo di residenza necessario per avanzare la richiesta di naturalizzazione accompagnato da una serie di criteri e condizioni specifiche come avviene già in vari paesi europei, potrebbe essere ragionevole. Disposizioni più favorevoli andrebbero considerate per i minori, prima di tutto per quelli nati in Italia, ma poi anche per quanti hanno compiuto una parte significativa degli studi nel nostro paese. Sono di fatto ormai integrati nella nostra comunità nazionale. Su questi temi, malgrado le profonde implicazioni storiche e culturali delle scelte politiche, sarebbe peraltro particolarmente auspicabile una convergenza delle legislazioni dei paesi dell'Unione europea. L'apertura verso la doppia cittadinanza, oggi di fatto già tollerata anche in Italia, è un'altra delle grandi questioni aperte oggetto di un importante dibattito. Per alcuni paesi, come il Marocco, la rinuncia alla nazionalità di origine è impossibile; in altri casi, come in Argentina e altri paesi dell'America Latina, possono sussistere norme che riconoscono tale facoltà agli europei, ma non ad altri, col rischio di squilibri. Oggi varie istituzioni e agenzie internazionali hanno incominciato a considerare gli immigrati, e specialmente gli operatori economici provenienti dalle fila della popolazione immigrata, come potenziali agenti di sviluppo nei loro luoghi di origine: gli immigrati possono diventare un veicolo di esportazione e di conoscenza dei prodotti nazionali. Per queste ragioni, obbligarli a recidere i legami politici di cittadinanza con i paesi di provenienza a molti osservatori sembra controproducente. Si può invece pensare di rendere più rigorosa e sistematica la verifica delle competenze linguistiche e


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delle conoscenze basilari della storia e della costituzione del nostro paese, in base al principio secondo cui per esercitare in modo attivo e consapevole i diritti di cittadinanza occorre disporre degli strumenti basilari della partecipazione civica. Occorre inoltre rendere congruente e complementare l'accertamento delle conoscenze collegato con la domanda di naturalizzazione con quello che dovrebbe avvenire all'ingresso sul territorio italiano. Infine, si potrebbe attribuire una maggiore solennità rituale del conferimento della cittadinanza e del giuramento di lealtà verso il nostro paese. Un aspetto collaterale si riferisce ai diritti da riconoscere al residente stabile che non pensa di richiedere la cittadinanza. I principali, secondo l'ANCI, appaiono il diritto di voto in ambito locale e la possibilità di ingresso nell'impiego pubblico. D'altra parte, occorre anche considerare i rischi e prendere le misure adeguate onde evitare un accesso meramente strumentale alla cittadinanza, legato ai benefici che può comportare, anziché a una convinta adesione ai valori, agli interessi e ai destini della comunità politica in cui si chiede di entrare.

Comunicazione: la mediazione culturale.

La mediazione culturale rappresenta una attività di supporto all'integrazione sociale della popolazione immigrata nella comunità locale, nei servizi sociali, nelle istituzioni scolastiche e culturali, nel settore della sanità e nel mondo del lavoro. Attività volta nello specifico a rimuovere gli ostacoli culturali che impediscono la comunicazione tra i servizi, le istituzioni italiane e l'utenza straniera; a promuovere un più esteso e razionale utilizzo dei servizi e delle istituzioni italiane da parte dell'utenza straniera; a migliorare la qualità delle prestazioni offerte dai servizi italiani all'utenza straniera; a promuovere azioni di sostegno culturale alla mediazione sociale in situazione di conflitto tra le comunità immigrate e le istituzioni italiane o sul territorio, in alcuni quartieri. Il mediatore è un nuovo operatore sociale con specifiche competenze e attitudini, in grado di interagire con le istituzioni pubbliche e private, interpretando le esigenze e le necessità degli stranieri. Contribuisce a prevenire le potenziali occasioni di conflitto; favorisce le condizioni per l'integrazione sociale, valorizzando la risorsa dell'apporto interculturale; aiuta il cittadino straniero ad inserirsi nella società italiana, favorendo la conoscenza di diritti e doveri e l'uso dei servizi del territorio nell'intento di consentire un accesso e una fruibilità dei servizi a pari condizioni e facilitando le pari opportunità nel godimento dei diritti; favorisce l'incontro tra operatori, tra persone diverse, facilitando la comunicazione verbale e non verbale ,favorisce il cittadino straniero nel leggere e comprendere la cultura italiana aiutandolo, a rimuovere quelle barriere che ostacolano la sua interazione con una nuova cultura; promuove e valorizza il ruolo attivo degli stranieri nel tessuto socio-economico e culturale italiano. Appare necessario definire in modo più organico e specifico la disciplina relativa ai mediatori culturali, in particolare per quanto concerne i percorsi di selezione, verifica delle competenze e formazione.

Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati.

È stato istituito, con legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), presso il Ministero della solidarietà sociale un fondo denominato «Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati», al quale è assegnata la somma di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009. Il Fondo è finalizzato a favorire l'inclusione sociale dei migranti e dei loro familiari, alla realizzazione di un piano per l'accoglienza degli alunni stranieri favorendo anche il rapporto scuola-famiglia, mediante l'utilizzo di mediatori culturali. Il Ministero della solidarietà sociale di concerto con il Ministero per i diritti e le pari opportunità ha emanato una direttiva per l'utilizzo dei fondi stanziati per l'anno 2007 nella quale si individuano sette aree prioritarie d'intervento: sostegno all'accesso


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all'alloggio, accoglienza degli alunni stranieri, tutela dei minori non accompagnati, valorizzazione delle seconde generazioni di stranieri, tutela delle donne immigrate a rischio marginalità sociale, diffusione della lingua e della cultura italiana e diffusione della conoscenza della Costituzione italiana, dell'ordinamento giuridico nazionale e dei percorsi di inclusione sociale. È inoltre operativo dal gennaio 2007, il «Fondo europeo per l'integrazione» che dispone di uno stanziamento, per il periodo 2007-2013, di 825 milioni di euro, ripartiti annualmente fra gli Stati membri in base al flusso di ingressi e al numero di immigrati legalmente residenti. All'Italia sono stati destinati 6,3 milioni di euro per il 2007 e 8,5 milioni di euro per il 2008, con l'obiettivo di finanziare, fra l'altro, corsi di educazione civica, lingua e cultura destinati agli immigrati. È ancora presto per valutare gli effetti degli interventi promossi dai fondi sulla nostra società. Il Comitato rinvia alla prossima legislatura questo compito.

I nodi dell'integrazione.

I minori non accompagnati.

Un aspetto particolare del fenomeno migratorio è rappresentato dalla presenza sul territorio nazionale di minori stranieri non accompagnati. Per minore straniero non accompagnato, secondo quanto prevede il DPCM 535/99, si intende il minorenne non avente cittadinanza italiana o di altri Stati dell'Unione Europea che, non avendo presentato domanda di asilo politico, si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell'ordinamento italiano. Secondo i dati del Ministero della solidarietà sociale sono, al 30 giugno 2007, 6572 di cui il 90,81 per cento sono maschi. Il fenomeno rimane costante, nel 2003 i minori non accompagnati erano 7.040 di cui 1462 - il 20,8 per cento - provenienti dalla Romania ora non più conteggiati in quanto provenienti da un paese che fa parte dell'Unione europea. È da rimarcare l'aumento significativo della presenza di minori non accompagnati che, in quanto provenienti da paesi come Palestina, Iraq, Afghanistan - aree geografiche in crisi - sono dei potenziali richiedenti asilo. L'attuale normativa in materia prevede la possibilità di conversione, al raggiungimento della maggiore età, del permesso di soggiorno per minore età in permesso di soggiorno per lavoro, studio, esigenze sanitarie o di cura, solo per i minori stranieri non accompagnati che si trovino in Italia da almeno tre anni e che abbiano seguito un programma di inserimento sociale e civile per almeno due anni. I minori di 14 anni sono attualmente il 18,27 per cento del totale, ciò comporterebbe l'esclusione di un gran numero di minori che, non avendo i requisiti per la modifica del permesso di soggiorno, rischierebbe al raggiungimento della maggiore età di entrare in una condizione di irregolarità difficilmente sanabile. Requisiti così restrittivi incentivano infatti i minori stranieri a protrarre la loro clandestinità, aumentando così il rischio che finiscano nelle mani delle organizzazioni criminali. Nel corso dell'indagine il Comitato ha audito il Vice presidente dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), Fabio Sturani, che ha sottolineato le difficoltà affrontate dai comuni nella gestione dei minori non accompagnati. Le risorse statali destinate ad affrontare questo fenomeno sono molto al di sotto delle reali necessità. L'assistenza e la cura di questi ragazzi stranieri è, quindi, quasi tutta sulle spalle delle amministrazioni comunali che, sulla base di una ricerca condotta dall'ANCI, stimano la spesa occorrente ai comuni per la gestione di questo problema tra 250 e 300 milioni di euro. Si rende necessario attivare al più presto una politica omogenea su tutto il territorio nazionale, anche per ovviare al cosiddetto «effetto calamita». I minori, ma in generale gli immigrati, tendono ad andare nei comuni che offrono più assistenza. Si verifica così il paradosso che i comuni più virtuosi sono anche i più oberati in termini di finanza. Occorre


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quindi adottare un coordinamento sulle politiche nazionali e che tali questioni siano inserite nei processi di finanziamento e nel sistema del welfare locale. Come già ricordato, la legge finanziaria per l'anno 2007 ha istituito il «Fondo per l'inclusione sociale sugli immigrati», con una dotazione di 50 milioni di euro, il decreto del Ministro della solidarietà sociale di concerto con il Ministro per i diritti e le pari opportunità del 9 agosto 2007 attribuisce alla tutela dei minori stranieri non accompagnati priorità di intervento con uno stanziamento di 10 milioni di euro e ribadisce la necessità di realizzare un programma nazionale in questo campo che operi negli ambiti dell'accoglienza e dei percorsi di integrazione sociale.

L'integrazione scolastica.

In chiusura dell'anno scolastico 2006/2007, sono risultati inseriti nelle scuole 500 mila alunni stranieri; nel 1995/1996 erano 50 mila. Il fenomeno che interessa l'Italia è da una parte la crescita esponenziale del numero degli alunni stranieri, dall'altra la provenienza da svariate nazioni e la diffusione nel Paese. Questi alunni non sono concentrati in una sola area del Paese. La regione con maggiore incidenza, comunque, è ancora l'Emilia-Romagna con il 10 per cento, mentre, tra le città capoluogo, Milano arriva al 12,7 per cento. La media nazionale è del 5 per cento. Siamo, dunque, al di sotto della presenza di alunni stranieri che si rileva negli altri Paesi: un terzo rispetto all'Inghilterra e molto meno dei Paesi del nord Europa. Negli anni scorsi, tuttavia, sia perché gli stranieri non erano così tanti, sia perché il problema si registrava localmente nelle singole scuole, ciascuno aveva cercato di risolvere - spesso molto bene, anche con l'aiuto degli enti locali - tutte le problematiche che nascevano intorno all'inserimento di questi alunni immigrati. Ma ormai la presenza di questi alunni è diventata strutturale: non diminuirà, ma ancora per alcuni anni crescerà, per poi stabilizzarsi: occorre dunque che la scuola dia una risposta strutturale,definendo alcune priorità nell'accoglienza e nella formazione degli alunni stranieri. L'accoglienza rappresenta la prima importante fase per il successo del processo di inserimento del ragazzo straniero nel contesto sociale, di cui l'insegnamento della lingua italiana rappresenta una priorità sulla quale la scuola e gli enti locali sono fortemente impegnati. Ci sono molte buone prassi in questo senso, come il caso del comune di Firenze, che congiuntamente alle scuole ha istituito cinque centri in cui i ragazzi, già inseriti in una classe, sono sottoposti ad un test linguistico in base al quale viene creato un progetto individuale che consenta, secondo il loro grado di conoscenza della lingua italiana, di raggiungere il livello della classe. Un altro esempio è l'accordo di programma su un ampio progetto riguardante l'insegnamento della lingua italiana tra province, reti di scuole, comuni - come Piacenza e Parma - e università. Un'altra priorità rilevata riguarda la preparazione del personale della scuola. È evidente che se si vuole realizzare una scuola che sappia gestire la nuova realtà interculturale, nel rispetto delle priorità valoriali e pedagogiche nazionali, dove siano presenti dialogo e diversità, dove venga coltivata l'identità di ciascuno- quindi anche quella dei ragazzi italiani- e dove si sappia riconoscere, rispettare e comprendere la cultura degli altri, occorre una adeguata formazione dei dirigenti scolastici. Una scuola, che sappia rispondere in modo adeguato e competente, potrà essere di aiuto non solo agli alunni, ma anche al contesto sociale e locale in cui vivono.

L'integrazione delle seconde generazioni.

Con l'espressione seconde generazioni di stranieri residenti sul territorio italiano si intendono i figli di stranieri nati in Italia o giunti nel nostro paese nei primi anni di vita. La «Generazione 2» riguarda i figli di immigrati nati in Italia; la «Generazione 1.75» i bambini arrivati in Italia prima di cominciare la scuola; la «Generazione 1,25» i ragazzi che emigrano tra i 13 e i


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17 anni: quelli per cui l'integrazione sembra più difficile. Si tratta di una nuova tipologia di soggetti che, a differenza delle prime generazioni di migranti, matura aspettative sia da parte della famiglia che dalla società nella quale vivono, modi di vita, competenze e valori simili a quelli della popolazione autoctona, presentando tuttavia specificità e problematiche. L'attenzione istituzionale verso le seconde generazioni è dovuta dalla consapevolezza che le politiche nazionali dell'immigrazione debbano confrontarsi con le nuove tipologie di soggetti, in particolare sotto il profilo relativo alla loro piena integrazione. Più in generale, l'evoluzione del percorso di integrazione sociale, economica e culturale è volto sempre più verso la ricerca di una maggiore stabilità attraverso una crescente certezza occupazionale ed un aumento dei ricongiungimenti familiari. Il più importante indicatore della tendenza alla stabilizzazione dei cittadini stranieri in Italia è sicuramente l'aumento della presenza dei minori di origine straniera, che all'inizio del 2006 risultano essere 585.496, pari al 21,9 per cento della popolazione straniera nel suo complesso. A questo dato va aggiunto quello della presenza di alunni stranieri nelle scuole, come risulta dall'indagine MIUR, relativa all'anno scolastico 2005-2006, che segnala circa 430.000 studenti di ben 192 nazionalità straniere: per lo più sono albanesi, marocchini, egiziani, tunisini, cinesi, rumeni, asiatici, la maggioranza di religione musulmana. Occorre inoltre considerare che il tasso di natalità degli immigrati rappresenta circa il doppio del dato medio della popolazione italiana: i nuovi nati stranieri sul territorio italiano nel 2005 sono circa 51.971, pari al 9.4% del totale dei nati in Italia. Tra le criticità rilevate da alcuni studi condotti dal Ministero per la solidarietà sociale, le principali sono costituite da disagi nei processi di costruzione identitaria; da fallimenti scolastici; da marginalità, anche occupazionale; da difficoltà di accesso, in condizioni di uguaglianza rispetto ai cittadini autoctoni, alle opportunità di mobilità socioeconomica; dal carico derivante dal dovere di contribuire con il proprio lavoro all'attività economica della famiglia; da atteggiamenti di discriminazione su base etnica da parte della popolazione autoctona e tra gruppi diversi di origine immigrata;dall' assenza di spazi personali, determinati da peggiori condizioni abitative, in cui trovare rifugio e autonomia. A fronte di tali criticità emergono tuttavia anche elementi positivi e linee di tendenza unificanti nelle esperienze dei giovani di seconda generazione, che devono essere prese in considerazione. I soggetti di seconda generazione mostrano una condizione di maggiore radicamento nella società italiana al confronto con altre tipologie di stranieri immigrati; guardano al futuro con un bagaglio di aspirazioni analoghe a quelle dei loro coetanei autoctoni, anche se spesso si indirizzano più pragmaticamente verso il conseguimento ravvicinato nel tempo di condizioni di sicurezza economica. I giovani di seconda generazione inoltre non sembrano disposti ad accettare il profilo di inserimento socio-economico dei propri genitori e si orientano verso professioni più qualificate, che godono di maggiore riconoscimento sociale. In considerazione della rilevanza del fenomeno sono stati destinati dei fondi alle aree metropolitane, dove si riscontra un più alto tasso di presenza di giovani stranieri di seconda generazione, per la promozione e la realizzazione di interventi rivolti alle seconde generazioni di immigrati.

La situazione delle donne.

Secondo i dati dell'ultimo Dossier Caritas/Migrantes sull'immigrazione e sul cambiamento che ha subito l'Italia negli ultimi anni, le donne immigrate presenti nel nostro paese sono arrivate alla cifra di 1.842.004, una cifra, pari al 49,9 per cento del totale degli immigrati, che non fa altro che confermare il costante e consolidato protagonismo femminile nell'attuale processo migratorio. La distribuzione delle immigrate, come viene segnalata dai dati Caritas, varia da regione a regione: in base alle opportunità lavorative vi sono così


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regioni dove è presente una presenza femminile particolarmente forte. Sono principalmente quelle del Sud, in particolare la Campania, dove le donne sono il 61,7 per cento degli immigrati, mentre vi sono altre regioni, soprattutto al Nord, in cui la percentuale delle donne è più bassa. Anche le nazionalità giocano un ruolo importante nel cambiamento dell'immigrazione italiana: ad alzare la percentuale delle donne sono quelle provenienti da paesi europei. Per fare qualche esempio, vi sono alte percentuali di donne ucraine (83,6 per cento), russe (82,5 per cento), moldave (68,1 per cento) e romene (53.4 per cento) rispetto al totale di queste nazionalità. Importante anche il riferimento al continente di provenienza: in tal caso troviamo una percentuale di maggioranza del 66,8 per cento di donne provenienti dall'America latina, mentre nel caso dell'Africa e dell'Asia la maggioranza è costituita invece dagli uomini, con valori che oscillano tra il 65 per cento e il 90 per cento per l'Africa Subsahariana (esemplare il caso del Senegal, con solo una donna su dieci). La presenza delle donne immigrate, un tempo legata quasi esclusivamente al ricongiungimento familiare, è cambiata nel tempo con la necessità di trovare un lavoro altrove e migliorare la propria condizione anche partendo da sole. Le donne immigrate sono così riuscite a raggiungere oggi un tasso di attività più elevato della media: il 58,4 per cento, a fronte di poco più del 51 per cento della totalità della popolazione di sesso femminile, seguendo così la scia degli stati europei, in cui il tasso di occupazione delle donne straniere nell'ultimo decennio è aumentato più rapidamente di quello degli immigrati uomini. Ma il numero che riesce meglio a fotografare questo è il dato Inail: sono 571.499 le donne straniere occupate a fine 2006, pari al 42 per cento di tutti gli immigrati. Più della metà delle donne occupate, al di là della loro provenienza, si trova a condividere lo stesso tipo di occupazione: lavoro domestico e cura delle persone, soprattutto anziane. Questo è senz'altro un elemento negativo: il fatto che il tipo di impiego sia quasi esclusivamente domestico, tra l'altro anche meno retribuito rispetto agli uomini è un fattore, qualche volta anche obbligato, che non premia la professionalità di quante hanno studiato nel loro paese e si sono specializzate. Con il risultato che anche le donne immigrate si trovano in posizione di debolezza sociale. Il riconoscimento dei titoli di studio potrebbe costituire il modo per una migliore integrazione delle donne nel mondo del lavoro, consentendo loro l'accesso ad un lavoro diverso da quello domestico. Un altro forte ostacolo all'integrazione è rappresentato dalla mancata conoscenza della lingua italiana. Secondo le stime ufficiali, su 400.000 musulmane regolari presenti nel nostro paese, appena il 10 per cento ha una vita «normale». «Non lavorano, non escono di casa, non vanno, se non poche, a fare la spesa e vivono sotto lo stesso tetto con altre mogli. L'86 per cento delle musulmane in Italia è analfabeta: non conosce l'italiano, parla il dialetto arabo ma non lo scrive, non conosce i numeri e quindi non è in grado di fare una telefonata o di prendere un autobus». Così ha dichiarato la Presidente dell'Associazione donne marocchine in Italia, Souad Sbai, nel corso della sua audizione. Per far fronte a questa esigenza è stato avviato dal Ministero dei diritti e delle pari opportunità, di concerto con il Ministero della pubblica istruzione e con quello dell'università e della ricerca e in accordo con i comuni e le province, un piano comune riguardante l'avvio di corsi di alfabetizzazione attraverso la rete scolastica già esistente. Inoltre, la risoluzione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2006 sull'immigrazione femminile, nel sottolineare il fatto che la componente femminile rappresenta ben il 54 per cento del fenomeno migratorio nell'ambito dell'Unione, contiene una serie di inviti agli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione per attuare in concreto l'integrazione della dimensione di genere all'interno di una molteplicità di azioni e di interventi. Nella direzione auspicata dall'Europa vanno alcune recenti iniziative di carattere normativo, a partire dalle modifiche apportate alla legislazione sull'immigrazione per effetto


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del recepimento di alcune direttive europee. Tuttavia, le attuali norme in materia di soggiorno per lavoro non offrono adeguate tutele alle centinaia di donne e ragazze di seconda generazione che vogliano denunciare un parente violento. La donna titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari rischia di scivolare nell'irregolarità e di incorrere nell'espulsione se denuncia un familiare violento e se ne separa, perché facilmente non sarà in possesso di alcuni requisiti (alloggio e lavoro documentabili) richiesti per un titolo autonomo di soggiorno. Nel corso delle audizioni è emerso come il mantenere il permesso di soggiorno legato al ricongiungimento familiare sia spesso pregiudizievole per la donna e che andrebbe prevista la possibilità di convertire automaticamente, in caso di violenza, il permesso di soggiorno rilasciato per motivi familiari in un permesso motivato da esigenze di protezione, umanitarie, lavoro o studio. In particolare, in attuazione dell'articolo 18 del testo unico sull'immigrazione, in base al quale è previsto il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno per finalità umanitarie «di assistenza e di integrazione sociale», andrebbe concesso immediatamente il permesso di soggiorno a quelle donne che denunciano gravi molestie e oppressioni, fino alla violenza vera e propria. Dal 2000 al 2006 il Ministero per i diritti e le pari opportunità ha cofinanziato 448 programmi che hanno interessato l'intero territorio nazionale a sostegno delle vittime della tratta degli esseri umani e di contrasto al fenomeno della tratta stessa, fenomeno che vede coinvolte in maniera prevalente giovani donne e bambine straniere. Nel periodo tra marzo 2000 e aprile-maggio 2006, 45.016 persone hanno ricevuto una prima assistenza. Non tutte hanno avuto la possibilità, o hanno scelto, di aderire ai programmi di protezione sociale, ma tutte hanno ricevuto, in ogni caso, un primo aiuto consistente per lo più in «accompagnamenti assistiti» presso strutture sanitarie, o hanno usufruito di consulenza legale e/o psicologica. Il numero di persone protette e assistite attraverso il Ministero è stato di 11.541, di cui 748 minori. All'interno dei programmi realizzati, sono stati attivati 13.674 percorsi di formazione professionale e scolastica anche attraverso l'erogazione di borse lavoro. Nel 2007 il Ministero ha attivato un Tavolo di coordinamento interministeriale per l'azione di Governo in materia di traffico degli esseri umani, che si è riunito per la prima volta nel mese di aprile. È in fase di studio la sua articolazione in sottogruppi di lavoro in grado di affrontare le varie forme del fenomeno (sfruttamento sessuale, sfruttamento lavorativo, cooperazione con i Paesi di provenienza delle vittime, tratta dei minori). Il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità ha proseguito la realizzazione del progetto «Rete nazionale antiviolenza e gestione di un call center» (il numero verde 1522, avviato dal precedente Governo) «a sostegno delle donne vittime di violenza». Obiettivo prioritario del progetto è stata la creazione di una Rete nazionale antiviolenza capace di coinvolgere, per la prima volta, tutti i diversi attori impegnati a vario titolo nella lotta al fenomeno della violenza alle donne e cioè le amministrazioni centrali competenti per materia, gli enti locali, i centri antiviolenza già esistenti sul territorio e i vari servizi sociali. Dall'8 marzo 2006 alla metà di marzo 2007 il numero 1522 ha aiutato 9.549 donne, di cui 564 immigrate (8,6 per cento del totale) Hanno chiesto aiuto prevalentemente le donne provenienti dall'America latina (29,8 per cento), di cui soprattutto peruviane (8 per cento), ecuadoregne (7 per cento), brasiliane (6,5 per cento). Dall'est Europa proviene il 29,4 per cento del totale delle richieste di aiuto, soprattutto da parte di migranti rumene, ucraine e moldave. Dall'area del Maghreb giunge il 9,7 per cento delle segnalazioni.

Il lavoro nero.

Molteplici sono gli effetti socialmente negativi del lavoro nero: sottrae risorse alla comunità evitando il pagamento delle imposte dovute, favorisce lo sfruttamento dei lavoratori e abbassa il livello di applicazione delle norme di sicurezza provocando


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l'aumento degli incidenti nei posti di lavoro. La possibilità di lavorare in nero costituisce, peraltro, uno dei principali fattori di attrazione dell'immigrazione clandestina.
La politica europea è particolarmente attenta a questo argomento. La Commissione europea ha presentato una Proposta di direttiva che introduce sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi soggiornanti illegalmente nell'Unione europea (COM 249/2007).
Il Governo italiano ha, a sua volta, già adottato alcuni provvedimenti in materia. In particolare, nel Documento di programmazione economico-finanziaria 2007-2011, gli interventi in materia di lavoro ed occupazione considerano tra le priorità l'esigenza di intensificare il contrasto al lavoro irregolare e di migliorare la tutela e la sicurezza nei luoghi di lavoro. L'articolo 36-bis della legge 4 agosto 2006, n. 248 (di conversione del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223) ha introdotto misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro: il personale ispettivo può adottare il provvedimento di sospensione dei lavori nell'ambito dei cantieri edili qualora riscontri l'impiego di personale non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, in misura pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori regolarmente occupati nel cantiere ovvero in caso di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale. Questa norma ha consentito, secondo le dichiarazioni rese al Comitato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, Cesare Damiano, la sospensione di quasi 2.700 cantieri nel settore edile permettendo di regolarizzare circa 90 mila lavoratori stranieri, di cui circa il 63 per cento rumeni, su un totale di 175 mila lavoratori emersi mai denunciati all'INAIL. Di queste aziende sospese di cui solo il 40 per cento ha ripreso l'attività dopo aver regolarizzato la propria posizione. Anche la Legge Finanziaria 2007 ha introdotto una serie di misure nel settore: le comunicazioni di dati ed informazioni utili al contrasto del lavoro sommerso e dell'evasione contributiva, la promozione della regolarità contributiva, la possibilità per le aziende di avere benefici normativi e contributivi unicamente ove in regola con il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), l'adeguamento delle sanzioni in materia di lavoro e documentazione obbligatoria, l'obbligo di comunicare l'instaurazione del rapporto di lavoro il giorno antecedente al suo inizio.

Capitolo V.

Conclusioni.

La discussione sui modelli di trattamento del fenomeno migratorio risente, troppo spesso, di approcci astratti e ideologici, come la contrapposizione tra modelli assimilativi e multiculturali. In realtà, raramente è possibile individuare nelle esperienze nazionali un profilo univoco e coerente. Questi due elementi si sono alternati e mescolati: i primi ora tendono di nuovo a prevalere sui secondi saliti alla ribalta negli ultimi due decenni del XX secolo. Lungi dalla pretesa di definire un «modello italiano di integrazione», i risultati dell'indagine del Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione possono contribuire al dibattito in corso e alla definizione di soluzioni pragmatiche e ragionevoli alle questioni in discussione.
L'approccio globale al fenomeno delineato nel Piano d'azione europeo secondo cui «una politica efficace [in questo settore] non può limitarsi agli strumenti per l'ammissione», poiché essa «è inseparabile tanto dalle misure sull'integrazione quanto dalla lotta contro l'immigrazione clandestina e il lavoro nero e contro la tratta degli esseri umani» appare pienamente condivisibile. Per questo motivo, a livello nazionale, è necessario abbandonare la logica degli interventi emergenziali in favore di un ripensamento organico e complessivo degli strumenti di governance del fenomeno.


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Le audizioni svolte hanno in vario modo sottolineato che l'approccio di fondo, sul quale ormai vi è un ampio consenso a livello europeo, «consiste nel ritenere che lo strumento più importante per combattere l'immigrazione illegale risieda nell'aprire canali di immigrazione legale».
In questa prospettiva è necessario - anche potenziando la strategia di cooperazione con gli Stati d'origine - favorire e migliorare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per questo, la gestione del flusso di ingresso dovrebbe rispondere con più flessibilità alle esigenze delle imprese e delle famiglie e, più in generale, all'andamento complessivo dell'economia e dell'occupazione.
Sempre con riferimento alla disciplina degli ingressi occorre semplificare e snellire le procedure amministrative in materia di ricongiungimenti e permessi di soggiorno per favorire nuove politiche di integrazione ed eliminare gli abusi in materia e, al contempo, disciplinare in modo organico le nuove attività «tipiche» degli immigrati come, ad esempio, i servizi domiciliari.
Inoltre occorre potenziare l'immigrazione altamente qualificata, che non solo aiuta il sistema economico a dotarsi di nuove competenze indispensabili nel mercato globalizzato, ma migliora anche le rappresentazioni sociali degli immigrati. A tal fine assume una particolare importanza il riconoscimento dei titoli di studio delle lavoratrici e dei lavoratori stranieri.
Occorre poi concentrarsi sulle evoluzioni più recenti, come la crescente importanza assunta dall'imprenditoria immigrata, destinata a diventare una realtà sempre più significativa del nostro Paese. Per evitare che queste attività si chiudano in un modello di sviluppo autoreferenziale è necessario facilitare la conoscenza degli adempimenti richiesti per svolgere correttamente l'attività d'impresa, facilitare i rapporti con gli intermediatori finanziari e sperimentare nuove forme di garanzie per l'accesso al credito.
Anche l'accesso all'alloggio, che costituisce un problema anche per la popolazione autoctona, è fortemente legato al tema dell'integrazione. In merito a tale problema diventa una urgente priorità la predisposizione di un adeguato piano di rilancio delle politiche abitative a livello nazionale.
Il tema dell'integrazione rappresenta l'altro nodo strategico dell'approccio globale al fenomeno dell'immigrazione. Tra i nuovi strumenti da considerare, in questo ambito, va ricordato il «contratto di integrazione», un patto tra lo Stato ospitante e i nuovi arrivati che presuppone non solo la richiesta del pieno rispetto dei principi e valori basilari del nostro Paese ma anche la capacità di sviluppare politiche proattive per favorire l'effettivo inserimento sociale, civico e linguistico dell'immigrato.
Come sperimentato in altri Paesi, specifici percorsi formativi, corsi di educazione civica e appositi registri pubblici andrebbero previsti per i responsabili delle comunità religiose presenti sul territorio.
Nell'ambito delle politiche di integrazione, va poi sottolineato il tema dei minori, delle seconde generazioni e delle donne.
Con riferimento ai minori occorrere un investimento molto consistente e incisivo nell'apprendimento della lingua nazionale. La definizione giuridica della figura professionale del mediatore interculturale appare un complemento necessario degli investimenti in questo campo. Nel contempo, occorre sostenere la piena integrazione delle seconde generazioni, le cui aspirazioni e ambizioni, molto simili a quelle dei coetanei autoctoni, non devono essere frustrate dal disagio nel processo di costruzione identitaria.
I minori stranieri hanno diritto all'istruzione indipendentemente dal loro status o dalla regolarità dei loro genitori, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani; sono soggetti all'obbligo scolastico secondo le disposizioni vigenti in materia e possono richiedere l'iscrizione in qualunque periodo dell'anno scolastico. È inoltre necessario individuare ed adottare gli strumenti atti ad evitare la dispersione


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scolastica ed a garantire un accesso paritario all'istruzione superiore ai figli dei lavoratori stranieri.
Infine la delicata questione delle donne che costituiscono ancora l'anello debole del processo di integrazione. Pur avendo un'alta percentuale di immigrate occupate, è bassissimo il livello di alfabetizzazione e di partecipazione autonoma alla vita sociale del nostro Paese. Su questo fronte è indispensabile garantire una serie di interventi che realizzino una politica «di genere» più efficace ed incisiva.
L'immigrazione è cresciuta di importanza negli ultimi anni nell'agenda politica non solo in Italia. Nel nostro paese, i cui ritmi di crescita del fenomeno sono decisamente superiori alle medie europee, sembra particolarmente necessario dedicare un'attenzione istituzionale adeguata ad una questione che sta trasformando le basi demografiche della società nazionale. Dal punto di vista istituzionale, una delle questioni principali è costituita dal coordinamento tra i diversi soggetti responsabili per alcuni aspetti dell'immigrazione. Per sviluppare un approccio più coerente, anche sull'esempio di altri paesi europei, andrebbe considerata l'opportunità di ricondurre il coordinamento delle diverse competenze istituzionali, oggi disperse fra vari Dicasteri, ad un unico nuovo Ministero o dipartimento. Tale Ministero o dipartimento abbinerebbe la dimensione della disciplina degli ingressi (ossia la politica dell'immigrazione) con quella delle politiche rivolte all'integrazione degli immigrati nella società nazionale (ossia le politiche per gli immigrati). Un Ministero dedicato darebbe anche il messaggio simbolico del riconoscimento dell'ampiezza dei significati dell'immigrazione e delle questioni relative per la società italiana di oggi, nonché dell'impegno istituzionale per promuovere livelli più alti di coesione sociale, a vantaggio di tutti.
Sappiamo ormai che governare società plurali e promuovere un grado accettabile di coesione sociale è un impresa ardua e complessa. Rifiutare di riconoscerne la realtà, o affrontarla con gli schemi del passato, rischia però di preparare un futuro più conflittuale e denso di incognite. Non è quindi il caso di scomodare visioni umanitarie o solidariste per sollecitare una presa di coscienza compiuta della trasformazione dell'Europa e dell'Italia in un contesto di immigrazione. Basterebbe, bandendo ogni ideologismo, una considerazione avveduta e lungimirante dei nostri interessi nazionali.
In tal modo, attraverso un approccio pragmatico e coerente con gli orientamenti europei, in costante evoluzione, si potrebbero delineare i tratti specifici di una via italiana all'immigrazione, che rispetti i nostri valori fondamentali, sostenibile e, allo stesso tempo, capace di rispondere alle nuove esigenze civiche, economiche e sociali e alle rapide evoluzioni della società italiana.