NEWSLETTER N. 14
29 FEBBRAIO 2008

 

SERVIZIO DI SUPPORTO GIURIDICO

 

ATTUALITA’ ITALIANA

 

1. EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA, IMMIGRAZIONE E DISCRIMINAZIONI.

 

La Corte Costituzionale giudica conforme alla Costituzione la normativa  della Regione Lombardia che prevede il requisito della residenza quinquennale nel territorio regionale ai fini  della presentazione della domanda per l’assegnazione di alloggi di  edilizia residenziale pubblica. A seguito dell’intervento dell’ASGI, la Commissione Europea e l’UNAR intervengono nel dibattito sui profili discriminatori delle delibere dell’AGEC (Agenzia Comunale Gestione Immobili del Comune di Verona) per l’attribuzione dei punteggi nelle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica nel comune di Verona.

 

2. LE ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI  DISCRIMINATORI DI ENTI LOCALI DEL NORD ITALIA

 

  1. Accolto dal Tribunale di Milano il ricorso urgente presentato da una donna marocchina contro la circolare  del Comune di Milano che aveva previsto l’esclusione dei minori figli di stranieri irregolarmente presenti  dall’iscrizione alle  scuole per l’infanzia. L’ordinanza del Tribunale civile di Milano riconosce il carattere discriminatorio del provvedimento.

 

  1. La sezione regionale dell’ASGI del Friuli-Venezia Giulia interviene contro l’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo (prov. di Pordenone) che limita per i cittadini stranieri il diritto alla fruizione degli interventi e dei benefici di assistenza sociale previsti dalla legislazione nazionale e regionale. L’ASGI sottolinea i profili discriminatori dell’ordinanza e chiede alla Giunta regionale del F.V.G. di esercitare i poteri sostitutivi di autotutela.

 

GIURISPRUDENZA ITALIANA

Il rifugiato riconosciuto ai sensi della Convenzione di Ginevra ha diritto alla parità di trattamento rispetto al cittadino italiano per quanto concerne il beneficio di  tutte le prestazioni assistenziali che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente. Una sentenza del Tribunale del Lavoro di Milano, dd. 31 gennaio 2008.

 

GIURISPRUDENZA COMUNITARIA

Un giudizio preliminare della Corte di Giustizia europea riconosce la portata applicativa delle direttive europee in materia di non discriminazione e parità di trattamento (Direttiva “Razza” n. 2000/43/CE e Direttiva “Occupazione” n. 2000/78/CE) anche ai casi di “discriminazione per associazione”.

 

ATTUALITA’ INTERNAZIONALE

1. La Commissione Europea si adopera per colmare le lacune esistenti in materia di parità di trattamento sul lavoro e nel recepimento della direttiva europea n. 2000/78/CE da parte degli Stati membri.  La Commissione Europea  invia a 10 Stati membri pareri motivati sollecitandoli a dare piena attuazione alle norme UE che proibiscono la discriminazione sul lavoro basata su religione e convinzioni personali, età, handicap e tendenze sessuali. . Allo studio della Commissione Europea anche le segnalate inadempienze dell’Italia nel recepimento della direttiva europea che potrebbero condurre all’invio a breve anche alle autorità del nostro paese di un parere motivato preliminare all’apertura di una formale procedura d’infrazione.

 

2. Il 31 gennaio scorso, il Parlamento europeo ha adottato a larghissima maggioranza una Risoluzione su una strategia europea per i Rom.

 

 


 

ATTUALITA’ ITALIANA

 

EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA, IMMIGRAZIONE E DISCRIMINAZIONI.

 

1. La Corte Costituzionale giudica conforme alla Costituzione la normativa  della Regione Lombardia che prevede il requisito della residenza quinquennale nel territorio regionale ai fini  della presentazione della domanda per l’assegnazione di alloggi di  edilizia residenziale pubblica. La delusione dei sindacati e delle associazioni anti-discriminazione che ritengono tali norme una fonte di discriminazione indiretta o dissimulata a danno dei cittadini stranieri. A seguito dell’intervento dell’ASGI, la Commissione Europea e l’UNAR intervengono nel dibattito sui profili discriminatori delle delibere dell’AGEC (Agenzia Comunale Gestione Immobili del Comune di Verona) per l’attribuzione dei punteggi nelle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica nel comune di Verona.

Con ordinanza n. 32/2008 depositata il 21 febbraio scorso (Pres. Bilè, rel. Napoletano), la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile e manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Lombardia (ordinanza 27 luglio 2006) nei confronti della legislazione regionale della Lombardia, nella parte in cui prevede che “per la presentazione della domanda per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica […], i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda”. Il rinvio alla Corte Costituzionale era stato deciso dal Tar Lombardia a seguito di un ricorso proposto su iniziativa anche dei sindacati inquilini SICeT e SUNIA, nonché delle organizzazioni sindacali CGIL e CISL lombarde. In precedenza, infatti, il medesimo TAR Lombardia, con sentenza del 29 settembre 2004, n. 4196,  aveva annullato un regolamento regionale con il quale veniva ridisegnato il meccanismo di attribuzione dei punteggi per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, introducendo una maggiorazione progressiva di punteggio in base all’anzianità di residenza sul territorio regionale (da 5 punti per un anno fino ad un massimo di 90 per oltre 20 anni di residenza). In risposta all’annullamento da parte del giudice amministrativo regionale,  il governo regionale della Lombardia aveva così approvato una nuova normativa volta ad introdurre, come abbiamo visto, un requisito di residenza quinquennale ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3 comma 41 bis L.R. 5 gennaio 2000, n. 1).

Nell’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale il TAR Lombardia aveva ripreso i dubbi di incostituzionalità  della norma regionale avanzati dai ricorrenti, ipotizzando che detta normativa violerebbe l’art. 3 della Costituzionale in quanto introdurrebbe un profilo discriminatorio indiretto o dissimulato ed irragionevole venendo a colpire proprio coloro che, in quanto non radicati da lungo tempo sul territorio regionale e alla ricerca di lavoro, “si trovano in condizioni di maggiore difficoltà e di maggiore disagio”; nonché violerebbe l’art. 117 Cost. in quanto inciderebbe illegittimamente sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, da garantirsi in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Il TAR Lombardia, recependo gli elementi forniti dalle organizzazioni sindacali ricorrenti, sottolineava inoltre i possibili profili di incompatibilità della normativa regionale con il principio di non discriminazione e di parità di trattamento previsto dalla normativa comunitaria in materia di libera circolazione dei lavoratori cittadini dell’Unione e loro familiari, in quanto l’anzianità di  residenza introdurrebbe un criterio discriminatorio indiretto a danno dei cittadini di altri Stati membri rispetto ai cittadini italiani, quest’ultimi proporzionalmente maggiormente radicati sul territorio.

Con una decisione assai discutibile e che suscita notevoli perplessità, la Corte Costituzionale ha respinto tutte queste argomentazioni. Nell’ordinanza, la Corte ritiene manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità della normativa regionale in relazione all’art. 3 della Costituzione (principio di eguaglianza rapportato al principio di ragionevolezza), ritenendo che «il requisito della residenza continuativa, ai fini dell’assegnazione, risulta non irragionevole […] quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore  intende perseguire […], specie là dove le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco […]». Tutto qui !! Un’affermazione quasi assiomatica. Nessuna argomentazione aggiuntiva viene offerta dalla Corte a sostegno  dell’asserita ragionevolezza del requisito posto dalla normativa regionale, né viene offerta qualche spiegazione sul perché il giudice delle leggi ritenga che la norma in esame effettivamente realizzi l’equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Un po’ poco, dunque, tanto più se si considera che appare  ormai consolidato nella giurisprudenza internazionale della Corte di Giustizia europea e anche della Corte europea dei diritti dell’Uomo il principio per cui il criterio della residenza può fondare una discriminazione indiretta o dissimulata vietata dall’ordinamento europeo (norme del trattato europeo, direttive anti-discriminazione, convenzione europea sui diritti dell’uomo e libertà fondamentali). La Corte di Giustizia Europea ha infatti chiarito, con riferimento al principio di non-discriminazione tra cittadini comunitari previsto nel Trattato Europeo, che il requisito della residenza  ai fini dell’accesso ad un beneficio può integrare una forma di illecita discriminazione “dissimulata” in quanto può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini piuttosto che dai lavoratori comunitari, finendo dunque per privilegiare in misura  sproporzionata  i primi a danno dei secondi (ad es. Meints, 27.11.1997; Meussen, 8.06.1999; Commissione c. Lussemburgo, 20.06.2002). Per una decisione emblematica che ha riguardato il nostro paese,  si veda  la sentenza che ha condannato l’Italia per le agevolazioni tariffarie a vantaggio delle persone residenti per l’accesso ai Musei Comunali (sentenza 16 gennaio 2003 n. C-388/01, parr. 13 e 14): “…il principio di parità di trattamento,….., vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. Ciò avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una distinzione basata sul criterio della residenza, in quanto quest’ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri”. Le recenti direttive comunitarie anti-discriminazione (Direttiva “Razza” n. 2000/43 e Direttiva “Occupazione” n. 2000/78) hanno definitivamente precisato il concetto di discriminazione indiretta che sussiste  quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente  neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale, in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (si veda per le norme di recepimento in Italia: art. 2.1 b) d. lgs. nn. 215 e 216/2003).

Al contrario delle discriminazioni dirette, che sono vietate in maniera assoluta, con l’unica eccezione  delle differenze di trattamento fondate sul criterio del requisito essenziale e determinate per lo svolgimento dell’attività lavorativa, una maggiore flessibilità viene lasciata nella valutazione dei casi di presunta discriminazione indiretta, che non sono tali   quando un provvedimento, pur avendo un impatto differenziato sui diversi gruppi sociali, è giustificato oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari” (art. 2.2 b) dir. n. 2000/43/CE). La giustificazione oggettiva consente di prendere in esame gli interessi contrapposti –  quello della vittima e quello dell’autore della misura –  onde verificare se la ragione di quest’ultimo sia tale da giustificare lo svantaggio causato al primo.  L’altra condizione prevista dalla norma è che i mezzi perseguiti siano appropriati e necessari, in conformità al principio di proporzionalità, principio generale dell’ordinamento comunitario più volte ribadito dalla Corte di giustizia europea in materia di eccezioni alle libertà fondamentali (in proposito, cfr. Chiara Favilli, La Normativa comunitaria anti-discriminazione, paper in corso di pubblicazione, 2008). Di conseguenza, i principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale ed europeo,  cui il divieto di discriminazioni, anche indirette, fa ormai parte integrante, avrebbero dovuto consigliare alla Corte costituzionale di offrire un più rigoroso e articolato quadro interpretativo   sul quesito ad essa sottoposto e non invece il ricorso a sbrigative formule generiche ed astratte.

Desta, inoltre, notevoli perplessità un altro passaggio dell’ordinanza della Corte Cost. ove si afferma che  «la materia di cui trattasi [l’edilizia residenziale pubblica n.d.r.] rientra nella competenza residuale delle Regioni e non investe, in ogni caso, la problematica della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale».  Se è indubbio che l’edilizia residenziale pubblica non compare tra le materie elencate nel secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost. relativo alle materie rientranti nella potestà esclusiva dello Stato ed in quella concorrente Stato /Regione, e dunque costituisce una materia sottoposta  alla potestà esclusiva residuale delle Regioni (quarto comma), la giurisprudenza costituzionale ha pur sempre riconosciuto il limite di detta potestà rappresentato fra l’altro dal  rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento richiamati tanto  da leggi statali nuove o comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore al momento dell’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale n. 3/2001 (sentenza 26 giugno 2002, n. 282). La medesima giurisprudenza del giudice delle leggi aveva colto l’occasione per  affermare come “i livelli essenziali  delle prestazioni  concernenti i diritti civili e sociali”, “riservati alla disciplina esclusiva del legislatore statale, non rappresentano una ‘materia’ in senso stretto”, bensì “una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale dei tali diritti, senza che le legislazione regionale possa limitarle o condizionarle”. Ecco, dunque che  questa ordinanza sembra  dimostrare discontinuità rispetto alla   precedente giurisprudenza. L’ordinanza inoltre  sembra ignorare il dettato  di cui all’art. 40 c. 6 combinato con l’art. 1 c. 4 del d.lgs. n. 286/98, in base al quale il principio di parità di trattamento con i cittadini degli stranieri regolarmente soggiornanti muniti di un permesso di soggiorno CE di lunga durata o di permesso di soggiorno ordinario di durata biennale e che svolgono attività lavorativa, nella materia dell’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e  ai contributi per l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato per l’acquisto della prima casa,  costituisce un principio fondamentale cui devono attenersi le Regioni nell’esercizio della loro potestà  legislativa e, dunque, a seguito della riforma costituzionale del  2001, una norma fondante un livello essenziale  delle prestazioni attinenti ai diritti civili e sociali.

Ad ogni modo, il sibillino e discutibile passaggio della recente ordinanza della Corte Cost. non potrebbe certo legittimare una legislazione regionale che violasse il principio di eguaglianza formale, di parità di trattamento ed il divieto di discriminazioni dirette tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali nell’accesso agli interventi di edilizia residenziale pubblica, in quanto ciò si collocherebbe al di fuori del quadro costituzionale di eguaglianza, poiché verrebbe introdotta una distinzione fondata sullo status civitatis che la corte costituzionale ha già ritenuto, questa sì senza ombra di dubbio, certamente  arbitraria e  contraria al principio di ragionevolezza (sent. corte cost. n. 432/2005). Una legislazione regionale siffatta, dunque, sarebbe certamente in violazione dell’art. 117 c. 1 Cost. in quanto contraria al rispetto della Costituzione.

Ulteriormente, vale la pena sottolineare come il comma  1 dell’art. 117 della Costituzione  individua tra i limiti delle potestà legislativa sia statale che  regionale, tra l’altro, anche i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, tra cui le norme derivanti da trattati internazionali. Si rammenta, in proposito, che  il principio della parità di trattamento e di opportunità tra lavoratori migranti regolarmente residenti e lavoratori nazionali in materia di accesso agli alloggi deriva anche da una precisa fonte di diritto internazionale, quale la Convenzione Internazionale dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) n. 97, ratificata e resa esecutiva con legge 5 agosto 1952, n. 1305. L’art. 6 della citata Convenzione, infatti, così dispone: “1. Ogni Stato membro per il quale sia in vigore la presente convenzione si impegna ad applicare, senza discriminazione di nazionalità, razza, religione o sesso, agli immigranti che si trovano legalmente entro i limiti del suo territorio, un trattamento che non sia meno favorevole di quello che esso applica ai propri dipendenti in relazione alle seguenti materie : a) nella misura in cui queste questioni sono regolate dalla legislazione o dipendono dalle autorità amministrative : […] iii) l’alloggio “.

In conclusione, dunque, l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 32/2008 non appare suscettibile di incidere sul divieto per la legislazione regionale di introdurre criteri discriminatori di natura diretta, cioè fondati sullo status civitatis o nazionalità, per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica da parte dei lavoratori stranieri immigrati, ma potrebbe certamente incidere in misura negativa sull’introduzione di forme di discriminazione indiretta, centrate cioè sul requisito dell’anzianità di residenza. A tale riguardo, c’è da attendersi dopo la pronuncia della corte costituzionale un preoccupante effetto domino con il moltiplicarsi di legislazioni regionali e provvedimenti locali, soprattutto nel nord Italia,  che introducano il requisito dell’anzianità di residenza sul territorio regionale o addirittura locale  quale requisito essenziale per l’accesso agli alloggi di erp ovvero quale criterio preferenziale per l’assegnazione di maggiorazioni di punteggi nella graduatoria, con il palese obiettivo di escludere il maggior numero di lavoratori migranti dal novero dei beneficiari. Le organizzazioni sindacali lombarde già sottolineano come a seguito dell’applicazione combinata dei requisiti di permesso di soggiorno e di lavoro previsti dalla legge “Bossi-Fini” e dei requisiti di anzianità di residenza  della normativa regionale, sia crollata la proporzione di immigrati stranieri tra gli assegnatari di alloggi in erp, con conseguente aggravarsi di situazioni di disagio e ghettizzazione (in proposito: Metropoli/La Repubblica edizioni del 24 febbraio e del 2 marzo 2008) .

A tale riguardo, abbiamo già  segnalato nella precedente edizione della Newsletter  quale caso emblematico le delibere approvate nel settembre 2007 dal consiglio di amministrazione dell’AGEC (Agenzia per la gestione degli immobili del Comune di Verona),  d’intesa con il Sindaco di Verona, che attribuiscono punteggi aggiuntivi ai soli cittadini italiani “lungo residenti” (da almeno 8 anni) nel territorio del Comune di Verona e ai nuclei familiari composti da ultrasessantenni con almeno un componente ultrassessantacinquenne, purché residenti da almeno dieci anni nel territorio comunale, ai fini dell’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica; cfr. Parere dell’ASGI – Servizio di supporto giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose in merito ai profili discriminatori delle delibere AGEC n. 4 e 23/2007, in Newsletter del Progetto Leader n. 13/genn. 2008 (in www.asgi.it e www.leadernodiscriminazione.it). La presa di posizione dell’ASGI ha suscitato un vivace dibattito, a livello non solo locale e nazionale. In data 18 febbraio, l’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni Razziali) ha fatto pervenire all’AGEC di Verona una propria presa di posizione a sostegno delle argomentazioni dell’ASGI circa la natura discriminatoria ed illegittima delle delibere assunte dall’ ente. Grazie all’interrogazione presentata al Parlamento europeo  dall’europarlamentare Donata Gottardi, del gruppo socialista  europeo (PSE), la commissione europea alla Giustizia, libertà e sicurezza presieduta da Franco Frattini  è intervenuta sottolineando nella risposta ufficiale in aula che : “ogni cittadino dell’Unione gode di pari trattamento “…”e le norme del Trattato impediscono qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità per la concessione dell’accesso a benefici sociali”. La Commissione ha poi aggiunto poi che “tali disposizioni escludono  qualunque possibilità per uno Stato membro di attribuire particolari privilegi ai propri cittadini senza attribuire i medesimi privilegi anche ai soggiornanti di lungo periodo residenti in quello Stato membro”. (sull’argomento si possono visitare on-line le edizioni de “L’Arena”, quotidiano di Verona, 20-21-22 febbraio 2008).  Di conseguenza, la presa di posizione della Commissione Europea costituisce una chiara disapprovazione e messa in guardia dell’operato dell’amministrazione comunale di Verona e del suo ente tecnico per la gestione degli immobili comunali almeno riguardo ai profili discriminatori di tipo diretto, fondati cioè sul criterio di cittadinanza, contenuti nelle sopraccitate delibere.

Anche alla luce del discutibile orientamento adottato dalla Corte Costituzionale, rimarrà oggetto di probabile controversia e dibattito la valutazione dell’ impatto discriminatorio di tipo indiretto dei requisiti di anzianità di residenza, per il quale forse varrebbe la pena di insistere sotto il profilo legale, magari attraverso un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo ovvero cercando il rinvio pregiudiziale da parte di un giudice nazionale presso la Corte di Giustizia europea.

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 32/2008

 

ORDINANZA N. 32

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

[…]

 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», promosso con ordinanza del 27 luglio 2006 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sul ricorso proposto da Erbetti Francesca ed altri contro il Comune di Busnago ed altra, iscritta al n. 222 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di costituzione della Regione Lombardia e delle articolazioni territoriali di Milano del Sindacato Inquilini Casa e Territorio (SICeT) ed altri, del Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari (SUNIA), della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) e della Unione Sindacale Regionale della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (USR CISL),  nonché l'atto di intervento della CGIL e della CISL nazionali;

    udito nella udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

    uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Giuseppe Sante Assennato per il SICeT territoriale di Milano ed altri e per la CGIL e CISL, sia nelle loro articolazioni territoriali lombarde sia nazionali, ed Enzo Cardi per la Regione Lombardia.

    Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sede di Milano) ha sollevato, con ordinanza del 27 luglio 2006, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della Costituzione, nella parte in cui prevede che «per la presentazione della domanda per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica di cui al comma 3 dell'articolo 1 del regolamento regionale 10 febbraio 2004, n. 1 (Criteri generali per l'assegnazione  e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l.r. 1/2000), i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda»; 

    che il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in ordine all'annullamento dei provvedimenti del Comune di Busnago – assunti in data 23 novembre 2005, nn. 12500 e 12501 – impugnati dalle ricorrenti Erbetti Francesca e Chica Quinonez Emma Veronica, assieme alle articolazioni milanesi del Sindacato Inquilini Casa e Territorio (SICeT) territoriale di Milano, del Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari (SUNIA) provinciale di Milano, della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) lombarda, e dell'Unione sindacale Regionale della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (USR CISL);

    che, ricorda ancora il Tar rimettente, i ricorrenti chiedevano l'annullamento dei provvedimenti sopra citati con i quali il Comune di Busnago rigettava le domande di assegnazione di alloggio di edilizia residenziale pubblica (in seguito erp), presentate in data 22 ottobre 2005 dalle signore Erbetti Francesca e Chica Quinonez Emma Veronica, poiché – ai sensi della legge regionale della Lombardia n. 7 del 2005 – «i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda», requisito mancante ad entrambe le istanti;

    che, quindi, rigettate le eccezioni di inammissibilità formulate dalla Regione Lombardia in merito alla legittimazione attiva sia delle due ricorrenti che delle suddette organizzazioni sindacali, il rimettente evidenzia come – prima della legge regionale n. 7 del 2005 e del regolamento regionale 27 marzo 2006, n. 5, recante «Modifiche al regolamento regionale 10 febbraio 2004, n. 1 (Criteri generali per l'assegnazione  e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l. r. 1/2000»,  la Regione Lombardia, con il regolamento regionale n. 1 del 2004, recante «Criteri generali per l'assegnazione  e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l. r. 1/2000», aveva stabilito che, per l'assegnazione degli alloggi erp, si dovesse tener conto – in aggiunta ai criteri del disagio familiare, abitativo ed economico – anche degli anni di residenza nella Regione stessa, attribuendo un punteggio ulteriore (5 punti per un anno fino ad un massimo di 90 per oltre 20 anni di residenza in Lombardia) e che proprio il Tar Lombardia, sezione prima, con sentenza del 29 settembre 2004, n. 4196, non impugnata dalla Regione, aveva annullato il suddetto regolamento regionale ritenendo che introducesse un elemento estraneo alla ratio della normativa sull'edilizia residenziale pubblica;

    che, si ricorda ancora nell'ordinanza di rimessione, la Regione Lombardia ha successivamente approvato la legge regionale n. 7 del 2005, la quale (per i profili qui coinvolti) ha introdotto nell'art. 3 della legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1, il  censurato comma 41-bis;

    che, in punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea come i provvedimenti impugnati sono stati adottati in virtù della norma censurata e, conseguentemente, in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma suddetta, il ricorso presentato contro gli atti di esclusione potrà trovare accoglimento, mentre, nel caso contrario, lo stesso dovrà essere rigettato, in quanto gli atti impugnati sarebbero «fedele e corretta applicazione del disposto normativo de quo»;

    che, quanto alla  non manifesta infondatezza, il Tar rimettente ritiene di doverla esaminare in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della Costituzione;

    che, a parere dello stesso Tar, la norma censurata viola l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, anche in relazione all'art. 47 Cost., e all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la legge regionale n. 7 del 2005 viola (con l'introduzione del requisito della residenza o, comunque, del lavoro in Lombardia protratto per cinque anni) i principi fondamentali in materia di edilizia residenziale pubblica, fissati dalle leggi dello Stato: in particolare, viola la «finalità di favorire l'accesso all'abitazione a condizioni inferiori a quelle di mercato, a categorie di cittadini meno abbienti», affermata, secondo il rimettente, sia dalle sentenze n. 299 del 2000, n. 135 e n. 150 del 2004, che dal regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del T.U. delle disposizioni sull'edilizia economica e popolare), e confermata dalle leggi statali più recenti; 

    che la legge regionale, sempre secondo l'ordinanza di rimessione, contrasterebbe ancora con il disposto dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, perché limiterebbe l'accesso all'erp, intervenendo sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, livelli essenziali che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale;

    che, per il rimettente, sarebbe altresì violato l'art. 3 della Costituzione, in quanto la norma impugnata introdurrebbe un fattore discriminatorio, rapportato alla durata del lavoro o della residenza in Lombardia, così escludendo dall'accesso alle abitazioni residenziali pubbliche proprio coloro che, in quanto non radicati da lungo tempo sul territorio regionale e alla ricerca di un lavoro, «si trovano in condizioni di maggiore difficoltà e di maggiore disagio»;

    che la norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con l'art. 120 della Costituzione, poiché  renderebbe più difficoltosa la mobilità tra Regioni a chi versa in stato di bisogno, rendendo «difficile lavorare in una regione a chi non vi sia da tempo stabilmente insediato»;

    che, inoltre, la disposizione denunciata  determinerebbe la violazione degli art. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, in quanto la normativa censurata appare, sempre secondo l'ordinanza di rimessione, ispirata «dall'intento di neutralizzare, mediante la modifica formale della fonte normativa, l'orientamento assunto in materia da questo TAR con la sentenza n. 4196/94», intento «che non può non risultare lesivo della funzione giurisdizionale»;

    che, infine, la stessa norma, sempre per il Tar rimettente, verrebbe a violare l'art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione  all'art. 48 (poi 39) del trattato CE, perché la normativa censurata contrasterebbe con il diritto dei lavoratori alla libera circolazione nell'ambito della Unione europea proprio in ragione del richiamato requisito della residenza come criterio per l'accesso alla prestazione;

    che si è costituito in giudizio il Presidente della Giunta regionale della Lombardia, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata;

    che, con riferimento all'art. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, della Costituzione, anche in relazione al precedente art. 47, l'inammissibilità viene eccepita «per mancata indicazione della norma statale interposta che si intenderebbe violata, stante la generica indicazione di violazione dei principi fondamentali in materia di edilizia residenziale pubblica», mentre, nel merito, la questione sarebbe manifestamente infondata in base alla considerazione che quasi tutte le leggi regionali in tema di erp prevedono, tra i requisiti soggettivi richiesti, il criterio della residenza e/o quello della prestazione di attività lavorativa  nel Comune o, comunque, nell'ambito territoriale cui si riferisce il bando di concorso;

    che la Regione sottolinea, altresì, come questa Corte ha sempre ritenuto l'erp «nuova materia di competenza regionale» (sentenza n. 29 del 1996), nonché come l'art. 60 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, abbia conferito alle Regioni «tutte le funzioni amministrative relative alla gestione e all'attuazione degli interventi in materia di edilizia residenziale pubblica»; e che «l'assegnazione e gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, come già affermato da questa Corte, costituisce, in linea di principio, espressione della competenza spettante alla Regione in questa materia (ordinanza n. 526 del 2002)»;

    che, relativamente alla censura riferita all'art. 117, primo comma, della Costituzione, anche in relazione all'art. 48 (poi 39) del trattato CE, la difesa regionale ne sostiene l'infondatezza, in quanto il criterio oggettivo della residenza prolungata ovvero della attività lavorativa «non incide minimamente sulla cittadinanza delle persone interessate ed è assolutamente commisurato agli scopi perseguiti dal diritto interno»;

    che, quindi, la difesa regionale ritiene inammissibile la questione di legittimità prospettata e comunque infondate le censure sollevate in riferimento agli artt. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, stante la genericità delle argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione, nonché la totale estraneità  dei parametri costituzionali evocati alla materia  di cui trattasi;

    che, in particolare, con riguardo all'art. 101 della Costituzione (per il quale, nelle conclusioni, si richiede la dichiarazione di infondatezza, ma nel testo della memoria si richiama anche un profilo di inammissibilità), la Regione rileva che la sentenza n. 4196 del 2004  del Tar Lombardia aveva per oggetto l'annullamento del regolamento regionale n. 1 del 2004: ne conseguirebbe, quindi, se fosse accolta la tesi del rimettente, che la Regione sarebbe priva del potere di legiferare a seguito di una sentenza di annullamento di una normativa secondaria, con rovesciamento di quanto prevede l'art. 101 della Costituzione che dispone che i giudici siano sottoposti alla legge;

    che, quanto all'art. 120 della Costituzione, la difesa regionale ritiene la censura infondata, richiamando tra l'altro la sentenza n. 51 del 1991 della Corte costituzionale secondo la quale «il divieto imposto a ciascuna Regione dall'art. 120, secondo comma, della Costituzione […], non comporta una preclusione assoluta, per gli atti regionali, di stabilire limiti al libero movimento delle persone e delle cose»;

    che, inoltre, la difesa della Regione ritiene infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 3 Cost., sottolineando la ragionevolezza della opzione normativa che tiene conto della «limitatezza della risorsa» e, quindi, introduce «regimi differenziati» per l'accesso al beneficio della fruizione dell'alloggio, e richiamando, altresì, a sostegno della propria affermazione, le numerose analoghe leggi di altre Regioni, nonché la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 432 del 2005, n. 34 del 2004, n. 1 del 1999 e ordinanza n. 268 del 2001);

    che, per quanto riguarda l'asserita violazione dell'art. 47 della Costituzione (in realtà evocato in combinato con gli artt. 117, comma secondo, lettera m, e terzo, della Costituzione) la Regione sottolinea come la materia di cui trattasi sia di piena competenza regionale, richiamando la giurisprudenza di questa  Corte;

    che, in prossimità dell'udienza, la Regione Lombardia ha depositato memoria illustrativa, nella quale ha, in sostanza, ribadito le precedenti argomentazioni, sia in ordine all'inammissibilità che all'infondatezza della questione;

    che, in particolare, quanto al merito, dopo aver ribadito le precedenti conclusioni, ha ricordato come la sentenza n. 94 del 2007, abbia chiarito che la competenza statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, «riguarda la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze di ceti meno abbienti», mentre la legge regionale di cui trattasi si occupa di erp e, quindi, ricade (secondo la ripartizione individuata dalla citata sentenza) nella competenza residuale delle Regioni, le quali possono legittimamente «adottare autonomi ed ulteriori meccanismi» selettivi (sentenza n. 80 del 2007), finalizzati ad un miglior funzionamento del sistema di assegnazione degli alloggi stessi.

    che, nell'imminenza dell'udienza, anche il SICeT di Milano, la CGIL e la CISL – tutti già costituiti nel giudizio a quo – hanno presentato memoria, ribadendo la rilevanza della questione, nonché la fondatezza della censure;

    che, quanto alla violazione degli artt. 3 e 47 della Costituzione, hanno richiamato la giurisprudenza di questa Corte sulla natura del diritto all'abitazione in virtù degli artt. 2 e 47 della Costituzione (sentenze n. 203 del 2003, n. 419 del 1991, nn. 404 e 217 del 1988);

    che, per le parti costituite, ugualmente fondata sarebbe la censura relativa alla violazione dell'art. 117 della Costituzione: in particolare, ritengono vi sia violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto appartiene alla competenza statale esclusiva la «fissazione dei principi che valgono a garantire uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale» dell'offerta «di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti»;

    che la disciplina della Regione Lombardia sia, del resto, chiaramente discriminatoria nei confronti degli immigrati, specie extra comunitari e che sia anche in contrasto con lo stesso art. 40, comma 6, del decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come successivamente integrato e modificato, sarebbe confermato dalla circostanza che i cinque anni di residenza richiesti sono chiaramente finalizzati ad introdurre un criterio selettivo che sostanzialmente impedisca l'accesso al beneficio a tutti i lavoratori immigrati, in contrasto anche con la chiara indicazione della giurisprudenza costituzionale, la quale afferma che il diritto degli stranieri immigrati ad accedere all'erp è «già riconosciuto in via di principio» nel nostro testo costituzionale (sentenza n. 300 del 2005);

    che, sempre secondo le parti costituite, la disposizione impugnata violerebbe l'art. 117, primo comma, della Costituzione, con la precisazione che la norma censurata non è in contrasto soltanto con la disciplina del trattato CE, relativa alla libera circolazione (su cui maggiormente insiste il Tar rimettente), ma anche  con i principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), come interpretati dalla Corte di Strasburgo;

    che, infatti, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo da tempo (quanto meno a partire dalla sentenza del 16 settembre 1996, Gaygusuz c. Austria) ha «enucleato il principio, desunto direttamente dall'art. 14 CEDU, per cui ciascuno ha diritto ad usufruire della distribuzione di beni o benefici pubblici aventi rilievo anche economico senza subire discriminazioni che non dipendano dal corretto svolgimento delle finalità pubblicistiche perseguite» e che principi analoghi sono stati affermati, anche di recente, nella sentenza 25 ottobre 2005, Okpisz v. Germania, e Niedzwiecki  v. Germania;

    che, la difesa delle associazioni ritiene, altresì, che l'art. 3, comma 41-bis, venga a violare l'art. 120 della Costituzione, poiché ostacola la libera circolazione delle persone e dei lavoratori nel territorio nazionale; 

    che, d'altra parte, non può ritenersi ragionevole (alla stregua dell'art. 3 della Costituzione) l'utilizzo di criteri selettivi giustificati dalla pretesa necessità di contenimento della spesa pubblica e/o dalla valorizzazione dell'apporto lavorativo offerto dai cittadini residenti alla produzione del benessere collettivo, visto che l'erp, secondo quanto afferma il rimettente riportando l'orientamento di questa Corte, ha «il compito, a carico della collettività, di favorire l'accesso all'abitazione, a canoni inferiori a quelli correnti sul mercato, a categorie di cittadini meno abbienti», intendendo per «collettività» quella nazionale, dalla quale provengono gli interventi speciali che finanziano l'erp, considerazione questa che ulteriormente dimostrerebbe la necessità di evitare discriminazioni che siano correlate alla permanenza della residenza nelle singole regioni per periodi temporali di durata del tutto irragionevole;

    che le articolazioni territoriali di SICeT, CGIL e CISL, concludono richiamando la sentenza n. 496 del 2000 della Corte costituzionale e ribadendo, quanto alla violazione degli artt. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, gli argomenti del rimettente;

    che sono, altresì, intervenute in giudizio la CGIL e la CISL nazionali, chiedendo che la questione venga dichiarata fondata;

    che le stesse hanno depositato memoria in data 2 gennaio 2008, congiuntamente alle associazioni territoriali, già parti nel giudizio principale, nella quale dichiaravano di essere intervenute nel presente giudizio di costituzionalità con il solo scopo di «affiancare le loro articolazioni e rappresentanze nella Regione Lombardia, a cui è comunque riconosciuta anche statutariamente piena soggettività di stare in giudizio, per testimoniare, accanto alla rilevanza dell'oggetto della controversia, la concordia e l'impegno pieno delle organizzazioni sindacali nel domandare il ripristino della legalità costituzionale».

    Considerato che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sede di Milano) con l'ordinanza in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7 (Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m),  terzo, e 120 della Costituzione, nella parte in cui prevede, tra i requisiti per la presentazione delle domande di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, che «i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda», requisito mancante ad entrambe le istanti;

    che il rimettente censura la disposizione in questione in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della Costituzione, in quanto la stessa introdurrebbe un fattore di discriminazione tra i cittadini per l'accesso al servizio, violerebbe i principi fondamentali in materia di erp fissati dalle leggi dello Stato, interverrebbe sulla determinazione dei livelli essenziali, nonché contrasterebbe con il diritto dei lavoratori alla libera circolazione di cui all'art. 48 (ora 39) del trattato CE e di cui all'art. 120 della Costituzione, e sarebbe, infine, ispirata dalla finalità di neutralizzare il giudicato determinatosi sulla stessa materia;

    che, in via preliminare, deve prendersi atto della rinuncia implicita degli intervenienti CGIL e CISL nazionali alla pretesa di essere parte nel presente giudizio, risultando dalla memoria depositata il 2 gennaio 2008 che l'intervento di cui trattasi era solo finalizzato a testimoniare l'identità di valutazioni, in ordine ai dubbi di costituzionalità della norma censurata, con le rispettive strutture territoriali, già parti nel giudizio a quo;

    che, con riguardo alla censura di cui agli artt. 117, primo comma, e 120 della Costituzione, la questione deve ritenersi inammissibile  per carenza di motivazione  in ordine al  parametro di cui si deduce la violazione;

    che,  quanto alla lamentata violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione anche in relazione all'art. 47 Cost., e dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., la questione deve ritenersi manifestamente infondata, perché la materia di cui trattasi rientra nella competenza residuale delle Regioni e non investe, in ogni caso, la problematica della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale;

    che, in proposito, questa Corte ha avuto anche di recente modo di ribadire come «una specifica materia “edilizia residenziale pubblica” non compare tra quelle elencate nel secondo e terzo comma dell'art. 117 Cost.», così che esiste un terzo livello normativo che rientra nel quarto comma dell'art. 117 della Costituzione, il quale investe, appunto, la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica e, conseguentemente, coinvolge la individuazione dei criteri di assegnazione degli alloggi dei ceti meno abbienti (da ultimo, sentenza n. 94 del 2007);

    che anche la lamentata violazione da parte della norma censurata dell'art. 3 della Costituzione, in quanto introduttiva di un fattore discriminatorio irragionevole e ingiustificato per l'accesso all'erp rapportato alla durata della residenza o del lavoro in Lombardia, deve ritenersi manifestamente infondata, in quanto, al riguardo, questa Corte ha avuto già modo di affermare che il requisito della residenza continuativa, ai fini dell'assegnazione, risulta non irragionevole (sentenza n. 432 del 2005) quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire (sentenza n. 493 del 1990), specie là dove le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (ordinanza n. 393 del 2007);

    che, rispetto agli ulteriori profili di censura prospettati dall'odierno rimettente in riferimento agli artt. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, non si è ravvisato, per effetto della norma contestata, alcuna compromissione dell'esercizio della funzione giurisdizionale, la quale opera su di un piano diverso rispetto a quello del potere legislativo, tanto più considerando che il giudicato evocato era riferito a normazione di rango secondario;

    che, pertanto, anche quest'ultima censura deve ritenersi manifestamente infondata.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», sollevata, in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 120 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con l'ordinanza in epigrafe;

    dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 47, 117, commi secondo, lettera m), e terzo, 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblichiamo di seguito il testo del comunicato dell’UNAR dd. 18.02.2008  indirizzato all’AGEC di Verona

Presidenza del Consiglio dei Ministri

Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità

 

Ufficio per la promozione della parità di trattamento

e la rimozione delle discriminazioni

fondate sulla razza o l’origine etnica

 

Prot. N. 97/UNAR

 

 

Roma, 18 febbraio 2008-02-26

 

Spett. AGEC

Agenzia Gestione Edifici  Comunali

Palazzo dei Diamanti

Via Enrico Noris, 1

37121 Verona

 

 

E p.c.

Spett. ASGI

Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione

Viale XX settembre 16

34125 Trieste

 

 

Egregi Signori,

 

riscontriamo con la presente la nota 20 gennaio 2008 dell’ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, con la quale è stata eccepita la illegittimità delle Vostre delibere n. 4 del 4 settembre 2007 e n. 23 del 25 settembre 2007 nella parte in cui esse introducono, ai fini della elaborazione della graduatorie per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, delle maggiorazioni di punteggio secondo criteri discriminatori nei confronti dei non cittadini.

Nello specifico, essa favorirebbe i cittadini italiani residenti nel comune di Verona (discriminazione diretta) ed i nuclei familiari composti da anziani che siano residenti nel Comune di Verona da più di dieci anni (discriminazione indiretta).

 

Come saprete, il decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215 – in attuazione della direttiva comunitaria n. 2000/43/CE del 20 giugno 2000 – ha istituito in Italia l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il compito di garantire efficacemente il principio della parità di trattamento e di no discriminazione, indipendentemente dalla razza o dall’origine etnica.

 

Uno dei compiti più importanti affidati dall’Ufficio dal decreto legislativo è quello di fornire ausilio ed assistenza alle vittime delle discriminazioni svolgendo, nel rispetto dei poteri dell’Autorità giudiziaria, inchieste autonome su fenomeni discriminatori e, in particolare, su segnalazioni  ricevute da parte di vittime o testimoni di azioni discriminatorie. Inoltre, il comma 2 dell’articolo 7 del citato decreto legislativo, alla lettera e) abilita lo scrivente ufficio a “formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle discriminazioni per razza o origine etnica, nonché proposte di modifica della normativa vigente”.

 

La nota ricevuta dall’ASGI, infatti, sollecita lo scrivente ufficio a “formulare una raccomandazione ed un parere in merito alla vicenda segnalata”.

 

Quanto sopra premesso, non possiamo esimerci dal rilevare che la segnalazione dell’ASGI, per come corredata dalla relativa documentazione, appare senz’altro fondata.

 

Al fini della formulazione del parere, questo ufficio non può che aderire integralmente alle argomentazioni giuridiche svolta dall’ASGI, che ben colgono gli aspetti della discriminazioni diretta e della discriminazione indiretta nel caso in specie.

 

In particolare, le disposizioni di favore che sono previste in correlazione diretta con il possesso del requisito della cittadinanza italiana – oltre che contra legem – appaiono anche non giustificate sia riguardo all’oggetto delle relative determinazioni (attribuzione degli alloggi di edilizia residenziale) che riguardo agli scopi di codesto ente.

 

Per le motivazioni di cui sopra, Vi invitiamo a voler annullare in via di autotutela le predette deliberazioni, in quanto è manifesta in esse la violazione dell’art. 2 del citato D.Lgs. n. 215/2003.

 

Con l’occasione, si ricorda che a tutela del divieto di discriminazione per motivi di razza o origine etnica opera l’art. 4 della medesima legge, che prevede un’apposita azione civile snella e celere con cui il giudice può rimuovere l’atto o il comportamento discriminatori e prevedere anche un risarcimento del danno, e che lo scrivente Ufficio si riserva di intervenire nell’eventuale procedimento giudiziale che dovesse essere intrapreso dalle persone direttamente discriminate ovvero dalle associazioni aventi autonoma legittimazione in tale senso.

 

Nel manifestare la disponibilità dell’UNAR a fornire ulteriori delucidazioni sulla normativa in tema di contrasto alle discriminazioni,  e nel ringraziarVi anticipatamente per l’attenzione, si resta in attesa di un Vostro cortese riscontro, nel quale si dia possibilmente atto della evoluzione della vicenda e degli eventuali atto  i provvedimenti adottati.

 

Distinti Saluti.

 

 

 

Il Direttore Generale

(cons. Marco De Giorgi)

 

 

 

 

2.

 

 

LE ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI   DISCRIMINATORI DI ENTI LOCALI DEL NORD ITALIA.

 



A.  Accolto dal Tribunale di Milano il ricorso urgente presentato da una donna marocchina contro la circolare  del Comune di Milano che aveva previsto l’esclusione dei minori figli di stranieri irregolarmente presenti  dall’iscrizione alle  scuole per l’infanzia. L’ordinanza del Tribunale civile di Milano riconosce il carattere discriminatorio del provvedimento.

 

L’11  febbraio scorso il Tribunale civile di Milano ha accolto, con apposita ordinanza, e a seguito di una procedura d’urgenza, il ricorso presentato ex art. 44 del T.U. immigrazione (azione giudiziaria anti-discriminazione) da una cittadina marocchina  contro la decisione dell’Amministrazione comunale di Milano di escludere i “minori non regolarizzati”, in quanto figli di immigrati privi del permesso di soggiorno,  dall’accesso alle scuole materne (si veda in proposito Newsletter del Progetto Leader n. 13/gennaio 2008). Tale decisione dell’Amministrazione comunale era stata adottata con circolare n. 20 del 17.12.2007 volta a disciplinare le modalità di iscrizione alle scuole dell’infanzia per l’anno educativo 2008/2009 che così disponeva: “Le famiglie prive di regolare permesso di soggiorno avranno la possibilità di iscriversi, purché ottengano il permesso di soggiorno entro la data del 29 febbraio 2008. La mancata presentazione del permesso di soggiorno entro tale data non consentirà la formalizzazione della domanda di iscrizione”.

Il giudice civile di Milano ha accolto sostanzialmente tutte le argomentazioni sollevate nell’azione legale promossa dalla  ricorrente e  sostenuta dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri, soci dell’ASGI e membri dell’Associazione “Avvocati di Strada”.

L’ordinanza del Tribunale di Milano ha innanzitutto confermato una ormai consolidata giurisprudenza affermante  la possibilità di adire al giudice civile  anche in materia di dinieghi di accesso a pubblici servizi o a dinieghi di accesso a concorsi pubblici, entrambe materie che rispettivamente l’art. 33 del d.lgs. n. 80/1998 (come modificato dalla l. n. 205/2000) e l’art. 63, c. 4 d.lgs. n. 165/2001 devolvono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ciò innanzitutto per la natura di diritto soggettivo perfetto a fondamento costituzionale della posizione fatta valere in giudizio dal discriminato (la tutela del principio di uguaglianza e di dignità umana); in secondo luogo perché la disposizione dell’art. 44 T.U. immigrazione, integrata e confermata dai due artt. 4 d.lgs. n. 215 e  216/2003, si pone come lex specialis rispetto alle norme generali in tema di riparto di giurisdizione ed anche come lex posterior, trattandosi di norma successiva alla l. n. 205/2000 (per un approfondimento  in proposito si rimanda a : A. Guariso, I provvedimenti del giudice, in Marzia Barbera (a cura di ), Il nuovo diritto anti-discriminatorio, Giuffrè, 2007, pag. 610).

Secondo il giudice civile di Milano, il provvedimento del comune di Milano configge con la peculiare posizione del minore straniero così come appare delineata dallo stesso TU sull’immigrazione, peraltro in piena ed effettiva aderenza alle convenzioni internazionali, ed in particolare alla Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo.

Il giudice rammenta che  a norma dell’art. 38 comma 1 del T.U. immigrazione, ai minori stranieri presenti sul territorio nazionale si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all’istruzione, di accesso ai servizi educativi  e di partecipazione alla vita scolastica. Pertanto, il riferimento al diritto all’istruzione e all’accesso ai servizi educativi a favore dei minori stranieri anche solo presenti sul territorio nazionale fa estendere il suo campo di applicazione al di là dell’obbligo scolastico, ricomprendendo certamente anche la scuola materna, che si pone in diretta connessione funzionale alla scuola dell’obbligo, realizzando per espressa previsione normativa “il profilo educativo e la continuità educativa con il complesso dei servizi all’infanzia e con la scuola primaria” (art. 1 d.lgs.vo n. 59/04). Questo in linea anche con le norme internazionali in materia di protezione dell’infanzia, prime fra tutte quella di cui alla Convenzione sui diritti del fanciullo .

Secondo il giudice di Milano, inoltre,  prevedere il requisito della residenza anagrafica quale condizione per l’ammissione dei minori stranieri alle scuole per l’infanzia equivale di fatto ad escludere in maniera irragionevole la possibilità per i minori stranieri di accedere al servizio in condizioni di parità con gli altri soggetti, essendo la residenza anagrafica subordinata alla regolarità del soggiorno dei genitori. Per tale ragione, tale requisito dovrebbe essere sostituito con quello dell’accertamento in fatto della dimora abituale nell’ambito del territorio comunale.

L’ordinanza del Tribunale di Milano, avente natura di provvedimento urgente e cautelare, come previsto dall’art. 44 c. 5 del TU sull’immigrazione, dichiara dunque la natura discriminatoria del provvedimento del Comune di Milano e ordina al Comune di Milano la cessazione del medesimo. Per la definizione della causa, con le conseguenti ulteriori decisioni in materia di risarcimento del danno a favore della parte ricorrente, è stata fissata una nuova udienza per il giorno 15 maggio 2008.

 

 

 

Di seguito il testo integrale dell’ordinanza del Tribunale civile di Milano, 11 febbraio, 2008.

 

 

Tribunale di Milano, Sez. I Civile, Ordinanza dell’11 febbraio 2008,

Giudice Dott. Marangoni. R.E.M. – Comune di Milano.

 

In ordine al ricorso ex art. 44 D.Lgsvo 286/98 proposto da R. E. M. - in proprio e nell’interesse della figlia minore D. O. - nei confronti del COMUNE DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore.
1. R. E. M. – che agisce in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore D. O. – ha esposto di essere cittadina marocchina, da anni residente in Italia, attualmente priva di titolo per il regolare soggiorno sul territorio nazionale ancorché in attesa di decisione del ricorso da essa presentato ai sensi dell’art. 31 D.Lgsvo 286/98 dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Milano.
Ha dedotto di avere necessità di iscrivere alla scuola materna del Comune di Milano la figlia minore D. O., ma di essere in tal senso ostacolata dal disposto della circolare n. 20 del Settore Servizi all'Infanzia del Comune di Milano che, ai fini di tale iscrizione, impone la presentazione del permesso di soggiorno entro la data del 29.2.2008 per consentire la formalizzazione della domanda di iscrizione.

Ha sostenuto che tale previsione costituisce comportamento discriminatorio ai sensi degli artt. 43 e 44 D.Lgsvo 286/98, tenuto conto che l’art. 38 TU immigrazione prevede il diritto per i minori stranieri presenti sul territorio nazionale di usufruire dei servizi educativi a parità delle condizioni previste dalla legge per i cittadini italiani, mentre - sotto altro profilo - ad essi viene assicurata la possibilità di soggiornare sul territorio nazionale a prescindere dalla condizione di eventuale irregolarità dei loro genitori, così come sancito dalla Convenzione sui diritti del fanciullo.

Si è costituita nel giudizio l’amministrazione convenuta, rilevando le diverse modalità previste dalla contestata circolare per l’iscrizione alla scuola dell’infanzia, ivi comprese quelle rivolte agli stranieri non in regola con le norme relative al soggiorno, dalle quali si può evincere che la condizione di irregolarità nel soggiorno rileva nella formazione delle graduatorie ma non è ostativa all’effettiva accoglienza del bambino. Ha dedotto che il requisito della residenza richiesto per l’iscrizione alla scuola materna – a prescindere dalla nazionalità del minore – condiziona l’accesso al servizio ed il possesso del permesso di soggiorno è presupposto per l’iscrizione anagrafica tra i cittadini residenti, mentre per gli stranieri privi di permesso di soggiorno la circolare contestata prevede la possibilità di iscrizione nei casi segnalati dai servizi sociali. Ha fatto presente che la scuola materna si distingue dalla scuola dell’obbligo, quest’ultima obbligatoria e gratuita per tutti, risultando invece la prima organizzata come servizio a domanda individuale, non obbligatorio e non gratuito, e che tra i diritti fondamentali assicurati al cittadino straniero - ancorché non in regola con le norme in materia di soggiorno - rientrano esclusivamente il diritto alla salute e quello all’assistenza sanitaria, in quanto attinenti al nucleo dei diritti inviolabili, oltre che alla vita, al decoro, alla libertà, all’abitazione ecc.

La normativa richiamata dalla ricorrente, secondo l’amministrazione convenuta, non consentirebbe la piena equiparazione della condizione del minore straniero irregolarmente soggiornante con quella del minore in regola con il permesso di soggiorno, risultando essa destinata solo ad evitare l’espulsione per il minore ma non ad estendere il divieto di espulsione ai genitori irregolari.

Ha quindi sostenuto che in ogni caso nessuna discriminazione può individuarsi nel contenuto della circolare in questione, risultando il presupposto della residenza comune a cittadini italiani e stranieri e dovendosi individuare un effetto discriminatorio solo nella negazione assoluta del diritto e non nella mera postergazione dello stesso rispetto a cittadini residenti o a stranieri regolarmente soggiornanti.
Da ultimo ha eccepito che la ricorrente è priva di interesse di agire per assenza del presupposto dell’attualità e della concretezza della prospettata lesione, non avendo presentato alcuna domanda di iscrizione e non essendovi dunque alcun provvedimento di rigetto da parte dell’amministrazione, mentre sussisterebbe anche carenza di giurisdizione del giudice adito in relazione al petitum
del ricorso, rivolto ad ottenere la revoca della circolare in contestazione e dunque di un provvedimento a carattere discrezionale cui accederebbe necessariamente la tutela del giudice amministrativo.

2. Le eccezioni relative al difetto di giurisdizione del giudice ordinario e di carenza di interesse ad agire – seppure formulate dalla resistente amministrazione solo a chiusura del suo atto di costituzione in giudizio – devono essere affrontate in via logicamente preliminare rispetto al merito della controversia.

Ritiene il giudicante che sussista la giurisdizione del giudice ordinario in merito alla presente controversia.
Non può dubitarsi, invero, che la posizione giuridica fatta valere dalla ricorrente sia qualificabile come diritto soggettivo, posto che a fondamento del ricorso è stata posta la violazione, da parte del Comune di Milano, di un diritto fondamentale della persona, quale quello al riconoscimento della pari dignità sociale e alla non discriminazione. Tale diritto trova primario fondamento sia nell’art. 2 Cost. che riconosce e garantisce anche agli stranieri i diritti inviolabili dell’uomo (v. anche l’art. 2 D.Lgsvo 286/98) che nell’art. 3 Cost., che sancisce il principio di pari dignità sociale e di eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Lo stesso art. 43 D.Lgsvo 286/98 peraltro esplicita e definisce ulteriormente tale prospettiva, definendo discriminatorio qualunque comportamento che – direttamente od indirettamente - abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. La circostanza che, nella fattispecie, il comportamento che si assume lesivo del diritto in parola sia riconducibile all’applicazione di un atto amministrativo (la circolare n. 20 del Settore Servizi all’Infanzia del Comune di Milano) non vale a mutare la natura della posizione soggettiva azionata, che non può essere degradata ad interesse legittimo neppure in conseguenza dell’emanazione di un atto da parte di un’autorità amministrativa.

Il diritto alla non discriminazione è infatti un diritto fondamentale, di rilievo costituzionale, primario ed assoluto dell’individuo, come tale incomprimibile dall’amministrazione e dunque di naturale competenza del giudice ordinario, pur se oggetto dell’azione amministrativa.

A tal fine deve ritenersi irrilevante la circostanza che, nel delineare i presupposti per l’esercizio dell’azione giurisdizionale contro le discriminazioni, l’art. 44 D.Lgsvo 286/98 si riferisca testualmente a “comportamenti” discriminatori di privati o di pubbliche amministrazioni, senza nominare gli “atti”. Il carattere di assolutezza del diritto alla non discriminazione determina, infatti, proprio il superamento e l’irrilevanza della distinzione tra atto e comportamento della pubblica amministrazione (cui corrisponde, correlativamente, la distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo in capo al privato): poiché il diritto alla non discriminazione è un diritto incomprimibile, che si sottrae al meccanismo dell’affievolimento, di fronte ad esso non vengono in rilievo atti amministrativi (intesi come manifestazione di un potere autoritativo attraverso cui la p.a. incide unilateralmente sulla posizione del privato degradandola), ma semplici comportamenti, per definizione inidonei a determinare qualsivoglia affievolimento.

Anche il rilievo secondo il quale, a mente dell’art. 33 D.Lgsvo 80/98, ogni controversia in materia di pubblici servizi risulterebbe devoluta alla cognizione del giudice amministrativo non può ritenersi fondato, posto che in materia di tutela contro i comportamenti discriminatori, gli artt. 43 e 44 D.Lgsvo 286/1998 stabiliscono espressamente che l’azione debba essere proposta al giudice ordinario, e ciò per il caso in cui il comportamento discriminatorio - posto in essere tanto da un privato quanto da una pubblica amministrazione - si sostanzi nell’imposizione di condizioni più svantaggiose o nel rifiuto di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali soltanto in ragione della condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità del soggetto che assume in suo danno la sussistenza della fattispecie discriminatoria (v. in tal senso Tribunale Milano 21.3.2002; Corte d’appello Firenze 2.7.2002).

Le citate disposizioni del D.Lgsvo 286/1998, in quanto successive ed aventi natura di lex specialis, prevalgono dunque sul disposto attinente alle controversie in materia di servizi pubblici di cui all’art. 33 D.Lgsvo 80/98. Anche l’eccezione relativa alla presunta carenza di interesse ad agire della ricorrente appare priva di effettivo fondamento. Se si pone mente non già all’assenza di un provvedimento di rigetto dell’amministrazione a fronte di una istanza di iscrizione – non ancora presentata al momento del deposito del ricorso – bensì al reale oggetto dell’azione, e cioè alla presenza di un atto amministrativo di cui si deduce l’effetto discriminatorio, appare evidente che l’attualità e la concretezza del pregiudizio appare verificabile sul piano della sussistenza (astratta) delle condizioni soggettive della parte ricorrente (condizione di straniera extracomunitaria della figlia di minore età, mancanza di permesso di soggiorno) rispetto alle quali troverebbe applicazione la disposizione assunta come integrante il dedotto comportamento discriminatorio (termine entro il quale presentare il permesso di soggiorno del nucleo familiare a pena di mancata formalizzazione dell’iscrizione).

In tale prospettiva appare dunque irrilevante che nessun provvedimento sia stato adottato dall’amministrazione, risultando l’effetto restrittivo all’accesso al servizio prospettato come già attuale per effetto della disposizione presente nella circolare in questione in danno delle parti ricorrenti, rispetto alle quali è prospettabile un diretto ed imminente pregiudizio connesso all’esistenza della disposizione contestata.

3. La circolare n. 20 del 17.12.2007 nel regolare le modalità di iscrizione alle scuole dell’infanzia – riservata “ai bambini nati dal 1° gennaio 2003 al 30 aprile 2006 e appartenenti a nuclei familiari residenti a Milano alla data di iscrizione” – prevede espressamente, quanto agli stranieri extracomunitari, che “le famiglie prive di regolare permesso di soggiorno avranno la possibilità di iscriversi, purché ottengano il permesso di soggiorno entro la data del 29 febbraio 2008. La mancata presentazione del permesso di soggiorno entro tale data non consentirà la formalizzazione della domanda di iscrizione.

Ritiene il giudicante che i rilievi mossi a tali disposizioni dalla difesa delle ricorrenti siano fondati e debbano essere accolti nei limiti di seguito specificati.

Deve invero ritenersi che la legittimità della scelta di condizionare l’accesso alla scuola dell’infanzia del minore straniero al possesso da parte del suo nucleo familiare del permesso di soggiorno entro la data del 29.2.2008 debba essere valutata tenendo ben presente la condizione del minore straniero quale appare delineata dallo stesso TU sull’immigrazione, peraltro in piena ed effettiva aderenza alle convenzioni internazionali che si sono occupate di tali problemi.

In primo luogo deve essere richiamato l’art. 38 comma 1 D.Lgsvo 286/98, il quale per un verso assoggetta i minori stranieri “presenti sul territorio” all'obbligo scolastico e quindi determina l’applicazione ai medesimi di “tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all'istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica”.

La scuola dell’infanzia, pur non obbligatoria e non indirizzata direttamente all’istruzione del minore in senso stretto, è comunque pienamente inserita nell’ambito del più complessivo sistema scolastico nazionale tanto che essa “nella sua autonomia e unitarietà didattica e pedagogica, realizza il profilo educativo e la continuità educativa con il complesso dei servizi all'infanzia e con la scuola primaria” (art. 1 D.Lgsvo 59/04, in attuazione del principio di cui alla lett. d) dell’art. 1 L. 53/03), con ciò ponendosi esplicitamente in diretta connessione funzionale alla scuola dell’obbligo e così rientrando a pieno titolo nel più complesso sistema dell’istruzione scolastica ancorché la scelta se usufruirne o meno sia lasciata alla decisione dei genitori.

Peraltro, ove si ritenesse di valorizzare lo specifico profilo che caratterizza la scuola dell’infanzia – quello cioè rivolto “all’educazione ed allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo, morale, religioso e sociale delle bambine e dei bambini promuovendone le potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento” al fine di “assicurare un’effettiva eguaglianza delle opportunità educative” (così ancora l’art. 1 D.Lgsvo 59/04) – non potrebbe in ogni caso fondatamente contestarsi l’inerenza di tale istituto all’ambito dei servizi educativi, il cui accesso risulterebbe peraltro garantito dal menzionato art. 38 comma 1 D.Lgsvo 286/98 a tutti i minori comunque “presenti sul territorio”, e dunque anche ai minori formalmente privi di permesso di soggiorno.

Tale disposizione, invero, da un lato pone a carico dei soggetti responsabili del minore – siano essi i genitori, se ad essi accompagnati, che ad enti od associazioni, ove a questi essi siano affidati – l’obbligo scolastico previsto dalla legislazione nazionale (e quindi le conseguenti sanzioni previste in caso di elusione di tale obbligo), ma nella seconda parte del medesimo comma riconosce al minore una serie di diritti più ampi che completano il più generale aspetto educativo – di cui il diritto all’istruzione è parte, ma non in sé esaustiva – che non può non concernere tutti i minori, anche al di fuori della specifica fascia d’età dell’obbligo scolastico ed in particolare nella fascia dell’infanzia.

D’altra parte pare incontestabile che il diritto all’educazione di cui il minore è titolare rientri nel novero dei diritti fondamentali in relazione agli artt. 2 e 3 Cost. – non trovando minor rilievo del diritto al decoro, all’abitazione, alla corrispondenza ecc. – nonché all’art. 28 della Convenzione dei diritti del fanciullo del 20.11.1989, ancorché in tale ultima disposizione risultino espressi particolari disposizioni in tema di obbligo scolastico e di istruzione superiore.

4. L’aspetto tuttavia più marcatamente critico della previsione della circolare contestata consiste nella subordinazione della possibilità di accesso alla scuola materna alla titolarità da parte del nucleo familiare del minore di permesso di soggiorno alla data stabilita.

Va rilevato sotto tale profilo che la posizione del minore nell’ambito della regolamentazione del soggiorno dello straniero sul territorio dello Stato appare del tutto peculiare ed autonoma rispetto a quella dei suoi familiari, presenti o meno anch’essi sul territorio dello Stato.
In estrema sintesi, al divieto di espulsione del minore extracomunitario previsto dall’art. 19 comma 2, lett. a) D.Lgsvo 286/98 corrisponde il diritto del minore stesso ad ottenere un permesso di soggiorno fino al raggiungimento della maggiore età (art. 28 comma 1 lett. a) Dpr. 394/99) e dunque, indipendentemente dalla posizione giuridica dei genitori, non è possibile ritenere un minore straniero in stato di irregolarità quanto alla sua presenza sul territorio dello Stato.

L’amministrazione resistente ha fondato la difesa della disposizione contestata della circolare sostanzialmente sul fatto che legittimamente è stato posto quale presupposto di ammissibilità dell’iscrizione il requisito della residenza nel territorio comunale, richiesto a chiunque – cittadino o straniero – che richiede l’iscrizione al servizio.

La residenza anagrafica presuppone a sua volta per lo straniero extracomunitario l’esistenza di un valido permesso di soggiorno e ciò giustificherebbe l’esclusione del minore appartenente a famiglia priva di permesso di soggiorno dalla possibilità di formalizzare l’iscrizione.

Ritiene questo giudice che tale regolamentazione non possa ritenersi coerente con la posizione giuridica che l’ordinamento attribuisce direttamente al minore, in quanto essa indebitamente condiziona e subordina l’esercizio di diritti propri del minore alle condizioni di regolarità del soggiorno dei genitori.

Il presupposto della residenza nel territorio comunale appare in sé indiscutibilmente legittimo quale condizione di fruibilità del servizio, ma il riferimento formale alla mera titolarità di iscrizione anagrafica appare di fatto escludere in maniera irragionevole la possibilità per il minore di accedere al servizio in condizioni di parità con altri soggetti.

Se è vero, infatti, che il solo possesso del permesso di soggiorno rilasciato al minore ai sensi dell’art. 28 comma 1 lett. a) Dpr. 394/99 non consentirebbe di per sé l’iscrizione anagrafica del solo minore – in quanto evidentemente le disposizioni della L. 1228/54 e del Dpr. 223/89 in tema di iscrizione anagrafica attribuiscono al soggetto esercente la potestà l’obbligo di iscrizione del minore nell’ambito del nucleo familiare di appartenenza - e che la mancanza di permesso di soggiorno da parte dei genitori non consente l’iscrizione anagrafica del nucleo familiare, appare evidente che la connessione stabilita dalla circolare tra la condizione di regolarità dei genitori e la possibilità di iscrizione del minore è tale da pregiudicare nella sua sostanza il diritto proprio del minore ad usufruire di un servizio pubblico al quale esso ha indubbiamente diritto di iscriversi a parità di condizioni con gli altri cittadini.

In tale prospettiva non risulterebbe rilevante il fatto che il minore, pur avendone pieno titolo, in concreto non sia (formalmente) titolare di permesso di soggiorno – in quanto evidentemente tale omissione non potrebbe essere ad esso addebitabile al punto da compromettere l’esercizio dei diritti ad esso spettanti – mentre il requisito della residenza ben potrebbe essere valutato in fatto, richiedendosi dunque che il minore abbia in concreto la propria dimora abituale nell’ambito del territorio comunale.

In tale contesto la possibilità di esercitare il diritto all’iscrizione alla scuola materna risulta di fatto compromesso dall’apposizione di ostacoli meramente formali e privi di effettiva giustificazione, obbiettivamente in contrasto con l’obbligo – vigente sia per le istituzioni pubbliche che per le stesse autorità giurisdizionali – di tenere in primaria considerazione l’interesse superiore del minore (art. 3 comma 1 Convenzione sui diritti del fanciullo).

Deve dunque concludersi che sussistono i presupposti per ritenere integrata nel caso di specie l’ipotesi discriminatoria contemplata dall’art. 43 comma 1, lett. c) D.Lgsvo 286/98, posto che la disposizione contestata appare idonea a determinare indebitamente l’effetto di escludere i minori stranieri extracomunitari le cui famiglie risultano prive di permesso di soggiorno dalla possibilità di iscriversi alla scuola dell’infanzia del Comune di Milano. Tale previsione appare idonea a determinare il riscontrato effetto discriminatorio in capo alla minore qui ricorrente, risultando la madre attualmente priva di permesso di soggiorno – ancorché in attesa della definizione del procedimento ex art. 31 D.Lgsvo 286/98, dall’esito non prevedibile – e la figlia minore, nata a Milano, coabitante con la madre nell’ambito del comune di Milano.
Appare opportuno rilevare che la possibilità indicata dal comune di procedere ugualmente all’iscrizione della minore alla scuola materna ricorrendo alle disposizioni della stessa circolare riguardanti le iscrizioni fuori termine, seppure manifestazione di un atteggiamento non pregiudizialmente ostile nei confronti del fenomeno dell’immigrazione – così come attestato dal rilevante impegno delle strutture comunali a tal fine operanti – non può evidentemente elidere l’effetto restrittivo comunque riscontrabile nella parte di circolare contestata, posto che a fronte di un diritto esercitabile a parità di condizioni rispetto agli altri cittadini mediante l’inserimento diretto in graduatoria, la possibilità di ottenere l’iscrizione fuori termine sarebbe invece concessa solo qualora le condizioni dei minori integrassero “casi sociali segnalati con relazione motivata dei servizi sociali del Comune di Milano
”.

5. Sulla base dell’accertamento del comportamento discriminatorio così individuato deve dunque essere ordinata la cessazione degli effetti della parte di circolare ritenuta ad effetto discriminatorio, risultando tale pronuncia sufficiente – tenuto conto che il termine per inoltrare le domande di iscrizione non appare ancora decorso alla data di deposito del presente provvedimento – ad evitare il dispiegarsi di effetti definitivi pregiudizievoli per gli interessi dei minori.

In considerazione della particolare struttura del procedimento previsto dall’art. 44 D.Lgsvo 286/98, che contempla secondo il prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale un’ulteriore fase di merito da concludersi con sentenza definitiva, deve inoltre provvedersi per l’ulteriore corso del procedimento, rinviandosi alla decisione definitiva sia le ulteriori questioni relative al risarcimento del danno che la regolazione delle spese del giudizio.

 

P.q.m.

visti gli artt. 43 e 44 D.Lgsvo 286/98:

1)     in accoglimento del ricorso presentato da R. E. M. nell’interesse della figlia minore D. O., dichiara il carattere discriminatorio posto in essere dal COMUNE DI MILANO mediante l’emanazione della circolare n. 20 del 17.12.2007 del Settore Servizi all’Infanzia nella parte in cui subordina l’iscrizione del minore extracomunitario all’ottenimento da parte della famiglia del medesimo del permesso di soggiorno entro la data del 29.2.2008, a pena di non formalizzazione della domanda di iscrizione;

2)     ordina al Comune di Milano la cessazione del suddetto comportamento discriminatorio e la rimozione dei suoi effetti;


 3)  rinvia la causa per trattazione all’udienza del 15.5.2008 ore 9,30.

 

 

 

 

B. La sezione regionale dell’ASGI del Friuli-Venezia Giulia interviene contro l’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo (prov. di Pordenone) che limita per i cittadini stranieri il diritto alla fruizione degli interventi e dei benefici di assistenza sociale previsti dalla legislazione nazionale e regionale. L’ASGI sottolinea i profili discriminatori dell’ordinanza e chiede alla Giunta regionale del F.V.G. di esercitare i poteri sostitutivi di autotutela.

 

Con ordinanza n. 4 dd. 23 gennaio 2008 il Sindaco leghista del comune di Azzano Decimo (prov. di Pordenone, Regione Friuli-Venezia Giulia) ha dato disposizione ai competenti servizi comunali di limitare l’erogazione dei contributi e delle prestazioni assistenziali previsti dalla legislazione nazionale e regionale (tra cui il reddito base di cittadinanza) nei confronti dei cittadini stranieri (comunitari e extracomunitari), disponendo nel contempo che in caso di avvenuta erogazione dei medesimi, venga sistematicamente data  segnalazione agli uffici di polizia per l’attivazione di eventuali procedimenti di allentamento.

Il Sindaco di Azzano Decimo si era già segnalato in passato per la promozione di ordinanze e provvedimenti apertamente discriminatori, tra cui la decisione di sanzionare l’uso del velo islamico (ordinanza poi annullata dal Prefetto di Pordenone e quindi definitivamente bocciata dal TAR Friuli Venezia Giulia), così come di limitare le possibilità di iscrizione degli stranieri nei registri anagrafici, imitando così provvedimenti analoghi adottati nel vicino Veneto.

Avendo in considerazioni i molteplici profili di illegittimità del provvedimento del Sindaco di Azzano Decimo, la sezione regionale dell’ASGI del F.V.G. ha inviato un proprio parere al Presidente della giunta regionale, Riccardo Illy, chiedendo alla Regione di diffidare l’Amministrazione comunale dalla messa in atto  dell’ordinanza e, nel caso di effettiva lesione di posizioni soggettive, di applicare i provvedimenti sostitutivi di autotutela previsti dalla legislazione regionale. Avendo in considerazione i profili discriminatori del provvedimento amministrativo, l’ASGI ha richiesto pure l’intervento dell’UNAR nonché ha inviato una segnalazione al Segretario generale della Commissione Europea rilevando anche la violazione della normativa comunitaria riferita in particolare allo status dei cittadini comunitari che esercitano il diritto alla libertà di circolazione.

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale del parere della sezione regionale dell’ASGI del Friuli-Venezia Giulia.

 

 

 

Trieste/Torino, 10 febbraio, 2008

 

 

 

 

 

OGGETTO: Profili di illegittimità e discriminatori dell’ordinanza del Sindaco del Comune di Azzano Decimo (prov. di Pordenone) avente per oggetto “l’applicazione della disciplina prevista dalla legge 8 novembre 2000, n. 328 e dalle  leggi regionali 31 marzo 2006 e 4 marzo 2005 n. 5 per i cittadini comunitari e loro familiari, cittadini extracomunitari muniti di permesso di soggiorno e cittadini extracomunitari soggiornanti di lungo periodo” (ordinanza n. 4 dd. 23 gennaio 2008).

 

 

 

 

                       Preg.mo Dott. Riccardo Illy,

                       

 

La presente viene inviata dalla Sezione regionale del F.V.G. dell’A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), associazione che riunisce avvocati, docenti universitari  ed operatori legali impegnati sulle tematiche dell’immigrazione. L’ASGI partecipa in qualità di partner ad un progetto denominato LEADER (Lavoro e Occupazione senza Discriminazioni Razziali e Religiose) inserito nel programma europeo EQUAL II e che ha l’obiettivo di definire strategie di contrasto e tutela dei cittadini immigrati dalle discriminazioni etnico-razziali e religiose.

 

            Le scriviamo perché siamo venuti a conoscenza della recente ordinanza del Sindaco del Comune di Azzano Decimo (prov. di Pordenone) avente per oggetto “l’applicazione della disciplina prevista dalla legge 8 novembre 2000, n. 328 e dalle  leggi regionali 31 marzo 2006 e 4 marzo 2005 n. 5 per i cittadini comunitari e loro familiari, cittadini extracomunitari muniti di permesso di soggiorno e cittadini extracomunitari soggiornanti di lungo periodo” (ordinanza n. 4 dd. 23 gennaio 2008).

 

          Con tale ordinanza, il Sindaco di Azzano Decimo dispone  l’esclusione dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti dagli interventi di assistenza sociale erogabili dalla propria amministrazione, con l’ulteriore indicazione al proprio personale competente di provvedere alla  segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza di eventuali richieste di assistenza presentate da cittadini stranieri in stato di bisogno, ai fini dell’avvio di eventuali provvedimenti espulsivi o di allontanamento dal territorio nazionale.

 

            Tale ordinanza suscita sconcerto ed indignazione per la sua contrarietà a  basilari principi di  solidarietà sociale, del rispetto dell’integrità e della dignità della persona umana, della deontologia  dei servizi di assistenza sociale e dei suoi operatori, la cui funzione di  promozione della coesione e della cittadinanza sociale viene ridotta e svilita a quella di meri  coadiutori di eventuali provvedimenti  di allontanamento dal territorio dei cittadini stranieri.

 

Sul piano più strettamente giuridico che a noi compete,  riteniamo  che tale ordinanza, per la sua forma e i suoi contenuti, ecceda arbitrariamente  le competenze dell’ente locale e si ponga in violazione con numerose disposizioni di diritto internazionale, comunitario ed interno, nazionale e regionale, come di seguito andremo a illustrare.

 

Di conseguenza, anche in considerazione dell’effetto emulativo che tali e simili  provvedimenti sembrano suscitare  presso  diversi amministratori di   enti locali del Nord-est del nostro Paese, ci rivolgiamo a Lei affinché la giunta regionale del F.V.G., riscontrata l’illeggittimità del provvedimento del Sindaco di Azzano Decimo, provveda ad esercitare i poteri sostitutivi previsti dall’art. 60 della L.R. n. 6/2006 a salvaguardia dell’effettiva attuazione delle disposizioni in essa contenute (1) .

 

 

Violazione delle norme di diritto internazionale

 

L’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo sembra prefigurare l’esclusione dei cittadini stranieri, comunitari e non, regolarmente residenti nel territorio comunale,  dall’erogazione di provvidenze e servizi sociali.

L’esclusione dei cittadini stranieri, comunitari e non comunitari, legalmente soggiornanti, dalle prestazioni di assistenza sociale, ivi comprese le provvidenze che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente in materia di servizi sociali, inclusa quella regionale, costituisce innanzitutto una violazione delle norme di diritto internazionale vincolanti per il nostro Paese.

La Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) n. 143/1975, ratificata con legge 10 aprile 1981 n. 158, e recepita dal nostro ordinamento nell’art. 2 del d.lgs. n. 286/98,  garantisce, infatti, alla generalità dei lavoratori migranti, che si trovano legalmente sul territorio di uno Stato membro, senza discriminazioni di reddito, o basate sull’anzianità, sul consolidamento del loro soggiorno, o altri requisiti, il principio della parità di opportunità e trattamento rispetto ai cittadini nazionali anche in materia di assistenza sociale. (2)

 

L’illegittimità  di misure volte ad escludere i cittadini stranieri dal beneficio di prestazioni sociali sulla base di un mero criterio di cittadinanza (status civitatis) e a prescindere da ulteriori criteri obiettivi e razionali trae origine anche dagli obblighi scaturenti dall’adesione dell’Italia alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Sebbene la Convenzione europea non contenga disposizioni in materia di diritto alla sicurezza sociale, la tutela dei diritti “patrimoniali”, introdotta per mezzo dell’art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione medesima, è stata interpretata dalla Corte di Strasburgo come estensibile anche alle “prestazioni sociali”, comprese quelle di tipo “non contributivo”, applicando di conseguenza anche a tali benefici il principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione. (3)

Dalla disamina delle citate norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia per l’effetto degli art. 10 c. 2 e 35 della Costituzione, per quanto concerne le disposizioni della Convenzione OIL, e dell’art. 117 1° comma per quanto concerne le norme della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, ne consegue la dubbia legittimità costituzionale dell’art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000, che, senza darsi carico di un compiuto inserimento delle nuove norme nel sistema, ha parzialmente innovato la portata dell’art. 41 della d.lgs. n. 286/98 introducendo il requisito della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti) per l’accesso all’assegno sociale e a tutte le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in  base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali. (4)

 

Alla luce di quanto sopra, appare coerente con gli obblighi costituzionali l’operato del legislatore regionale del Friuli-Venezia Giulia, il quale, con la legge  regionale 31 marzo 2006 n. 6 ha voluto recepire nel territorio regionale quanto previsto dalla legge nazionale n. 328/2000, avvalendosi tuttavia delle proprie prerogative in una materia nella quale non sussiste una potestà esclusiva dello Stato ma ove lo Stato può definire  norme aventi natura   di principi fondamentali, che definiscono  dunque degli standard minimi, da applicarsi sull’intero territorio nazionale, ma eventualmente estensibili con norme più favorevoli da parte del legislatore regionale. In tale direzione, il legislatore regionale ha inteso estendere l’ambito dei destinatari degli interventi ai cittadini stranieri legalmente soggiornanti in Italia ai sensi del d.lgs. n. 286/98 e residenti nel territorio regionale, così come ha previsto opportunamente un principio di parità di trattamento senza distinzione di status civitatis  per l’accesso al reddito di base di cittadinanza, quale prestazione sociale avente natura di diritto soggettivo, di cui all’art. 59 della L.R. medesima. (5)

La scelta del legislatore regionale, oltrechè pienamente legittima nel quadro delle ripartizione delle competenze e potestà legislative tra Stato e regioni, appare pienamente concordante con il quadro degli obblighi internazionali assunti dal nostro paese con l’adesione ai menzionati trattati internazionali che definiscono un principio di parità di trattamento e di non discriminazione in materia di accesso alle prestazioni di assistenza sociale a favore di tutti i lavoratori migranti regolarmente soggiornanti.

 

L’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo è indubbiamente illegittima non solo con riferimento alle norme di diritto internazionale e costituzionale, ma anche con riferimento alle disposizioni specifiche  di diritto comunitario e nazionale riferite al soggiorno dei cittadini comunitari e non.

 

 

Per i cittadini comunitari e loro familiari:

 

Non appaiono condivisibili i contenuti nel dispositivo dell’ordinanza volti ad escludere dal diritto alle prestazioni sociali, ivi comprese quelle aventi natura di diritto soggettivo, previste dal sistema integrato di interventi  e di  servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale,  i cittadini comunitari e loro familiari che hanno esercitato il diritto alla libera circolazione, con l’unica eccezione – par di capire, vista l’approssimativa costruzione grammaticale e di sintassi- di apposite deroghe, le quali, peraltro, non vengono mai definite con precisione nella delibera.

 

La citazione operata dal Sindaco del Comune di Azzano Decimo delle norme di diritto comunitario  sul soggiorno dei cittadini comunitari appare innanzitutto approssimativa, superficiale e selettiva in quanto  non tiene conto che nello stesso diritto comunitario il principio generale per cui il soggiorno di breve durata cessa se l’interessato diviene un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato ospitante necessita di un’applicazione non rigida, ma  flessibile e proporzionata, secondo i dettami e i criteri consolidati nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, recepita nel considerando n. 16 delle premesse alla direttiva n. 2004/38/CE e nell’art. 14 del testo, per cui “una misura di allontanamento non dovrebbe essere la conseguenza automatica del ricorso al sistema di assistenza sociale. Lo Stato membro ospitante dovrebbe esaminare se si tratta di difficoltà temporanee e tener conto della durata del soggiorno, della situazione personale e dell’ammontare dell’aiuto concesso […] In nessun caso una misura di allontanamento dovrebbe essere presa nei confronti di lavoratori subordinati, lavoratori autonomi o richiedenti lavoro, quali definiti dalla Corte di Giustizia, eccetto per motivi di ordine pubblico o pubblica sicurezza”. A tale fine, occorre ricordare che secondo l’art. 14 c. 4 lett. b) della direttiva, la persona in cerca di occupazione è protetta dall’espulsione, anche se ricorre al sistema di assistenza sociale, purchè possa dimostrare di essere alla ricerca di un posto di lavoro e di avere buone possibilità di trovarlo, recependosi così l’indicazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, che ha affermato che il diritto di soggiorno per cercare lavoro viene meno solo allorché si sia dimostrato che l’interessato “si trova nell’impossibilità oggettiva di ottenere un posto di lavoro” (sentenza del 26 maggio 1993, C-171/91, Tsiotras).

I rigidi automatismi previsti dal d.lgs. n 30/2007 di recepimento della direttiva europea n. 2004/38/CE che vincolano strettamente il diritto al soggiorno per un periodo superiore ai primi tre mesi  e fino al conseguimento del diritto al soggiorno permanente, al possesso dei mezzi di sostentamento definiti in base ai parametri dell’assegno sociale di cui al riferimento all’art. 29  comma 3 , lettera b) del d.lgs. n.286/98, non sembrano tenere sufficientemente conto degli obblighi di proporzionalità e flessibilità richiamati dall’art. 14 della direttiva europea, esponendo potenzialmente il nostro paese ad una procedura d’infrazione.

 

In secondo luogo, l’ordinanza del Sindaco del Comune di Azzano Decimo non tiene conto che il principio generale per cui il soggiorno di breve durata del cittadino comunitario cessa se l’interessato diviene un onore eccessivo per il sistema di assistenza sociale deve essere interpretato e armonizzato alla luce del diritto alla parità di trattamento e di non discriminazione nelle materie coperte dal Trattato, di cui agli artt. 12 e 39 del Trattato CE, dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (in materia di previdenza e assistenza sociale), delle norme del Regolamento CEE n. 1408/71 e successive modifiche (relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale dei lavoratori migranti subordinati, autonomi e loro familiari), ed in particolare agli artt. 3 e 4,  e dell’art. 7 del regolamento CEE n. 1612/1968 e successive modifiche, che estende il principio di parità di trattamento con i lavoratori nazionali a tutti “i vantaggi fiscali e sociali collegati alla condizione di lavoratore” . A riguardo del Regolamento CEE n. 1408/71, gli artt. 3 e 4  estendono ai lavoratori comunitari che hanno esercitato il diritto alla libera circolazione e dunque si trovano regolarmente nel territorio dello Stato membro le “prestazioni sociali in denaro a carattere non contributivo”  previste per i lavoratori nazionali ed incluse nell’allegato II bis (tra cui ad esempio l’assegno sociale, l’assegno e le pensioni di invalidità, pensioni ed indennità ai ciechi e sordomuti….). Ulteriormente, la giurisprudenza della Corte di giustizia europea ha interpretato in senso molto ampio la nozione di vantaggio sociale e fiscale di cui all’art. 7 del Regolamento n. 1612/68 come tutti quei vantaggi che, “connessi o no ad un contratto di lavoro, sono generalmente  attribuiti ai lavoratori nazionali, in ragione principalmente dello loro status obiettivo di lavoratori o del semplice fatto della loro residenza nel territorio nazionale, e la cui estensione ai lavoratori cittadini di altri Stati membri risulta quindi atta a facilitare la loro mobilità nell’ambito della Comunità” (sentenza della Corte di Giustizia del 31 maggio 1979, 207/78). Meritano di essere ricordati in proposito i casi in cui la Corte ha affermato il diritto del lavoratore migrante a fruire di agevolazioni finanziarie concesse ai nazionali in occasione della nascita di un figlio (sentenza del 14 gennaio 1982, 65/81, Reina),  alla riduzione sulle tariffe ferroviarie concesse da un ente ferroviario nazionale alle famiglie numerose (sentenza del 30 settembre 1975,n. 32/1975).

Il reddito di base di cittadinanza o reddito minimo di inserimento, così come previsto dall’art. 7 comma 1 d.lgs. n. 237/1998,  dall’art. 23 della legge n. 328/2000, e per quanto riguarda il territorio della  Regione F.V.G., dall’art. 59 della L.R. 31.03.2006 n. 6 non è incluso nell’elenco di cui all’allegato II bis del Regolamento CEE n. 1408/71 tra le prestazioni sociali non contributive che costituiscono diritti soggettivi per le quali va assicurato in base a tale strumento di diritto comunitario il principio di parità di trattamento tra cittadini nazionali e cittadini comunitari e di Stati terzi che hanno esercitato il diritto alla libera circolazione all’interno dell’Unione Europea. Ciononostante, esso costituisce senza ombra di dubbio un vantaggio sociale atto a facilitare la mobilità  nell’ambito della Comunità Europea e collegato alla qualità di lavoratore, ai sensi del Regolamento CEE n. 1612/68 in quanto –come indicato dall’art. 2.2 del Regolamento applicativo della norma regionale (Decreto Presidente della Regione n. 0278), “la misura ha l’obiettivo di fornire alle persone un aiuto per acquisire autonomia economia, inserimento sociale e capacità di perseguire il proprio progetto di vita”.

Si può dunque concludere che la prospettata volontà del Sindaco del Comune di Azzano Decimo di escludere i cittadini comunitari  dal sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza di cui alla L.R. 6/2006 ed in particolare dal Reddito di base di cittadinanza” di cui all’art. 59 della legge medesima e dal Regolamento attuativo di cui al Decreto del Presidente della Regione n. 0278,   che definisce quali beneficiari di tale diritto soggettivo i nuclei familiari, di cui almeno un componente che possa farne richiesta sia residente nel territorio regionale da almeno un anno, costituirebbe una palese violazione del principio di parità di trattamento tra lavoratori nazionali e lavoratori comunitari migranti in materia di vantaggi sociali di cui al Regolamento comunitario n. 1612/68. (6)

Parimenti, l’erogazione di tale beneficio ad un cittadino comunitario e ai suoi familiari, che abbiano esercitato legittimamente il diritto alla libera circolazione e al soggiorno nel nostro Paese, e siano dunque titolari delle apposite certificazioni di iscrizione anagrafica,  è atto consequenziale al rispetto di un diritto soggettivo dei medesimi scaturente dal principio di parità di trattamento di cui alle citate norme del diritto comunitario e non potrà mai essere di per sé soltanto presupposto per una procedura di allontanamento.

 

E’ giusto sottolineare, infine, che  l’applicazione della disciplina di cui al d.lgs. n. 30/2007 in materia di soggiorno dei cittadini comunitari e loro familiari richiede un coordinamento ed una collaborazione tra Comuni e le amministrazioni del  Ministero dell’Interno, spettando ai primi le decisioni in materia di registrazioni anagrafiche e ai secondi le decisioni in materia di allontanamento. Non appare, tuttavia,  conforme ai dettami dell’art. 14 della direttiva la disposizione dell’ordinanza del Comune di Azzano  Decimo per cui   ogni intervento di assistenza sociale eventualmente disposto a beneficio di un cittadino comunitario o di un suo familiare verrebbe segnalato all’autorità di pubblica sicurezza ai fini dell’emanazione di un eventuale provvedimento di allontanamento. Si rammenta, infatti, che l’art. 14 c. 2 della direttiva n. 2004/38 vieta  che verifiche sulle condizioni per il mantenimento del diritto al soggiorno dei cittadini comunitari e loro familiari vengano effettuate in maniera sistematica, con ciò vietandosi che possano instaurarsi prassi assimilabili a forme di ethnic profiling a danno di cittadini comunitari, in special modo se attuate principalmente o esclusivamente nei confronti di cittadini provenienti da determinati paesi o di determinate nazionalità. (7)

 

 

Per i titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti:

 

Appare francamente incomprensibile e di nessun fondamento il contenuto dell’ordinanza volto ad ordinare ai servizi sociali del Comune di Azzano Decimo il divieto all’erogazione di prestazioni sociali ai cittadini stranieri di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti di cui alla Direttiva n. 2003/109/CE, così come recepita in Italia con il d.gls. n. 3/2007 dd. 09.01.2007.

Il permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, anche al riguardo delle finalità del suo rilascio, è volto soprattutto a stabilire per lo straniero una condizione di avvenuta integrazione e radicamento nel territorio nazionale, ormai predisposta e prossima all’acquisizione della cittadinanza: ne è testimonianza non solo il fatto che il rilascio del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti sia “a tempo indeterminato”, ma anche  l’esplicita previsione di un principio di parità di trattamento  nella materia dell’assistenza sociale. Tale principio di parità di trattamento è rinvenibile tanto nel testo della direttiva europea di riferimento (art. 11 c. 1 lett. d))  (8) quanto nella legislazione nazionale di recepimento, al cui art. 9 c. 12 lett. c) del d.lgs. n. 286/98 così come modificato dal d.lgs. n. 3/2007 si afferma che: “oltre a quanto previsto per lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l’accesso alla procedura per l’ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale”.

La ventilata possibilità, dunque, che l’Amministrazione comunale di Azzano Decimo neghi prestazioni di assistenza sociale  ai cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti ovvero impedisca loro l’accesso alle prestazioni previste dalla legge regionale 6/2006, incluso il reddito base di cittadinanza,  costituirebbe dunque una palese violazione delle norme citate della direttiva europea n. 109/2003/CE, delle norme con le quali essa ha trovato recepimento in Italia (art. 9 e 9 bis del d.lgs. n. 286/98), dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/98, così come anche modificato dall’art. 80 della legge n. 388/2000, nonché delle norme nazionali e regionali in materia di realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Non ha alcun senso né fondatezza l’ulteriore ordine impartito dal Sindaco di Azzano Decimo di comunicare agli uffici di polizia l’eventuale concessione di prestazioni sociali a favore di cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, avendo in considerazione che il permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti viene rilasciato a tempo indeterminato e non può essere revocato per motivi legati alla condizione sociale e ai mezzi di sostentamento di colui che ne è in possesso, ma solo per motivi di pericolosità sociale in relazione ai criteri dell’ordine pubblico e sicurezza dello Stato.

 

 

Per i cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti:

 

Ai sensi del  disposto di cui agli all’ 4, comma 3 del d.lgs. n. 286/98, applicabile anche alla fattispecie del rinnovo del permesso di soggiorno in virtù del richiamo operato dall’art. 5 dello stesso decreto legislativo, si statuisce che viene consentito “l’ingresso nel territorio allo straniero che dimostri […] la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno”. Tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza, in tal modo non viene ad essere richiesto il possesso di un reddito in senso tecnico, bensì più genericamente, di mezzi di sussistenza, tra i quali possono ben ascriversi anche i sussidi e le prestazioni sociali erogate dagli enti locali, soprattutto se tali provvidenze economiche  costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente, come nel caso del reddito di base di cittadinanza previsto dalla L.R. 6/2006 del F.v.g.. Inoltre, sempre quanto al TU 286/98, occorre evidenziare che nessuna sua disposizione impone la dimostrazione di un quantum reddittuale per il rinnovo del permesso di soggiorno allo straniero che intenda svolgere attività lavorativa, essendo prevista la dimostrazione di un determinato reddito solo nell’ambito del ricongiungimento familiare (normativa, peraltro, oggi radicalmente modificata dal d.lgs. n. 5/07, che esclude ogni automatismo di astratte cause ostative alla titolarità del permesso di soggiorno familiare) . In tal senso, si può citare la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (30.04.2005, n. 1314) relativa al rinnovo del permesso di soggiorno di una cittadina immigrata percettrice di un compenso mensile come “borsa lavoro” erogato quale misura di sostegno ai disoccupati da parte del Comune di Torino.

In conclusione,  il diritto all’assistenza sociale per i lavoratori immigrati regolarmente soggiornanti in condizioni di parità di trattamento con i lavoratori nazionali è sancito innanzitutto da norme di diritto internazionale vincolanti per il nostro paese (Convenzione OIL n. 143/1975 e, limitatamente alle prestazioni che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente, dal Protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), nonché dalla normativa regionale di riferimento (L. R. n. 6/2006). Di conseguenza,  il legittimo godimento  delle prestazioni e benefici sociali da parte di  cittadini immigrati può certamente concorrere al soddisfacimento del requisito della disponibilità dei mezzi di sostentamento previsto dalla normativa sulla condizione giuridica dello straniero (TU n. 286/98) ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno. E’ erronea ed infondata la tesi del  Sindaco di Azzano Decimo, secondo cui le prestazioni sociali erogate a favore di cittadini immigrati costituirebbero di per sé soltanto il presupposto per un procedimento di allontanamento dal territorio nazionale.

 

 

Violazione delle norme del diritto anti-discriminatorio:

 

E’ del tutto evidente che l’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo istituisce un trattamento differenziato fondato unicamente sullo status civitatis del richiedente una prestazione sociale,  realizzando così nel contempo un autonomo profilo discriminatorio in violazione pure della normativa nazionale e di fonte europea in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali.

 

Si fa qui riferimento innanzitutto  all’art. 43 1° comma del Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/98), che  introduce una sorta di clausola generale di non discriminazione, riprendendo quanto contenuto nell’art. 1 della Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, firmata a New York in 7 marzo 1966 e ratificata dall’Italia con la legge 1.5.1975, n. 654.

In base a tale norma costituisce una discriminazione:

ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

La norma evita di restringere la protezione contro le discriminazioni al solo ambito lavorativo, ma prende bensì in considerazione quelle condotte che ledano i diritti umani e le libertà fondamentali anche in campo politico, economico, sociale e in ogni altro settore della vita pubblica.

Il legislatore ha poi formulato, nel secondo comma della disposizione, una tipizzazione delle condotte aventi sicuramente una valenza discriminatoria.

L’articolo prevede infatti che compia “in ogni caso” una discriminazione anche :

 

            a) “il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni  compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizioni di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnica o nazionalità, lo discriminino ingiustamente”; […]

 

c) “chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

(…)

Dall’esame della normativa citata, emerge chiaramente che per quanto riguarda i soggetti passivi,  una delle condizioni protette dalla normativa antidiscriminatoria è quella fondata sull’origine nazionale, intesa non soltanto come appartenenza etnico-razziale del soggetto, ma anche come cittadinanza straniera (discriminazione in ragione soltanto della condizione di straniero). (9)

 

Al D.lgs. n. 286/98 si è aggiunto successivamente il d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea 2000/43/CE che disciplina il principio di non discriminazione in ragione della razza e dell’origine etnica.

Dal considerando n. 12 della direttiva n. 2000/43/CE emerge che i divieti di discriminazione etnico-razziale coprono pure l’ambito delle prestazioni sociali: “Per assicurare lo sviluppo  di società democratiche  e tolleranti che consentono la partecipazione di tutte le persone  a prescindere  dalla razza o origine etnica, le azioni specifiche nel campo  della lotta contro le discriminazioni basata sulla razza o origine etnica dovrebbero andare al di là dell’accesso alle attività di lavoro (…) e coprire  ambiti quali (…) le prestazioni sociali, l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura”. Ciò viene ribadito nel testo della direttiva: “(…)la presente direttiva si applica a tutte le persone sia del settore pubblico  che del settore privato, (…), per quanto attiene: (…) f) alle prestazioni sociali; (…) h) all’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio.” (art. 3, poi recepito quasi letteralmente dall’art. 3 c. 1 lett. i) del d.lgs. n. 215/2003).

 

 

 Conclusioni:

 

-        La normativa regionale in materia di interventi e servizi per la promozione dei diritti di cittadinanza sociale (L.R. n. 6/2006) che stabilisce un principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri regolarmente soggiornanti in materia di accesso agli interventi e ai servizi del sistema integrato, incluso il reddito di base di cittadinanza di cui all’art. 59 e reso esecutivo con Decreto del Presidente della Regione n. 0278, è pienamente conforme agli obblighi costituzionali scaturenti dal rispetto delle norme dei  trattati internazionali vincolanti per l’Italia (Convenzione OIL n. 143/75 e Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Stabilendo norme più favorevoli con riferimento ai suoi destinatari rispetto alla normativa nazionale di riferimento (art. 41 del TU n. 286/98, legge  328/2000, art. 80 c. 19 l. 388/2000), quest’ultima  di dubbia legittimità costituzionale, la Regione F.V.G. ha esercitato le propria potestà legislativa nel pieno rispetto di quanto previsto dall’art. 117 della Costituzione.  Sulla base di una corretta ripartizione di compiti e funzioni, i Comuni, pertanto, non possono arrogarsi poteri derogatori relativamente alla definizione in astratto delle categorie dei beneficiari delle disposizioni in oggetto, che attengono esclusivamente alla potestà legislativa della regione, nei limiti del rispetto dei requisiti e standard minimi previsti dalla legislazione statale. L’ordinanza del Comune di Azzano Decimo, dunque, è illegittima in quanto interviene arbitrariamente in un ambito attinente la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni.

 

L’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo, oltrechè violare le sopraccitate fonti di diritto internazionale e la normativa regionale di riferimento, appare in contrasto con ulteriori disposizioni di diritto comunitario e nazionale, come di seguito riassunto:

 

-        Rispetto ai cittadini comunitari e loro familiari, i contenuti dell’ordinanza appaiono in violazione del principio di parità di trattamento di cui agli artt. 12  e 39 del Trattato CE, dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (in materia di previdenza e assistenza sociale), delle norme del Regolamento CEE n. 1408/71 e successive modifiche (relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale dei lavoratori migranti subordinati, autonomi e loro familiari), ed in particolare agli artt. 3 e 4,  e dell’art. 7 del regolamento CEE n. 1612/1968 e successive modifiche, che estende il principio di parità di trattamento con i lavoratori nazionali a tutti i vantaggi fiscali e sociali collegati alla condizione di lavoratore. La ventilata procedura di sistematica comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza di eventuali interventi sociali erogati  a favore di cittadini comunitari e loro familiari non appare conforme all’art. 14 della direttiva europea n. 2004/38.

-        Rispetto ai cittadini extracomunitari titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, i contenuti dell’ordinanza appaiono in violazione del principio di parità di trattamento in materia di prestazioni sociali previsto  della direttiva europea n. 109/2003/CE, delle norme con le quali essa ha trovato recepimento in Italia (art. 9 e 9 bis del d.lgs. n. 286/98), dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/98, così come anche modificato dall’art. 80 della legge n. 388/2000.

-        Rispetto ai cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti ed in possesso del permesso di soggiorno, l’ordinanza non tiene conto di una corretta interpretazione della norma del TU immigrazione n. 286/98 in materia di possesso dei mezzi di sostentamento ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno.

-        Inibendo l’esercizio del diritto all’assistenza sociale da parte dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, sulla base della sola condizione di stranieri dei medesimi, l’ordinanza mette in atto una discriminazione vietata dall’art. 43 c.1 e c. 2 lett. a) e c) del TU n. 286/98 e dall’art. 3 c. 1 lett.g) del d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea n. 2000/43/CE.

 

Per tali ragioni, sostenendosi la tesi della radicale infondatezza e illegittimità dell’ordinanza in oggetto, si richiede alla Giunta  regionale della Regione Friuli-Venezia Giulia di adottare, ai sensi dell’art. 60 della L.R. n. 6/2006, i provvedimenti sostitutivi   necessari ad assicurare nel territorio del comune di Azzano Decimo il rispetto delle norme della L.R. n. 6/2006 che sarebbero altrimenti violate ed inattuate  nei confronti dei cittadini stranieri, comunitari e non.

 

Si trasmette la presente segnalazione all’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità affinché anch’esso possa, eventualmente e se lo ritiene opportuno, formulare una raccomandazione ed un parere in merito, avvalendosi delle prerogative assegnategli dall’art. 7 c. 2 lett. b) e e) del D.lgs. n. 215/2003, in quanto Autorità Nazionale contro le discriminazioni razziali, costituita per effetto del recepimento della  direttiva europea n. 2000/43/CE.

 

Si segnala, inoltre, la presente alla Commissione Europea per l’eventuale accertamento della violazione delle norme di diritto comunitario e l’apertura di una procedura d’infrazione nei confronti della Repubblica Italiana.

 

Distinti Saluti.

 

 

       p. l’A.S.G.I. sez. reg. F.V.G.

Dott. Walter Citti

 

 

 

Note

 

 

(1) Art. 60 L.R. n. 6/2006: “In caso di mancato rispetto dei termini previsti per l’esercizio delle funzioni amministrative di cui alla presente legge o in caso di adozione di  atti in violazione di prescrizioni vincolanti, la Giunta Regionale, nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione, previa diffida ad adempiere entro un termine congruo, adotta i provvedimenti anche sostitutivi necessari ad assicurare il rispetto delle norme violate da parte degli enti locali”.

(2) L’art. 10 della Convenzione, infatti, così dispone: “Ogni Stato membro per il quale la Convenzione sia in vigore s’impegna a formulare ed attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze e agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di assistenza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le persone che in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio”. L’art. 2 c. 3 del d.lgs. n. 286/98 così dispone: “La Repubblica Italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”.

 (3) Art. 1 Protocollo n. 1: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale […]”. Art. 14 della Convenzione europea: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti  nella presente convenzione deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, sui beni di fortuna, nascita o altra condizione” [sottolineatura nostra]. Per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di prestazioni sociali si veda: Gaygusuz c. Austria, sent. 16/9/1996 relativa a un assegno di urgenza versato ai disoccupati che hanno cessato l’indennizzo ordinario, e finanziato da fondi pubblici; Petrovic c. Austria, sent. 27/3/1998, relativa all’assegno per congedo parentale; Wessels-Bergevoe c. Olanda, sent. 4/6/02 relativa al diritto a una pensione di vecchiaia in favore delle donne coniugate; Willis c. Regno Unito, sent. 11/06/02 relativa ad un prestazione forfetaria  per vedove e un assegno alle madri vedove versato per il periodo di custodia dei figli; Kowa Poirrez c. Francia, sent. 30/9/03 relativa all’assegno per i minorati adulti.

 (4) Il Tribunale di Brescia, con ordinanza  n. 615 dd 15 gennaio 2007, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, combinato con l’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 286/98, nella parte in cui riserva l’indennità di accompagnamento ai soli stranieri titolari di carta di soggiorno e non anche ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti e muniti di permesso di soggiorno. Sulla questione dei profili discriminatori contenuti nelle norme della legge finanziaria 2001 è intervenuto di recente anche l’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), il quale, in un parere del 30 settembre 2007 inviato all’INPS, al Ministero del Lavoro e a quello della Solidarietà Sociale, ha giudicato la norma in esame non conforme agli obblighi costituzionali e alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, in Newsletter Progetto Leader n. 11/ nov. 2007 disponibile on line sui siti: www.asgi.it e www.leadernodiscriminazione.it . Si è peraltro manifestata una giurisprudenza secondo la quale la norma in oggetto potrebbe essere oggetto di diretta disapplicazione da parte del giudice  senza nemmeno richiedere il rinvio alla Corte Costituzionale per l’esame della fondatezza della questione di legittimità costituzionale, come di recente affermato dal Tribunale di Pistoia (ordinanza del 23 marzo 2007, riprodotta sulla newsletter n. 7 del Progetto Leader, nonché sul numero 2/2007 della rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”, Franco Angeli Editore con commento a cura di William Chiaromonte ).

(5) In sostanza, le   previsioni di cui  all’art. 41 d.lgs. n. 286/98, all’art. 2 della legge n. 328/2000, all’art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000 sono  atte a definire una sorta di livello minimo, essenziale di prestazione concernente il diritto dello straniero alle prestazioni sociali, da garantirsi su tutto il territorio nazionale, non essendo dunque consentite disposizioni derogatorie ad opera di eventuali normative  regionali o, peggio ancora, di rango inferiore (delibere, ordinanze comunali o di enti di diritto pubblico locali), che definiscano standard   di trattamento  inferiori per i cittadini stranieri. Di converso,  eventuali misure regionali  maggiorative (“al rialzo”) rispetto a quanto garantito dallo Stato, non possono ritenersi in contrasto con l’art. 117 comma 2 lett. a ) della Costituzione. In proposito, si veda Luigi Gili, La condizione di reciprocità non può essere ragione di discriminazione nell’accesso all’edilizia residenziale pubblica in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, n. 2/2005, pp. 98 ss., Franco Angeli, Milano.

(6) Per un ulteriore riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia si cita la sentenza Collins (23 marzo 2004, c-138/02): “tenuto conto dell’istituzione della cittadinanza dell’Unione e dell’interpretazione giurisprudenziale del diritto alla parità di trattamento di cui godono i cittadini dell’Unione, non si può escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 48, n. 2., del Trattato [ora art. 39], il quale è un enunciato del principio fondamentale della parità di trattamento garantito dall’art. 6 del Trattato [ora art. 12], una prestazione di natura finanziaria destinata a facilitare l’accesso all’occupazione sul mercato del lavoro di uno Stato membro”, cit. in Condinanzi Lang Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, Giuffrè, Milano, 2006, pag 105.

(7) La raccomandazione n. 11 dell’ECRI (Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza), l’organo indipendente del Consiglio d’Europa specializzato nella lotta al razzismo e alla discriminazione razziale definisce il “racial profiling” come l’uso da parte delle agenzie di pubblica sicurezza di certe categorie quali l’appartenenza o l’origine razziale o etnica, il colore della pelle, la nazionalità, nelle attività di controllo, sorveglianza e investigazione, senza un obiettiva e ragionevole giustificazione. In sostanza, il “racial profiling” è principalmente la conseguenza  dell’uso di stereotipi diffusi all’interno degli appartenenti alle agenzie di pubblica sicurezza, per cui le persone appartenenti ad una determinata razza, etnia, nazionalità, religione, provenienza geografica, si presumono maggiormente inclini di altre al compimento di attività e atti criminosi e pertanto sono sottoposte ad una più intesa sorveglianza o a misure specifiche di controllo e investigazione, a prescindere dal  comportamento individuale o dall’esistenza di informazioni di intelligence che motivino tali misure.

(8) Vale la pena di sottolineare che il considerando n. 13 della direttiva n. 109/2003/CE indica il reddito minimo tra le misure da garantire in ogni caso in condizioni di parità di trattamento con i cittadini nazionali  ai titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, anche nei casi in cui gli Stati si avvalgano della possibilità di limitare tale principio  alle prestazioni  assistenziali aventi natura essenziale. Pertanto il reddito di base di cittadinanza di cui alla legge regionale F.V.G.  n. 6/2006 costituirebbe in ogni caso una prestazione assistenziale essenziale da erogare agli stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, residenti nel territorio regionale, in condizioni di parità con i cittadini italiani, anche qualora   l’Italia, nel recepire la direttiva , avesse inteso avvalersi – ma non l’ha fatto – della  possibilità di limitare l’estensione del principio di parità di trattamento a favore del titolare del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti alle sole   prestazioni di assistenza sociale aventi natura essenziale.

(9) Il divieto di discriminazione di cui all’art. 43 del T.U. immigrazione, sebbene inserito nella disciplina attinente alla condizione giuridica dei cittadini migranti di paesi terzi non appartenenti all’Unione Europea, trova applicazione anche rispetto ai cittadini comunitari quali possibili vittime del trattamento discriminatorio.  Infatti, la norma prevede espressamente, nel suo ultimo capoverso, che la tutela prevista contro i comportamenti discriminatori trovi applicazione anche nei casi in cui le vittime della discriminazione, in tutti i settori compresi dalla definizione dell’art. 43 T.U., siano cittadini italiani, comunitari e apolidi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIURISPRUDENZA ITALIANA

 

 

Il rifugiato riconosciuto ai sensi della Convenzione di Ginevra ha diritto alla parità di trattamento rispetto al cittadino italiano per quanto concerne il beneficio di  tutte le prestazioni assistenziali che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente. Una sentenza del Tribunale del Lavoro di Milano, dd. 31 gennaio 2008.



Con sentenza depositata il 31 gennaio 2008 la Sezione Lavoro del Tribunale di Milano ha accolto il ricorso presentato da un rifugiato contro l’INPS ed il Comune di Milano che avevano rifiutato di corrispondere l’indennità di accompagnamento al figlio minore riconosciuto invalido totale e permanente. Motivo del rifiuto la legge 388/2000 che ha modificato l’art. 41 del testo unico immigrazione e dispone che le provvidenze economiche “che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concesse...” ai soli stranieri titolari di carta di soggiorno. Per il Tribunale, invece, questa normativa di carattere generale non può trovare applicazione nei confronti dei rifugiati in quanto il loro status giuridico è del tutto peculiare ed è disciplinato dalla legge di ratifica della convenzione di Ginevra. In particolare, per quanto attiene alla materia dei diritti sociali, l’art. 24 equipara la condizione del rifugiato a quella del cittadino.
Questo principio è ora consolidato nell’art. 27 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 che attua la direttiva 2004/83/CE , recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul

contenuto della protezione riconosciuta.

L’art. 27 stabilisce infatti che “I titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria hanno diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria”.

 

 

Di seguito il testo integrale della sentenza del Tribunale di Milano

 

N. 8802/06 R.G.

                                                                                                                     N. 373 cron.

 

 

Repubblica Italiana

In Nome del Popolo Italiano

Tribunale di Milano

Sezione controversie di lavoro

 

Nella persona della dott.ssa Giovanna Beccarini Crescenzi, in funzione di giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

Nella causa iscritta al nr. 8802 R.G. 2006 di questo Ufficio promossa da

 

            N.K., in rappresentanza del figlio minore J.N., con i proc. dom. avv. A. Guariso, E. Polizzi, e L. Neri, viale Regina Margherita, n. 30, Milano

 

            RICORRENTE

 

Contro

            INPS, in persona del legale rappresentante pro tempore, con il proc. dom. avv. V. Capotorti, p.zza Missori n. 8/10, Milano

 

            COMUNE DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore, con i proc. dom. avv. M.R. Surano e S. Amendola, via della Guastalla, n. 8 Milano

 

            CONVENUTI

 

            MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore

 

            CONVENUTO – CONTUMACE

 

Oggetto: Indennità di accompagnamento

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con ricorso depositato il 5.12.2006 O.S.N. ha convenuto in giudizio l’INPS e il Comune di Milano per chiedere al giudice, previo il riconoscimento del diritto del ricorrente, in qualità di genitore esercente la potestà sul figlio minore J.N., a percepire l’indennità di accompagnamento, la condanna dell’INPS a corrispondere i ratei del suddetto trattamento con decorrenza dall’1.4.2005, primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda in via amministrativa, con interessi legali dal dovuto al saldo. A sostegno delle indicate domande, premesso di essere cittadino della R. e di essere giunto in Italia nel luglio 2002, con la moglie e il figlio J.N. e di aver ottenuto, in data 29.1.2004, lo status di rifugiato, ha fatto presente che N.J., per effetto delle gravi patologie di cui era affetto, necessitava di assistenza continua e che, pertanto, era stata proposta domanda in via amministrativa per ottenere il trattamento previsto dalla legge n. 18/1980;  che tuttavia, pur essendo stati riconosciuti i requisiti sanitari per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, la domanda era stata respinta per il fatto che egli non era in possesso della carta di soggiorno, secondo quanto richiesto dall’art. 80 c. 19, legge n. 388/2000 ed ha rilevato che il suddetto provvedimento era illegittimo, per violazione della Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio  1951 e ratificata con legge n. 722/1954 e, in subordine, ha eccepito l’illeggittimità costituzionale del citato art. 80, comma 19 per violazione degli artt. 2, 3, 10, 32 e 117 Cost.

            Ritualmente costituitosi, l’INPS ha eccepito la carenza di legittimazione passiva in ordine all’accertamento del requisito sanitario e dello status di invalido civile ed ha comunque rilevato che, a norma della legge n. 388/2000 e con effetto dall’01.01.2001, le provvidenze e le prestazioni di assistenza sociale non spettavano agli stranieri che fossero titolari del solo permesso di soggiorno, essendo invece necessaria la carta di soggiorno. L’istituto ha dunque chiesto, in via preliminare, la dichiarazione del suo difetto di legittimazione passiva, nel merito il rigetto delle domande attrici e in subordine la limitazione della pronuncia nei confronti dell’ente al semplice accertamento dell’obbligo di corrispondere la prestazione.

            Si è pure costituito il Comune di Milano che pure ha chiesto il rigetto delle avverse domande.

            All’udienza di discussione il procuratore di parte ricorrente dava atto del decesso di O.S.N. e il processo veniva interrotto.

            Il giudizio è stato dunque riassunto da N.K., madre esercente la potestà sul figlio minore J.N.

            Disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Amministrazione non si è costituita e ne è stata dichiarata la contumacia.

            Autorizzato il deposito di note difensive, all’udienza del 5.12.2007, la causa è stata discussa e decisa, come da dispositivo, pubblicamente letto.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

            Si rileva in primo luogo che non è fondata l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dall’INPS, posto che la normativa di cui al d.lgs. 112/98 (artt. 129 e 130) ha comunque trasferito all’INPS  la funzione di erogazione dell’indennità di accompagnamento di cui è causa, il suddetto ente, pertanto, è il soggetto al quale spetta la legittimazione a contraddire  in quanto titolare dal lato passivo dell’obbligazione fatta valere, mentre non può individuarsi nel Comune di Milano, ovvero nella ASL di residenza del ricorrente, cui la Regione Lombardia ha trasferito le provvidenze relative agli invalidi civili, il legittimato passivo. Infatti, la Regione può essere individuata quale contraddittore solo rispetto alle domande concernenti le prestazioni da essa stessa determinate, in aggiunta a quelle statali, da erogare integralmente con fondi propri (cfr., tra le altre, Cass. 2.4.2004, n. 6565, Cass. 20.4.2004, n. 15347, Cass. 16.6.2004, n. 17970). Va pertanto dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Comune di Milano.

Inoltre il Ministero dell’Economia e delle Finanze è contraddittore necessario nell’ambito del presente giudizio, siccome previsto dall’art. 42 d.l. 30.09.2003 n. 26, il quale dispone che gli atti introduttivi dei procedimenti giurisdizionali concernenti l’invalidità civile, la cecità civile, il sordomutismo…devono essere notificati anche al Ministero dell’Economia e delle Finanze…Nei predetti giudizi il Ministero dell’Economia e delle Finanze è liticonsorte necessario, mentre solo per i procedimenti iniziati dopo l’1.4.2007, il Ministero stesso non ha più tale qualità e l’unico soggetto che deve essere evocato in giudizio è l’INPS.

            Venendo al merito, le domande attrici meritano integrale accoglimento per le considerazioni che seguono.

            Si rileva in primo luogo che nella specie non è contestata la sussistenza dei requisiti di carattere sanitario necessari per il riconoscimento del trattamento in discussione, infatti nel verbale della Commissione Medica si riconosce che nei confronti di N.J. “è stata accertata l’invalidità totale e permanente unitamente al bisogno di assistenza continua (legge n. 18/1980)”.

            L’erogazione del trattamento è stata negata in considerazione del disposto dell’art. 80 c. 19, legge n. 388/2000, che dispone testualmente: “Ai sensi dell’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in  materia di servizi sociali sono concesse alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno…”.

            Il citato art. 41 disciplinava proprio i casi in cui agli “stranieri” erano “equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche” e, prima della modifica, richiedeva all’uopo la titolarità della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno”. Su detta norma ha inteso intervenire il legislatore, limitando le categorie di “stranieri” aventi diritto a quelle provvidenze.

            Tale disciplina, di carattere generale, a parere del giudicante, non può trovare applicazione nei confronti dei rifugiati. Rispetto a questi ultimi l’equiparazione al cittadino era già statuita nella Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati con la legge n. 722/1954, la quale all’art. 23 stabilisce che “in materia di assistenza pubblica, gli Stati contraenti concederanno ai rifugiati residenti regolarmente sul loro territorio lo stesso trattamento concesso ai cittadini” e all’art. 24 dispone: “Gli Stati contraenti concederanno ai rifugiati residenti regolarmente sul loro territorio lo stesso trattamento concesso ai cittadini per quanto riguarda le seguenti materie:…b) le assicurazioni sociali (le disposizioni di legge relative ad infortuni sul lavoro, malattie professionali, maternità, malattia,vecchiaia, invalidità, morte, disoccupazione, carichi di famiglia e così pure ogni altro rischio che, conformemente alla legislazione nazionale, coperto da una forma di assicurazione sociale), salvo: ….ii) particolari disposizioni della legge nazionale del Paese di residenza, relative alle prestazioni o frazioni di prestazioni pagabili interamente da fondi pubblici come pure ai contributi versati a coloro che non hanno raggiunto la quota richiesta per ottenere una normale pensione”.

            Le disposizioni contenute nell’art. 41 d.lgs. n. 286/98 sono volte ad estendere determinati diritti dei cittadini agli stranieri e quelle del successivo art. 80 legge n. 388/2000 a disciplinare, con ulteriori limiti, tale estensione, esse non possono trovare applicazione nel caso in specie, in considerazione della loro generica formulazione e del difetto di qualsiasi specifico riferimento ai rifugiati, titolari di uno status particolare, oggetto di specifica disciplina nella sopra richiamata convenzione e, per quel che qui interessa, già equiparati ai cittadini per effetto dell’art. 24 citato. In mancanza appunto di uno specifico riferimento alla categoria dei rifugiati, le sopra richiamate norme non possono essere interpretate quali disposizioni della legge nazionale intese ad introdurre quelli specifici limiti, ammissibili ai sensi dell’art. 24 punto ii), alla statuizione del I comma, lett. b) della stessa disposizione, che sancisce l’impegno degli stati contraenti di concedere ai rifugiati lo stesso trattamento concesso ai cittadini nella materia in esame.

            In definitiva, la disciplina generale, non può, in difetto di specifica estensione, derogare dalla normativa speciale disciplinante la condizione del rifugiato. A conforto della conclusione assunta, va rilevato che l’art. 1 del d.lgs. n. 286/98, che definisce l’ambito di applicazione della relativa normativa, dispone testualmente: “Sono fatte salve le disposizioni interne, comunitarie ed internazionali più favorevoli comunque vigenti nel territorio dello Stato”.

            Né può dubitarsi, tenuto conto anche delle ragioni che determinano il riconoscimento di tale condizione, dell’applicazione della citata normativa nei confronti sia della ricorrente, che agisce quale esercente la potestà sul figlio e che ha ottenuto il riconoscimento del suddetto status, sia, conseguentemente, nei confronti del minore, privo della capacità di agire.

            Le considerazioni che precedono hanno carattere assorbente e determinano l’accoglimento delle domande attrici; l’INPS va dunque condannato, quale ente erogatore della prestazione di cui è causa, al pagamento della indennità di accompagnamento dall’1.4.2005, primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda in via amministrativa, oltre interessi legali dal 121° giorno successivo alla domanda amministrativa per i ratei maturati fino a tale momento e delle rispettive scadenze per quelli successivamente maturati e comunque sino al saldo effettivo.

            Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in euro 50 per spese, euro 600,00 per diritti ed euro 950,00 per onorari, oltre, come per legge, IVA e CPA e successive occorrende, da distrarsi in favore del procuratore anticipatario.

            Ricorrono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di liti per il resto.

 

P.Q.M.

            Il Giudice,

            Dichiara il difetto di legittimazione passiva del Comune di Milano; accerta il diritto di J.N. alla indennità di accompagnamento ex L. 18/80 con decorrenza l’1.4. 2005; conseguentemente condanna l’INPS a corrispondere il relativo trattamento a N.K., in rappresentanza del figlio minore J.N., con interessi legali dal dovuto al saldo; condanna l’INPS a rifondere alla parte ricorrente le spese di lite, liquidate in euro 1,600 complessivi, oltre IVA e Cpa, da distrarsi in favore di procuratori anticipatari; compensa le spese di lite per il resto.

 

Milano, 5.12.2007

                                                                                  Il Giudice

 

Depositato in cancelleria del Tribunale il 31 gennaio 2008

Il cancelliere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIURISPRUDENZA COMUNITARIA

 

 

 Un giudizio preliminare della Corte di Giustizia europea riconosce la portata applicativa delle direttive europea in materia di non discriminazione e parità di trattamento (Direttiva “Razza” n. 2000/43/CE e Direttiva “Occupazione” n. 2000/78/CE) anche ai casi di “discriminazione per associazione”, quando cioè, pur non essendo in possesso delle caratteristiche fondanti la discriminazione, si viene ugualmente discriminati o maltrattati in quanto ci si trova in stretto rapporto con le persone aventi queste caratteristiche.

 

Una donna italiana si rivolge ad un’agenzia immobiliare per trovare un alloggio in locazione per sé e per i propri famigliari, ma non appena l’agente immobiliare viene a sapere che il marito della donna è un immigrato di colore di origine africana, rifiuta di proseguire le trattative.

Un gruppo di amici, uno dei quali Rom, vuole fare ingresso in un locale notturno, ma vengono respinti dal personale  in ragione della presenza della persona di etnia  Rom.

Un impiegato di un’ agenzia di fornitura di lavoro rifiuta di adeguarsi alle richieste di alcune imprese, avvallate dal management dell’agenzia,  di non  segnalare immigrati di determinate provenienze quali candidati a posti di lavoro vacanti, e per tale ragione viene  licenziato.

Un attivista non Rom di un’associazione che si occupa della tutela di un gruppo di Rom sul proprio territorio viene discriminata da parte dei funzionari del proprio comune di residenza nell’erogazione di una prestazione sociale ovvero viene molestata sul proprio luogo di lavoro in ragione nell’attività di volontario che svolge.

 

Tali situazioni non sono infrequenti nella casistica delle discriminazioni etnico- razziali o religiose e vengono definite quali “discriminazioni per associazione” . In sostanza, la vittima subisce la discriminazione non in ragione di una sua personale appartenenza ad una determinata categoria etnico-razziale o religiosa, ma in quanto associata o frequentante persone, familiari o amici, appartenenti a dette categorie oggetto di discriminazione. Ci si è chiesti se le  definizioni di discriminazione diretta, discriminazione indiretta e molestia  contemplate nelle direttive europee n. 2000/43 (“Razza”) e n. 2000/78 (“Occupazione”) siano suscettibili di comprendere e conseguentemente di offrire un quadro di protezione legale anche contro tali forme di  “discriminazioni per associazione”; in altri termini, se chi subisca una discriminazione in ragione di una delle caratteristiche protette dalle direttive in oggetto, possa avvalersi della tutela predisposta dalle direttive medesime pur non possedendo egli stesso una di queste caratteristiche.  

Un’interpretazione favorevole al riguardo giunge dal recente  giudizio preliminare della Corte di giustizia europea nel caso S. Coleman contro Attridge Law e  Steve Law, il quale  ha riconosciuto  ai parenti di disabili la "discriminazione per associazione". Il pronunciamento dell’avvocato generale si riferisce  al caso di una segretaria britannica licenziata perché chiedeva un orario flessibile sul lavoro per accudire il figlio disabile. La Corte di Giustizia Europea ha così concluso: “la tutela predisposta dalla direttiva 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, si estende anche a coloro che, benché non disabili essi stessi, subiscano una discriminazione diretta e/o molestie in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in quanto si trovano in stretto rapporto con una persona disabile” (Conclusioni dell’Avvocato generale M. Poiares Maduro presentate il 31 gennaio 2008 Causa C-303/06 S. Coleman contro Attridge Law e Steve Law [domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Employment Tribunal, London South (Regno Unito)], disponibile sul sito della Corte di Giustizia europea: http://curia.europa.eu/it/transitpage.htm. Sebbene il pronunciamento preliminare della Corte Europea di Giustizia riguardi un caso di discriminazione per disabilità, in relazione alla direttiva europea n. 2000/78/CE, il ragionamento è suscettibile di estendersi per analogia a tutte le altre situazioni di discriminazione previste tanto dalla direttiva n. 2000/78 (credo religioso, età, omosessualità) quanto dalla direttiva n. 2000/43 (razza, origine etnica). Secondo l’avvocato generale della Corte di Giustizia, la direttiva opera «a livello dei motivi della discriminazione» [par. 22], per cui «la direttiva non entra in gioco soltanto quando la vittima della discriminazione sia essa stessa disabile, bensì ogniqualvolta sia dedotto un trattamento sfavorevole fondato sulla disabilità» par. 23]. «L’ostilità di un datore di lavoro [nei confronti di una della categorie protette dalle direttive europee] può esprimersi apertamente, prendendo di mira persone che abbiano esse stesse determinate caratteristiche, oppure in modo sottile e dissimulato, prendendo di mira coloro che si trovino in stretto rapporto con le persone aventi questa caratteristiche;…il secondo caso è esattamente identico sotto il profilo sostanziale. In entrambi i casi, è l’ostilità del datore di lavoro nei confronti delle persone anziane, disabili, omosessuali o appartenenti ad un determinato credo religioso [ma anche ad una determinata razza, o appartenenza etnica n.d.r.] a indurlo  a trattare determinanti dipendenti in modo meno favorevole» [par. 22].

Per un approfondimento sull’argomento si rimanda a :  W. Citti, La discriminazione a causa dell’ associazione con persone di determinata appartenenza razziale, etnica o religiosa. Quale protezione per familiari e amici? Un caso dinanzi alla Corte  Europea di Giustizia, in Newsletter Progetto Leader n. 9/2007, disponibile on line sui siti: www.leadernodiscriminazione.it o www.asgi.it

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale delle conclusioni dell’avvocato generale della Corte Europea di Giustizia nel caso S. Coleman contro Attridge Law e Steve Law (Causa C- 303/06), 31 gennaio 2008.

 

 

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

M. POIARES MADURO

presentate il 31 gennaio 2008 1(1)

Causa C‑303/06

S. Coleman

contro

Attridge Law

e

Steve Law

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Employment Tribunal, London South (Regno Unito)]

 

1.        La presente ordinanza di rinvio pregiudiziale, proposta alla Corte dal South London Employment Tribunal, solleva per la prima volta un’importante questione in merito all’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (2) (in prosieguo: la «direttiva»). Il giudice del rinvio chiede se il divieto di discriminazione sancito dalla direttiva ricomprenda il caso in cui una lavoratrice sia trattata in modo meno favorevole dei suoi colleghi in quanto, ancorché non disabile essa stessa, si trova in stretto rapporto con una persona disabile.

I –    Contesto di fatto e questioni pregiudiziali

2.        La ricorrente nella causa principale, sig.ra Sharon Coleman, dal 2001 ha lavorato come segretaria per lo studio legale di solicitors Attridge Law di Londra, del quale il sig. Steve Law è uno dei soci. Nel 2002 essa ha avuto un figlio, disabile in quanto affetto da broncomalacia e laringomalacia congenita. È lei a prendersene cura principalmente.

3.        Il 4 marzo 2005 la ricorrente ha accettato di rassegnare le proprie dimissioni, cessando di lavorare per lo studio Attridge Law. Il 30 agosto 2005 ha proposto ricorso contro i suoi ex datori di lavoro per licenziamento addebitabile a comportamento di questi ultimi e per discriminazione fondata sulla disabilità, sostenendo di essere stata trattata in maniera meno favorevole rispetto ai colleghi con figli non disabili e di aver subito una serie di comportamenti tali da circondarla da un’atmosfera ostile. A titolo di esempio del trattamento discriminatorio subito, essa narra che i suoi datori di lavoro le hanno negato la possibilità di riprendere le mansioni precedenti al termine del suo congedo per maternità; l’hanno tacciata di «pigrizia» quando ha chiesto permessi per prendersi cura del figlio, negandole la stessa flessibilità nell’orario di lavoro concessa invece ai colleghi con figli non disabili; l’hanno accusata di servirsi del suo «fottuto bambino» per manipolare le sue condizioni di lavoro; l’hanno sottoposta ad azione disciplinare e, infine, hanno omesso di trattare correttamente un precedente reclamo dalla stessa proposto per trattamento lesivo.

4.        Dinanzi al giudice del rinvio, la sig.ra Coleman si è appellata alla legislazione nazionale pertinente, in particolare al Disability Discrimination Act 1995 e alla direttiva. Essa afferma che la direttiva è intesa a vietare la discriminazione non soltanto nei confronti delle persone esse stesse disabili, ma anche nei confronti di coloro che siano vittime di discriminazione in quanto si trovano in stretto rapporto con una persona disabile. Il giudice nazionale dovrebbe a suo parere interpretare il Disability Discrimination Act in conformità alla direttiva e riconoscere quindi una tutela contro la cosiddetta discriminazione per associazione. I convenuti nella causa principale sostengono per contro che l’Act tutela soltanto i disabili e che la direttiva non ricomprende i casi di discriminazione per associazione.

5.        Il ricorso della sig.ra Coleman potrà essere accolto soltanto ove la direttiva debba essere interpretata nel senso che essa vieta la discriminazione per associazione. Il giudice del rinvio, pertanto, non ha proseguito nell’accertamento dei fatti e nell’esame del merito, sospendendo invece il procedimento su tali punti e disponendo un’udienza preliminare diretta ad affrontare soltanto la questione se la discriminazione per associazione sia o meno vietata. A seguito dell’udienza, il giudice a quo ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se, nell’ambito del divieto di discriminazione fondata sulla disabilità, la direttiva tuteli contro la discriminazione diretta e contro le molestie soltanto persone esse stesse disabili.

2)      In caso di risposta negativa alla questione 1), se la direttiva tuteli i lavoratori che, pur non essendo essi stessi disabili, vengono trattati in modo meno favorevole o subiscono molestie a causa del loro stretto rapporto con una persona disabile.

3)      Qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore in modo meno favorevole rispetto al modo in cui tratta o tratterebbe altri lavoratori, e qualora sia accertato che il motivo di tale trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un figlio disabile del quale si prende cura, se tale trattamento integri una discriminazione diretta, in violazione del principio della parità di trattamento stabilito dalla direttiva.

4)      Qualora un datore di lavoro molesti un lavoratore, e qualora sia accertato che il motivo di tale trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un figlio disabile del quale si prende cura, se tali molestie integrino una violazione del principio della parità di trattamento stabilito dalla direttiva».

II – Analisi

6.        Le quattro questioni sottoposte alla Corte dall’Employment Tribunal si risolvono in un’unica questione di diritto: se la direttiva tuteli le persone non disabili che, sul lavoro, subiscono una discriminazione e/o molestie in quanto si trovano in stretto rapporto con una persona disabile.

7.        La direttiva è stata adottata in forza dell’art. 13 CE, aggiunto al Trattato CE dal Trattato di Amsterdam, che dispone quanto segue: «Fatte salve le altre disposizioni del presente Trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali». La prima cosa da notare in merito all’art. 13 CE è che esso individua specifiche cause di discriminazione, che tratta come cause sospette, o, per mutuare un termine dal diritto costituzionale degli Stati Uniti d’America, come «categorie sospette» (3), facendo di loro l’oggetto di tutela della normativa comunitaria antidiscriminazione. In forza di tale ampia previsione, provvedimenti normativi possono essere adottati allo scopo di lottare contro la discriminazione fondata sulle cause ivi elencate. Sebbene il Consiglio goda di una notevole discrezionalità nell’adozione di provvedimenti che si attagliano a particolari circostanze e contesti sociali, l’art. 13 CE non può essere interpretato in modo da consentire l’adozione di norme incompatibili con la sua ratio e che limitino l’ambito della tutela che gli autori del Trattato intendevano offrire. Di conseguenza, la normativa adottata sulla base dell’art. 13 CE deve essere interpretata alla luce degli obiettivi perseguiti dall’art. 13 stesso (4).

8.        L’art. 13 CE è un’espressione dell’impegno dell’ordinamento giuridico comunitario nell’assicurare il principio di parità di trattamento e di non discriminazione. Pertanto, qualunque interpretazione di questo articolo, nonché delle direttive adottate su tale fondamento giuridico, dev’essere intrapresa alla luce della giurisprudenza della Corte su tali principi (5). La direttiva stessa enuncia, all’art. 1, che il suo obiettivo è quello di «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni (…) al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (il corsivo è mio). La giurisprudenza della Corte è chiara quanto al ruolo della parità di trattamento e del divieto di discriminazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico comunitario. L’uguaglianza non è soltanto un ideale politico e un’aspirazione, ma uno dei principi fondamentali del diritto comunitario (6). Come la Corte ha dichiarato nella sentenza Mangold, la direttiva costituisce un aspetto pratico del principio di uguaglianza (7). Al fine di determinare che cosa il principio di uguaglianza impone in ogni caso di specie, vale la pena di ricordare i valori ad esso sottesi. Si tratta della dignità umana e dell’autonomia della persona.

9.        La dignità umana ricomprende, come contenuto minimo indispensabile, il riconoscimento del fatto che ogni essere umano ha uguale valore. La vita ha valore per il semplice fatto di appartenere a un essere umano, e non vi è vita che abbia più o meno valore di un’altra. Come Ronald Dworkin ci ha recentemente rammentato, anche quando siamo in profondo disaccordo su questioni di moralità politica, sulla struttura delle istituzioni politiche e sul funzionamento dei nostri Stati democratici, continuiamo tuttavia a condividere l’attaccamento a questo principio fondamentale (8). Pertanto, i singoli e le istituzioni politiche non devono agire in modo da rinnegare l’intrinseca importanza di ogni vita umana. Un valore pertinente, ma diverso, è quello dell’autonomia della persona. Esso impone che i singoli siano in grado di determinare e di condurre la propria esistenza attraverso una serie successiva di scelte tra diverse opzioni (9). L’esercizio dell’autonomia presuppone che alle persone sia data una gamma di opzioni entro la quale scegliere. Quando ci si comporta come agenti autonomi e si decide come condurre la propria vita, allora «si concretizzano l’integrità della persona, il senso di dignità e il rispetto per se stessi» (10).

10.      Scopo dell’art. 13 CE e della direttiva è tutelare la dignità e l’autonomia degli appartenenti alle citate categorie sospette. Il modo più ovvio in cui la dignità e l’autonomia di una persona del genere possono essere lese è che tale persona sia direttamente presa di mira in quanto possiede una caratteristica sospetta. Trattare qualcuno in modo sfavorevole sulla base di ragioni quali il credo religioso, l’età, la disabilità e l’orientamento sessuale lede quel valore speciale ed unico che le persone traggono dal loro essere umani. Riconoscere uguale valore ad ogni essere umano significa che occorre essere ciechi a considerazioni di questo tipo allorché si impone un onere su qualcuno o si priva qualcuno di un vantaggio. In altre parole, si tratta di caratteristiche che non dovrebbero giocare alcun ruolo quando si tratti di valutare se sia giusto trattare qualcuno in modo meno favorevole.

11.      Analogamente, l’impegno a garantire l’autonomia significa che nessuno dev’essere privato di opzioni in settori di importanza fondamentale per la sua vita in ragione della sua appartenenza a una delle categorie sospette. L’accesso al lavoro e alla crescita professionale ha un significato fondamentale per chiunque, non soltanto come mezzo di sostentamento ma anche come strumento importante di appagamento personale e di realizzazione delle proprie potenzialità. Il discriminatore che discrimina un individuo appartenente a una categoria sospetta lo priva ingiustamente di opzioni. Di conseguenza, la capacità di tale persona di condurre una vita autonoma risulta seriamente compromessa, in quanto un aspetto importante della sua vita viene plasmato non dalle sue proprie scelte bensì dal pregiudizio di qualcun altro. Trattando le persone appartenenti a tali gruppi in modo meno favorevole a causa delle loro caratteristiche, il discriminatore impedisce loro di esercitare la loro autonomia. A questo punto, è equo e ragionevole che intervenga la normativa antidiscriminazione. In sostanza, attribuendo valore all’uguaglianza e impegnandoci nella realizzazione dell’uguaglianza attraverso la legge, miriamo a sostenere la possibilità per ciascuno di condurre una vita autonoma.

12.      Tuttavia, prendere di mira direttamente una persona avente una particolare caratteristica non è l’unico modo di discriminarla; ve ne sono anche altri, più sottili e meno ovvi. Un modo di ledere la dignità e l’autonomia delle persone appartenenti a un certo gruppo è quello di prendere di mira non loro, ma terzi che siano con essi in stretto rapporto pur non appartenendo essi stessi al gruppo. Una concezione solida dell’uguaglianza impone che anche queste forme di discriminazione più sottili rientrino nell’ambito di applicazione della normativa antidiscriminazione, in quanto anch’esse danneggiano le persone appartenenti alle categorie sospette.

13.      Invero, la dignità della persona avente una caratteristica sospetta è lesa tanto nel momento in cui viene discriminata direttamente quanto nel momento in cui vede qualcun altro patire una discriminazione per il semplice fatto di essere in rapporto con lei. In questo modo, la persona che sia la vittima immediata della discriminazione non solo soffre un torto essa stessa, ma diventa anche lo strumento attraverso il quale viene lesa la dignità della persona appartenente ad una categoria sospetta.

14.      Inoltre, questa più sottile forma di discriminazione pregiudica la capacità delle persone aventi una caratteristica sospetta di esercitare la propria autonomia. Ad esempio, l’autonomia degli appartenenti a un gruppo religioso può essere compromessa (si pensi al momento in cui si tratta di decidere chi sposare o dove vivere) qualora essi sappiano che la persona che sposeranno subirà probabilmente una discriminazione in ragione dell’appartenenza religiosa del coniuge. La stessa cosa può avvenire, sebbene in misura minore, nel caso dei disabili. Le persone appartenenti a determinati gruppi sono spesso più vulnerabili della gente comune, cosicché debbono fare affidamento su coloro con i quali sono in stretto rapporto per essere aiutate nello sforzo di vivere una vita conforme alle scelte fondamentali da esse effettuate. Quando il discriminatore priva qualcuno di opzioni in settori che sono di importanza fondamentale per la sua vita in ragione del fatto che costui si trova in stretto rapporto con una persona avente una caratteristica sospetta, allora esso priva anche quella persona delle sue opzioni e le impedisce di esercitare la propria autonomia. In altre parole, la persona appartenente alla categoria sospetta è esclusa da una gamma di possibilità che altrimenti le sarebbero state aperte.

Modalità di funzionamento della direttiva

15.      Il legislatore comunitario ha adottato la direttiva al fine di tutelare, nel settore dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, le persone appartenenti alle categorie sospette e di assicurare che la loro dignità e autonomia non siano compromesse né da discriminazioni ovvie e immediate, né da discriminazioni sottili e meno ovvie. Un’indicazione delle modalità per conseguire tale scopo già risulta dall’art. 1 della direttiva, ai sensi del quale «la presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondatesulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (il corsivo è mio).

16.      Importanti sono, qui, i termini «fondate su». È un principio comune tanto del diritto quanto della filosofia morale che non ogni discriminazione è sbagliata. Nel settore dell’occupazione, ad esempio, è perfettamente ammissibile che un datore di lavoro assuma un candidato responsabile, affidabile e ben educato, escludendo invece i candidati irresponsabili, inaffidabili e maleducati. Per contro, reputiamo sbagliato respingere qualcuno a causa della sua razza o religione, e nella maggior parte dei sistemi giuridici interviene la legge ad evitare che discriminazioni del genere abbiano luogo. Ciò che consente di determinare se il comportamento del datore di lavoro sia ammissibile oppure no, e fa scattare l’intervento della legge, è il motivo della discriminazione su cui il datore di lavoro si fonda nel singolo caso.

17.      Il fatto che l’illiceità della discriminazione dipenda dai motivi sui quali si basa si rispecchia nel modo in cui la pertinente normativa è strutturata. Virtualmente, tutte le normative antidiscriminazione vietano le discriminazioni fondate su una serie di motivi specificati. È questa la strategia seguita dal legislatore comunitario nella direttiva, che proscrive le discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età e le tendenze sessuali. Il principale obbligo imposto da una normativa antidiscriminazione, quale la direttiva, è quello di trattare le persone in un certo modo, analogo a come sono trattati gli altri (11). Adottando la direttiva, il Consiglio ha chiarito che è illecito che un datore di lavoro si fondi su uno dei detti motivi per sfavorire un dipendente rispetto agli altri. Nel momento in cui si accerta che il comportamento del datore di lavoro si fonda su uno dei motivi vietati si entra nel reame della discriminazione illecita.

18.      Nel senso innanzi delineato, la direttiva assolve una funzione di esclusione: esclude cioè le convinzioni religiose, l’età, l’handicap e le tendenze sessuali dal novero delle ragioni ammissibili sulle quali un datore di lavoro può legittimamente fondarsi per trattare un dipendente in modo meno favorevole di un altro. In altre parole, dopo l’entrata in vigore della direttiva non è più ammissibile che considerazioni del genere entrino nel ragionamento del datore di lavoro allorché decide di trattare un dipendente in modo meno favorevole.

19.      La direttiva vieta la discriminazione diretta (12), le molestie (13) e la discriminazione indiretta (14). Caratteristica della discriminazione diretta e delle molestie è che esse implicano un rapporto necessario rispetto a una particolare categoria sospetta. Il discriminatore fa riferimento a una categoria sospetta per agire in un determinato modo. La categoria non è una mera contingenza ma serve come premessa essenziale del suo ragionamento. Il fatto che un datore di lavoro si fondi su tali motivi sospetti è visto dall’ordinamento giuridico comunitario come un male da estirpare. È perciò che la direttiva vieta l’uso di tali categorie come motivi sui quali il ragionamento di un datore di lavoro può fondarsi. Per contro, nei casi di discriminazione indiretta le intenzioni del datore di lavoro e le ragioni che lo inducono ad agire o a non agire sono irrilevanti. In realtà, è proprio questo l’elemento caratterizzante del divieto di discriminazione indiretta: misure e politiche adottate senza alcun intento discriminatorio, ancorché neutre, innocenti o in buona fede, ricadranno nell’ambito del divieto qualora il loro impatto sulle persone aventi una particolare caratteristica sia maggiore del loro impatto sugli altri (15). È questo «diverso impatto» di tali misure su determinate persone ad essere preso di mira dalla normativa che vieta le discriminazioni indirette. Il divieto di tali discriminazioni collima con l’obbligo per il datore di lavoro di accogliere questi gruppi adottando provvedimenti e orientando le proprie politiche in modo da non imporre su di loro un onere eccessivo rispetto a quello imposto sugli altri (16). In tal modo, mentre il divieto di discriminazione diretta e di molestie opera come meccanismo di esclusione (escludendo che il ragionamento del datore di lavoro possa fondarsi su determinati motivi), il divieto di discriminazione indiretta opera come meccanismo di inclusione (obbligando i datori di lavoro a prendere in considerazione e ad accogliere le esigenze di soggetti aventi determinate caratteristiche). Per questa ragione, quand’anche dovessimo accogliere l’argomento del governo del Regno Unito, secondo il quale la discriminazione per associazione si pone chiaramente al di fuori dell’ambito di applicazione del divieto di discriminazione indiretta, ciò non significherebbe affatto che essa esuli anche dalla sfera del divieto di discriminazione diretta e di molestie. Al contrario, includere la discriminazione per associazione nell’ambito di applicazione del divieto di discriminazione diretta e di molestie costituisce la conseguenza naturale del meccanismo di esclusione mediante il quale opera il divieto di questo tipo di discriminazione.

20.      Il caso della sig.ra Coleman solleva una questione di discriminazione diretta. Come risulta chiaramente dall’ordinanza di rinvio, essa non lamenta che un provvedimento neutro abbia avuto su di lei un impatto in quanto madre e persona che si prende cura di un figlio disabile, ma afferma di essere stata isolata e presa di mira dal suo datore di lavoro proprio a causa del figlio disabile. La questione che si pone alla Corte, pertanto, consiste nell’accertare se la discriminazione diretta per associazione sia vietata dalla direttiva.

21.      È chiaro che, se la ricorrente stessa fosse stata disabile, la direttiva avrebbe trovato applicazione. Tuttavia, nel caso di specie, si allega che il trattamento discriminatorio sia stato innescato dalla disabilità del figlio della ricorrente. Dunque, il disabile e la vittima palese della condotta discriminatoria non sono la stessa persona. Ciò rende la direttiva inapplicabile? Alla luce dell’analisi sin qui svolta, ritengo di no.

22.      Come già detto, per effetto della direttiva è inammissibile che un datore di lavoro faccia riferimento alla religione, all’età, alla disabilità o all’orientamento sessuale per trattare un dipendente in modo sfavorevole rispetto agli altri. Un tale comportamento equivarrebbe a sottoporre queste persone a un trattamento ingiusto, in violazione della loro dignità e autonomia. Questa circostanza non cambia qualora la dipendente oggetto di discriminazione non sia essa stessa disabile. Il motivo che funge da base per la discriminazione che essa patisce continua ad essere la disabilità. La direttiva opera a livello dei motivi della discriminazione. Il torto cui essa intendeva rimediare è l’uso di determinate caratteristiche come motivo per trattare certi dipendenti in modo meno favorevole di altri; quello che essa fa è rimuovere completamente la religione, l’età, la disabilità e l’orientamento sessuale dal novero di motivi cui un datore di lavoro può legittimamente ricorrere per trattare determinate persone meno favorevolmente. In altri termini, la direttiva non consente che l’ostilità che un datore di lavoro può nutrire nei confronti delle persone appartenenti alle categorie sospette ivi elencate funga da base per un qualunque tipo di trattamento meno favorevole nell’ambito dell’occupazione e delle condizioni di lavoro. Come ho già spiegato, questa ostilità può esprimersi apertamente, prendendo di mira persone che abbiano esse stesse determinate caratteristiche, oppure in modo più sottile e dissimulato, prendendo di mira coloro che si trovino in stretto rapporto con le persone aventi quelle caratteristiche. Nel primo caso, riteniamo che tale comportamento sia sbagliato e debba essere vietato; il secondo caso è esattamente identico sotto ogni profilo sostanziale. In entrambi i casi, è l’ostilità del datore di lavoro nei confronti delle persone anziane, disabili, omosessuali o appartenenti a un determinato credo religioso a indurlo a trattare determinati dipendenti in modo meno favorevole.

23.      Pertanto, chi subisca una discriminazione in ragione di una delle caratteristiche elencate all’art. 1 può avvalersi della tutela predisposta dalla direttiva pur non possedendo egli stesso una di queste caratteristiche. Non è necessario che chi patisce una discriminazione sia stato maltrattato in ragione della «sua propria disabilità». È sufficiente che sia stato maltrattato a causa della «disabilità». Dunque, una persona può essere vittima di discriminazione illecita fondata sulla disabilità ai sensi della direttiva senza essere essa stessa disabile; ciò che importa è che quella disabilità – nella fattispecie, la disabilità del figlio della sig.ra Coleman – sia stata utilizzata come ragione per trattarla in modo sfavorevole. La direttiva non entra in gioco soltanto quando la vittima della discriminazione sia essa stessa disabile, bensì ogniqualvolta sia dedotto un trattamento sfavorevole fondato sulla disabilità. Pertanto, ove la sig.ra Coleman sia in grado di provare di essere stata trattata in maniera meno favorevole a causa della disabilità del figlio, avrà il diritto di valersi della direttiva.

24.      Infine, il governo del Regno Unito ha affermato che la direttiva è stata adottata soltanto al fine di predisporre una serie di standard minimi. Militerebbe in tal senso, secondo il detto governo, il fatto che il Consiglio abbia agito in un ambito in cui la competenza rimane ampiamente attribuita agli Stati membri. Di conseguenza, spetterebbe agli Stati membri decidere se vietare o meno la discriminazione per associazione nel settore dell’occupazione e delle condizioni di lavoro. Non sono d’accordo. In primo luogo, il fatto che un settore non sia completamente armonizzato o che la Comunità abbia competenza legislativa soltanto limitata non implica affatto che l’intervento del diritto comunitario, comunque sia, debba aver luogo al livello più basso. In altre parole, il fatto che la Comunità abbia competenza limitata in materia di diritti fondamentali non significa che, quando decide di avvalersi di tale competenza, possa predisporre soltanto standard minimi di tutela dei diritti fondamentali. In secondo luogo, nulla nella direttiva o nei suoi ‘considerando’ indica che tale fosse l’intenzione del Consiglio. Al contrario, il sesto ‘considerando’, ad esempio, fa riferimento all’«importanza di combattere qualsiasi forma di discriminazione» (il corsivo è mio) (17).

III – Conclusione

25.      Per le ragioni innanzi esposte, ritengo che la Corte debba risolvere la questione sollevata dall’Employment Tribunal nel modo seguente:

La tutela predisposta dalla direttiva 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, si estende anche a coloro che, benché non disabili essi stessi, subiscano una discriminazione diretta e/o molestie in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in quanto si trovano in stretto rapporto con una persona disabile.

 

Note

 

1 – Lingua originale: l'inglese.

 

2 – GU L 303, pag. 16.

 

3 – Sulla nozione di «categorie sospette» nel diritto costituzionale degli Stati Uniti d'America e sulla giurisprudenza della Supreme Court in materia, v. Balkin, J., «Plessy, Brown and Grutter: a Play in Three Acts» (2005), 26 Cardozo L. Rev 1689.

 

4 – In effetti, non si può escludere l'eventualità di provvedimenti antidiscriminazione adottati in forza dell'art. 13 CE che violino questa stessa disposizione (ad esempio, provvedimenti che tutelino contro la discriminazione fondata sul credo religioso solo i credenti di alcune, ma non di tutte, le religioni). Inoltre, come sottolinea Christopher McCrudden in «Thinking about the discrimination directives», (2005) 1 European Journal of Anti-Discrimination Law 17, 20, la parità di trattamento e la non discriminazione, come garantite dalla direttiva, dovrebbero essere collocate all'interno di un più ampio contesto di diritti umani. Il quarto 'considerando' della direttiva fa riferimento al «diritto universale» «all'uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni», che è «riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali». Aggiungerei a tale elenco la Carta dei diritti fondamentali, il cui capo III è dedicato all'uguaglianza, e che include una specifica disposizione dedicata all'inserimento dei disabili (art. 26). Uno sviluppo recente nel settore della tutela internazionale dei diritti umani con riferimento ai disabili è costituito dall'adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, nonché dal relativo Protocollo opzionale. La Convenzione è stata adottata dall'Assemblea generale il 13 dicembre 2006 e aperta alla ratifica il 30 marzo 2007, quando 81 Stati e la Comunità europea l'hanno ratificata. Essa dispone, tra l'altro, che gli Stati Parti devono proibire «ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità» (art. 5, n. 2).

 

5 – La dottrina in materia di discriminazione ha sottolineato come dall'art. 13 CE e dalle direttive adottate in forza di tale articolo non possa evincersi alcuna risposta concludente in merito alla questione se la discriminazione per associazione sia vietata. Tuttavia, è stato suggerito che tale discriminazione sarà probabilmente considerata ricompresa nell'ambito di applicazione delle direttive antidiscriminazione. V. Schiek, D., Waddington L. e Bell M. (ed.) Cases, Materials and Text on National, Supranational and International Non-Discrimination Law, Hart Publishing, 2007, pagg. 169-170.

 

6 – V., tra le altre, sentenza 12 marzo 2002, cause riunite C-27/00 e C-122/00, Omega Air e a., (Racc. pag. I-2569), e la giurisprudenza ivi citata. V. anche la discussione in Tridimas, T., The General Principles of EU Law (seconda ed.), Oxford University Press, 2007 e Dashwood, A., e O’Leary, S., (ed.), The Principle of Equal Treatment in EC Law, Sweet and Maxwell, 1997.

 

7 – Sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold (Racc. pag. I-9981, punto 74).

 

8 – Dworkin, R, Is Democracy Possible Here?: Principles for a New Political Debate, Princeton University Press, 2006, capitolo 1.

 

9 – Raz, J., The Morality of Freedom, Oxford University Press, 1986. Rilevo, per scrupolo di accuratezza, che taluni autori includono il valore dell'autonomia della persona in quello della dignità. La stessa cosa può dirsi quanto alla giurisprudenza di alcune corti costituzionali. Questo aspetto, che potrebbe essere importante in sede d'interpretazione di disposizioni di legge che si riferiscano soltanto al valore della dignità umana, non ha rilevanza ai fini della presente causa.

 

10 – Ibid., pag. 154.

 

11 – Gardner, J., «Discrimination as Injustice», (1996) 16 Oxford Journal of Legal Studies, 353, 355. Come spiega Gardner, si tratta di una questione di giustizia. In tal senso, quando diciamo che è sbagliato trattare qualcuno in modo meno favorevole per determinati motivi, ciò che intendiamo è che la giustizia impone di non fondarsi su tali motivi per ledere la posizione di quella persona. In altre parole, se ci fondiamo su quei motivi vietati abbiamo inflitto a quella persona un'ingiustizia.

 

12 – Definita all'art. 2, n. 2, lett. a), come la situazione in cui, «sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga».

 

13 – Definite all'art. 2, n. 3, come un comportamento adottato per uno dei motivi di cui all'art. 1 «avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».

 

14 – Definita all'art. 2, n. 2, lett. b), come la situazione in cui «una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone».

 

15 – Ho approfondito la questione delle discriminazioni nel passato e della parità di trattamento nel contesto dell'uguaglianza tra uomini e donne nelle conclusioni presentate nella causa C-319/03, Briheche (Racc. 2004, pag. I-8807).

 

16 – V. la discussione in Jolls, C., «Antidiscrimination and Accommodation» (2001) 115, Harvard Law Review, 642.

 

17 – Vi è un'ulteriore ragione idonea a confutare l'argomento del Regno Unito. Gli obblighi in materia di parità di trattamento imposti dalla direttiva possono avere un costo, soprattutto per i datori di lavoro, e, in certa misura, l'imposizione di tali obblighi comporta una decisione di ripartire i costi sulla società mediante determinati meccanismi di mercato. Tale obiettivo può essere conseguito in modo efficiente ed equo, che non produca distorsioni della concorrenza, soltanto ove gli obblighi in materia di parità di trattamento siano interpretati ed applicati in maniera uniforme nel mercato comune. Se così non fosse, ci si troverebbe di fronte al rischio di creare in Europa un terreno di gioco iniquo, in quanto gli obblighi in materia di parità di trattamento imposti agli operatori economici dal diritto comunitario non sarebbero configurati allo stesso modo all'interno del mercato comune, ma dipenderebbero dal fatto che un determinato Stato membro abbia scelto o meno di sanzionare uno specifico tipo di discriminazione.

 

 

 

 

 

ATTUALITA’ INTERNAZIONALE

1.

La Commissione si adopera per colmare le lacune esistenti in materia di parità di trattamento sul lavoro e nel recepimento della direttiva europea n. 2000/78/CE da parte degli Stati membri. Il 31 gennaio scorso  la Commissione ha inviato a 10 Stati membri pareri motivati sollecitandoli a dare piena attuazione alle norme UE che proibiscono la discriminazione sul lavoro basata su religione e convinzioni personali, età, handicap e tendenze sessuali. I paesi interessati – Repubblica ceca, Estonia, Irlanda, Grecia, Francia, Ungheria, Malta, Paesi Bassi, Finlandia e Svezia – hanno due mesi per rispondere e, se non lo facessero, la Commissione potrebbe decidere di adire la Corte di Giustizia europea. La Commissione ha inoltre inviato una lettera di costituzione in mora alla Germania e due lettere complementari di costituzione in mora alla  Lettonia e alla Lituania. La direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro (2000/78/CE) è stata varata nel 2000 e fissava al dicembre 2003 il termine per il recepimento nel diritto nazionale. Allo studio della Commissione Europea anche le segnalate inadempienze dell’Italia nel recepimento della direttiva europea che potrebbero condurre all’invio a breve anche alle autorità del nostro paese di un parere motivato preliminare all’apertura di una formale procedura d’infrazione.

"Gli Stati membri hanno già fatto molto per assicurare che i cittadini abbiano il diritto alla parità di trattamento nell'ambito dell'occupazione. Ma in certi casi devono ancora essere varati strumenti legislativi per assicurare l'attuazione di tali diritti." Ha affermato Vladimír Špidla,Commissario europeo responsabile per l'Occupazione, gli affari sociali e le pari opportunità. "La parità di trattamento nell'occupazione è essenziale per dare equamente a tutti la possibilità di contribuire all'economia e di partecipare alla vita sociale. Ma le direttive UE non possono realizzare appieno le loro potenzialità se non sono recepite integralmente e correttamente nella normativa nazionale." Il 31 gennaio scorso,  10 Stati membri che non hanno ancora attuato correttamente la direttiva hanno ricevuto "pareri motivati". Si tratta del secondo passo della procedura d'infrazione.

I principali problemi riscontrati sono:

- la normativa nazionale è limitativa in relazione alle persone e agli ambiti coperti rispetto a quanto stabilito dalla direttiva (ad esempio: mancanza di tutela per i dipendenti pubblici o in materia di accesso al lavoro autonomo);

- definizioni di discriminazione divergenti dalla direttiva (in particolare, per quanto concerne la discriminazione indiretta, le molestie e l'ordine di discriminare);

- inadeguato recepimento dell'obbligo, che incombe ai datori di lavoro, di adottare misure adeguate per i lavoratori portatori di handicap;

- incoerenza delle disposizioni volte a sovvenire alle vittime di discriminazione (come ad esempio l'inversione dell'onere della prova, il diritto delle associazioni di aiutare i singoli a farsi valere e la protezione delle vittime).

La Germania ha ricevuto oggi una lettera di costituzione in mora che rappresenta il primo passo di una procedura d'infrazione. La Germania ha due mesi di tempo per rispondere. Tra i punti sollevati dalla Commissione vi sono:

- la legislazione nazionale non copre i licenziamenti

- insufficiente protezione dei lavoratori disabili da parte del datore di lavoro

- il termine di due mesi per presentare una denuncia è troppo breve.

La Commissione ha anche deciso di inviare lettere complementari di costituzione in mora alla Lettonia e alla Lituania in relazione al loro recepimento della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione, in particolare a seguito di una definizione troppo restrittiva della discriminazione (Lettonia) e di un'esenzione troppo ampia della discriminazione basata sull'età (Lettonia e Lituania).

Nel dicembre 2006 sono state inviate prime lettere di costituzione in mora a 17 Stati membri. Nel frattempo la procedura aperta contro la Slovenia e Cipro per il recepimento incorretto della direttiva è stata chiusa nel dicembre 2007 in seguito all'adozione, in questi paesi, di nuovi strumenti legislativi rispondenti ai requisiti della Commissione.

La prima fase della procedura d'infrazione è stata anche avviata contro il Belgio e la Slovacchia (che hanno adottato di recente una nuova legislazione), la Danimarca, la Italia, la Polonia, il Portogallo, la Spagna e il Regno Unito, ma questi casi sono ancora in corso di esame.

Analogamente, la Commissione sta ancora analizzando la legislazione che recepisce la direttiva in Austria, Lussemburgo, Bulgaria e Romania.

La Commissione sta preparando una relazione sull'attuazione della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione nell'Unione europea, relazione che dovrebbe essere pubblicata nel primo semestre del 2008.

Riguardo al nostro Paese, la Commissione Europea ha già avviato la prima fase preliminare di un’eventuale procedura d’infrazione, rilevando lacune ed insufficienze nella trasposizione delle norme della direttiva n. 2000/78/CE rispetto a quattro argomenti:

a) Le possibilità di deroga al divieto generale di stabilire delle differenze di trattamento di natura diretta, in base al criterio del requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Tali eccezioni sono state trasposte nel decreto  di recepimento (d.lgs. n. 216/2003) in modo tale da privarle sostanzialmente dell’originaria valenza garantistica con cui esse vengono previste nella normativa comunitaria;

Dalle norme della direttiva europea, a differenza della normativa  italiana di recepimento, si ricava, infatti, la previsione di un principio di tipicità, per cui è il legislatore e non il datore di lavoro (come sembra suggerire il disposto del decreto n.216/2003) a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non discriminazione; 

b) La previsione comunitaria di un obbligo del datore di lavoro a tenere contro  in maniera ragionevole delle specifiche esigenze dei lavoratori disabili non è stata recepita con riferimento  a tutte le categorie di tali lavoratori;

c) La possibilità prevista dalla legislazione nazionale di operare disparità di trattamento fondate sul requisito dell’età è più ampia di quella prevista dalla direttiva europea;

d) II diritto alla legittimazione ad agire delle organizzazioni non governative nelle azioni giudiziarie contro la discriminazione a tutela delle vittime della discriminazione è eccessivamente limitato rispetto ai criteri previsti dalla direttiva europea, in quanto viene riservato unicamente alle organizzazioni sindacali;

e) La previsione comunitaria sullo spostamento dell’onere della prova non è stata recepita nella normativa nazionale;

f) La protezione contro eventuali ritorsioni a danno delle vittime di discriminazione che hanno inteso denunciare violazioni della parità di trattamento è eccessivamente limitata rispetto agli standard previsti dalla direttiva.

 

Contesto:

Nel 1997, nel Consiglio europeo di Amsterdam, gli Stati membri hanno conferito all'UE il compito di combattere la discriminazione. Tutti e 27 i paesi dell'UE hanno adottato nuovi strumenti legislativi per attuare la direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione accolta all'unanimità nel 2000. Tuttavia, non tutte le legislazioni nazionali sono conformi alle sue disposizioni. La Commissione si impegna a continuare il dialogo con gli Stati membri per assicurare la soluzione di tutti gli aspetti problematici e la piena e corretta attuazione in tutti gli Stati membri sia della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione sia di quella sulla parità di trattamento indipendentemente dalla razza.

Le procedure d'infrazione si articolano in due fasi. La prima consiste nell'invio allo Stato membro di una lettera di costituzione in mora cui questi ha due mesi per rispondere. Qualora in seguito a ciò occorra ulteriormente assicurare il rispetto della legislazione UE, la Commissione invia un parere motivato. Anche in questo caso lo Stato membro ha due mesi di tempo per rispondere. In assenza di una risposta soddisfacente la Commissione può deferire la questione alla Corte di Giustizia europea sita a Lussemburgo. Essa può inoltre chiedere che la Corte commini una sanzione pecuniaria al paese interessato qualora questi non si adegui alla pronunzia della Corte.

Per ulteriori informazioni

http://ec.europa.eu/antidiscrimination

MEMO/08/68

MEMO/08/69

 

 

 

 

2.

 

Il 31 gennaio scorso, il Parlamento europeo ha adottato a larghissima maggioranza una Risoluzione su una strategia europea per i Rom.

 

In base a questo provvedimento adottato con 510 voti favorevoli, 36 contrari e 67 adesioni, la Commissione europea dovrebbe affidare ad uno dei suoi commissari la responsabilità di coordinare le politiche a favore dei cittadini Rom e Sinti che vivono all'interno dell'Unione europea . In sintesi, la risoluzione chiede di porre fine alla segregazione dei rom nell'istruzione, sostenendone l'integrazione nel mercato del lavoro e con microcrediti, aiutarli ad avviare attività imprenditoriali. Viene inoltra sollecitata l’adozione di buone prassi e azioni positive  che pongano fine  al fenomeno delle baraccopoli e dei campi rom a favore invece di  modelli positivi e riusciti di soluzioni alloggiative. Viene, quindi, sollecitata la Commissione a sviluppare una strategia quadro europea per l'inserimento dei Rom, che miri a dare coerenza alle politiche della Ue a favore della loro inclusione sociale e ad elaborare un piano d'azione comunitario dettagliato che fornisca un sostegno finanziario per la realizzazione di questo obiettivo.

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale della Risoluzione del Parlamento europeo.

Risoluzione del Parlamento europeo del 31 gennaio 2008 su una strategia europea per i rom

 

Il Parlamento europeo ,

–   visti gli articoli 3, 6, 7, 29 e 149 del trattato CE, che impegnano gli Stati membri a garantire uguali opportunità a tutti i cittadini,

–   visto l'articolo 13 del trattato CE, in base al quale la Comunità europea può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sulla razza o l'origine etnica,

–   viste le sue risoluzioni del 28 aprile 2005 sulla situazione dei rom nell'Unione europea, del 1° giugno 2006 sulla situazione delle donne rom nell'Unione europea e del 15 novembre 2007 sull'applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri,

–   viste la direttiva 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, e la direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, come anche la decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia,

–   vista la relazione per il 2007 su Razzismo e xenofobia negli Stati membri dell'Unione europea, pubblicata dall'Agenzia per i diritti fondamentali,

–   visti il Decennio per l'integrazione dei rom e il Fondo per l'istruzione dei rom, istituiti nel 2005 da numerosi Stati membri dell'Unione europea, paesi candidati e altri paesi in cui le istituzioni dell'Unione europea sono presenti in modo significativo,

–   visti l'articolo 4 della Convenzione quadro del Consiglio d'Europa per la protezione delle minoranze nazionali e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali,

–   visto il Piano d'azione globale adottato dagli Stati che partecipano all'OSCE, compresi gli Stati membri dell'Unione europea e i paesi candidati, incentrato sul miglioramento della situazione dei rom e dei sinti nella zona OSCE, nel quadro del quale gli Stati si impegnano, tra l'altro, a potenziare i loro sforzi volti a garantire che le popolazioni rom e sinti possano svolgere un ruolo pieno ed equo nelle nostre società, e a debellare la discriminazione nei loro confronti,

–   visti la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e lo Statuto dell'Agenzia per i diritti fondamentali,

–   vista la relazione del gruppo consultivo di esperti di alto livello sull'integrazione sociale delle minoranze etniche e sulla loro piena partecipazione al mercato del lavoro, intitolata "Minoranze etniche sul mercato del lavoro – Un urgente appello per una migliore inclusione sociale" e pubblicata dalla Commissione nel 2007,

–   visto l'articolo 108, paragrafo 5, del suo regolamento,

A.   considerando che i 12-15 milioni di rom che vivono in Europa – di cui circa 10 milioni nell'Unione europea – sono vittime di discriminazioni razziali e soggetti in molti casi a gravi discriminazioni strutturali e a condizioni di povertà e di esclusione sociale, come anche a discriminazioni molteplici in base al sesso, all'età, all'handicap o all'orientamento sessuale; considerando che gran parte dei rom europei sono diventati cittadini dell'Unione europea a seguito degli ampliamenti del 2004 e del 2007, beneficiando del diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri,

B.   considerando che la situazione dei rom europei – che storicamente sono stati parte della società in numerosi paesi europei e hanno contribuito ad essa – è diversa da quella delle minoranze nazionali europee, cosa che giustifica l'adozione di misure specifiche a livello europeo,

C.   considerando che i cittadini rom dell'Unione europea sono spesso vittime di discriminazioni razziali nell'esercizio del loro diritto fondamentale, in quanto cittadini dell'Unione europea, alla libertà di circolazione e di stabilimento,

D.   considerando che numerosi rom e numerose comunità rom che hanno deciso di stabilirsi in uno Stato membro diverso da quello di cui sono cittadini si trovano in una posizione particolarmente vulnerabile,

E.   considerando che sia negli Stati membri sia nei paesi candidati non si sono compiuti progressi nella lotta alla discriminazione razziale nei confronti dei rom e nella difesa del loro diritto all'istruzione, all'occupazione, alla salute e all'alloggio,

F.   considerando che la segregazione nell'istruzione continua ad essere tollerata negli Stati membri dell'Unione europea; considerando che tale discriminazione nell'accesso ad un'istruzione di qualità condiziona in modo permanente la capacità dei bambini rom di sviluppare e di sfruttare il loro diritto ad uno sviluppo educativo,

G.   considerando che l'istruzione è uno strumento fondamentale per combattere l'esclusione sociale, lo sfruttamento e la criminalità,

H.   considerando che condizioni di vita deplorevoli e insalubri e una ghettizzazione evidente sono fenomeni ampiamente diffusi e che, regolarmente, i rom sono vittime di espulsioni forzate o viene loro impedito di abbandonare le aree in cui vivono,

I.   considerando che le comunità rom presentano in media livelli inammissibilmente elevati di disoccupazione, il che richiede interventi specifici volti ad agevolare l'accesso al lavoro; sottolineando che il mercato europeo del lavoro, così come la società europea nel suo complesso, trarrebbero enorme beneficio dall'integrazione dei rom,

J.   considerando che l'Unione europea offre una varietà di meccanismi e strumenti che possono essere utilizzati per migliorare l'accesso dei rom ad un'istruzione di qualità, all'occupazione, all'alloggio e all'assistenza sanitaria, in particolare politiche in materia di inclusione sociale, sviluppo regionale e occupazione,

K.   considerando che l'inclusione sociale delle comunità rom continua ad essere un obiettivo da raggiungere e che occorre utilizzare gli strumenti dell'Unione europea per realizzare cambiamenti efficaci e visibili in questo settore,

L.   considerando la necessità di garantire un'effettiva partecipazione dei rom alla vita politica, in particolare alle decisioni che incidono sulla loro vita e sul loro benessere,

M.   considerando che l''antizingarismo" o fobia dei rom è ancora diffuso in Europa, che è promosso e utilizzato dagli estremisti, cosa che può culminare in attacchi razzisti, discorsi improntati all'odio, attacchi fisici, espulsioni illegali e vessazioni da parte della polizia,

N.   considerando che la maggior parte delle donne rom subiscono una doppia discriminazione, in quanto rom e in quanto donne,

O.   considerando che l'Olocausto dei rom (Porajmos) merita un pieno riconoscimento commisurato alla gravità dei crimini nazisti volti ad eliminare fisicamente i rom d'Europa, così come gli ebrei e altri gruppi mirati;

1.   condanna senza eccezioni e senza ambiguità possibili tutte le forme di razzismo e di discriminazione cui sono soggetti i rom e altre comunità considerate "zingari";

2.   accoglie favorevolmente le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo del 14 dicembre 2007 il quale, "conscio della situazione molto particolare in cui versa la comunità rom in tutta l'Unione, invita gli Stati membri e l'Unione stessa ad utilizzare tutti i mezzi per migliorarne l'inclusione" e "invita a tal fine la Commissione ad esaminare le politiche e gli strumenti vigenti e a riferire al Consiglio, entro la fine del giugno 2008, in merito ai progressi registrati";

3.   ritiene che l'Unione europea e gli Stati membri condividano la responsabilità di promuovere l'inserimento dei rom e di appoggiare i loro diritti fondamentali in quanto cittadini europei, e che debbano intensificare prontamente i loro sforzi per conseguire risultati visibili in tale settore; invita gli Stati membri e le istituzioni dell'Unione europea ad avallare le misure necessarie per creare un clima sociale e politico adeguato, che consenta di porre in atto l'inserimento dei rom;

4.   sollecita la nuova Agenzia per i diritti fondamentali a porre l''antizingarismo" tra le massime priorità del suo programma di lavoro;

5.   riafferma l'importante ruolo dell'Unione europea nella lotta contro la discriminazione nei confronti dei rom, che spesso è strutturale e che per questo richiede un'impostazione globale a livello dell'Unione europea, in particolare con riguardo allo sviluppo di politiche comuni, ma riconosce che le competenze fondamentali e il principale investimento in termini di volontà politica, tempo e risorse da destinare alla protezione, all'attuazione di politiche, alla promozione e alla responsabilizzazione dei rom devono essere a carico degli Stati membri;

6.   sollecita la Commissione a sviluppare una strategia quadro europea per l'inserimento dei rom, che miri a dare coerenza alle politiche dell'Unione europea in materia di inclusione sociale dei rom e, nel contempo, sollecita tale Istituzione ad elaborare un piano d'azione comunitario dettagliato per l'inclusione dei rom volto a fornire un sostegno finanziario per la realizzazione dell'obiettivo della strategia quadro europea per l'inclusione dei rom;

7.  Esorta la Commissione ad elaborare un esauriente piano d'azione comunitario sull'inclusione dei Rom; rileva che il piano deve essere elaborato ed implementato dal gruppo di Commissari responsabili per l'inclusione sociale dei cittadini dell'UE attraverso i loro portafogli dell'occupazione, degli affari sociali, delle pari opportunità, della giustizia, della libertà, dell'istruzione, della cultura e della politica regionale;

8.   chiede alla Commissione di attribuire a uno dei Commissari la competenza per il coordinamento di una politica per i rom;

9.   esorta la Commissione ad applicare la metodologia di lavoro "da Rom-a-Rom" quale strumento efficace per gestire le problematiche legate ai Rom e la invita a promuovere la presenza di personale Rom all'interno della sua struttura;

10.   invita la Commissione ad istituire un'unità rom per coordinare la messa in atto della strategia quadro europea per l'inclusione dei rom, facilitare la cooperazione tra gli Stati membri e coordinare loro azioni comuni, nonché assicurare che tutti gli organi competenti siano sensibilizzati sulle questioni relative ai rom;

11.  Invita la Commissione a considerare l'impatto degli investimenti privati sulle pari opportunità un fattore pertinente e determinante ai fini della mobilizzazione delle risorse dell'UE, imponendo alle persone fisiche e/o giuridiche che presentano un'offerta per progetti finanziati dall'UE l'obbligo di elaborare e implementare un'analisi e un piano d'azione sulle pari opportunità;

12.   accoglie con favore le iniziative rese note dalla Commissione, tra cui una comunicazione sulla strategia rivista per la lotta contro la discriminazione, il prossimo libro verde concernente l'istruzione di bambini immigrati o appartenenti a minoranze svantaggiate, e l'intenzione di prendere misure addizionali per assicurare l'applicazione della direttiva 2000/43/CE; si compiace, in particolare, della proposta di istituire un forum di alto livello sui rom, quale struttura per lo sviluppo di politiche efficaci intese ad affrontare le questioni che interessano i rom;

13.  Esorta la Commissione a creare una mappa paneuropea delle crisi, sulla cui base sono individuate e monitorate quelle aree dell'UE le cui comunità Rom risultano essere le più minacciate dalla povertà e dall'esclusione sociale;

14.   sollecita la Commissione ad esaminare le possibilità di un rafforzamento della legislazione antidiscriminazione nel settore dell'istruzione, in particolare per quanto riguarda la desegregazione, e a riferire al Parlamento sulle risultanze dei suoi lavori entro un anno dall'approvazione della presente risoluzione; ribadisce che l'accesso a pari condizioni ad un'istruzione di qualità dovrebbe essere una priorità nell'ambito di una strategia europea per i rom; sollecita la Commissione ad intensificare i suoi sforzi per finanziare e sostenere, negli Stati membri, azioni intese ad integrare i bambini rom, sin dalla più tenera età, nei sistemi di istruzione ordinari; esorta la Commissione a sostenere programmi che promuovano azioni positive a favore dei rom nei settori dell'istruzione secondaria e superiore, includendo la formazione professionale, l'istruzione degli adulti, l'apprendimento lungo tutto l'arco della vita e l'istruzione universitaria; esorta altresì la Commissione a sostenere altri programmi che offrano modelli positivi e riusciti di desegregazione;

15.   invita gli Stati membri e la Commissione a combattere lo sfruttamento dei bambini rom, l'accattonaggio che sono costretti a praticare e il loro assenteismo scolastico, nonché i maltrattamenti delle donne rom;

16.   sollecita la Commissione a sostenere l'integrazione dei rom nel mercato del lavoro mediante misure che comprendano un sostegno finanziario alla formazione e alla riconversione professionale, misure intese a promuovere azioni positive sul mercato del lavoro, un'applicazione rigorosa delle leggi antidiscriminazione nel settore dell'occupazione e misure atte a promuovere presso i rom il lavoro autonomo e le piccole imprese;

17.   invita la Commissione a considerare la possibilità di un sistema di microcredito quale suggerito nella relazione summenzionata del gruppo consultivo di esperti di alto livello, per promuovere l'avvio di piccole imprese e sostituire la prassi dell'usura, che obera molte delle comunità svantaggiate;

18.   invita il Consiglio, la Commissione e gli Stati membri a sostenere programmi nazionali volti a migliorare la situazione sanitaria delle comunità rom; in particolare introducendo un adeguato programma di vaccinazioni per i bambini; sollecita tutti gli Stati membri a porre fine e a rimediare in modo adeguato e senza indugio all'esclusione sistematica di talune comunità rom dall'assistenza sanitaria, comprese, tra l'altro, le comunità che si trovano in aree geografiche isolate, come anche a violazioni estreme dei diritti dell'uomo nell'ambito del sistema sanitario, laddove esse abbiano avuto o stiano avendo luogo, comprese la segregazione razziale nelle strutture sanitarie e la sterilizzazione forzata delle donne rom;

19.   sollecita la Commissione a basarsi sui modelli positivi esistenti per sostenere programmi volti a porre fine, negli Stati membri in cui esiste, al fenomeno delle baraccopoli rom – che generano gravi rischi sociali, ambientali e sanitari – e a sostenere altri programmi che offrano modelli positivi e riusciti di alloggio per i rom, inclusi i rom migranti;

20.   sollecita gli Stati membri a risolvere il problema dei campi, dove manca ogni norma igienica e di sicurezza e nei quali un gran numero di bambini rom muoiono in incidenti domestici, in particolare incendi, causati dalla mancanza di norme di sicurezza adeguate;

21.   sollecita la Commissione e il Consiglio ad allineare la politica dell'Unione europea relativa ai rom sul "Decennio per l'integrazione dei rom" e a fare uso delle iniziative esistenti, quali il Fondo per l'istruzione dei rom, il Piano d'azione dell'OSCE e le raccomandazioni del Consiglio d'Europa, al fine di accrescere l'efficacia degli sforzi compiuti in tale settore;

22.   sottolinea l'importanza che riveste il fatto di coinvolgere le autorità locali per garantire un'esplicazione efficace degli sforzi volti a promuovere l'inserimento dei rom e a combattere la discriminazione;

23.   invita gli Stati membri a coinvolgere la comunità rom al livello di base nel tentativo di mettere il popolo rom in condizioni di beneficiare pienamente degli incentivi forniti dall'Unione europea volti a promuovere i loro diritti e l'inserimento delle loro comunità, nei settori dell'istruzione, dell'occupazione e della partecipazione civica, dal momento che un'integrazione riuscita comporta un approccio che va dal basso verso l'alto e responsabilità comuni; sottolinea l'importanza di sviluppare le risorse umane e le capacità professionali dei rom, al fine di promuovere la loro presenza a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica, ivi comprese le istituzioni della UE;

24.   ricorda che tutti paesi candidati si sono impegnati, nel quadro del processo di negoziazione e di adesione, a migliorare l'inserimento delle comunità rom e a promuovere il loro diritto all'istruzione, all'occupazione, all'assistenza sanitaria e all'alloggio; chiede alla Commissione di effettuare una valutazione del rispetto di tali impegni e della situazione attuale dei rom in tutti gli Stati membri dell'Unione europea;

25.   invita la Commissione e le autorità competenti a compiere i passi necessari per porre termine alle attività di ingrasso dei suini sul sito dell'ex campo di concentramento di Lety (Repubblica Ceca), lasciando spazio ad un monumento commemorativo che onori le vittime delle persecuzioni;

26.   ritiene di dover dovrebbe esaminare più nel dettaglio i diversi aspetti delle sfide strategiche europee riguardanti l'inserimento dei rom;

27.   incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio e alla Commissione nonché ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, ai paesi candidati, al Consiglio d'Europa e all’OSCE.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DOCUMENTI, RAPPORTI E RICERCHE

 

 

Marina Pirazzi (a cura di ),  “CAUSE STRATEGICHE CONTRO LA DISCRIMINAZIONE  Prime riflessioni su linee guida per l’individuazione e la preparazione di cause strategiche”, edita dal COSPE di Firenze.

 

La pubblicazione curata da Marina Pirazzi (COSPE) con i contributi di Alessandro Maiorca, Nazzarena Zorzella e Sara Cerretelli, è il frutto di un progetto finanziato dall’UNAR che ha visto il COSPE quale capofila ed una serie di associazioni non governative (ASGI, ENAR, CESTIM)  ed enti territoriali (Regione Emilia Romagna) quali partner.

 

La pubblicazione intende compiere una disamina sulla legislazione nazionale ed internazionale in materia di discriminazione razziale finalizzata all’individuazione nel contesto italiano di cause strategiche contro la discriminazione, vale a dire cause legali da intraprendere allo scopo di indurre un cambiamento sociale, legislativo e giurisprudenziale e che contribuiscano allo sviluppo della tutela dei diritti umani e alla promozione dell’inserimento sociale dei soggetti deboli (immigrati, seconde generazioni,…) .

 

L’ASGI, ed in particolare l’avv. Nazzarena Zorzella e il consulente Alessandro Maiorca, ha contribuito in misura decisiva alla stesura del testo, che rappresenta dunque una delle analisi giuridiche più significative e preziose attualmente disponibili in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali.

 

Copia della pubblicazione in formato elettronico può essere scaricata dal sito web del COSPE:  http://www.cospe.it/italiano/dettaglioNews.php?id=344&i=wy