ATTUALITA’ ITALIANA
1. EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA, IMMIGRAZIONE E
DISCRIMINAZIONI.
La Corte Costituzionale giudica conforme alla Costituzione
la normativa della Regione
Lombardia che prevede il requisito della residenza quinquennale nel territorio
regionale ai fini della
presentazione della domanda per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica. A
seguito dell’intervento dell’ASGI, la Commissione Europea e l’UNAR intervengono
nel dibattito sui profili discriminatori delle delibere dell’AGEC (Agenzia
Comunale Gestione Immobili del Comune di Verona) per l’attribuzione dei
punteggi nelle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica nel comune di Verona.
2.
LE ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI
DISCRIMINATORI DI ENTI LOCALI DEL NORD ITALIA
GIURISPRUDENZA
ITALIANA
Il rifugiato riconosciuto ai sensi
della Convenzione di Ginevra ha diritto alla parità di trattamento rispetto al
cittadino italiano per quanto concerne il beneficio di tutte le prestazioni assistenziali che
costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente. Una sentenza
del Tribunale del Lavoro di Milano, dd. 31 gennaio 2008.
GIURISPRUDENZA
COMUNITARIA
Un giudizio preliminare della Corte di Giustizia
europea riconosce la portata applicativa delle direttive europee in materia di
non discriminazione e parità di trattamento (Direttiva “Razza” n. 2000/43/CE e
Direttiva “Occupazione” n. 2000/78/CE) anche ai casi di “discriminazione per
associazione”.
ATTUALITA’
INTERNAZIONALE
1. La Commissione Europea si adopera per colmare le
lacune esistenti in materia di parità di trattamento sul lavoro e nel
recepimento della direttiva europea n. 2000/78/CE da parte degli Stati membri. La Commissione Europea invia a 10 Stati membri pareri motivati
sollecitandoli a dare piena attuazione alle norme UE che proibiscono la
discriminazione sul lavoro basata su religione e convinzioni personali, età,
handicap e tendenze sessuali. . Allo studio della
Commissione Europea anche le segnalate inadempienze dell’Italia nel recepimento
della direttiva europea che potrebbero condurre all’invio a breve anche alle
autorità del nostro paese di un parere motivato preliminare all’apertura di una
formale procedura d’infrazione.
2. Il 31 gennaio scorso, il Parlamento
europeo ha adottato a larghissima maggioranza una Risoluzione su una strategia
europea per i Rom.
ATTUALITA’ ITALIANA
EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA, IMMIGRAZIONE E
DISCRIMINAZIONI.
1. La Corte Costituzionale giudica conforme alla
Costituzione la normativa della
Regione Lombardia che prevede il requisito della residenza quinquennale nel
territorio regionale ai fini della
presentazione della domanda per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica. La
delusione dei sindacati e delle associazioni anti-discriminazione che ritengono
tali norme una fonte di discriminazione indiretta o dissimulata a danno dei
cittadini stranieri. A seguito dell’intervento dell’ASGI, la Commissione
Europea e l’UNAR intervengono nel dibattito sui profili discriminatori delle
delibere dell’AGEC (Agenzia Comunale Gestione Immobili del Comune di Verona)
per l’attribuzione dei punteggi nelle graduatorie per l’assegnazione degli
alloggi di edilizia residenziale pubblica nel comune di Verona.
Con ordinanza n.
32/2008 depositata il 21 febbraio scorso (Pres. Bilè, rel. Napoletano), la
Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile e
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata
dal TAR Lombardia (ordinanza 27 luglio 2006) nei confronti della legislazione
regionale della Lombardia, nella parte in cui prevede che “per la presentazione
della domanda per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica
[…], i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in
Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente
precedente alla data di presentazione della domanda”. Il rinvio alla Corte
Costituzionale era stato deciso dal Tar Lombardia a seguito di un ricorso
proposto su iniziativa anche dei sindacati inquilini SICeT e SUNIA, nonché
delle organizzazioni sindacali CGIL e CISL lombarde. In precedenza, infatti, il
medesimo TAR Lombardia, con sentenza del 29 settembre 2004, n. 4196, aveva annullato un regolamento
regionale con il quale veniva ridisegnato il meccanismo di attribuzione dei
punteggi per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, introducendo
una maggiorazione progressiva di punteggio in base all’anzianità di residenza
sul territorio regionale (da 5 punti per un anno fino ad un massimo di 90 per
oltre 20 anni di residenza). In risposta all’annullamento da parte del giudice
amministrativo regionale, il
governo regionale della Lombardia aveva così approvato una nuova normativa
volta ad introdurre, come abbiamo visto, un requisito di residenza quinquennale
ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3
comma 41 bis L.R. 5 gennaio 2000, n. 1).
Nell’ordinanza di
rinvio alla Corte Costituzionale il TAR Lombardia aveva ripreso i dubbi di
incostituzionalità della norma
regionale avanzati dai ricorrenti, ipotizzando che detta normativa violerebbe
l’art. 3 della Costituzionale in quanto introdurrebbe un profilo
discriminatorio indiretto o dissimulato ed irragionevole venendo a colpire
proprio coloro che, in quanto non radicati da lungo tempo sul territorio
regionale e alla ricerca di lavoro, “si trovano in condizioni di maggiore
difficoltà e di maggiore disagio”; nonché violerebbe l’art. 117 Cost. in quanto
inciderebbe illegittimamente sulla determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni relative ai diritti civili e sociali, da garantirsi in maniera uniforme
su tutto il territorio nazionale. Il TAR Lombardia, recependo gli elementi
forniti dalle organizzazioni sindacali ricorrenti, sottolineava inoltre i
possibili profili di incompatibilità della normativa regionale con il principio
di non discriminazione e di parità di trattamento previsto dalla normativa
comunitaria in materia di libera circolazione dei lavoratori cittadini
dell’Unione e loro familiari, in quanto l’anzianità di residenza introdurrebbe un criterio
discriminatorio indiretto a danno dei cittadini di altri Stati membri rispetto
ai cittadini italiani, quest’ultimi proporzionalmente maggiormente radicati sul
territorio.
Con una decisione
assai discutibile e che suscita notevoli perplessità, la Corte Costituzionale
ha respinto tutte queste argomentazioni. Nell’ordinanza, la Corte ritiene
manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità della normativa
regionale in relazione all’art. 3 della Costituzione (principio di eguaglianza
rapportato al principio di ragionevolezza), ritenendo che «il requisito della
residenza continuativa, ai fini dell’assegnazione, risulta non irragionevole
[…] quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire […], specie là dove
le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali
in gioco […]». Tutto qui !! Un’affermazione quasi assiomatica. Nessuna
argomentazione aggiuntiva viene offerta dalla Corte a sostegno dell’asserita ragionevolezza del
requisito posto dalla normativa regionale, né viene offerta qualche spiegazione
sul perché il giudice delle leggi ritenga che la norma in esame effettivamente
realizzi l’equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Un po’
poco, dunque, tanto più se si considera che appare ormai consolidato nella giurisprudenza internazionale della
Corte di Giustizia europea e anche della Corte europea dei diritti dell’Uomo il
principio per cui il criterio della residenza può fondare una discriminazione
indiretta o dissimulata vietata dall’ordinamento europeo (norme del trattato
europeo, direttive anti-discriminazione, convenzione europea sui diritti
dell’uomo e libertà fondamentali). La Corte di Giustizia Europea ha infatti
chiarito, con riferimento al principio di non-discriminazione tra cittadini
comunitari previsto nel Trattato Europeo, che il requisito della residenza ai fini dell’accesso ad un beneficio
può integrare una forma di illecita discriminazione “dissimulata” in quanto può
essere più facilmente soddisfatto dai cittadini piuttosto che dai lavoratori
comunitari, finendo dunque per privilegiare in misura sproporzionata
i primi a danno dei secondi (ad es. Meints, 27.11.1997; Meussen, 8.06.1999; Commissione c. Lussemburgo, 20.06.2002). Per una decisione emblematica
che ha riguardato il nostro paese,
si veda la sentenza che ha
condannato l’Italia per le agevolazioni tariffarie a vantaggio delle persone
residenti per l’accesso ai Musei Comunali (sentenza 16 gennaio 2003 n.
C-388/01, parr. 13 e 14): “…il principio di parità di trattamento,….., vieta
non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche
qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad
altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. Ciò
avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una distinzione
basata sul criterio della residenza, in quanto quest’ultimo rischia di operare
principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il
più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri”. Le recenti direttive comunitarie
anti-discriminazione (Direttiva “Razza” n. 2000/43 e Direttiva “Occupazione” n.
2000/78) hanno definitivamente precisato il concetto di discriminazione
indiretta che sussiste “quando
una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri possono
mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, che professano
una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di
handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale, in
una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (si veda per le norme di recepimento in
Italia: art. 2.1 b) d. lgs. nn. 215 e 216/2003).
Al
contrario delle discriminazioni dirette, che sono vietate in maniera assoluta,
con l’unica eccezione delle
differenze di trattamento fondate sul criterio del requisito essenziale e
determinate per lo svolgimento dell’attività lavorativa, una maggiore
flessibilità viene lasciata nella valutazione dei casi di presunta
discriminazione indiretta, che non sono tali quando un provvedimento, pur avendo un impatto
differenziato sui diversi gruppi sociali, è giustificato oggettivamente da
finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari” (art.
2.2 b) dir. n. 2000/43/CE). La giustificazione oggettiva consente di
prendere in esame gli interessi contrapposti – quello della vittima e quello dell’autore della misura
– onde verificare se la
ragione di quest’ultimo sia tale da giustificare lo svantaggio causato al
primo. L’altra condizione prevista
dalla norma è che i mezzi perseguiti siano appropriati e necessari, in
conformità al principio di proporzionalità, principio generale dell’ordinamento
comunitario più volte ribadito dalla Corte di giustizia europea in materia di
eccezioni alle libertà fondamentali (in proposito, cfr. Chiara Favilli, La
Normativa comunitaria anti-discriminazione, paper in corso di pubblicazione, 2008). Di conseguenza, i principi generali
dell’ordinamento giuridico nazionale ed europeo, cui il divieto di discriminazioni, anche indirette, fa ormai
parte integrante, avrebbero dovuto consigliare alla Corte costituzionale di
offrire un più rigoroso e articolato quadro interpretativo sul quesito ad essa sottoposto e
non invece il ricorso a sbrigative formule generiche ed astratte.
Desta, inoltre,
notevoli perplessità un altro passaggio dell’ordinanza della Corte Cost. ove si
afferma che «la materia di cui
trattasi [l’edilizia residenziale pubblica n.d.r.] rientra nella competenza
residuale delle Regioni e non investe, in ogni caso, la problematica della
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti
civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale». Se è indubbio che l’edilizia
residenziale pubblica non compare tra le materie elencate nel secondo e terzo
comma dell’art. 117 Cost. relativo alle materie rientranti nella potestà
esclusiva dello Stato ed in quella concorrente Stato /Regione, e dunque
costituisce una materia sottoposta
alla potestà esclusiva residuale delle Regioni (quarto comma), la
giurisprudenza costituzionale ha pur sempre riconosciuto il limite di detta
potestà rappresentato fra l’altro dal
rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento richiamati tanto da leggi statali nuove o comunque
risultanti dalla legislazione statale già in vigore al momento dell’entrata in
vigore della legge di riforma costituzionale n. 3/2001 (sentenza 26 giugno
2002, n. 282). La medesima giurisprudenza del giudice delle leggi aveva colto
l’occasione per affermare come “i
livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali”, “riservati alla disciplina esclusiva del legislatore
statale, non rappresentano una ‘materia’ in senso stretto”, bensì “una competenza
del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle
quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare
a tutti, sull’intero territorio nazionale il godimento di prestazioni
garantite, come contenuto essenziale dei tali diritti, senza che le
legislazione regionale possa limitarle o condizionarle”. Ecco, dunque che questa ordinanza sembra dimostrare discontinuità rispetto
alla precedente
giurisprudenza. L’ordinanza inoltre
sembra ignorare il dettato
di cui all’art. 40 c. 6 combinato con l’art. 1 c. 4 del d.lgs. n.
286/98, in base al quale il principio di parità di trattamento con i cittadini
degli stranieri regolarmente soggiornanti muniti di un permesso di soggiorno CE
di lunga durata o di permesso di soggiorno ordinario di durata biennale e che
svolgono attività lavorativa, nella materia dell’accesso agli alloggi di
edilizia residenziale pubblica e
ai contributi per l’accesso alle locazioni abitative e al credito
agevolato per l’acquisto della prima casa, costituisce un principio fondamentale cui devono attenersi
le Regioni nell’esercizio della loro potestà legislativa e, dunque, a seguito della riforma costituzionale
del 2001, una norma fondante un
livello essenziale delle
prestazioni attinenti ai diritti civili e sociali.
Ad ogni modo, il
sibillino e discutibile passaggio della recente ordinanza della Corte Cost. non
potrebbe certo legittimare una legislazione regionale che violasse il principio
di eguaglianza formale, di parità di trattamento ed il divieto di
discriminazioni dirette tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali
nell’accesso agli interventi di edilizia residenziale pubblica, in quanto ciò
si collocherebbe al di fuori del quadro costituzionale di eguaglianza, poiché
verrebbe introdotta una distinzione fondata sullo status civitatis che la corte costituzionale ha già ritenuto,
questa sì senza ombra di dubbio, certamente arbitraria e
contraria al principio di ragionevolezza (sent. corte cost. n.
432/2005). Una legislazione regionale siffatta, dunque, sarebbe certamente in
violazione dell’art. 117 c. 1 Cost. in quanto contraria al rispetto della
Costituzione.
Ulteriormente, vale la pena
sottolineare come il comma 1
dell’art. 117 della Costituzione
individua tra i limiti delle potestà legislativa sia statale che regionale, tra l’altro, anche i vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali, tra cui le norme derivanti da trattati
internazionali. Si rammenta, in proposito, che il principio della parità di trattamento e di opportunità
tra lavoratori migranti regolarmente residenti e lavoratori nazionali in
materia di accesso agli alloggi deriva anche da una precisa fonte di diritto
internazionale, quale la Convenzione Internazionale dell’OIL (Organizzazione
Internazionale del Lavoro) n. 97, ratificata e resa esecutiva con legge 5
agosto 1952, n. 1305. L’art. 6 della citata Convenzione, infatti, così dispone:
“1. Ogni Stato membro per il quale sia in vigore la presente convenzione si
impegna ad applicare, senza discriminazione di nazionalità, razza, religione o
sesso, agli immigranti che si trovano legalmente entro i limiti del suo
territorio, un trattamento che non sia meno favorevole di quello che esso
applica ai propri dipendenti in relazione alle seguenti materie : a) nella
misura in cui queste questioni sono regolate dalla legislazione o dipendono
dalle autorità amministrative : […] iii) l’alloggio “.
In conclusione, dunque, l’ordinanza
della Corte Costituzionale n. 32/2008 non appare suscettibile di incidere sul
divieto per la legislazione regionale di introdurre criteri discriminatori di
natura diretta, cioè fondati sullo status civitatis o nazionalità, per l’accesso
all’edilizia residenziale pubblica da parte dei lavoratori stranieri immigrati,
ma potrebbe certamente incidere in misura negativa sull’introduzione di forme
di discriminazione indiretta, centrate cioè sul requisito dell’anzianità di
residenza. A tale riguardo, c’è da attendersi dopo la pronuncia della corte
costituzionale un preoccupante effetto domino con il moltiplicarsi di
legislazioni regionali e provvedimenti locali, soprattutto nel nord
Italia, che introducano il
requisito dell’anzianità di residenza sul territorio regionale o addirittura
locale quale requisito essenziale
per l’accesso agli alloggi di erp ovvero quale criterio preferenziale per
l’assegnazione di maggiorazioni di punteggi nella graduatoria, con il palese
obiettivo di escludere il maggior numero di lavoratori migranti dal novero dei
beneficiari. Le organizzazioni sindacali lombarde già sottolineano come a
seguito dell’applicazione combinata dei requisiti di permesso di soggiorno e di
lavoro previsti dalla legge “Bossi-Fini” e dei requisiti di anzianità di
residenza della normativa
regionale, sia crollata la proporzione di immigrati stranieri tra gli
assegnatari di alloggi in erp, con conseguente aggravarsi di situazioni di
disagio e ghettizzazione (in proposito: Metropoli/La Repubblica edizioni del 24 febbraio e
del 2 marzo 2008) .
A tale riguardo, abbiamo già segnalato nella precedente edizione
della Newsletter quale caso emblematico le
delibere approvate nel settembre 2007 dal consiglio di amministrazione
dell’AGEC (Agenzia per la gestione degli immobili del Comune di Verona), d’intesa con il Sindaco di Verona, che
attribuiscono punteggi aggiuntivi ai soli cittadini italiani “lungo residenti”
(da almeno 8 anni) nel territorio del Comune di Verona e ai nuclei familiari
composti da ultrasessantenni con almeno un componente ultrassessantacinquenne,
purché residenti da almeno dieci anni nel territorio comunale, ai fini
dell’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica; cfr.
Parere dell’ASGI – Servizio di supporto giuridico contro le
discriminazioni etnico-razziali e religiose in merito ai profili discriminatori
delle delibere AGEC n. 4 e 23/2007, in Newsletter del Progetto Leader n. 13/genn. 2008 (in www.asgi.it e www.leadernodiscriminazione.it).
La presa di posizione dell’ASGI ha suscitato un vivace dibattito, a livello non
solo locale e nazionale. In data 18 febbraio, l’UNAR (Ufficio Nazionale
Anti-Discriminazioni Razziali) ha fatto pervenire all’AGEC di Verona una
propria presa di posizione a sostegno delle argomentazioni dell’ASGI circa la
natura discriminatoria ed illegittima delle delibere assunte dall’ ente. Grazie
all’interrogazione presentata al Parlamento europeo dall’europarlamentare Donata Gottardi, del gruppo socialista europeo (PSE), la commissione europea
alla Giustizia, libertà e sicurezza presieduta da Franco Frattini è intervenuta sottolineando nella
risposta ufficiale in aula che : “ogni cittadino dell’Unione gode di pari
trattamento “…”e le norme del Trattato impediscono qualsiasi discriminazione in
base alla nazionalità per la concessione dell’accesso a benefici sociali”. La
Commissione ha poi aggiunto poi che “tali disposizioni escludono qualunque possibilità per uno Stato
membro di attribuire particolari privilegi ai propri cittadini senza attribuire
i medesimi privilegi anche ai soggiornanti di lungo periodo residenti in quello
Stato membro”. (sull’argomento si possono visitare on-line le edizioni de “L’Arena”, quotidiano di Verona,
20-21-22 febbraio 2008). Di
conseguenza, la presa di posizione della Commissione Europea costituisce una
chiara disapprovazione e messa in guardia dell’operato dell’amministrazione
comunale di Verona e del suo ente tecnico per la gestione degli immobili
comunali almeno riguardo ai profili discriminatori di tipo diretto, fondati
cioè sul criterio di cittadinanza, contenuti nelle sopraccitate delibere.
Anche alla luce del discutibile
orientamento adottato dalla Corte Costituzionale, rimarrà oggetto di probabile
controversia e dibattito la valutazione dell’ impatto discriminatorio di tipo
indiretto dei requisiti di anzianità di residenza, per il quale forse varrebbe
la pena di insistere sotto il profilo legale, magari attraverso un ricorso alla
Corte europea dei diritti dell’uomo ovvero cercando il rinvio pregiudiziale da
parte di un giudice nazionale presso la Corte di Giustizia europea.
Pubblichiamo di seguito il testo integrale
dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 32/2008
ANNO
2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale
dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5
gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in
Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti
locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)»,
introdotto dall'art. 1, lettera a), della
legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla
legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in
Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti
locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», promosso
con ordinanza del 27 luglio 2006 dal Tribunale amministrativo regionale della
Lombardia sul ricorso proposto da Erbetti Francesca ed altri contro il Comune
di Busnago ed altra, iscritta al n. 222 del registro ordinanze 2007 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione
della Regione Lombardia e delle articolazioni territoriali di Milano del
Sindacato Inquilini Casa e Territorio (SICeT) ed altri, del Sindacato
Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari (SUNIA), della Confederazione
Generale Italiana del Lavoro (CGIL) e della Unione Sindacale Regionale della
Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (USR CISL), nonché l'atto di intervento della
CGIL e della CISL nazionali; udito nella udienza pubblica del 15
gennaio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi gli
avvocati Vittorio Angiolini e Giuseppe Sante Assennato per il SICeT territoriale
di Milano ed altri e per la CGIL e CISL, sia nelle loro articolazioni
territoriali lombarde sia nazionali, ed Enzo Cardi per la Regione Lombardia. Ritenuto che il
Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sede di Milano) ha
sollevato, con ordinanza del 27 luglio 2006, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della
legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del
sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n.
112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle
regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo
1997, n. 59)», introdotto dall'art. 1, lettera a), della
legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla
legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in
Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali,
in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», in riferimento
agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera
m), terzo, e 120 della Costituzione, nella parte in cui
prevede che «per la presentazione della domanda per l'assegnazione di alloggi
di edilizia residenziale pubblica di cui al comma 3 dell'articolo 1 del
regolamento regionale 10 febbraio 2004, n. 1 (Criteri generali per
l'assegnazione e la gestione
degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l.r.
1/2000), i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività
lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo
immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda»; che il rimettente premette di essere chiamato
a giudicare in ordine all'annullamento dei provvedimenti del Comune di
Busnago – assunti in data 23 novembre 2005, nn. 12500 e 12501 –
impugnati dalle ricorrenti Erbetti Francesca e Chica Quinonez Emma Veronica,
assieme alle articolazioni milanesi del Sindacato Inquilini Casa e Territorio
(SICeT) territoriale di Milano, del Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e
Assegnatari (SUNIA) provinciale di Milano, della Confederazione Generale
Italiana del Lavoro (CGIL) lombarda, e dell'Unione sindacale Regionale della
Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (USR CISL); che, ricorda ancora il Tar rimettente, i
ricorrenti chiedevano l'annullamento dei provvedimenti sopra citati con i
quali il Comune di Busnago rigettava le domande di assegnazione di alloggio
di edilizia residenziale pubblica (in seguito erp), presentate in data 22
ottobre 2005 dalle signore Erbetti Francesca e Chica Quinonez Emma Veronica,
poiché – ai sensi della legge regionale della Lombardia n. 7 del 2005 –
«i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in
Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente
precedente alla data di presentazione della domanda», requisito mancante ad
entrambe le istanti; che, quindi, rigettate le eccezioni di
inammissibilità formulate dalla Regione Lombardia in merito alla
legittimazione attiva sia delle due ricorrenti che delle suddette
organizzazioni sindacali, il rimettente evidenzia come – prima della
legge regionale n. 7 del 2005 e del regolamento regionale 27 marzo 2006, n.
5, recante «Modifiche al regolamento regionale 10 febbraio 2004, n. 1
(Criteri generali per l'assegnazione
e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3,
comma 41, lett. m) l. r. 1/2000», la Regione Lombardia, con il regolamento regionale n. 1
del 2004, recante «Criteri generali per l'assegnazione e la gestione degli alloggi di
edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l. r.
1/2000», aveva stabilito che, per l'assegnazione degli alloggi erp, si
dovesse tener conto – in aggiunta ai criteri del disagio familiare,
abitativo ed economico – anche degli anni di residenza nella Regione
stessa, attribuendo un punteggio ulteriore (5 punti per un anno fino ad un
massimo di 90 per oltre 20 anni di residenza in Lombardia) e che proprio il
Tar Lombardia, sezione prima, con sentenza del 29 settembre 2004, n. 4196,
non impugnata dalla Regione, aveva annullato il suddetto regolamento
regionale ritenendo che introducesse un elemento estraneo alla ratio della
normativa sull'edilizia residenziale pubblica; che, si ricorda ancora nell'ordinanza di
rimessione, la Regione Lombardia ha successivamente approvato la legge
regionale n. 7 del 2005, la quale (per i profili qui coinvolti) ha introdotto
nell'art. 3 della legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1, il censurato comma 41-bis; che, in punto di rilevanza, il giudice a
quo sottolinea come i provvedimenti impugnati sono
stati adottati in virtù della norma censurata e, conseguentemente, in caso di
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma suddetta, il ricorso
presentato contro gli atti di esclusione potrà trovare accoglimento, mentre,
nel caso contrario, lo stesso dovrà essere rigettato, in quanto gli atti
impugnati sarebbero «fedele e corretta applicazione del disposto normativo de
quo»; che, quanto alla non manifesta infondatezza, il Tar rimettente ritiene di
doverla esaminare in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117,
commi primo, secondo, lettera m), terzo, e
120 della Costituzione; che, a parere dello stesso Tar, la norma
censurata viola l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, anche in
relazione all'art. 47 Cost., e all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.,
in quanto la legge regionale n. 7 del 2005 viola (con l'introduzione del
requisito della residenza o, comunque, del lavoro in Lombardia protratto per
cinque anni) i principi fondamentali in materia di edilizia residenziale
pubblica, fissati dalle leggi dello Stato: in particolare, viola la «finalità
di favorire l'accesso all'abitazione a condizioni inferiori a quelle di
mercato, a categorie di cittadini meno abbienti», affermata, secondo il
rimettente, sia dalle sentenze n. 299 del 2000, n. 135 e n. 150 del 2004, che
dal regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del T.U. delle
disposizioni sull'edilizia economica e popolare), e confermata dalle leggi
statali più recenti; che la legge regionale, sempre secondo
l'ordinanza di rimessione, contrasterebbe ancora con il disposto dell'art.
117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, perché
limiterebbe l'accesso all'erp, intervenendo sulla determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, livelli
essenziali che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale; che, per il rimettente, sarebbe altresì
violato l'art. 3 della Costituzione, in quanto la norma impugnata
introdurrebbe un fattore discriminatorio, rapportato alla durata del lavoro o
della residenza in Lombardia, così escludendo dall'accesso alle abitazioni
residenziali pubbliche proprio coloro che, in quanto non radicati da lungo
tempo sul territorio regionale e alla ricerca di un lavoro, «si trovano in
condizioni di maggiore difficoltà e di maggiore disagio»; che la norma impugnata si porrebbe in
contrasto anche con l'art. 120 della Costituzione, poiché renderebbe più difficoltosa la
mobilità tra Regioni a chi versa in stato di bisogno, rendendo «difficile
lavorare in una regione a chi non vi sia da tempo stabilmente insediato»; che, inoltre, la disposizione denunciata determinerebbe la violazione degli
art. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, in quanto la normativa censurata
appare, sempre secondo l'ordinanza di rimessione, ispirata «dall'intento di
neutralizzare, mediante la modifica formale della fonte normativa,
l'orientamento assunto in materia da questo TAR con la sentenza n. 4196/94»,
intento «che non può non risultare lesivo della funzione giurisdizionale»; che,
infine, la stessa norma, sempre per il Tar rimettente, verrebbe a violare
l'art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione all'art. 48 (poi 39) del trattato CE,
perché la normativa censurata contrasterebbe con il diritto dei lavoratori
alla libera circolazione nell'ambito della Unione europea proprio in ragione
del richiamato requisito della residenza come criterio per l'accesso alla
prestazione; che si è costituito in giudizio il Presidente
della Giunta regionale della Lombardia, il quale ha chiesto che la questione
sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata; che, con riferimento all'art. 117, commi
secondo, lettera m), e terzo, della Costituzione, anche in
relazione al precedente art. 47, l'inammissibilità viene eccepita «per
mancata indicazione della norma statale interposta che si intenderebbe
violata, stante la generica indicazione di violazione dei principi
fondamentali in materia di edilizia residenziale pubblica», mentre, nel
merito, la questione sarebbe manifestamente infondata in base alla
considerazione che quasi tutte le leggi regionali in tema di erp prevedono,
tra i requisiti soggettivi richiesti, il criterio della residenza e/o quello
della prestazione di attività lavorativa nel Comune o, comunque, nell'ambito territoriale cui si
riferisce il bando di concorso; che la Regione sottolinea, altresì, come
questa Corte ha sempre ritenuto l'erp «nuova materia di competenza regionale»
(sentenza n. 29 del 1996), nonché come l'art. 60 del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 112, abbia conferito alle Regioni «tutte le funzioni amministrative
relative alla gestione e all'attuazione degli interventi in materia di
edilizia residenziale pubblica»; e che «l'assegnazione e gestione degli
alloggi di edilizia residenziale pubblica, come già affermato da questa
Corte, costituisce, in linea di principio, espressione della competenza
spettante alla Regione in questa materia (ordinanza n. 526 del 2002)»; che, relativamente alla censura riferita
all'art. 117, primo comma, della Costituzione, anche in relazione all'art. 48
(poi 39) del trattato CE, la difesa regionale ne sostiene l'infondatezza, in
quanto il criterio oggettivo della residenza prolungata ovvero della attività
lavorativa «non incide minimamente sulla cittadinanza delle persone
interessate ed è assolutamente commisurato agli scopi perseguiti dal diritto
interno»; che, quindi, la difesa regionale ritiene
inammissibile la questione di legittimità prospettata e comunque infondate le
censure sollevate in riferimento agli artt. 101, 102, 103, 104 e 111 della
Costituzione, stante la genericità delle argomentazioni contenute
nell'ordinanza di rimessione, nonché la totale estraneità dei parametri costituzionali evocati
alla materia di cui trattasi; che, in particolare, con riguardo all'art. 101
della Costituzione (per il quale, nelle conclusioni, si richiede la
dichiarazione di infondatezza, ma nel testo della memoria si richiama anche
un profilo di inammissibilità), la Regione rileva che la sentenza n. 4196 del
2004 del Tar Lombardia aveva per
oggetto l'annullamento del regolamento regionale n. 1 del 2004: ne
conseguirebbe, quindi, se fosse accolta la tesi del rimettente, che la
Regione sarebbe priva del potere di legiferare a seguito di una sentenza di
annullamento di una normativa secondaria, con rovesciamento di quanto prevede
l'art. 101 della Costituzione che dispone che i giudici siano sottoposti alla
legge; che, quanto all'art. 120 della Costituzione,
la difesa regionale ritiene la censura infondata, richiamando tra l'altro la
sentenza n. 51 del 1991 della Corte costituzionale secondo la quale «il
divieto imposto a ciascuna Regione dall'art. 120, secondo comma, della
Costituzione […], non comporta una preclusione assoluta, per gli atti
regionali, di stabilire limiti al libero movimento delle persone e delle
cose»; che, inoltre, la difesa della Regione ritiene
infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con
riferimento all'art. 3 Cost., sottolineando la ragionevolezza della opzione
normativa che tiene conto della «limitatezza della risorsa» e, quindi,
introduce «regimi differenziati» per l'accesso al beneficio della fruizione
dell'alloggio, e richiamando, altresì, a sostegno della propria affermazione,
le numerose analoghe leggi di altre Regioni, nonché la giurisprudenza di
questa Corte (sentenze n. 432 del 2005, n. 34 del 2004, n. 1 del 1999 e
ordinanza n. 268 del 2001); che, per quanto riguarda l'asserita violazione
dell'art. 47 della Costituzione (in realtà evocato in combinato con gli artt.
117, comma secondo, lettera m, e terzo, della Costituzione)
la Regione sottolinea come la materia di cui trattasi sia di piena competenza
regionale, richiamando la giurisprudenza di questa Corte; che, in prossimità dell'udienza, la Regione
Lombardia ha depositato memoria illustrativa, nella quale ha, in sostanza,
ribadito le precedenti argomentazioni, sia in ordine all'inammissibilità che
all'infondatezza della questione; che, in particolare, quanto al merito, dopo
aver ribadito le precedenti conclusioni, ha ricordato come la sentenza n. 94
del 2007, abbia chiarito che la competenza statale di cui all'art. 117,
secondo comma, lettera m), della Costituzione, «riguarda la
determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le
esigenze di ceti meno abbienti», mentre la legge regionale di cui trattasi si
occupa di erp e, quindi, ricade (secondo la ripartizione individuata dalla
citata sentenza) nella competenza residuale delle Regioni, le quali possono
legittimamente «adottare autonomi ed ulteriori meccanismi» selettivi
(sentenza n. 80 del 2007), finalizzati ad un miglior funzionamento del
sistema di assegnazione degli alloggi stessi. che, nell'imminenza dell'udienza, anche il
SICeT di Milano, la CGIL e la CISL – tutti già costituiti nel giudizio a
quo – hanno presentato memoria, ribadendo la
rilevanza della questione, nonché la fondatezza della censure; che, quanto alla violazione degli artt. 3 e 47
della Costituzione, hanno richiamato la giurisprudenza di questa Corte sulla
natura del diritto all'abitazione in virtù degli artt. 2 e 47 della
Costituzione (sentenze n. 203 del 2003, n. 419 del 1991, nn. 404 e 217 del
1988); che, per le parti costituite, ugualmente
fondata sarebbe la censura relativa alla violazione dell'art. 117 della
Costituzione: in particolare, ritengono vi sia violazione dell'art. 117,
secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto appartiene
alla competenza statale esclusiva la «fissazione dei principi che valgono a
garantire uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il territorio
nazionale» dell'offerta «di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei
ceti meno abbienti»; che la disciplina della Regione Lombardia sia,
del resto, chiaramente discriminatoria nei confronti degli immigrati, specie
extra comunitari e che sia anche in contrasto con lo stesso art. 40, comma 6,
del decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), come successivamente integrato e modificato,
sarebbe confermato dalla circostanza che i cinque anni di residenza richiesti
sono chiaramente finalizzati ad introdurre un criterio selettivo che
sostanzialmente impedisca l'accesso al beneficio a tutti i lavoratori
immigrati, in contrasto anche con la chiara indicazione della giurisprudenza
costituzionale, la quale afferma che il diritto degli stranieri immigrati ad
accedere all'erp è «già riconosciuto in via di principio» nel nostro testo
costituzionale (sentenza n. 300 del 2005); che, sempre secondo le parti costituite, la
disposizione impugnata violerebbe l'art. 117, primo comma, della
Costituzione, con la precisazione che la norma censurata non è in contrasto
soltanto con la disciplina del trattato CE, relativa alla libera circolazione
(su cui maggiormente insiste il Tar rimettente), ma anche con i principi della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a
Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), come interpretati dalla Corte di Strasburgo; che, infatti, la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell'uomo da tempo (quanto meno a partire dalla sentenza
del 16 settembre 1996, Gaygusuz c. Austria) ha «enucleato il
principio, desunto direttamente dall'art. 14 CEDU, per cui ciascuno ha
diritto ad usufruire della distribuzione di beni o benefici pubblici aventi
rilievo anche economico senza subire discriminazioni che non dipendano dal
corretto svolgimento delle finalità pubblicistiche perseguite» e che principi
analoghi sono stati affermati, anche di recente, nella sentenza 25 ottobre
2005, Okpisz v. Germania, e Niedzwiecki
v. Germania; che, la difesa delle associazioni ritiene,
altresì, che l'art. 3, comma 41-bis, venga a
violare l'art. 120 della Costituzione, poiché ostacola la libera circolazione
delle persone e dei lavoratori nel territorio nazionale; che, d'altra parte, non può ritenersi
ragionevole (alla stregua dell'art. 3 della Costituzione) l'utilizzo di
criteri selettivi giustificati dalla pretesa necessità di contenimento della
spesa pubblica e/o dalla valorizzazione dell'apporto lavorativo offerto dai
cittadini residenti alla produzione del benessere collettivo, visto che
l'erp, secondo quanto afferma il rimettente riportando l'orientamento di
questa Corte, ha «il compito, a carico della collettività, di favorire
l'accesso all'abitazione, a canoni inferiori a quelli correnti sul mercato, a
categorie di cittadini meno abbienti», intendendo per «collettività» quella
nazionale, dalla quale provengono gli interventi speciali che finanziano
l'erp, considerazione questa che ulteriormente dimostrerebbe la necessità di
evitare discriminazioni che siano correlate alla permanenza della residenza
nelle singole regioni per periodi temporali di durata del tutto
irragionevole; che le articolazioni territoriali di SICeT,
CGIL e CISL, concludono richiamando la sentenza n. 496 del 2000 della Corte
costituzionale e ribadendo, quanto alla violazione degli artt. 101, 102, 103,
104 e 111 della Costituzione, gli argomenti del rimettente; che sono, altresì, intervenute in giudizio la
CGIL e la CISL nazionali, chiedendo che la questione venga dichiarata
fondata; che le stesse hanno depositato memoria in data
2 gennaio 2008, congiuntamente alle associazioni territoriali, già parti nel
giudizio principale, nella quale dichiaravano di essere intervenute nel
presente giudizio di costituzionalità con il solo scopo di «affiancare le
loro articolazioni e rappresentanze nella Regione Lombardia, a cui è comunque
riconosciuta anche statutariamente piena soggettività di stare in giudizio,
per testimoniare, accanto alla rilevanza dell'oggetto della controversia, la
concordia e l'impegno pieno delle organizzazioni sindacali nel domandare il
ripristino della legalità costituzionale». Considerato che il
Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sede di Milano) con
l'ordinanza in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione
Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie
in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti
locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)»,
introdotto dall'art. 1, lettera a), della
legge Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7 (Modifiche alla legge regionale
5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia.
Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e
compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in
attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», in riferimento agli
artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e
120 della Costituzione, nella parte in cui prevede, tra i requisiti per la
presentazione delle domande di assegnazione degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica, che «i richiedenti devono avere la residenza o
svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per
il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della
domanda», requisito mancante ad entrambe le istanti; che il rimettente censura la disposizione in
questione in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117,
commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della
Costituzione, in quanto la stessa introdurrebbe un fattore di discriminazione
tra i cittadini per l'accesso al servizio, violerebbe i principi fondamentali
in materia di erp fissati dalle leggi dello Stato, interverrebbe sulla
determinazione dei livelli essenziali, nonché contrasterebbe con il diritto
dei lavoratori alla libera circolazione di cui all'art. 48 (ora 39) del
trattato CE e di cui all'art. 120 della Costituzione, e sarebbe, infine,
ispirata dalla finalità di neutralizzare il giudicato determinatosi sulla
stessa materia; che, in via preliminare, deve prendersi atto
della rinuncia implicita degli intervenienti CGIL e CISL nazionali alla
pretesa di essere parte nel presente giudizio, risultando dalla memoria
depositata il 2 gennaio 2008 che l'intervento di cui trattasi era solo
finalizzato a testimoniare l'identità di valutazioni, in ordine ai dubbi di
costituzionalità della norma censurata, con le rispettive strutture
territoriali, già parti nel giudizio a quo; che, con riguardo alla censura di cui agli
artt. 117, primo comma, e 120 della Costituzione, la questione deve ritenersi
inammissibile per carenza di motivazione in ordine al parametro di cui si deduce la
violazione; che,
quanto alla lamentata violazione dell'art. 117, terzo comma, della
Costituzione anche in relazione all'art. 47 Cost., e dell'art. 117, secondo
comma, lettera m), Cost., la questione deve ritenersi
manifestamente infondata, perché la materia di cui trattasi rientra nella
competenza residuale delle Regioni e non investe, in ogni caso, la
problematica della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
relative ai diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio
nazionale; che, in proposito, questa Corte ha avuto anche
di recente modo di ribadire come «una specifica materia “edilizia
residenziale pubblica” non compare tra quelle elencate nel secondo e terzo
comma dell'art. 117 Cost.», così che esiste un terzo livello normativo che
rientra nel quarto comma dell'art. 117 della Costituzione, il quale investe,
appunto, la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale
pubblica e, conseguentemente, coinvolge la individuazione dei criteri di
assegnazione degli alloggi dei ceti meno abbienti (da ultimo, sentenza n. 94
del 2007); che anche la lamentata violazione da parte
della norma censurata dell'art. 3 della Costituzione, in quanto introduttiva
di un fattore discriminatorio irragionevole e ingiustificato per l'accesso
all'erp rapportato alla durata della residenza o del lavoro in Lombardia,
deve ritenersi manifestamente infondata, in quanto, al riguardo, questa Corte
ha avuto già modo di affermare che il requisito della residenza continuativa,
ai fini dell'assegnazione, risulta non irragionevole (sentenza n. 432 del
2005) quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende
perseguire (sentenza n. 493 del 1990), specie là dove le stesse realizzino un
equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (ordinanza n.
393 del 2007); che, rispetto agli ulteriori profili di
censura prospettati dall'odierno rimettente in riferimento agli artt. 101,
102, 103, 104 e 111 della Costituzione, non si è ravvisato, per effetto della
norma contestata, alcuna compromissione dell'esercizio della funzione
giurisdizionale, la quale opera su di un piano diverso rispetto a quello del
potere legislativo, tanto più considerando che il giudicato evocato era
riferito a normazione di rango secondario; che, pertanto, anche quest'ultima censura deve
ritenersi manifestamente infondata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5
gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in
Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti
locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)»,
introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante
Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle
autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112
(Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni
ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n.
59)», sollevata, in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 120 della
Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con
l'ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5
gennaio 2000, n. 1, introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio
2005, n. 7, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 47, 117, commi secondo,
lettera m), e terzo,
101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11
febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. |
Pubblichiamo di seguito il testo del comunicato
dell’UNAR dd. 18.02.2008 indirizzato all’AGEC di Verona
Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità Ufficio per la promozione della parità di
trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica Prot. N. 97/UNAR Roma, 18 febbraio 2008-02-26 Spett. AGEC Agenzia Gestione Edifici Comunali Palazzo dei Diamanti Via Enrico Noris, 1 37121 Verona E p.c. Spett. ASGI Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione Viale XX settembre 16 34125 Trieste Egregi Signori, riscontriamo con la presente la nota 20
gennaio 2008 dell’ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione, con la quale è stata eccepita la illegittimità delle
Vostre delibere n. 4 del 4 settembre 2007 e n. 23 del 25 settembre 2007 nella
parte in cui esse introducono, ai fini della elaborazione della graduatorie
per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, delle
maggiorazioni di punteggio secondo criteri discriminatori nei confronti dei
non cittadini. Nello specifico, essa favorirebbe i cittadini italiani residenti nel
comune di Verona (discriminazione diretta) ed i nuclei familiari composti da
anziani che siano residenti nel Comune di Verona da più di dieci anni
(discriminazione indiretta). Come saprete, il decreto legislativo 9
luglio 2003 n. 215 – in attuazione della direttiva comunitaria n.
2000/43/CE del 20 giugno 2000 – ha istituito in Italia l’Ufficio
Nazionale Antidiscriminazioni Razziali nell’ambito della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, con il compito di garantire efficacemente il principio
della parità di trattamento e di no discriminazione, indipendentemente dalla
razza o dall’origine etnica. Uno dei compiti più importanti affidati
dall’Ufficio dal decreto legislativo è quello di fornire ausilio ed
assistenza alle vittime delle discriminazioni svolgendo, nel rispetto dei
poteri dell’Autorità giudiziaria, inchieste autonome su fenomeni
discriminatori e, in particolare, su segnalazioni ricevute da parte di vittime o testimoni di azioni discriminatorie.
Inoltre, il comma 2 dell’articolo 7 del citato decreto legislativo, alla
lettera e) abilita lo scrivente ufficio a “formulare raccomandazioni e pareri
su questioni connesse alle discriminazioni per razza o origine etnica, nonché
proposte di modifica della normativa vigente”. La nota ricevuta dall’ASGI, infatti,
sollecita lo scrivente ufficio a “formulare una raccomandazione ed un parere
in merito alla vicenda segnalata”. Quanto sopra premesso, non possiamo
esimerci dal rilevare che la segnalazione dell’ASGI, per come corredata dalla
relativa documentazione, appare senz’altro fondata. Al fini della formulazione del parere,
questo ufficio non può che aderire integralmente alle argomentazioni
giuridiche svolta dall’ASGI, che ben colgono gli aspetti della
discriminazioni diretta e della discriminazione indiretta nel caso in specie. In particolare, le disposizioni di favore
che sono previste in correlazione diretta con il possesso del requisito della
cittadinanza italiana – oltre che contra legem – appaiono anche non giustificate
sia riguardo all’oggetto delle relative determinazioni (attribuzione degli
alloggi di edilizia residenziale) che riguardo agli scopi di codesto ente. Per le motivazioni di cui sopra, Vi
invitiamo a voler annullare in via di autotutela le predette deliberazioni,
in quanto è manifesta in esse la violazione dell’art. 2 del citato D.Lgs. n.
215/2003. Con l’occasione, si ricorda che a tutela
del divieto di discriminazione per motivi di razza o origine etnica opera
l’art. 4 della medesima legge, che prevede un’apposita azione civile snella e
celere con cui il giudice può rimuovere l’atto o il comportamento
discriminatori e prevedere anche un risarcimento del danno, e che lo scrivente
Ufficio si riserva di intervenire nell’eventuale procedimento giudiziale che
dovesse essere intrapreso dalle persone direttamente discriminate ovvero
dalle associazioni aventi autonoma legittimazione in tale senso. Nel manifestare la disponibilità dell’UNAR
a fornire ulteriori delucidazioni sulla normativa in tema di contrasto alle
discriminazioni, e nel
ringraziarVi anticipatamente per l’attenzione, si resta in attesa di un
Vostro cortese riscontro, nel quale si dia possibilmente atto della
evoluzione della vicenda e degli eventuali atto i provvedimenti adottati. Distinti Saluti. Il Direttore Generale (cons. Marco De Giorgi) |
2.
LE
ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI DISCRIMINATORI
DI ENTI LOCALI DEL NORD ITALIA.
A.
Accolto dal Tribunale di Milano il ricorso urgente presentato da una
donna marocchina contro la circolare
del Comune di Milano che aveva previsto l’esclusione dei minori figli di
stranieri irregolarmente presenti
dall’iscrizione alle scuole
per l’infanzia. L’ordinanza del Tribunale civile di Milano riconosce il
carattere discriminatorio del provvedimento.
L’11 febbraio scorso il
Tribunale civile di Milano ha accolto, con apposita ordinanza, e a seguito di
una procedura d’urgenza, il ricorso presentato ex art. 44 del T.U. immigrazione
(azione giudiziaria anti-discriminazione) da una cittadina marocchina contro la decisione dell’Amministrazione
comunale di Milano di escludere i “minori non regolarizzati”, in quanto figli
di immigrati privi del permesso di soggiorno, dall’accesso alle scuole materne (si veda in proposito Newsletter del Progetto Leader n. 13/gennaio 2008).
Tale decisione dell’Amministrazione comunale era stata adottata con circolare
n. 20 del 17.12.2007 volta a disciplinare le modalità di iscrizione alle scuole
dell’infanzia per l’anno educativo 2008/2009 che così disponeva: “Le
famiglie prive di regolare permesso di soggiorno avranno la possibilità di
iscriversi, purché ottengano il permesso di soggiorno entro la data del 29
febbraio 2008. La mancata presentazione del permesso di soggiorno entro tale
data non consentirà la formalizzazione della domanda di iscrizione”.
Il giudice civile di Milano ha accolto sostanzialmente tutte le
argomentazioni sollevate nell’azione legale promossa dalla ricorrente e sostenuta dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri, soci
dell’ASGI e membri dell’Associazione “Avvocati di Strada”.
L’ordinanza del Tribunale di Milano ha innanzitutto
confermato una ormai consolidata giurisprudenza affermante la possibilità di adire al giudice
civile anche in materia di
dinieghi di accesso a pubblici servizi o a dinieghi di accesso a concorsi
pubblici, entrambe materie che rispettivamente l’art. 33 del d.lgs. n. 80/1998
(come modificato dalla l. n. 205/2000) e l’art. 63, c. 4 d.lgs. n. 165/2001
devolvono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ciò
innanzitutto per la natura di diritto soggettivo perfetto a fondamento
costituzionale della posizione fatta valere in giudizio dal discriminato (la
tutela del principio di uguaglianza e di dignità umana); in secondo luogo
perché la disposizione dell’art. 44 T.U. immigrazione, integrata e confermata
dai due artt. 4 d.lgs. n. 215 e
216/2003, si pone come lex specialis rispetto alle norme generali in tema di riparto di
giurisdizione ed anche come lex posterior, trattandosi di norma successiva alla l. n. 205/2000
(per un approfondimento in
proposito si rimanda a : A. Guariso, I provvedimenti del giudice, in Marzia Barbera (a cura di ), Il nuovo
diritto anti-discriminatorio,
Giuffrè, 2007, pag. 610).
Secondo il giudice civile di Milano, il provvedimento del comune di
Milano configge con la peculiare posizione del minore straniero così come
appare delineata dallo stesso TU sull’immigrazione, peraltro in piena ed
effettiva aderenza alle convenzioni internazionali, ed in particolare alla
Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo.
Il giudice rammenta che a
norma dell’art. 38 comma 1 del T.U. immigrazione, ai minori stranieri presenti
sul territorio nazionale si
applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all’istruzione,
di accesso ai servizi educativi e
di partecipazione alla vita scolastica. Pertanto, il riferimento al diritto
all’istruzione e all’accesso ai servizi educativi a favore dei minori stranieri
anche solo presenti sul territorio nazionale fa estendere il suo campo di
applicazione al di là dell’obbligo scolastico, ricomprendendo certamente anche
la scuola materna, che si pone in diretta connessione funzionale alla scuola
dell’obbligo, realizzando per espressa previsione normativa “il profilo
educativo e la continuità educativa con il complesso dei servizi all’infanzia e
con la scuola primaria” (art. 1 d.lgs.vo n. 59/04). Questo in linea anche con
le norme internazionali in materia di protezione dell’infanzia, prime fra tutte
quella di cui alla Convenzione sui diritti del fanciullo .
Secondo il giudice di Milano, inoltre, prevedere il requisito della residenza anagrafica quale
condizione per l’ammissione dei minori stranieri alle scuole per l’infanzia
equivale di fatto ad escludere in maniera irragionevole la possibilità per i
minori stranieri di accedere al servizio in condizioni di parità con gli altri
soggetti, essendo la residenza anagrafica subordinata alla regolarità del
soggiorno dei genitori. Per tale ragione, tale requisito dovrebbe essere
sostituito con quello dell’accertamento in fatto della dimora abituale
nell’ambito del territorio comunale.
L’ordinanza del Tribunale di Milano, avente natura di provvedimento
urgente e cautelare, come previsto dall’art. 44 c. 5 del TU sull’immigrazione,
dichiara dunque la natura discriminatoria del provvedimento del Comune di
Milano e ordina al Comune di Milano la cessazione del medesimo. Per la
definizione della causa, con le conseguenti ulteriori decisioni in materia di
risarcimento del danno a favore della parte ricorrente, è stata fissata una
nuova udienza per il giorno 15 maggio 2008.
Di seguito il testo integrale dell’ordinanza
del Tribunale civile di Milano, 11 febbraio, 2008.
Tribunale di Milano, Sez. I Civile, Ordinanza
dell’11 febbraio 2008, Giudice Dott. Marangoni. R.E.M. – Comune
di Milano. In ordine al ricorso ex art. 44 D.Lgsvo 286/98 proposto da R. E. M. -
in proprio e nell’interesse della figlia minore D. O. - nei confronti del
COMUNE DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore. Ha sostenuto che tale previsione costituisce comportamento
discriminatorio ai sensi degli artt. 43 e 44 D.Lgsvo 286/98, tenuto conto che
l’art. 38 TU immigrazione prevede il diritto per i minori stranieri presenti
sul territorio nazionale di usufruire dei servizi educativi a parità delle
condizioni previste dalla legge per i cittadini italiani, mentre - sotto
altro profilo - ad essi viene assicurata la possibilità di soggiornare sul
territorio nazionale a prescindere dalla condizione di eventuale irregolarità
dei loro genitori, così come sancito dalla Convenzione sui diritti del
fanciullo. Si è costituita nel giudizio l’amministrazione convenuta, rilevando le
diverse modalità previste dalla contestata circolare per l’iscrizione alla
scuola dell’infanzia, ivi comprese quelle rivolte agli stranieri non in
regola con le norme relative al soggiorno, dalle quali si può evincere che la
condizione di irregolarità nel soggiorno rileva nella formazione delle
graduatorie ma non è ostativa all’effettiva accoglienza del bambino. Ha dedotto
che il requisito della residenza richiesto per l’iscrizione alla scuola
materna – a prescindere dalla nazionalità del minore – condiziona
l’accesso al servizio ed il possesso del permesso di soggiorno è presupposto
per l’iscrizione anagrafica tra i cittadini residenti, mentre per gli
stranieri privi di permesso di soggiorno la circolare contestata prevede la
possibilità di iscrizione nei casi segnalati dai servizi sociali. Ha fatto
presente che la scuola materna si distingue dalla scuola dell’obbligo, quest’ultima
obbligatoria e gratuita per tutti, risultando invece la prima organizzata
come servizio a domanda individuale, non obbligatorio e non gratuito, e che
tra i diritti fondamentali assicurati al cittadino straniero - ancorché non
in regola con le norme in materia di soggiorno - rientrano esclusivamente il
diritto alla salute e quello all’assistenza sanitaria, in quanto attinenti al
nucleo dei diritti inviolabili, oltre che alla vita, al decoro, alla libertà,
all’abitazione ecc. La normativa richiamata dalla ricorrente, secondo l’amministrazione
convenuta, non consentirebbe la piena equiparazione della condizione del
minore straniero irregolarmente soggiornante con quella del minore in regola
con il permesso di soggiorno, risultando essa destinata solo ad evitare
l’espulsione per il minore ma non ad estendere il divieto di espulsione ai
genitori irregolari. Ha quindi sostenuto che in ogni caso nessuna discriminazione può
individuarsi nel contenuto della circolare in questione, risultando il
presupposto della residenza comune a cittadini italiani e stranieri e
dovendosi individuare un effetto discriminatorio solo nella negazione
assoluta del diritto e non nella mera postergazione dello stesso rispetto a
cittadini residenti o a stranieri regolarmente soggiornanti. 2. Le eccezioni relative al difetto di giurisdizione del giudice
ordinario e di carenza di interesse ad agire – seppure formulate dalla
resistente amministrazione solo a chiusura del suo atto di costituzione in
giudizio – devono essere affrontate in via logicamente preliminare
rispetto al merito della controversia. Ritiene il giudicante che sussista la giurisdizione del giudice
ordinario in merito alla presente controversia. Lo stesso art. 43 D.Lgsvo 286/98 peraltro esplicita e definisce
ulteriormente tale prospettiva, definendo discriminatorio qualunque
comportamento che – direttamente od indirettamente - abbia lo scopo o
l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o
l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà
fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni
altro settore della vita pubblica. La circostanza che, nella fattispecie, il
comportamento che si assume lesivo del diritto in parola sia riconducibile
all’applicazione di un atto amministrativo (la circolare n. 20 del Settore
Servizi all’Infanzia del Comune di Milano) non vale a mutare la natura della
posizione soggettiva azionata, che non può essere degradata ad interesse
legittimo neppure in conseguenza dell’emanazione di un atto da parte di
un’autorità amministrativa. Il diritto alla non discriminazione è infatti un diritto fondamentale,
di rilievo costituzionale, primario ed assoluto dell’individuo, come tale
incomprimibile dall’amministrazione e dunque di naturale competenza del
giudice ordinario, pur se oggetto dell’azione amministrativa. A tal fine deve ritenersi irrilevante la circostanza che, nel
delineare i presupposti per l’esercizio dell’azione giurisdizionale contro le
discriminazioni, l’art. 44 D.Lgsvo 286/98 si riferisca testualmente a “comportamenti” discriminatori di privati o di pubbliche
amministrazioni, senza nominare gli “atti”. Il carattere di assolutezza del
diritto alla non discriminazione determina, infatti, proprio il superamento e
l’irrilevanza della distinzione tra atto e comportamento della pubblica
amministrazione (cui corrisponde, correlativamente, la distinzione tra
interesse legittimo e diritto soggettivo in capo al privato): poiché il
diritto alla non discriminazione è un diritto incomprimibile, che si sottrae
al meccanismo dell’affievolimento, di fronte ad esso non vengono in rilievo
atti amministrativi (intesi come manifestazione di un potere autoritativo
attraverso cui la p.a. incide unilateralmente sulla posizione del privato
degradandola), ma semplici comportamenti, per definizione inidonei a
determinare qualsivoglia affievolimento. Anche il rilievo secondo il quale, a mente dell’art. 33 D.Lgsvo 80/98,
ogni controversia in materia di pubblici servizi risulterebbe devoluta alla
cognizione del giudice amministrativo non può ritenersi fondato, posto che in
materia di tutela contro i comportamenti discriminatori, gli artt. 43 e 44
D.Lgsvo 286/1998 stabiliscono espressamente che l’azione debba essere
proposta al giudice ordinario, e ciò per il caso in cui il comportamento
discriminatorio - posto in essere tanto da un privato quanto da una pubblica
amministrazione - si sostanzi nell’imposizione di condizioni più svantaggiose
o nel rifiuto di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio,
all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali
soltanto in ragione della condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, religione, etnia o nazionalità del soggetto che assume in
suo danno la sussistenza della fattispecie discriminatoria (v. in tal senso
Tribunale Milano 21.3.2002; Corte d’appello Firenze 2.7.2002). Le citate disposizioni del D.Lgsvo 286/1998, in quanto successive ed
aventi natura di lex specialis, prevalgono dunque sul disposto attinente alle controversie in
materia di servizi pubblici di cui all’art. 33 D.Lgsvo 80/98. Anche
l’eccezione relativa alla presunta carenza di interesse ad agire della
ricorrente appare priva di effettivo fondamento. Se si pone mente non già
all’assenza di un provvedimento di rigetto dell’amministrazione a fronte di
una istanza di iscrizione – non ancora presentata al momento del
deposito del ricorso – bensì al reale oggetto dell’azione, e cioè alla
presenza di un atto amministrativo di cui si deduce l’effetto
discriminatorio, appare evidente che l’attualità e la concretezza del
pregiudizio appare verificabile sul piano della sussistenza (astratta) delle
condizioni soggettive della parte ricorrente (condizione di straniera
extracomunitaria della figlia di minore età, mancanza di permesso di
soggiorno) rispetto alle quali troverebbe applicazione la disposizione
assunta come integrante il dedotto comportamento discriminatorio (termine
entro il quale presentare il permesso di soggiorno del nucleo familiare a
pena di mancata formalizzazione dell’iscrizione). In tale prospettiva appare dunque irrilevante che nessun provvedimento
sia stato adottato dall’amministrazione, risultando l’effetto restrittivo
all’accesso al servizio prospettato come già attuale per effetto della
disposizione presente nella circolare in questione in danno delle parti
ricorrenti, rispetto alle quali è prospettabile un diretto ed imminente
pregiudizio connesso all’esistenza della disposizione contestata. 3. La circolare n. 20 del 17.12.2007 nel regolare le modalità di
iscrizione alle scuole dell’infanzia – riservata “ai bambini nati
dal 1° gennaio 2003 al 30 aprile 2006 e appartenenti a nuclei familiari
residenti a Milano alla data di iscrizione” – prevede espressamente, quanto agli
stranieri extracomunitari, che “le famiglie prive di regolare permesso di
soggiorno avranno la possibilità di iscriversi, purché ottengano il permesso
di soggiorno entro la data del 29 febbraio 2008. La mancata presentazione del
permesso di soggiorno entro tale data non consentirà la formalizzazione della
domanda di iscrizione.” Ritiene il giudicante che i rilievi mossi a tali disposizioni dalla
difesa delle ricorrenti siano fondati e debbano essere accolti nei limiti di
seguito specificati. Deve invero ritenersi che la legittimità della scelta di condizionare
l’accesso alla scuola dell’infanzia del minore straniero al possesso da parte
del suo nucleo familiare del permesso di soggiorno entro la data del 29.2.2008
debba essere valutata tenendo ben presente la condizione del minore straniero
quale appare delineata dallo stesso TU sull’immigrazione, peraltro in piena
ed effettiva aderenza alle convenzioni internazionali che si sono occupate di
tali problemi. In primo luogo deve essere richiamato l’art. 38 comma 1 D.Lgsvo
286/98, il quale per un verso assoggetta i minori stranieri “presenti sul
territorio” all'obbligo
scolastico e quindi determina l’applicazione ai medesimi di “tutte le
disposizioni vigenti in materia di diritto all'istruzione, di accesso ai
servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica”. La scuola dell’infanzia, pur non obbligatoria e non indirizzata
direttamente all’istruzione del minore in senso stretto, è comunque pienamente
inserita nell’ambito del più complessivo sistema scolastico nazionale tanto
che essa “nella sua autonomia e unitarietà didattica e pedagogica,
realizza il profilo educativo e la continuità educativa con il complesso dei
servizi all'infanzia e con la scuola primaria” (art. 1 D.Lgsvo 59/04, in attuazione del
principio di cui alla lett. d) dell’art. 1 L. 53/03), con ciò ponendosi
esplicitamente in diretta connessione funzionale alla scuola dell’obbligo e
così rientrando a pieno titolo nel più complesso sistema dell’istruzione
scolastica ancorché la scelta se usufruirne o meno sia lasciata alla
decisione dei genitori. Peraltro, ove si ritenesse di valorizzare lo specifico profilo che
caratterizza la scuola dell’infanzia – quello cioè rivolto “all’educazione
ed allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo, morale, religioso e
sociale delle bambine e dei bambini promuovendone le potenzialità di
relazione, autonomia, creatività, apprendimento” al fine di “assicurare un’effettiva
eguaglianza delle opportunità educative” (così ancora l’art. 1 D.Lgsvo 59/04) – non
potrebbe in ogni caso fondatamente contestarsi l’inerenza di tale istituto
all’ambito dei servizi educativi, il cui accesso risulterebbe peraltro
garantito dal menzionato art. 38 comma 1 D.Lgsvo 286/98 a tutti i minori
comunque “presenti sul territorio”, e dunque anche ai minori formalmente privi di
permesso di soggiorno. Tale disposizione, invero, da un lato pone a carico dei soggetti
responsabili del minore – siano essi i genitori, se ad essi accompagnati,
che ad enti od associazioni, ove a questi essi siano affidati –
l’obbligo scolastico previsto dalla legislazione nazionale (e quindi le
conseguenti sanzioni previste in caso di elusione di tale obbligo), ma nella
seconda parte del medesimo comma riconosce al minore una serie di diritti più
ampi che completano il più generale aspetto educativo – di cui il
diritto all’istruzione è parte, ma non in sé esaustiva – che non può
non concernere tutti i minori, anche al di fuori della specifica fascia d’età
dell’obbligo scolastico ed in particolare nella fascia dell’infanzia. D’altra parte pare incontestabile che il diritto all’educazione di cui
il minore è titolare rientri nel novero dei diritti fondamentali in relazione
agli artt. 2 e 3 Cost. – non trovando minor rilievo del diritto al
decoro, all’abitazione, alla corrispondenza ecc. – nonché all’art. 28
della Convenzione dei diritti del fanciullo del 20.11.1989, ancorché in tale
ultima disposizione risultino espressi particolari disposizioni in tema di
obbligo scolastico e di istruzione superiore. 4. L’aspetto tuttavia più marcatamente critico della previsione della
circolare contestata consiste nella subordinazione della possibilità di
accesso alla scuola materna alla titolarità da parte del nucleo familiare del
minore di permesso di soggiorno alla data stabilita. Va rilevato sotto tale profilo che la posizione del minore nell’ambito
della regolamentazione del soggiorno dello straniero sul territorio dello
Stato appare del tutto peculiare ed autonoma rispetto a quella dei suoi
familiari, presenti o meno anch’essi sul territorio dello Stato. L’amministrazione resistente ha fondato la difesa della disposizione
contestata della circolare sostanzialmente sul fatto che legittimamente è
stato posto quale presupposto di ammissibilità dell’iscrizione il requisito
della residenza nel territorio comunale, richiesto a chiunque –
cittadino o straniero – che richiede l’iscrizione al servizio. La residenza anagrafica presuppone a sua volta per lo straniero
extracomunitario l’esistenza di un valido permesso di soggiorno e ciò
giustificherebbe l’esclusione del minore appartenente a famiglia priva di
permesso di soggiorno dalla possibilità di formalizzare l’iscrizione. Ritiene questo giudice che tale regolamentazione non possa ritenersi
coerente con la posizione giuridica che l’ordinamento attribuisce
direttamente al minore, in quanto essa indebitamente condiziona e subordina
l’esercizio di diritti propri del minore alle condizioni di regolarità del
soggiorno dei genitori. Il presupposto della residenza nel territorio comunale appare in sé
indiscutibilmente legittimo quale condizione di fruibilità del servizio, ma
il riferimento formale alla mera titolarità di iscrizione anagrafica appare
di fatto escludere in maniera irragionevole la possibilità per il minore di
accedere al servizio in condizioni di parità con altri soggetti. Se è vero, infatti, che il solo possesso del permesso di soggiorno
rilasciato al minore ai sensi dell’art. 28 comma 1 lett. a) Dpr. 394/99 non
consentirebbe di per sé l’iscrizione anagrafica del solo minore – in
quanto evidentemente le disposizioni della L. 1228/54 e del Dpr. 223/89 in
tema di iscrizione anagrafica attribuiscono al soggetto esercente la potestà
l’obbligo di iscrizione del minore nell’ambito del nucleo familiare di appartenenza
- e che la mancanza di permesso di soggiorno da parte dei genitori non
consente l’iscrizione anagrafica del nucleo familiare, appare evidente che la
connessione stabilita dalla circolare tra la condizione di regolarità dei
genitori e la possibilità di iscrizione del minore è tale da pregiudicare
nella sua sostanza il diritto proprio del minore ad usufruire di un servizio
pubblico al quale esso ha indubbiamente diritto di iscriversi a parità di
condizioni con gli altri cittadini. In tale prospettiva non risulterebbe rilevante il fatto che il minore,
pur avendone pieno titolo, in concreto non sia (formalmente) titolare di
permesso di soggiorno – in quanto evidentemente tale omissione non
potrebbe essere ad esso addebitabile al punto da compromettere l’esercizio
dei diritti ad esso spettanti – mentre il requisito della residenza ben
potrebbe essere valutato in fatto, richiedendosi dunque che il minore abbia
in concreto la propria dimora abituale nell’ambito del territorio comunale. In tale contesto la possibilità di esercitare il diritto
all’iscrizione alla scuola materna risulta di fatto compromesso
dall’apposizione di ostacoli meramente formali e privi di effettiva
giustificazione, obbiettivamente in contrasto con l’obbligo – vigente
sia per le istituzioni pubbliche che per le stesse autorità giurisdizionali
– di tenere in primaria considerazione l’interesse superiore del minore
(art. 3 comma 1 Convenzione sui diritti del fanciullo). Deve dunque concludersi che sussistono i presupposti per ritenere
integrata nel caso di specie l’ipotesi discriminatoria contemplata dall’art.
43 comma 1, lett. c) D.Lgsvo 286/98, posto che la disposizione contestata
appare idonea a determinare indebitamente l’effetto di escludere i minori
stranieri extracomunitari le cui famiglie risultano prive di permesso di
soggiorno dalla possibilità di iscriversi alla scuola dell’infanzia del
Comune di Milano. Tale previsione appare idonea a determinare il riscontrato
effetto discriminatorio in capo alla minore qui ricorrente, risultando la madre
attualmente priva di permesso di soggiorno – ancorché in attesa della
definizione del procedimento ex art. 31 D.Lgsvo 286/98, dall’esito non
prevedibile – e la figlia minore, nata a Milano, coabitante con la
madre nell’ambito del comune di Milano. 5. Sulla base dell’accertamento del comportamento discriminatorio così
individuato deve dunque essere ordinata la cessazione degli effetti della
parte di circolare ritenuta ad effetto discriminatorio, risultando tale
pronuncia sufficiente – tenuto conto che il termine per inoltrare le
domande di iscrizione non appare ancora decorso alla data di deposito del presente
provvedimento – ad evitare il dispiegarsi di effetti definitivi
pregiudizievoli per gli interessi dei minori. In considerazione della particolare struttura del procedimento
previsto dall’art. 44 D.Lgsvo 286/98, che contempla secondo il prevalente
orientamento dottrinale e giurisprudenziale un’ulteriore fase di merito da
concludersi con sentenza definitiva, deve inoltre provvedersi per l’ulteriore
corso del procedimento, rinviandosi alla decisione definitiva sia le
ulteriori questioni relative al risarcimento del danno che la regolazione
delle spese del giudizio. P.q.m. visti gli artt. 43 e 44 D.Lgsvo 286/98: 1)
in
accoglimento del ricorso presentato da R. E. M. nell’interesse della figlia
minore D. O., dichiara il carattere discriminatorio posto in essere dal
COMUNE DI MILANO mediante l’emanazione della circolare n. 20 del 17.12.2007
del Settore Servizi all’Infanzia nella parte in cui subordina l’iscrizione
del minore extracomunitario all’ottenimento da parte della famiglia del
medesimo del permesso di soggiorno entro la data del 29.2.2008, a pena di non
formalizzazione della domanda di iscrizione; 2)
ordina al
Comune di Milano la cessazione del suddetto comportamento discriminatorio e
la rimozione dei suoi effetti;
|
B. La sezione regionale dell’ASGI del
Friuli-Venezia Giulia interviene contro l’ordinanza del Sindaco di Azzano
Decimo (prov. di Pordenone) che limita per i cittadini stranieri il diritto
alla fruizione degli interventi e dei benefici di assistenza sociale previsti
dalla legislazione nazionale e regionale. L’ASGI sottolinea i profili
discriminatori dell’ordinanza e chiede alla Giunta regionale del F.V.G. di
esercitare i poteri sostitutivi di autotutela.
Con ordinanza n. 4 dd. 23 gennaio 2008 il Sindaco leghista del comune di
Azzano Decimo (prov. di Pordenone, Regione Friuli-Venezia Giulia) ha dato
disposizione ai competenti servizi comunali di limitare l’erogazione dei
contributi e delle prestazioni assistenziali previsti dalla legislazione
nazionale e regionale (tra cui il reddito base di cittadinanza) nei confronti
dei cittadini stranieri (comunitari e extracomunitari), disponendo nel contempo
che in caso di avvenuta erogazione dei medesimi, venga sistematicamente data segnalazione agli uffici di polizia per
l’attivazione di eventuali procedimenti di allentamento.
Il Sindaco di Azzano Decimo si era già segnalato in passato per la
promozione di ordinanze e provvedimenti apertamente discriminatori, tra cui la
decisione di sanzionare l’uso del velo islamico (ordinanza poi annullata dal
Prefetto di Pordenone e quindi definitivamente bocciata dal TAR Friuli Venezia
Giulia), così come di limitare le possibilità di iscrizione degli stranieri nei
registri anagrafici, imitando così provvedimenti analoghi adottati nel vicino
Veneto.
Avendo in considerazioni i molteplici profili di illegittimità del
provvedimento del Sindaco di Azzano Decimo, la sezione regionale dell’ASGI del
F.V.G. ha inviato un proprio parere al Presidente della giunta regionale,
Riccardo Illy, chiedendo alla Regione di diffidare l’Amministrazione comunale
dalla messa in atto dell’ordinanza
e, nel caso di effettiva lesione di posizioni soggettive, di applicare i
provvedimenti sostitutivi di autotutela previsti dalla legislazione regionale.
Avendo in considerazione i profili discriminatori del provvedimento
amministrativo, l’ASGI ha richiesto pure l’intervento dell’UNAR nonché ha
inviato una segnalazione al Segretario generale della Commissione Europea
rilevando anche la violazione della normativa comunitaria riferita in
particolare allo status dei cittadini comunitari che esercitano il diritto alla
libertà di circolazione.
Pubblichiamo di seguito il testo integrale del
parere della sezione regionale dell’ASGI del Friuli-Venezia Giulia.
Trieste/Torino, 10 febbraio, 2008 OGGETTO:
Profili di illegittimità e discriminatori dell’ordinanza del Sindaco del
Comune di Azzano Decimo (prov. di Pordenone) avente per oggetto “l’applicazione
della disciplina prevista dalla legge 8 novembre 2000, n. 328 e dalle leggi regionali 31 marzo 2006 e 4
marzo 2005 n. 5 per i cittadini comunitari e loro familiari, cittadini
extracomunitari muniti di permesso di soggiorno e cittadini extracomunitari
soggiornanti di lungo periodo” (ordinanza n.
4 dd. 23 gennaio 2008). Preg.mo Dott. Riccardo Illy,
La presente viene inviata dalla
Sezione regionale del F.V.G. dell’A.S.G.I. (Associazione per gli Studi
Giuridici sull’Immigrazione), associazione che riunisce avvocati, docenti
universitari ed operatori legali
impegnati sulle tematiche dell’immigrazione. L’ASGI partecipa in qualità di
partner ad un progetto denominato LEADER (Lavoro e Occupazione senza
Discriminazioni Razziali e Religiose) inserito nel programma europeo EQUAL II
e che ha l’obiettivo di definire strategie di contrasto e tutela dei
cittadini immigrati dalle discriminazioni etnico-razziali e religiose. Le scriviamo perché siamo venuti a conoscenza della recente ordinanza
del Sindaco del Comune di Azzano Decimo (prov. di Pordenone) avente per
oggetto “l’applicazione della disciplina prevista dalla legge 8 novembre
2000, n. 328 e dalle leggi
regionali 31 marzo 2006 e 4 marzo 2005 n. 5 per i cittadini comunitari e loro
familiari, cittadini extracomunitari muniti di permesso di soggiorno e
cittadini extracomunitari soggiornanti di lungo periodo” (ordinanza n. 4 dd. 23 gennaio 2008). Con tale
ordinanza, il Sindaco di Azzano Decimo dispone l’esclusione dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti
dagli interventi di assistenza sociale erogabili dalla propria
amministrazione, con l’ulteriore indicazione al proprio personale competente
di provvedere alla segnalazione
all’autorità di pubblica sicurezza di eventuali richieste di assistenza
presentate da cittadini stranieri in stato di bisogno, ai fini dell’avvio di
eventuali provvedimenti espulsivi o di allontanamento dal territorio
nazionale. Tale
ordinanza suscita sconcerto ed indignazione per la sua contrarietà a basilari principi di solidarietà sociale, del rispetto
dell’integrità e della dignità della persona umana, della deontologia dei servizi di assistenza sociale e
dei suoi operatori, la cui funzione di
promozione della coesione e della cittadinanza sociale viene ridotta e
svilita a quella di meri
coadiutori di eventuali provvedimenti di allontanamento dal territorio dei cittadini stranieri. Sul piano più strettamente giuridico che a noi compete, riteniamo che tale ordinanza, per la sua forma e i suoi contenuti,
ecceda arbitrariamente le
competenze dell’ente locale e si ponga in violazione con numerose
disposizioni di diritto internazionale, comunitario ed interno, nazionale e
regionale, come di seguito andremo a illustrare. Di conseguenza, anche in considerazione dell’effetto emulativo che
tali e simili provvedimenti
sembrano suscitare presso diversi amministratori di enti locali del Nord-est del
nostro Paese, ci rivolgiamo a Lei affinché la giunta regionale del F.V.G.,
riscontrata l’illeggittimità del provvedimento del Sindaco di Azzano Decimo,
provveda ad esercitare i poteri sostitutivi previsti dall’art. 60 della L.R.
n. 6/2006 a salvaguardia dell’effettiva attuazione delle disposizioni in essa
contenute (1) . Violazione
delle norme di diritto internazionale L’ordinanza del
Sindaco di Azzano Decimo sembra prefigurare l’esclusione dei cittadini
stranieri, comunitari e non, regolarmente residenti nel territorio
comunale, dall’erogazione di
provvidenze e servizi sociali. L’esclusione dei
cittadini stranieri, comunitari e non comunitari, legalmente soggiornanti,
dalle prestazioni di assistenza sociale, ivi comprese le provvidenze che
costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente in
materia di servizi sociali, inclusa quella regionale, costituisce
innanzitutto una violazione delle norme di diritto internazionale vincolanti
per il nostro Paese. La Convenzione
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) n. 143/1975, ratificata
con legge 10 aprile 1981 n. 158, e recepita dal nostro ordinamento nell’art.
2 del d.lgs. n. 286/98,
garantisce, infatti, alla generalità dei lavoratori migranti, che si
trovano legalmente sul territorio di uno Stato membro, senza discriminazioni
di reddito, o basate sull’anzianità, sul consolidamento del loro soggiorno, o
altri requisiti, il principio della parità di opportunità e trattamento
rispetto ai cittadini nazionali anche in materia di assistenza sociale. (2) L’illegittimità di misure volte ad escludere i
cittadini stranieri dal beneficio di prestazioni sociali sulla base di un
mero criterio di cittadinanza (status civitatis)
e a prescindere da ulteriori criteri obiettivi e razionali trae origine anche
dagli obblighi scaturenti dall’adesione dell’Italia alla Convenzione europea
dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Sebbene la Convenzione
europea non contenga disposizioni in materia di diritto alla sicurezza
sociale, la tutela dei diritti “patrimoniali”, introdotta per mezzo dell’art.
1 del Protocollo 1 alla Convenzione medesima, è stata interpretata dalla
Corte di Strasburgo come estensibile anche alle “prestazioni sociali”,
comprese quelle di tipo “non contributivo”, applicando di conseguenza anche a
tali benefici il principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della
Convenzione. (3) Dalla disamina
delle citate norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia per
l’effetto degli art. 10 c. 2 e 35 della Costituzione, per quanto concerne le
disposizioni della Convenzione OIL, e dell’art. 117 1° comma per quanto
concerne le norme della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, ne
consegue la dubbia legittimità costituzionale dell’art. 80 c. 19 della legge
n. 388/2000, che, senza darsi carico di un compiuto inserimento delle nuove
norme nel sistema, ha parzialmente innovato la portata dell’art. 41 della
d.lgs. n. 286/98 introducendo il requisito della carta di soggiorno (ora
permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti) per l’accesso all’assegno
sociale e a tutte le provvidenze economiche che costituiscono diritti
soggettivi in base alla
legislazione vigente in materia di servizi sociali. (4) Alla luce di
quanto sopra, appare coerente con gli obblighi costituzionali l’operato del
legislatore regionale del Friuli-Venezia Giulia, il quale, con la legge regionale 31 marzo 2006 n. 6 ha
voluto recepire nel territorio regionale quanto previsto dalla legge
nazionale n. 328/2000, avvalendosi tuttavia delle proprie prerogative in una
materia nella quale non sussiste una potestà esclusiva dello Stato ma ove lo
Stato può definire norme aventi
natura di principi
fondamentali, che definiscono
dunque degli standard minimi, da applicarsi sull’intero territorio
nazionale, ma eventualmente estensibili con norme più favorevoli da parte del
legislatore regionale. In tale direzione, il legislatore regionale ha inteso
estendere l’ambito dei destinatari degli interventi ai cittadini stranieri
legalmente soggiornanti in Italia ai sensi del d.lgs. n. 286/98 e residenti
nel territorio regionale, così come ha previsto opportunamente un principio
di parità di trattamento senza distinzione di status civitatis per l’accesso al
reddito di base di cittadinanza, quale prestazione sociale avente natura di
diritto soggettivo, di cui all’art. 59 della L.R. medesima. (5) La scelta del
legislatore regionale, oltrechè pienamente legittima nel quadro delle
ripartizione delle competenze e potestà legislative tra Stato e regioni,
appare pienamente concordante con il quadro degli obblighi internazionali
assunti dal nostro paese con l’adesione ai menzionati trattati internazionali
che definiscono un principio di parità di trattamento e di non
discriminazione in materia di accesso alle prestazioni di assistenza sociale
a favore di tutti i lavoratori migranti regolarmente soggiornanti. L’ordinanza del
Sindaco di Azzano Decimo è indubbiamente illegittima non solo con riferimento
alle norme di diritto internazionale e costituzionale, ma anche con
riferimento alle disposizioni specifiche di diritto comunitario e nazionale riferite al soggiorno
dei cittadini comunitari e non. Per i
cittadini comunitari e loro familiari: Non appaiono
condivisibili i contenuti nel dispositivo dell’ordinanza volti ad escludere
dal diritto alle prestazioni sociali, ivi comprese quelle aventi natura di
diritto soggettivo, previste dal sistema integrato di interventi e di servizi per la promozione e la tutela dei diritti di
cittadinanza sociale, i
cittadini comunitari e loro familiari che hanno esercitato il diritto alla
libera circolazione, con l’unica eccezione – par di capire, vista
l’approssimativa costruzione grammaticale e di sintassi- di apposite deroghe,
le quali, peraltro, non vengono mai definite con precisione nella delibera. La citazione
operata dal Sindaco del Comune di Azzano Decimo delle norme di diritto
comunitario sul soggiorno dei
cittadini comunitari appare innanzitutto approssimativa, superficiale e
selettiva in quanto non tiene
conto che nello stesso diritto comunitario il principio generale per cui il
soggiorno di breve durata cessa se l’interessato diviene un onere eccessivo
per il sistema di assistenza sociale dello Stato ospitante necessita di
un’applicazione non rigida, ma
flessibile e proporzionata, secondo i dettami e i criteri consolidati
nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, recepita nel considerando
n. 16 delle premesse alla direttiva n. 2004/38/CE e nell’art. 14 del testo,
per cui “una misura di allontanamento non dovrebbe essere la conseguenza
automatica del ricorso al sistema di assistenza sociale. Lo Stato membro
ospitante dovrebbe esaminare se si tratta di difficoltà temporanee e tener
conto della durata del soggiorno, della situazione personale e dell’ammontare
dell’aiuto concesso […] In nessun caso una misura di allontanamento dovrebbe
essere presa nei confronti di lavoratori subordinati, lavoratori autonomi o
richiedenti lavoro, quali definiti dalla Corte di Giustizia, eccetto per
motivi di ordine pubblico o pubblica sicurezza”. A
tale fine, occorre ricordare che secondo l’art. 14 c. 4 lett. b) della
direttiva, la persona in cerca di occupazione è protetta dall’espulsione,
anche se ricorre al sistema di assistenza sociale, purchè possa dimostrare di
essere alla ricerca di un posto di lavoro e di avere buone possibilità di
trovarlo, recependosi così l’indicazione della giurisprudenza della Corte di
Giustizia europea, che ha affermato che il diritto di soggiorno per cercare
lavoro viene meno solo allorché si sia dimostrato che l’interessato “si trova
nell’impossibilità oggettiva di ottenere un posto di lavoro” (sentenza del 26
maggio 1993, C-171/91, Tsiotras). I rigidi
automatismi previsti dal d.lgs. n 30/2007 di recepimento della direttiva
europea n. 2004/38/CE che vincolano strettamente il diritto al soggiorno per
un periodo superiore ai primi tre mesi
e fino al conseguimento del diritto al soggiorno permanente, al
possesso dei mezzi di sostentamento definiti in base ai parametri
dell’assegno sociale di cui al riferimento all’art. 29 comma 3 , lettera b) del d.lgs.
n.286/98, non sembrano tenere sufficientemente conto degli obblighi di
proporzionalità e flessibilità richiamati dall’art. 14 della direttiva
europea, esponendo potenzialmente il nostro paese ad una procedura
d’infrazione. In secondo luogo,
l’ordinanza del Sindaco del Comune di Azzano Decimo non tiene conto che il
principio generale per cui il soggiorno di breve durata del cittadino
comunitario cessa se l’interessato diviene un onore eccessivo per il sistema
di assistenza sociale deve essere interpretato e armonizzato alla luce del
diritto alla parità di trattamento e di non discriminazione nelle materie
coperte dal Trattato, di cui agli artt. 12 e 39 del Trattato CE, dell’art. 34
della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (in materia di previdenza e
assistenza sociale), delle norme del Regolamento CEE n. 1408/71 e successive
modifiche (relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale dei
lavoratori migranti subordinati, autonomi e loro familiari), ed in
particolare agli artt. 3 e 4, e
dell’art. 7 del regolamento CEE n. 1612/1968 e successive modifiche, che
estende il principio di parità di trattamento con i lavoratori nazionali a
tutti “i vantaggi fiscali e sociali collegati alla condizione di
lavoratore” . A riguardo del Regolamento CEE n.
1408/71, gli artt. 3 e 4
estendono ai lavoratori comunitari che hanno esercitato il diritto
alla libera circolazione e dunque si trovano regolarmente nel territorio
dello Stato membro le “prestazioni sociali in denaro a carattere non
contributivo” previste per i
lavoratori nazionali ed incluse nell’allegato II bis (tra cui ad esempio l’assegno
sociale, l’assegno e le pensioni di invalidità, pensioni ed indennità ai
ciechi e sordomuti….). Ulteriormente, la giurisprudenza della Corte di
giustizia europea ha interpretato in senso molto ampio la nozione di
vantaggio sociale e fiscale di cui all’art. 7 del Regolamento n. 1612/68 come
tutti quei vantaggi che, “connessi o no ad un contratto di lavoro, sono
generalmente attribuiti ai
lavoratori nazionali, in ragione principalmente dello loro status obiettivo
di lavoratori o del semplice fatto della loro residenza nel territorio
nazionale, e la cui estensione ai lavoratori cittadini di altri Stati membri
risulta quindi atta a facilitare la loro mobilità nell’ambito della Comunità” (sentenza della Corte di Giustizia del 31 maggio 1979, 207/78). Meritano
di essere ricordati in proposito i casi in cui la Corte ha affermato il
diritto del lavoratore migrante a fruire di agevolazioni finanziarie concesse
ai nazionali in occasione della nascita di un figlio (sentenza del 14 gennaio
1982, 65/81, Reina), alla riduzione sulle tariffe ferroviarie concesse da un
ente ferroviario nazionale alle famiglie numerose (sentenza del 30 settembre
1975,n. 32/1975). Il reddito di
base di cittadinanza o reddito minimo di inserimento, così come previsto
dall’art. 7 comma 1 d.lgs. n. 237/1998,
dall’art. 23 della legge n. 328/2000, e per quanto riguarda il
territorio della Regione F.V.G.,
dall’art. 59 della L.R. 31.03.2006 n. 6 non è incluso nell’elenco di cui
all’allegato II bis del Regolamento CEE n. 1408/71 tra le prestazioni sociali
non contributive che costituiscono diritti soggettivi per le quali va
assicurato in base a tale strumento di diritto comunitario il principio di
parità di trattamento tra cittadini nazionali e cittadini comunitari e di
Stati terzi che hanno esercitato il diritto alla libera circolazione
all’interno dell’Unione Europea. Ciononostante, esso costituisce senza ombra
di dubbio un vantaggio sociale atto a facilitare la mobilità nell’ambito della Comunità Europea e
collegato alla qualità di lavoratore, ai sensi del Regolamento CEE n. 1612/68
in quanto –come indicato dall’art. 2.2 del Regolamento applicativo
della norma regionale (Decreto Presidente della Regione n. 0278), “la misura
ha l’obiettivo di fornire alle persone un aiuto per acquisire autonomia
economia, inserimento sociale e capacità di perseguire il proprio progetto di
vita”. Si può dunque
concludere che la prospettata volontà del Sindaco del Comune di Azzano Decimo
di escludere i cittadini comunitari
dal sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la
tutela dei diritti di cittadinanza di cui alla L.R. 6/2006 ed in particolare
dal Reddito di base di cittadinanza” di cui all’art. 59 della legge medesima
e dal Regolamento attuativo di cui al Decreto del Presidente della Regione n.
0278, che definisce quali
beneficiari di tale diritto soggettivo i nuclei familiari, di cui almeno un
componente che possa farne richiesta sia residente nel territorio regionale
da almeno un anno, costituirebbe una palese violazione del principio di
parità di trattamento tra lavoratori nazionali e lavoratori comunitari
migranti in materia di vantaggi sociali di cui al Regolamento comunitario n.
1612/68. (6) Parimenti,
l’erogazione di tale beneficio ad un cittadino comunitario e ai suoi
familiari, che abbiano esercitato legittimamente il diritto alla libera
circolazione e al soggiorno nel nostro Paese, e siano dunque titolari delle
apposite certificazioni di iscrizione anagrafica, è atto consequenziale al rispetto di un diritto soggettivo
dei medesimi scaturente dal principio di parità di trattamento di cui alle
citate norme del diritto comunitario e non potrà mai essere di per sé
soltanto presupposto per una procedura di allontanamento. E’ giusto
sottolineare, infine, che
l’applicazione della disciplina di cui al d.lgs. n. 30/2007 in materia
di soggiorno dei cittadini comunitari e loro familiari richiede un
coordinamento ed una collaborazione tra Comuni e le amministrazioni del Ministero dell’Interno, spettando ai
primi le decisioni in materia di registrazioni anagrafiche e ai secondi le
decisioni in materia di allontanamento. Non appare, tuttavia, conforme ai dettami dell’art. 14
della direttiva la disposizione dell’ordinanza del Comune di Azzano Decimo per cui ogni intervento di assistenza
sociale eventualmente disposto a beneficio di un cittadino comunitario o di
un suo familiare verrebbe segnalato all’autorità di pubblica sicurezza ai
fini dell’emanazione di un eventuale provvedimento di allontanamento. Si
rammenta, infatti, che l’art. 14 c. 2 della direttiva n. 2004/38 vieta che verifiche sulle condizioni per il
mantenimento del diritto al soggiorno dei cittadini comunitari e loro
familiari vengano effettuate in maniera sistematica, con ciò vietandosi che
possano instaurarsi prassi assimilabili a forme di ethnic profiling a danno di cittadini comunitari, in special modo se attuate
principalmente o esclusivamente nei confronti di cittadini provenienti da
determinati paesi o di determinate nazionalità. (7) Per i
titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti: Appare
francamente incomprensibile e di nessun fondamento il contenuto
dell’ordinanza volto ad ordinare ai servizi sociali del Comune di Azzano
Decimo il divieto all’erogazione di prestazioni sociali ai cittadini stranieri
di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti
di cui alla Direttiva n. 2003/109/CE, così come recepita in Italia con il
d.gls. n. 3/2007 dd. 09.01.2007. Il permesso di
soggiorno CE per lungo soggiornanti, anche al riguardo delle finalità del suo
rilascio, è volto soprattutto a stabilire per lo straniero una condizione di
avvenuta integrazione e radicamento nel territorio nazionale, ormai
predisposta e prossima all’acquisizione della cittadinanza: ne è
testimonianza non solo il fatto che il rilascio del permesso di soggiorno CE
per lungo soggiornanti sia “a tempo indeterminato”, ma anche l’esplicita previsione di un
principio di parità di trattamento
nella materia dell’assistenza sociale. Tale principio di parità di
trattamento è rinvenibile tanto nel testo della direttiva europea di
riferimento (art. 11 c. 1 lett. d))
(8) quanto nella legislazione nazionale di recepimento, al cui art. 9
c. 12 lett. c) del d.lgs. n. 286/98 così come modificato dal d.lgs. n. 3/2007
si afferma che: “oltre a quanto previsto per lo straniero regolarmente
soggiornante nel territorio dello Stato, il titolare del permesso di
soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può usufruire delle
prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative
ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative
all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l’accesso
alla procedura per l’ottenimento di alloggi di edilizia residenziale
pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata
l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale”. La ventilata
possibilità, dunque, che l’Amministrazione comunale di Azzano Decimo neghi
prestazioni di assistenza sociale
ai cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per lungo
soggiornanti ovvero impedisca loro l’accesso alle prestazioni previste dalla
legge regionale 6/2006, incluso il reddito base di cittadinanza, costituirebbe dunque una palese
violazione delle norme citate della direttiva europea n. 109/2003/CE, delle
norme con le quali essa ha trovato recepimento in Italia (art. 9 e 9 bis del
d.lgs. n. 286/98), dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/98, così come anche
modificato dall’art. 80 della legge n. 388/2000, nonché delle norme nazionali
e regionali in materia di realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali. Non ha alcun
senso né fondatezza l’ulteriore ordine impartito dal Sindaco di Azzano Decimo
di comunicare agli uffici di polizia l’eventuale concessione di prestazioni
sociali a favore di cittadini stranieri titolari del permesso di soggiorno CE
per lungo soggiornanti, avendo in considerazione che il permesso di soggiorno
CE per lungo soggiornanti viene rilasciato a tempo indeterminato e non può
essere revocato per motivi legati alla condizione sociale e ai mezzi di
sostentamento di colui che ne è in possesso, ma solo per motivi di
pericolosità sociale in relazione ai criteri dell’ordine pubblico e sicurezza
dello Stato. Per i
cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti: Ai sensi del disposto di cui agli all’ 4, comma 3
del d.lgs. n. 286/98, applicabile anche alla fattispecie del rinnovo del
permesso di soggiorno in virtù del richiamo operato dall’art. 5 dello stesso
decreto legislativo, si statuisce che viene consentito “l’ingresso nel
territorio allo straniero che dimostri […] la disponibilità di mezzi di
sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno”.
Tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza, in tal modo non viene ad essere
richiesto il possesso di un reddito in senso tecnico, bensì più
genericamente, di mezzi di sussistenza, tra i quali possono ben ascriversi
anche i sussidi e le prestazioni sociali erogate dagli enti locali,
soprattutto se tali provvidenze economiche costituiscono diritti soggettivi ai sensi della
legislazione vigente, come nel caso del reddito di base di cittadinanza
previsto dalla L.R. 6/2006 del F.v.g.. Inoltre, sempre quanto al TU 286/98,
occorre evidenziare che nessuna sua disposizione impone la dimostrazione di
un quantum reddittuale per il rinnovo del
permesso di soggiorno allo straniero che intenda svolgere attività
lavorativa, essendo prevista la dimostrazione di un determinato reddito solo
nell’ambito del ricongiungimento familiare (normativa, peraltro, oggi
radicalmente modificata dal d.lgs. n. 5/07, che esclude ogni automatismo di
astratte cause ostative alla titolarità del permesso di soggiorno familiare)
. In tal senso, si può citare la sentenza del Tribunale amministrativo
regionale per il Piemonte (30.04.2005, n. 1314) relativa al rinnovo del
permesso di soggiorno di una cittadina immigrata percettrice di un compenso
mensile come “borsa lavoro” erogato quale misura di sostegno ai disoccupati
da parte del Comune di Torino. In conclusione, il diritto all’assistenza sociale per
i lavoratori immigrati regolarmente soggiornanti in condizioni di parità di
trattamento con i lavoratori nazionali è sancito innanzitutto da norme di
diritto internazionale vincolanti per il nostro paese (Convenzione OIL n.
143/1975 e, limitatamente alle prestazioni che costituiscono diritti
soggettivi ai sensi della legislazione vigente, dal Protocollo n. 1 alla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali),
nonché dalla normativa regionale di riferimento (L. R. n. 6/2006). Di
conseguenza, il legittimo
godimento delle prestazioni e
benefici sociali da parte di
cittadini immigrati può certamente concorrere al soddisfacimento del
requisito della disponibilità dei mezzi di sostentamento previsto dalla
normativa sulla condizione giuridica dello straniero (TU n. 286/98) ai fini
del rinnovo del permesso di soggiorno. E’ erronea ed infondata la tesi
del Sindaco di Azzano Decimo,
secondo cui le prestazioni sociali erogate a favore di cittadini immigrati
costituirebbero di per sé soltanto il presupposto per un procedimento di
allontanamento dal territorio nazionale. Violazione
delle norme del diritto anti-discriminatorio: E’ del tutto
evidente che l’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo istituisce un
trattamento differenziato fondato unicamente sullo status civitatis del richiedente una prestazione sociale, realizzando così nel contempo un autonomo profilo
discriminatorio in violazione pure della normativa nazionale e di fonte
europea in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali. Si fa qui riferimento innanzitutto all’art. 43 1° comma del Testo Unico
sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/98), che introduce una sorta di clausola generale di non
discriminazione, riprendendo quanto contenuto nell’art. 1 della Convenzione
Internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione razziale, firmata a New York in 7 marzo 1966 e ratificata
dall’Italia con la legge 1.5.1975, n. 654. In base a tale
norma costituisce una discriminazione: “ogni
comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione,
esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore,
l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche
religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il
riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei
diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico,
sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”. La norma evita di restringere
la protezione contro le discriminazioni al solo ambito lavorativo, ma prende
bensì in considerazione quelle condotte che ledano i diritti umani e le
libertà fondamentali anche in campo politico, economico, sociale e in ogni
altro settore della vita pubblica. Il legislatore ha
poi formulato, nel secondo comma della disposizione, una tipizzazione delle
condotte aventi sicuramente una valenza
discriminatoria. L’articolo
prevede infatti che compia “in ogni caso” una
discriminazione anche : a)
“il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la
persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle
sue funzioni compia od ometta
atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua
condizioni di straniero o di appartenente ad una determinata razza,
religione, etnica o nazionalità, lo discriminino ingiustamente”; […] c) “chiunque illegittimamente
imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso
all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi
sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in
Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di
appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;” (…) Dall’esame della normativa citata, emerge
chiaramente che per quanto riguarda i soggetti passivi, una delle condizioni protette dalla
normativa antidiscriminatoria è quella fondata sull’origine nazionale, intesa
non soltanto come appartenenza etnico-razziale del soggetto, ma anche come
cittadinanza straniera (discriminazione in ragione soltanto della condizione
di straniero). (9) Al D.lgs. n. 286/98 si è aggiunto
successivamente il d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea
2000/43/CE che disciplina il principio di non discriminazione in ragione
della razza e dell’origine etnica. Dal considerando n. 12 della direttiva n. 2000/43/CE emerge che i
divieti di discriminazione etnico-razziale coprono pure l’ambito delle
prestazioni sociali: “Per assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti che consentono la partecipazione di tutte le
persone a prescindere dalla razza o origine etnica, le
azioni specifiche nel campo della
lotta contro le discriminazioni basata sulla razza o origine etnica
dovrebbero andare al di là dell’accesso alle attività di lavoro (…) e
coprire ambiti quali (…) le
prestazioni sociali, l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura”. Ciò viene ribadito nel testo della direttiva: “(…)la
presente direttiva si applica a tutte le persone sia del settore
pubblico che del settore
privato, (…), per quanto attiene: (…) f) alle prestazioni sociali; (…) h)
all’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio.” (art. 3, poi recepito quasi letteralmente
dall’art. 3 c. 1 lett. i) del d.lgs. n. 215/2003). Conclusioni: -
La normativa regionale in materia di
interventi e servizi per la promozione dei diritti di cittadinanza sociale
(L.R. n. 6/2006) che stabilisce un principio di parità di trattamento tra
cittadini italiani e stranieri regolarmente soggiornanti in materia di
accesso agli interventi e ai servizi del sistema integrato, incluso il
reddito di base di cittadinanza di cui all’art. 59 e reso esecutivo con
Decreto del Presidente della Regione n. 0278, è pienamente conforme agli
obblighi costituzionali scaturenti dal rispetto delle norme dei trattati internazionali vincolanti
per l’Italia (Convenzione OIL n. 143/75 e Convenzione europea dei diritti
dell’uomo). Stabilendo norme più favorevoli con riferimento ai suoi
destinatari rispetto alla normativa nazionale di riferimento (art. 41 del TU
n. 286/98, legge 328/2000, art.
80 c. 19 l. 388/2000), quest’ultima
di dubbia legittimità costituzionale, la Regione F.V.G. ha esercitato
le propria potestà legislativa nel pieno rispetto di quanto previsto
dall’art. 117 della Costituzione.
Sulla base di una corretta ripartizione di compiti e funzioni, i Comuni,
pertanto, non possono arrogarsi poteri derogatori relativamente alla
definizione in astratto delle categorie dei beneficiari delle disposizioni in
oggetto, che attengono esclusivamente alla potestà legislativa della regione,
nei limiti del rispetto dei requisiti e standard minimi previsti dalla legislazione
statale. L’ordinanza del Comune di Azzano Decimo, dunque, è illegittima in
quanto interviene arbitrariamente in un ambito attinente la potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni. L’ordinanza del Sindaco di Azzano Decimo, oltrechè violare le
sopraccitate fonti di diritto internazionale e la normativa regionale di
riferimento, appare in contrasto con ulteriori disposizioni di diritto
comunitario e nazionale, come di seguito riassunto: -
Rispetto ai cittadini comunitari e loro
familiari, i contenuti dell’ordinanza appaiono in violazione del principio di
parità di trattamento di cui agli artt. 12 e 39 del Trattato CE, dell’art. 34 della Carta dei diritti
fondamentali dell’UE (in materia di previdenza e assistenza sociale), delle
norme del Regolamento CEE n. 1408/71 e successive modifiche (relativo
all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale dei lavoratori migranti
subordinati, autonomi e loro familiari), ed in particolare agli artt. 3 e 4, e dell’art. 7 del regolamento CEE n. 1612/1968
e successive modifiche, che estende il principio di parità di trattamento con
i lavoratori nazionali a tutti i vantaggi fiscali e sociali collegati alla
condizione di lavoratore. La ventilata procedura di sistematica comunicazione
all’autorità di pubblica sicurezza di eventuali interventi sociali
erogati a favore di cittadini
comunitari e loro familiari non appare conforme all’art. 14 della direttiva
europea n. 2004/38. -
Rispetto ai cittadini extracomunitari
titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, i contenuti
dell’ordinanza appaiono in violazione del principio di parità di trattamento
in materia di prestazioni sociali previsto della direttiva europea n. 109/2003/CE, delle norme con le
quali essa ha trovato recepimento in Italia (art. 9 e 9 bis del d.lgs. n.
286/98), dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/98, così come anche modificato
dall’art. 80 della legge n. 388/2000. -
Rispetto ai cittadini extracomunitari
regolarmente soggiornanti ed in possesso del permesso di soggiorno, l’ordinanza
non tiene conto di una corretta interpretazione della norma del TU
immigrazione n. 286/98 in materia di possesso dei mezzi di sostentamento ai
fini del rinnovo del permesso di soggiorno. -
Inibendo l’esercizio del diritto
all’assistenza sociale da parte dei cittadini stranieri regolarmente
soggiornanti, sulla base della sola condizione di stranieri dei medesimi,
l’ordinanza mette in atto una discriminazione vietata dall’art. 43 c.1 e c. 2
lett. a) e c) del TU n. 286/98 e dall’art. 3 c. 1 lett.g) del d.lgs. n.
215/2003, di recepimento della direttiva europea n. 2000/43/CE. Per tali ragioni, sostenendosi la tesi della radicale infondatezza e
illegittimità dell’ordinanza in oggetto, si richiede alla Giunta regionale della Regione
Friuli-Venezia Giulia di adottare, ai sensi dell’art. 60 della L.R. n.
6/2006, i provvedimenti sostitutivi necessari ad assicurare nel territorio del comune di
Azzano Decimo il rispetto delle norme della L.R. n. 6/2006 che sarebbero
altrimenti violate ed inattuate
nei confronti dei cittadini stranieri, comunitari e non. Si trasmette la presente segnalazione all’UNAR (Ufficio Nazionale
Anti-Discriminazioni), presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri-
Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità affinché anch’esso possa,
eventualmente e se lo ritiene opportuno, formulare una raccomandazione ed un
parere in merito, avvalendosi delle prerogative assegnategli dall’art. 7 c. 2
lett. b) e e) del D.lgs. n. 215/2003, in quanto Autorità Nazionale contro le
discriminazioni razziali, costituita per effetto del recepimento della direttiva europea n. 2000/43/CE. Si segnala, inoltre, la presente alla Commissione Europea per
l’eventuale accertamento della violazione delle norme di diritto comunitario
e l’apertura di una procedura d’infrazione nei confronti della Repubblica
Italiana. Distinti Saluti. p.
l’A.S.G.I. sez. reg. F.V.G. Dott. Walter Citti Note (1) Art. 60 L.R. n. 6/2006: “In caso di mancato rispetto dei termini previsti per l’esercizio delle funzioni amministrative di cui alla presente legge o in caso di adozione di atti in violazione di prescrizioni vincolanti, la Giunta Regionale, nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione, previa diffida ad adempiere entro un termine congruo, adotta i provvedimenti anche sostitutivi necessari ad assicurare il rispetto delle norme violate da parte degli enti locali”. (2) L’art.
10 della Convenzione, infatti, così dispone: “Ogni Stato membro per il
quale la Convenzione sia in vigore s’impegna a formulare ed attuare una
politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle
circostanze e agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento
in materia di occupazione e di professione, di assistenza sociale, di diritti
sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le
persone che in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si
trovino legalmente sul suo territorio”. L’art. 2 c.
3 del d.lgs. n. 286/98 così dispone: “La Repubblica Italiana, in
attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata
con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri
regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di
trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”. (3) Art. 1 Protocollo n. 1: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale […]”. Art. 14 della Convenzione europea: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente convenzione deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, sui beni di fortuna, nascita o altra condizione” [sottolineatura nostra]. Per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di prestazioni sociali si veda: Gaygusuz c. Austria, sent. 16/9/1996 relativa a un assegno di urgenza versato ai disoccupati che hanno cessato l’indennizzo ordinario, e finanziato da fondi pubblici; Petrovic c. Austria, sent. 27/3/1998, relativa all’assegno per congedo parentale; Wessels-Bergevoe c. Olanda, sent. 4/6/02 relativa al diritto a una pensione di vecchiaia in favore delle donne coniugate; Willis c. Regno Unito, sent. 11/06/02 relativa ad un prestazione forfetaria per vedove e un assegno alle madri vedove versato per il periodo di custodia dei figli; Kowa Poirrez c. Francia, sent. 30/9/03 relativa all’assegno per i minorati adulti. (4) Il Tribunale di Brescia,
con ordinanza n. 615 dd 15
gennaio 2007, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 11 febbraio 1980,
combinato con l’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 286/98, nella parte in cui
riserva l’indennità di accompagnamento ai soli stranieri titolari di carta di
soggiorno e non anche ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti e
muniti di permesso di soggiorno.
Sulla questione dei profili discriminatori contenuti
nelle norme della legge finanziaria 2001 è intervenuto di recente anche
l’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), il quale, in un parere del
30 settembre 2007 inviato all’INPS, al Ministero del Lavoro e a quello della
Solidarietà Sociale, ha giudicato la norma in esame non conforme agli
obblighi costituzionali e alle norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute, in Newsletter Progetto Leader n. 11/ nov. 2007 disponibile on line sui siti: www.asgi.it
e www.leadernodiscriminazione.it
. Si è peraltro manifestata una giurisprudenza secondo la quale la norma in
oggetto potrebbe essere oggetto di diretta disapplicazione da parte del
giudice senza nemmeno richiedere
il rinvio alla Corte Costituzionale per l’esame della fondatezza della
questione di legittimità costituzionale, come di recente affermato dal
Tribunale di Pistoia (ordinanza del 23 marzo 2007, riprodotta sulla newsletter
n. 7 del Progetto Leader, nonché sul numero 2/2007
della rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”, Franco Angeli Editore con commento a cura di William Chiaromonte
). (5) In sostanza, le previsioni di cui all’art. 41 d.lgs. n. 286/98,
all’art. 2 della legge n. 328/2000, all’art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000
sono atte a definire una sorta
di livello minimo, essenziale di prestazione concernente il diritto
dello straniero alle prestazioni sociali, da garantirsi su tutto il
territorio nazionale, non essendo dunque consentite disposizioni
derogatorie ad opera di eventuali normative regionali o, peggio ancora, di rango inferiore (delibere,
ordinanze comunali o di enti di diritto pubblico locali), che definiscano
standard di trattamento inferiori per i cittadini stranieri.
Di converso, eventuali misure
regionali maggiorative (“al
rialzo”) rispetto a quanto garantito dallo Stato, non possono ritenersi in
contrasto con l’art. 117 comma 2 lett. a ) della Costituzione. In proposito,
si veda Luigi Gili, La condizione di reciprocità non può essere ragione di
discriminazione nell’accesso all’edilizia residenziale pubblica in Diritto Immigrazione e Cittadinanza,
n. 2/2005, pp. 98 ss., Franco Angeli, Milano. (6) Per un ulteriore riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia si cita la sentenza Collins (23 marzo 2004, c-138/02): “tenuto conto dell’istituzione della cittadinanza dell’Unione e dell’interpretazione giurisprudenziale del diritto alla parità di trattamento di cui godono i cittadini dell’Unione, non si può escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 48, n. 2., del Trattato [ora art. 39], il quale è un enunciato del principio fondamentale della parità di trattamento garantito dall’art. 6 del Trattato [ora art. 12], una prestazione di natura finanziaria destinata a facilitare l’accesso all’occupazione sul mercato del lavoro di uno Stato membro”, cit. in Condinanzi Lang Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, Giuffrè, Milano, 2006, pag 105. (7) La raccomandazione n. 11 dell’ECRI (Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza), l’organo indipendente del Consiglio d’Europa specializzato nella lotta al razzismo e alla discriminazione razziale definisce il “racial profiling” come l’uso da parte delle agenzie di pubblica sicurezza di certe categorie quali l’appartenenza o l’origine razziale o etnica, il colore della pelle, la nazionalità, nelle attività di controllo, sorveglianza e investigazione, senza un obiettiva e ragionevole giustificazione. In sostanza, il “racial profiling” è principalmente la conseguenza dell’uso di stereotipi diffusi all’interno degli appartenenti alle agenzie di pubblica sicurezza, per cui le persone appartenenti ad una determinata razza, etnia, nazionalità, religione, provenienza geografica, si presumono maggiormente inclini di altre al compimento di attività e atti criminosi e pertanto sono sottoposte ad una più intesa sorveglianza o a misure specifiche di controllo e investigazione, a prescindere dal comportamento individuale o dall’esistenza di informazioni di intelligence che motivino tali misure. (8) Vale la pena di sottolineare che il considerando n. 13 della direttiva n. 109/2003/CE indica il reddito minimo tra le misure da garantire in ogni caso in condizioni di parità di trattamento con i cittadini nazionali ai titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, anche nei casi in cui gli Stati si avvalgano della possibilità di limitare tale principio alle prestazioni assistenziali aventi natura essenziale. Pertanto il reddito di base di cittadinanza di cui alla legge regionale F.V.G. n. 6/2006 costituirebbe in ogni caso una prestazione assistenziale essenziale da erogare agli stranieri titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, residenti nel territorio regionale, in condizioni di parità con i cittadini italiani, anche qualora l’Italia, nel recepire la direttiva , avesse inteso avvalersi – ma non l’ha fatto – della possibilità di limitare l’estensione del principio di parità di trattamento a favore del titolare del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti alle sole prestazioni di assistenza sociale aventi natura essenziale. (9) Il divieto di discriminazione di cui all’art. 43 del T.U. immigrazione, sebbene inserito nella disciplina attinente alla condizione giuridica dei cittadini migranti di paesi terzi non appartenenti all’Unione Europea, trova applicazione anche rispetto ai cittadini comunitari quali possibili vittime del trattamento discriminatorio. Infatti, la norma prevede espressamente, nel suo ultimo capoverso, che la tutela prevista contro i comportamenti discriminatori trovi applicazione anche nei casi in cui le vittime della discriminazione, in tutti i settori compresi dalla definizione dell’art. 43 T.U., siano cittadini italiani, comunitari e apolidi |
GIURISPRUDENZA
ITALIANA
Il rifugiato riconosciuto ai sensi
della Convenzione di Ginevra ha diritto alla parità di trattamento rispetto al
cittadino italiano per quanto concerne il beneficio di tutte le prestazioni assistenziali che
costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente. Una sentenza
del Tribunale del Lavoro di Milano, dd. 31 gennaio 2008.
Con sentenza depositata il 31 gennaio 2008 la Sezione Lavoro del Tribunale
di Milano ha accolto il ricorso presentato da un rifugiato contro l’INPS ed il
Comune di Milano che avevano rifiutato di corrispondere l’indennità di
accompagnamento al figlio minore riconosciuto invalido totale e permanente.
Motivo del rifiuto la legge 388/2000 che ha modificato l’art. 41 del testo
unico immigrazione e dispone che le provvidenze economiche “che costituiscono
diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi
sociali sono concesse...” ai soli stranieri titolari di carta di soggiorno. Per
il Tribunale, invece, questa normativa di carattere generale non può trovare
applicazione nei confronti dei rifugiati in quanto il loro status giuridico è
del tutto peculiare ed è disciplinato dalla legge di ratifica della convenzione
di Ginevra. In particolare, per quanto attiene alla materia dei diritti
sociali, l’art. 24 equipara la condizione del rifugiato a quella del cittadino.
Questo principio è ora consolidato nell’art. 27 del decreto legislativo
19 novembre 2007, n. 251 che attua la direttiva 2004/83/CE , recante
norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della
qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione
internazionale, nonché norme minime sul
contenuto della protezione riconosciuta.
L’art. 27 stabilisce infatti che “I titolari dello status
di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria hanno diritto al medesimo
trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale
e sanitaria”.
Di seguito il testo integrale della
sentenza del Tribunale di Milano
N. 8802/06 R.G. N.
373 cron. Repubblica Italiana In Nome del Popolo Italiano Tribunale di Milano Sezione controversie di lavoro Nella persona della dott.ssa Giovanna Beccarini Crescenzi,
in funzione di giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella
causa iscritta al nr. 8802 R.G. 2006 di questo Ufficio promossa da N.K.,
in rappresentanza del figlio minore J.N., con i proc. dom. avv. A. Guariso,
E. Polizzi, e L. Neri, viale Regina Margherita, n. 30, Milano RICORRENTE Contro INPS,
in persona del legale rappresentante pro tempore, con il proc. dom. avv. V.
Capotorti, p.zza Missori n. 8/10, Milano COMUNE
DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore, con i proc. dom. avv. M.R.
Surano e S. Amendola, via della Guastalla, n. 8 Milano CONVENUTI MINISTERO
DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore CONVENUTO
– CONTUMACE Oggetto:
Indennità di accompagnamento SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato il 5.12.2006 O.S.N. ha convenuto in
giudizio l’INPS e il Comune di Milano per chiedere al giudice, previo il
riconoscimento del diritto del ricorrente, in qualità di genitore esercente
la potestà sul figlio minore J.N., a percepire l’indennità di
accompagnamento, la condanna dell’INPS a corrispondere i ratei del suddetto
trattamento con decorrenza dall’1.4.2005, primo giorno del mese successivo a
quello della presentazione della domanda in via amministrativa, con interessi
legali dal dovuto al saldo. A sostegno delle indicate domande, premesso di
essere cittadino della R. e di essere giunto in Italia nel luglio 2002, con
la moglie e il figlio J.N. e di aver ottenuto, in data 29.1.2004, lo status
di rifugiato, ha fatto presente che N.J., per effetto delle gravi patologie
di cui era affetto, necessitava di assistenza continua e che, pertanto, era
stata proposta domanda in via amministrativa per ottenere il trattamento
previsto dalla legge n. 18/1980;
che tuttavia, pur essendo stati riconosciuti i requisiti sanitari per
il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, la domanda era stata
respinta per il fatto che egli non era in possesso della carta di soggiorno,
secondo quanto richiesto dall’art. 80 c. 19, legge n. 388/2000 ed ha rilevato
che il suddetto provvedimento era illegittimo, per violazione della
Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28
luglio 1951 e ratificata con
legge n. 722/1954 e, in subordine, ha eccepito l’illeggittimità
costituzionale del citato art. 80, comma 19 per violazione degli artt. 2, 3,
10, 32 e 117 Cost. Ritualmente
costituitosi, l’INPS ha eccepito la carenza di legittimazione passiva in
ordine all’accertamento del requisito sanitario e dello status di invalido
civile ed ha comunque rilevato che, a norma della legge n. 388/2000 e con
effetto dall’01.01.2001, le provvidenze e le prestazioni di assistenza
sociale non spettavano agli stranieri che fossero titolari del solo permesso
di soggiorno, essendo invece necessaria la carta di soggiorno. L’istituto ha
dunque chiesto, in via preliminare, la dichiarazione del suo difetto di
legittimazione passiva, nel merito il rigetto delle domande attrici e in
subordine la limitazione della pronuncia nei confronti dell’ente al semplice
accertamento dell’obbligo di corrispondere la prestazione. Si
è pure costituito il Comune di Milano che pure ha chiesto il rigetto delle
avverse domande. All’udienza
di discussione il procuratore di parte ricorrente dava atto del decesso di
O.S.N. e il processo veniva interrotto. Il
giudizio è stato dunque riassunto da N.K., madre esercente la potestà sul
figlio minore J.N. Disposta
l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero dell’Economia
e delle Finanze, l’Amministrazione non si è costituita e ne è stata
dichiarata la contumacia. Autorizzato
il deposito di note difensive, all’udienza del 5.12.2007, la causa è stata
discussa e decisa, come da dispositivo, pubblicamente letto. MOTIVI DELLA DECISIONE Si
rileva in primo luogo che non è fondata l’eccezione di carenza di
legittimazione passiva sollevata dall’INPS, posto che la normativa di cui al
d.lgs. 112/98 (artt. 129 e 130) ha comunque trasferito all’INPS la funzione di erogazione
dell’indennità di accompagnamento di cui è causa, il suddetto ente, pertanto,
è il soggetto al quale spetta la legittimazione a contraddire in quanto titolare dal lato passivo
dell’obbligazione fatta valere, mentre non può individuarsi nel Comune di
Milano, ovvero nella ASL di residenza del ricorrente, cui la Regione
Lombardia ha trasferito le provvidenze relative agli invalidi civili, il
legittimato passivo. Infatti, la Regione può essere individuata quale
contraddittore solo rispetto alle domande concernenti le prestazioni da essa
stessa determinate, in aggiunta a quelle statali, da erogare integralmente
con fondi propri (cfr., tra le altre, Cass. 2.4.2004, n. 6565, Cass.
20.4.2004, n. 15347, Cass. 16.6.2004, n. 17970). Va pertanto dichiarato il
difetto di legittimazione passiva del Comune di Milano. Inoltre il Ministero dell’Economia e delle Finanze è
contraddittore necessario nell’ambito del presente giudizio, siccome previsto
dall’art. 42 d.l. 30.09.2003 n. 26, il quale dispone che gli atti
introduttivi dei procedimenti giurisdizionali concernenti l’invalidità
civile, la cecità civile, il sordomutismo…devono essere notificati anche al
Ministero dell’Economia e delle Finanze…Nei predetti giudizi il Ministero
dell’Economia e delle Finanze è liticonsorte necessario, mentre solo per i procedimenti
iniziati dopo l’1.4.2007, il Ministero stesso non ha più tale qualità e
l’unico soggetto che deve essere evocato in giudizio è l’INPS. Venendo
al merito, le domande attrici meritano integrale accoglimento per le
considerazioni che seguono. Si
rileva in primo luogo che nella specie non è contestata la sussistenza dei
requisiti di carattere sanitario necessari per il riconoscimento del
trattamento in discussione, infatti nel verbale della Commissione Medica si
riconosce che nei confronti di N.J. “è stata accertata l’invalidità totale e
permanente unitamente al bisogno di assistenza continua (legge n. 18/1980)”. L’erogazione
del trattamento è stata negata in considerazione del disposto dell’art. 80 c.
19, legge n. 388/2000, che dispone testualmente: “Ai sensi dell’art. 41 del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l’assegno sociale e le
provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla
legislazione vigente in materia
di servizi sociali sono concesse alle condizioni previste dalla legislazione
medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le
altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani
è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso
di soggiorno di durata non inferiore ad un anno…”. Il
citato art. 41 disciplinava proprio i casi in cui agli “stranieri” erano “equiparati
ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle
prestazioni, anche economiche” e, prima della modifica, richiedeva all’uopo
la titolarità della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata
non inferiore ad un anno”. Su detta norma ha inteso intervenire il
legislatore, limitando le categorie di “stranieri” aventi diritto a quelle
provvidenze. Tale
disciplina, di carattere generale, a parere del giudicante, non può trovare
applicazione nei confronti dei rifugiati. Rispetto a questi ultimi
l’equiparazione al cittadino era già statuita nella Convenzione relativa allo
statuto dei rifugiati con la legge n. 722/1954, la quale all’art. 23
stabilisce che “in materia di assistenza pubblica, gli Stati contraenti
concederanno ai rifugiati residenti regolarmente sul loro territorio lo
stesso trattamento concesso ai cittadini” e all’art. 24 dispone: “Gli Stati
contraenti concederanno ai rifugiati residenti regolarmente sul loro
territorio lo stesso trattamento concesso ai cittadini per quanto riguarda le
seguenti materie:…b) le assicurazioni sociali (le disposizioni di legge
relative ad infortuni sul lavoro, malattie professionali, maternità,
malattia,vecchiaia, invalidità, morte, disoccupazione, carichi di famiglia e
così pure ogni altro rischio che, conformemente alla legislazione nazionale,
coperto da una forma di assicurazione sociale), salvo: ….ii) particolari
disposizioni della legge nazionale del Paese di residenza, relative alle
prestazioni o frazioni di prestazioni pagabili interamente da fondi pubblici
come pure ai contributi versati a coloro che non hanno raggiunto la quota
richiesta per ottenere una normale pensione”. Le
disposizioni contenute nell’art. 41 d.lgs. n. 286/98 sono volte ad estendere
determinati diritti dei cittadini agli stranieri e quelle del successivo art.
80 legge n. 388/2000 a disciplinare, con ulteriori limiti, tale estensione,
esse non possono trovare applicazione nel caso in specie, in considerazione
della loro generica formulazione e del difetto di qualsiasi specifico
riferimento ai rifugiati, titolari di uno status particolare, oggetto di
specifica disciplina nella sopra richiamata convenzione e, per quel che qui
interessa, già equiparati ai cittadini per effetto dell’art. 24 citato. In
mancanza appunto di uno specifico riferimento alla categoria dei rifugiati,
le sopra richiamate norme non possono essere interpretate quali disposizioni
della legge nazionale intese ad introdurre quelli specifici limiti,
ammissibili ai sensi dell’art. 24 punto ii), alla statuizione del I comma,
lett. b) della stessa disposizione, che sancisce l’impegno degli stati
contraenti di concedere ai rifugiati lo stesso trattamento concesso ai
cittadini nella materia in esame. In
definitiva, la disciplina generale, non può, in difetto di specifica
estensione, derogare dalla normativa speciale disciplinante la condizione del
rifugiato. A conforto della conclusione assunta, va rilevato che l’art. 1 del
d.lgs. n. 286/98, che definisce l’ambito di applicazione della relativa normativa,
dispone testualmente: “Sono fatte salve le disposizioni interne, comunitarie
ed internazionali più favorevoli comunque vigenti nel territorio dello
Stato”. Né
può dubitarsi, tenuto conto anche delle ragioni che determinano il
riconoscimento di tale condizione, dell’applicazione della citata normativa
nei confronti sia della ricorrente, che agisce quale esercente la potestà sul
figlio e che ha ottenuto il riconoscimento del suddetto status, sia,
conseguentemente, nei confronti del minore, privo della capacità di agire. Le
considerazioni che precedono hanno carattere assorbente e determinano
l’accoglimento delle domande attrici; l’INPS va dunque condannato, quale ente
erogatore della prestazione di cui è causa, al pagamento della indennità di
accompagnamento dall’1.4.2005, primo giorno del mese successivo a quello
della presentazione della domanda in via amministrativa, oltre interessi
legali dal 121° giorno successivo alla domanda amministrativa per i ratei
maturati fino a tale momento e delle rispettive scadenze per quelli
successivamente maturati e comunque sino al saldo effettivo. Le
spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in euro 50
per spese, euro 600,00 per diritti ed euro 950,00 per onorari, oltre, come
per legge, IVA e CPA e successive occorrende, da distrarsi in favore del
procuratore anticipatario. Ricorrono
giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di liti per il resto. P.Q.M. Il
Giudice, Dichiara
il difetto di legittimazione passiva del Comune di Milano; accerta il diritto
di J.N. alla indennità di accompagnamento ex L. 18/80 con decorrenza l’1.4.
2005; conseguentemente condanna l’INPS a corrispondere il relativo
trattamento a N.K., in rappresentanza del figlio minore J.N., con interessi
legali dal dovuto al saldo; condanna l’INPS a rifondere alla parte ricorrente
le spese di lite, liquidate in euro 1,600 complessivi, oltre IVA e Cpa, da
distrarsi in favore di procuratori anticipatari; compensa le spese di lite
per il resto. Milano, 5.12.2007 Il
Giudice Depositato in cancelleria del Tribunale il 31 gennaio 2008 Il cancelliere |
GIURISPRUDENZA
COMUNITARIA
Un giudizio preliminare
della Corte di Giustizia europea riconosce la portata applicativa delle
direttive europea in materia di non discriminazione e parità di trattamento
(Direttiva “Razza” n. 2000/43/CE e Direttiva “Occupazione” n. 2000/78/CE) anche
ai casi di “discriminazione per associazione”, quando cioè, pur non essendo in
possesso delle caratteristiche fondanti la discriminazione, si viene ugualmente
discriminati o maltrattati in quanto ci si trova in stretto rapporto con le
persone aventi queste caratteristiche.
Una donna italiana si rivolge ad un’agenzia immobiliare per trovare
un alloggio in locazione per sé e per i propri famigliari, ma non appena
l’agente immobiliare viene a sapere che il marito della donna è un immigrato di
colore di origine africana, rifiuta di proseguire le trattative.
Un gruppo di amici, uno dei quali Rom, vuole fare ingresso in un
locale notturno, ma vengono respinti dal personale in ragione della presenza della persona di etnia Rom.
Un impiegato di un’ agenzia di fornitura di lavoro rifiuta di
adeguarsi alle richieste di alcune imprese, avvallate dal management
dell’agenzia, di non segnalare immigrati di determinate
provenienze quali candidati a posti di lavoro vacanti, e per tale ragione
viene licenziato.
Un attivista non Rom di un’associazione che si occupa della tutela di
un gruppo di Rom sul proprio territorio viene discriminata da parte dei
funzionari del proprio comune di residenza nell’erogazione di una prestazione
sociale ovvero viene molestata sul proprio luogo di lavoro in ragione
nell’attività di volontario che svolge.
Tali situazioni non sono infrequenti nella casistica delle discriminazioni
etnico- razziali o religiose e vengono definite quali “discriminazioni per
associazione” . In sostanza, la vittima subisce la discriminazione non in
ragione di una sua personale appartenenza ad una determinata categoria
etnico-razziale o religiosa, ma in quanto associata o frequentante persone,
familiari o amici, appartenenti a dette categorie oggetto di discriminazione.
Ci si è chiesti se le definizioni
di discriminazione diretta, discriminazione indiretta e molestia contemplate nelle direttive europee n.
2000/43 (“Razza”) e n. 2000/78 (“Occupazione”) siano suscettibili di
comprendere e conseguentemente di offrire un quadro di protezione legale anche
contro tali forme di
“discriminazioni per associazione”; in altri termini, se chi subisca una
discriminazione in ragione di una delle caratteristiche protette dalle
direttive in oggetto, possa avvalersi della tutela predisposta dalle direttive
medesime pur non possedendo egli stesso una di queste caratteristiche.
Un’interpretazione favorevole al riguardo giunge dal recente giudizio preliminare della Corte di giustizia europea nel caso S.
Coleman contro Attridge Law e
Steve Law, il
quale ha riconosciuto ai parenti di disabili la
"discriminazione per associazione". Il pronunciamento dell’avvocato
generale si riferisce al caso di
una segretaria britannica licenziata perché chiedeva un orario flessibile sul
lavoro per accudire il figlio disabile. La Corte di Giustizia Europea ha così
concluso: “la tutela predisposta dalla direttiva 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE,
che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro, si estende anche a coloro che, benché
non disabili essi stessi, subiscano una discriminazione diretta e/o molestie in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro in quanto si trovano in
stretto rapporto con una persona disabile” (Conclusioni dell’Avvocato generale M. Poiares
Maduro presentate il 31 gennaio 2008 Causa C-303/06 S. Coleman contro
Attridge Law e Steve Law [domanda
di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Employment Tribunal, London South
(Regno Unito)], disponibile sul sito della Corte di Giustizia europea: http://curia.europa.eu/it/transitpage.htm.
Sebbene il pronunciamento preliminare della Corte Europea di Giustizia riguardi
un caso di discriminazione per disabilità, in relazione alla direttiva europea
n. 2000/78/CE, il ragionamento è suscettibile di estendersi per analogia a
tutte le altre situazioni di discriminazione previste tanto dalla direttiva n.
2000/78 (credo religioso, età, omosessualità) quanto dalla direttiva n. 2000/43
(razza, origine etnica). Secondo l’avvocato generale della Corte di Giustizia,
la direttiva opera «a livello dei motivi della discriminazione» [par. 22], per cui «la direttiva non entra in
gioco soltanto quando la vittima della discriminazione sia essa stessa
disabile, bensì ogniqualvolta sia dedotto un trattamento sfavorevole fondato
sulla disabilità» par. 23]. «L’ostilità di un datore di lavoro [nei confronti
di una della categorie protette dalle direttive europee] può esprimersi
apertamente, prendendo di mira persone che abbiano esse stesse determinate
caratteristiche, oppure in modo sottile e dissimulato, prendendo di mira coloro
che si trovino in stretto rapporto con le persone aventi questa
caratteristiche;…il secondo caso è esattamente identico sotto il profilo
sostanziale. In entrambi i casi, è l’ostilità del datore di lavoro nei
confronti delle persone anziane, disabili, omosessuali o appartenenti ad un
determinato credo religioso [ma anche ad una determinata razza, o appartenenza
etnica n.d.r.] a indurlo a
trattare determinanti dipendenti in modo meno favorevole» [par. 22].
Per un approfondimento sull’argomento si rimanda a : W. Citti, La discriminazione a causa
dell’ associazione con persone di determinata appartenenza razziale, etnica o
religiosa. Quale protezione per familiari e amici? Un caso dinanzi alla
Corte Europea di Giustizia, in Newsletter Progetto Leader n. 9/2007, disponibile on line sui siti: www.leadernodiscriminazione.it
o www.asgi.it
Pubblichiamo di seguito il testo integrale delle conclusioni
dell’avvocato generale della Corte Europea di Giustizia nel caso S. Coleman
contro Attridge Law e Steve Law (Causa C- 303/06), 31 gennaio 2008.
CONCLUSIONI
DELL’AVVOCATO GENERALE M. POIARES
MADURO presentate
il 31 gennaio 2008 1(1) Causa C‑303/06 S. Coleman contro Attridge Law e Steve Law [domanda di pronuncia pregiudiziale proposta
dall’Employment Tribunal, London South (Regno Unito)] 1. La
presente ordinanza di rinvio pregiudiziale, proposta alla Corte dal South
London Employment Tribunal, solleva per la prima volta un’importante
questione in merito all’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio
27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di
lavoro (2) (in prosieguo: la «direttiva»). Il
giudice del rinvio chiede se il divieto di discriminazione sancito dalla
direttiva ricomprenda il caso in cui una lavoratrice sia trattata in modo
meno favorevole dei suoi colleghi in quanto, ancorché non disabile essa
stessa, si trova in stretto rapporto con una persona disabile. I – Contesto
di fatto e questioni pregiudiziali 2. La
ricorrente nella causa principale, sig.ra Sharon Coleman, dal 2001 ha
lavorato come segretaria per lo studio legale di solicitors Attridge Law di
Londra, del quale il sig. Steve Law è uno dei soci. Nel 2002 essa ha
avuto un figlio, disabile in quanto affetto da broncomalacia e laringomalacia
congenita. È lei a prendersene cura principalmente. 3. Il
4 marzo 2005 la ricorrente ha accettato di rassegnare le proprie
dimissioni, cessando di lavorare per lo studio Attridge Law. Il
30 agosto 2005 ha proposto ricorso contro i suoi ex datori di lavoro per
licenziamento addebitabile a comportamento di questi ultimi e per
discriminazione fondata sulla disabilità, sostenendo di essere stata trattata
in maniera meno favorevole rispetto ai colleghi con figli non disabili e di
aver subito una serie di comportamenti tali da circondarla da un’atmosfera
ostile. A titolo di esempio del trattamento discriminatorio subito, essa
narra che i suoi datori di lavoro le hanno negato la possibilità di
riprendere le mansioni precedenti al termine del suo congedo per maternità;
l’hanno tacciata di «pigrizia» quando ha chiesto permessi per prendersi cura
del figlio, negandole la stessa flessibilità nell’orario di lavoro concessa
invece ai colleghi con figli non disabili; l’hanno accusata di servirsi del
suo «fottuto bambino» per manipolare le sue condizioni di lavoro; l’hanno
sottoposta ad azione disciplinare e, infine, hanno omesso di trattare
correttamente un precedente reclamo dalla stessa proposto per trattamento
lesivo. 4. Dinanzi al
giudice del rinvio, la sig.ra Coleman si è appellata alla legislazione
nazionale pertinente, in particolare al Disability Discrimination Act 1995 e
alla direttiva. Essa afferma che la direttiva è intesa a vietare la
discriminazione non soltanto nei confronti delle persone esse stesse
disabili, ma anche nei confronti di coloro che siano vittime di
discriminazione in quanto si trovano in stretto rapporto con una persona
disabile. Il giudice nazionale dovrebbe a suo parere interpretare il
Disability Discrimination Act in conformità alla direttiva e riconoscere
quindi una tutela contro la cosiddetta discriminazione per associazione. I convenuti
nella causa principale sostengono per contro che l’Act tutela soltanto i
disabili e che la direttiva non ricomprende i casi di discriminazione per
associazione. 5. Il ricorso
della sig.ra Coleman potrà essere accolto soltanto ove la direttiva
debba essere interpretata nel senso che essa vieta la discriminazione per
associazione. Il giudice del rinvio, pertanto, non ha proseguito
nell’accertamento dei fatti e nell’esame del merito, sospendendo invece il
procedimento su tali punti e disponendo un’udienza preliminare diretta ad
affrontare soltanto la questione se la discriminazione per associazione sia o
meno vietata. A seguito dell’udienza, il giudice a quo ha sospeso il
procedimento e ha sottoposto alla Corte di giustizia le seguenti questioni
pregiudiziali: «1) Se, nell’ambito del divieto di
discriminazione fondata sulla disabilità, la direttiva tuteli contro la
discriminazione diretta e contro le molestie soltanto persone esse stesse
disabili. 2) In caso di risposta negativa
alla questione 1), se la direttiva tuteli i lavoratori che, pur non essendo
essi stessi disabili, vengono trattati in modo meno favorevole o subiscono
molestie a causa del loro stretto rapporto con una persona disabile. 3) Qualora un datore di lavoro
tratti un lavoratore in modo meno favorevole rispetto al modo in cui tratta o
tratterebbe altri lavoratori, e qualora sia accertato che il motivo di tale
trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un figlio disabile
del quale si prende cura, se tale trattamento integri una discriminazione
diretta, in violazione del principio della parità di trattamento stabilito
dalla direttiva. 4) Qualora un datore di lavoro
molesti un lavoratore, e qualora sia accertato che il motivo di tale
trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un figlio disabile
del quale si prende cura, se tali molestie integrino una violazione del
principio della parità di trattamento stabilito dalla direttiva». II – Analisi 6. Le quattro
questioni sottoposte alla Corte dall’Employment Tribunal si risolvono in
un’unica questione di diritto: se la direttiva tuteli le persone non disabili
che, sul lavoro, subiscono una discriminazione e/o molestie in quanto si
trovano in stretto rapporto con una persona disabile. 7. La
direttiva è stata adottata in forza dell’art. 13 CE, aggiunto al
Trattato CE dal Trattato di Amsterdam, che dispone quanto segue: «Fatte
salve le altre disposizioni del presente Trattato e nell’ambito delle
competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando
all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del
Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le
discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o
le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali». La
prima cosa da notare in merito all’art. 13 CE è che esso individua
specifiche cause di discriminazione, che tratta come cause sospette, o, per
mutuare un termine dal diritto costituzionale degli Stati Uniti d’America,
come «categorie sospette» (3), facendo di loro
l’oggetto di tutela della normativa comunitaria antidiscriminazione. In forza
di tale ampia previsione, provvedimenti normativi possono essere adottati
allo scopo di lottare contro la discriminazione fondata sulle cause ivi
elencate. Sebbene il Consiglio goda di una notevole discrezionalità
nell’adozione di provvedimenti che si attagliano a particolari circostanze e
contesti sociali, l’art. 13 CE non può essere interpretato in modo
da consentire l’adozione di norme incompatibili con la sua ratio e che
limitino l’ambito della tutela che gli autori del Trattato intendevano
offrire. Di conseguenza, la normativa adottata sulla base
dell’art. 13 CE deve essere interpretata alla luce degli obiettivi
perseguiti dall’art. 13 stesso (4). 8. L’art. 13 CE
è un’espressione dell’impegno dell’ordinamento giuridico comunitario
nell’assicurare il principio di parità di trattamento e di non
discriminazione. Pertanto, qualunque interpretazione di questo articolo,
nonché delle direttive adottate su tale fondamento giuridico, dev’essere
intrapresa alla luce della giurisprudenza della Corte su tali principi (5). La direttiva stessa enuncia, all’art. 1, che il
suo obiettivo è quello di «stabilire un quadro generale per la lotta alle
discriminazioni (…) al fine di rendere effettivo negli Stati membri il
principio della parità di trattamento» (il corsivo è mio). La
giurisprudenza della Corte è chiara quanto al ruolo della parità di
trattamento e del divieto di discriminazione nell’ambito dell’ordinamento
giuridico comunitario. L’uguaglianza non è soltanto un ideale politico e
un’aspirazione, ma uno dei principi fondamentali del diritto
comunitario (6). Come la Corte ha dichiarato nella
sentenza Mangold, la direttiva costituisce un aspetto pratico del principio
di uguaglianza (7). Al fine di determinare che cosa
il principio di uguaglianza impone in ogni caso di specie, vale la pena di
ricordare i valori ad esso sottesi. Si tratta della dignità umana e
dell’autonomia della persona. 9. La dignità
umana ricomprende, come contenuto minimo indispensabile, il riconoscimento
del fatto che ogni essere umano ha uguale valore. La vita ha valore per il
semplice fatto di appartenere a un essere umano, e non vi è vita che abbia
più o meno valore di un’altra. Come Ronald Dworkin ci ha recentemente
rammentato, anche quando siamo in profondo disaccordo su questioni di
moralità politica, sulla struttura delle istituzioni politiche e sul
funzionamento dei nostri Stati democratici, continuiamo tuttavia a
condividere l’attaccamento a questo principio fondamentale (8). Pertanto, i singoli e le istituzioni politiche non
devono agire in modo da rinnegare l’intrinseca importanza di ogni vita umana.
Un valore pertinente, ma diverso, è quello dell’autonomia della persona. Esso
impone che i singoli siano in grado di determinare e di condurre la propria
esistenza attraverso una serie successiva di scelte tra diverse
opzioni (9). L’esercizio dell’autonomia presuppone
che alle persone sia data una gamma di opzioni entro la quale scegliere.
Quando ci si comporta come agenti autonomi e si decide come condurre la
propria vita, allora «si concretizzano l’integrità della persona, il senso di
dignità e il rispetto per se stessi» (10). 10. Scopo
dell’art. 13 CE e della direttiva è tutelare la dignità e
l’autonomia degli appartenenti alle citate categorie sospette. Il modo più
ovvio in cui la dignità e l’autonomia di una persona del genere possono
essere lese è che tale persona sia direttamente presa di mira in quanto
possiede una caratteristica sospetta. Trattare qualcuno in modo sfavorevole
sulla base di ragioni quali il credo religioso, l’età, la disabilità e
l’orientamento sessuale lede quel valore speciale ed unico che le persone
traggono dal loro essere umani. Riconoscere uguale valore ad ogni essere
umano significa che occorre essere ciechi a considerazioni di questo tipo
allorché si impone un onere su qualcuno o si priva qualcuno di un vantaggio.
In altre parole, si tratta di caratteristiche che non dovrebbero giocare
alcun ruolo quando si tratti di valutare se sia giusto trattare qualcuno in
modo meno favorevole. 11. Analogamente,
l’impegno a garantire l’autonomia significa che nessuno dev’essere privato di
opzioni in settori di importanza fondamentale per la sua vita in ragione
della sua appartenenza a una delle categorie sospette. L’accesso al lavoro e
alla crescita professionale ha un significato fondamentale per chiunque, non
soltanto come mezzo di sostentamento ma anche come strumento importante di
appagamento personale e di realizzazione delle proprie potenzialità. Il
discriminatore che discrimina un individuo appartenente a una categoria
sospetta lo priva ingiustamente di opzioni. Di conseguenza, la capacità di
tale persona di condurre una vita autonoma risulta seriamente compromessa, in
quanto un aspetto importante della sua vita viene plasmato non dalle sue
proprie scelte bensì dal pregiudizio di qualcun altro. Trattando le persone
appartenenti a tali gruppi in modo meno favorevole a causa delle loro
caratteristiche, il discriminatore impedisce loro di esercitare la loro
autonomia. A questo punto, è equo e ragionevole che intervenga la normativa
antidiscriminazione. In sostanza, attribuendo valore all’uguaglianza e
impegnandoci nella realizzazione dell’uguaglianza attraverso la legge,
miriamo a sostenere la possibilità per ciascuno di condurre una vita
autonoma. 12. Tuttavia, prendere di
mira direttamente una persona avente una particolare caratteristica non è
l’unico modo di discriminarla; ve ne sono anche altri, più sottili e meno
ovvi. Un modo di ledere la dignità e l’autonomia delle persone appartenenti a
un certo gruppo è quello di prendere di mira non loro, ma terzi che siano con
essi in stretto rapporto pur non appartenendo essi stessi al gruppo. Una
concezione solida dell’uguaglianza impone che anche queste forme di
discriminazione più sottili rientrino nell’ambito di applicazione della
normativa antidiscriminazione, in quanto anch’esse danneggiano le persone
appartenenti alle categorie sospette. 13. Invero, la dignità
della persona avente una caratteristica sospetta è lesa tanto nel momento in
cui viene discriminata direttamente quanto nel momento in cui vede qualcun
altro patire una discriminazione per il semplice fatto di essere in rapporto
con lei. In questo modo, la persona che sia la vittima immediata della
discriminazione non solo soffre un torto essa stessa, ma diventa anche lo
strumento attraverso il quale viene lesa la dignità della persona
appartenente ad una categoria sospetta. 14. Inoltre, questa più
sottile forma di discriminazione pregiudica la capacità delle persone aventi
una caratteristica sospetta di esercitare la propria autonomia. Ad esempio,
l’autonomia degli appartenenti a un gruppo religioso può essere compromessa
(si pensi al momento in cui si tratta di decidere chi sposare o dove vivere)
qualora essi sappiano che la persona che sposeranno subirà probabilmente una
discriminazione in ragione dell’appartenenza religiosa del coniuge. La stessa
cosa può avvenire, sebbene in misura minore, nel caso dei disabili. Le
persone appartenenti a determinati gruppi sono spesso più vulnerabili della
gente comune, cosicché debbono fare affidamento su coloro con i quali sono in
stretto rapporto per essere aiutate nello sforzo di vivere una vita conforme
alle scelte fondamentali da esse effettuate. Quando il discriminatore priva
qualcuno di opzioni in settori che sono di importanza fondamentale per la sua
vita in ragione del fatto che costui si trova in stretto rapporto con una
persona avente una caratteristica sospetta, allora esso priva anche quella
persona delle sue opzioni e le impedisce di esercitare la propria autonomia.
In altre parole, la persona appartenente alla categoria sospetta è esclusa da
una gamma di possibilità che altrimenti le sarebbero state aperte. Modalità di funzionamento della direttiva 15. Il legislatore
comunitario ha adottato la direttiva al fine di tutelare, nel settore
dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, le persone appartenenti alle
categorie sospette e di assicurare che la loro dignità e autonomia non siano
compromesse né da discriminazioni ovvie e immediate, né da discriminazioni
sottili e meno ovvie. Un’indicazione delle modalità per conseguire tale scopo
già risulta dall’art. 1 della direttiva, ai sensi del quale «la presente
direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle
discriminazioni fondatesulla religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e
le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il
principio della parità di trattamento» (il corsivo è mio). 16. Importanti sono, qui,
i termini «fondate su». È un principio comune tanto del diritto quanto della
filosofia morale che non ogni discriminazione è sbagliata. Nel settore
dell’occupazione, ad esempio, è perfettamente ammissibile che un datore di
lavoro assuma un candidato responsabile, affidabile e ben educato, escludendo
invece i candidati irresponsabili, inaffidabili e maleducati. Per contro,
reputiamo sbagliato respingere qualcuno a causa della sua razza o religione,
e nella maggior parte dei sistemi giuridici interviene la legge ad evitare
che discriminazioni del genere abbiano luogo. Ciò che consente di determinare
se il comportamento del datore di lavoro sia ammissibile oppure no, e fa
scattare l’intervento della legge, è il motivo della discriminazione su cui
il datore di lavoro si fonda nel singolo caso. 17. Il fatto che
l’illiceità della discriminazione dipenda dai motivi sui quali si basa si
rispecchia nel modo in cui la pertinente normativa è strutturata.
Virtualmente, tutte le normative antidiscriminazione vietano le
discriminazioni fondate su una serie di motivi specificati. È questa la
strategia seguita dal legislatore comunitario nella direttiva, che proscrive
le discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età e le tendenze sessuali. Il principale obbligo imposto da una
normativa antidiscriminazione, quale la direttiva, è quello di trattare le
persone in un certo modo, analogo a come sono trattati gli altri (11). Adottando la direttiva, il Consiglio ha chiarito che
è illecito che un datore di lavoro si fondi su uno dei detti motivi per
sfavorire un dipendente rispetto agli altri. Nel momento in cui si accerta
che il comportamento del datore di lavoro si fonda su uno dei motivi vietati
si entra nel reame della discriminazione illecita. 18. Nel senso innanzi
delineato, la direttiva assolve una funzione di esclusione: esclude cioè le
convinzioni religiose, l’età, l’handicap e le tendenze sessuali dal novero
delle ragioni ammissibili sulle quali un datore di lavoro può legittimamente
fondarsi per trattare un dipendente in modo meno favorevole di un altro. In
altre parole, dopo l’entrata in vigore della direttiva non è più ammissibile
che considerazioni del genere entrino nel ragionamento del datore di lavoro
allorché decide di trattare un dipendente in modo meno favorevole. 19. La direttiva vieta la
discriminazione diretta (12), le molestie (13) e la discriminazione indiretta (14). Caratteristica della discriminazione diretta e delle
molestie è che esse implicano un rapporto necessario rispetto a una
particolare categoria sospetta. Il discriminatore fa riferimento a una
categoria sospetta per agire in un determinato modo. La categoria non è una
mera contingenza ma serve come premessa essenziale del suo ragionamento. Il
fatto che un datore di lavoro si fondi su tali motivi sospetti è visto
dall’ordinamento giuridico comunitario come un male da estirpare. È perciò
che la direttiva vieta l’uso di tali categorie come motivi sui quali il
ragionamento di un datore di lavoro può fondarsi. Per contro, nei casi di
discriminazione indiretta le intenzioni del datore di lavoro e le ragioni che
lo inducono ad agire o a non agire sono irrilevanti. In realtà, è proprio
questo l’elemento caratterizzante del divieto di discriminazione indiretta:
misure e politiche adottate senza alcun intento discriminatorio, ancorché
neutre, innocenti o in buona fede, ricadranno nell’ambito del divieto qualora
il loro impatto sulle persone aventi una particolare caratteristica sia
maggiore del loro impatto sugli altri (15). È
questo «diverso impatto» di tali misure su determinate persone ad essere
preso di mira dalla normativa che vieta le discriminazioni indirette. Il
divieto di tali discriminazioni collima con l’obbligo per il datore di lavoro
di accogliere questi gruppi adottando provvedimenti e orientando le proprie
politiche in modo da non imporre su di loro un onere eccessivo rispetto a
quello imposto sugli altri (16). In tal modo,
mentre il divieto di discriminazione diretta e di molestie opera come
meccanismo di esclusione (escludendo che il ragionamento del datore di lavoro
possa fondarsi su determinati motivi), il divieto di discriminazione
indiretta opera come meccanismo di inclusione (obbligando i datori di lavoro
a prendere in considerazione e ad accogliere le esigenze di soggetti aventi
determinate caratteristiche). Per questa ragione, quand’anche dovessimo
accogliere l’argomento del governo del Regno Unito, secondo il quale la
discriminazione per associazione si pone chiaramente al di fuori dell’ambito
di applicazione del divieto di discriminazione indiretta, ciò non
significherebbe affatto che essa esuli anche dalla sfera del divieto di
discriminazione diretta e di molestie. Al contrario, includere la
discriminazione per associazione nell’ambito di applicazione del divieto di
discriminazione diretta e di molestie costituisce la conseguenza naturale del
meccanismo di esclusione mediante il quale opera il divieto di questo tipo di
discriminazione. 20. Il caso della
sig.ra Coleman solleva una questione di discriminazione diretta. Come
risulta chiaramente dall’ordinanza di rinvio, essa non lamenta che un
provvedimento neutro abbia avuto su di lei un impatto in quanto madre e
persona che si prende cura di un figlio disabile, ma afferma di essere stata
isolata e presa di mira dal suo datore di lavoro proprio a causa del figlio
disabile. La questione che si pone alla Corte, pertanto, consiste
nell’accertare se la discriminazione diretta per associazione sia vietata
dalla direttiva. 21. È chiaro che, se la
ricorrente stessa fosse stata disabile, la direttiva avrebbe trovato
applicazione. Tuttavia, nel caso di specie, si allega che il trattamento
discriminatorio sia stato innescato dalla disabilità del figlio della
ricorrente. Dunque, il disabile e la vittima palese della condotta
discriminatoria non sono la stessa persona. Ciò rende la direttiva
inapplicabile? Alla luce dell’analisi sin qui svolta, ritengo di no. 22. Come già detto, per
effetto della direttiva è inammissibile che un datore di lavoro faccia
riferimento alla religione, all’età, alla disabilità o all’orientamento
sessuale per trattare un dipendente in modo sfavorevole rispetto agli altri.
Un tale comportamento equivarrebbe a sottoporre queste persone a un
trattamento ingiusto, in violazione della loro dignità e autonomia. Questa circostanza
non cambia qualora la dipendente oggetto di discriminazione non sia essa
stessa disabile. Il motivo che funge da base per la discriminazione che essa
patisce continua ad essere la disabilità. La direttiva opera a livello dei
motivi della discriminazione. Il torto cui essa intendeva rimediare è l’uso di
determinate caratteristiche come motivo per trattare certi dipendenti in modo
meno favorevole di altri; quello che essa fa è rimuovere completamente la
religione, l’età, la disabilità e l’orientamento sessuale dal novero di
motivi cui un datore di lavoro può legittimamente ricorrere per trattare
determinate persone meno favorevolmente. In altri termini, la direttiva non
consente che l’ostilità che un datore di lavoro può nutrire nei confronti delle
persone appartenenti alle categorie sospette ivi elencate funga da base per
un qualunque tipo di trattamento meno favorevole nell’ambito dell’occupazione
e delle condizioni di lavoro. Come ho già spiegato, questa ostilità può
esprimersi apertamente, prendendo di mira persone che abbiano esse stesse
determinate caratteristiche, oppure in modo più sottile e dissimulato,
prendendo di mira coloro che si trovino in stretto rapporto con le persone
aventi quelle caratteristiche. Nel primo caso, riteniamo che tale
comportamento sia sbagliato e debba essere vietato; il secondo caso è
esattamente identico sotto ogni profilo sostanziale. In entrambi i casi, è
l’ostilità del datore di lavoro nei confronti delle persone anziane,
disabili, omosessuali o appartenenti a un determinato credo religioso a
indurlo a trattare determinati dipendenti in modo meno favorevole. 23. Pertanto, chi subisca
una discriminazione in ragione di una delle caratteristiche elencate
all’art. 1 può avvalersi della tutela predisposta dalla direttiva pur
non possedendo egli stesso una di queste caratteristiche. Non è necessario
che chi patisce una discriminazione sia stato maltrattato in ragione della «sua
propria
disabilità». È sufficiente che sia stato maltrattato a causa della
«disabilità». Dunque, una persona può essere vittima di discriminazione
illecita fondata sulla disabilità ai sensi della direttiva senza essere essa
stessa disabile; ciò che importa è che quella disabilità – nella
fattispecie, la disabilità del figlio della sig.ra Coleman – sia
stata utilizzata come ragione per trattarla in modo sfavorevole. La direttiva
non entra in gioco soltanto quando la vittima della discriminazione sia essa
stessa disabile, bensì ogniqualvolta sia dedotto un trattamento sfavorevole
fondato sulla disabilità. Pertanto, ove la sig.ra Coleman sia in grado
di provare di essere stata trattata in maniera meno favorevole a causa della
disabilità del figlio, avrà il diritto di valersi della direttiva. 24. Infine, il governo del
Regno Unito ha affermato che la direttiva è stata adottata soltanto al fine
di predisporre una serie di standard minimi. Militerebbe in tal senso,
secondo il detto governo, il fatto che il Consiglio abbia agito in un ambito
in cui la competenza rimane ampiamente attribuita agli Stati membri. Di
conseguenza, spetterebbe agli Stati membri decidere se vietare o meno la
discriminazione per associazione nel settore dell’occupazione e delle
condizioni di lavoro. Non sono d’accordo. In primo luogo, il fatto che un
settore non sia completamente armonizzato o che la Comunità abbia competenza
legislativa soltanto limitata non implica affatto che l’intervento del
diritto comunitario, comunque sia, debba aver luogo al livello più basso. In
altre parole, il fatto che la Comunità abbia competenza limitata in materia
di diritti fondamentali non significa che, quando decide di avvalersi di tale
competenza, possa predisporre soltanto standard minimi di tutela dei diritti
fondamentali. In secondo luogo, nulla nella direttiva o nei suoi ‘considerando’
indica che tale fosse l’intenzione del Consiglio. Al contrario, il sesto
‘considerando’, ad esempio, fa riferimento all’«importanza di combattere qualsiasi
forma di
discriminazione» (il corsivo è mio) (17). III – Conclusione 25. Per le ragioni innanzi
esposte, ritengo che la Corte debba risolvere la questione sollevata
dall’Employment Tribunal nel modo seguente: La tutela predisposta dalla direttiva 27 novembre 2000,
2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, si estende anche a coloro
che, benché non disabili essi stessi, subiscano una discriminazione diretta
e/o molestie in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in quanto si
trovano in stretto rapporto con una persona disabile. Note 1 – Lingua originale: l'inglese. 2 – GU L 303, pag. 16. 3 – Sulla nozione di «categorie sospette» nel
diritto costituzionale degli Stati Uniti d'America e sulla giurisprudenza
della Supreme Court in materia, v. Balkin, J., «Plessy, Brown and Grutter: a
Play in Three Acts» (2005), 26 Cardozo L. Rev 1689. 4 – In effetti, non si può escludere
l'eventualità di provvedimenti antidiscriminazione adottati in forza
dell'art. 13 CE che violino questa stessa disposizione (ad esempio,
provvedimenti che tutelino contro la discriminazione fondata sul credo
religioso solo i credenti di alcune, ma non di tutte, le religioni). Inoltre,
come sottolinea Christopher McCrudden in «Thinking about the discrimination
directives», (2005) 1 European Journal of Anti-Discrimination Law 17, 20, la parità di
trattamento e la non discriminazione, come garantite dalla direttiva,
dovrebbero essere collocate all'interno di un più ampio contesto di diritti
umani. Il quarto 'considerando' della direttiva fa riferimento al «diritto
universale» «all'uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le
discriminazioni», che è «riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di
ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle
Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai
diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali». Aggiungerei
a tale elenco la Carta dei diritti fondamentali, il cui capo III è dedicato
all'uguaglianza, e che include una specifica disposizione dedicata
all'inserimento dei disabili (art. 26). Uno sviluppo recente nel settore
della tutela internazionale dei diritti umani con riferimento ai disabili è
costituito dall'adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
delle persone con disabilità, nonché dal relativo Protocollo opzionale. La
Convenzione è stata adottata dall'Assemblea generale il 13 dicembre 2006
e aperta alla ratifica il 30 marzo 2007, quando 81 Stati e la Comunità
europea l'hanno ratificata. Essa dispone, tra l'altro, che gli Stati Parti
devono proibire «ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità» (art. 5,
n. 2). 5 – La dottrina in materia di discriminazione ha
sottolineato come dall'art. 13 CE e dalle direttive adottate in
forza di tale articolo non possa evincersi alcuna risposta concludente in
merito alla questione se la discriminazione per associazione sia vietata.
Tuttavia, è stato suggerito che tale discriminazione sarà probabilmente
considerata ricompresa nell'ambito di applicazione delle direttive
antidiscriminazione. V. Schiek, D., Waddington L. e
Bell M. (ed.) Cases, Materials and Text on National, Supranational and
International Non-Discrimination Law, Hart
Publishing, 2007, pagg. 169-170. 6 – V., tra le altre, sentenza 12 marzo
2002, cause riunite C-27/00 e C-122/00, Omega Air e a.,
(Racc. pag. I-2569), e la giurisprudenza ivi citata. V. anche la
discussione in Tridimas, T., The General Principles of EU Law (seconda ed.), Oxford
University Press, 2007 e Dashwood, A., e O’Leary, S., (ed.), The Principle
of Equal Treatment in EC Law, Sweet and Maxwell, 1997. 7 – Sentenza 22 novembre 2005, causa
C-144/04, Mangold (Racc. pag. I-9981, punto 74). 8 –
Dworkin, R, Is Democracy Possible Here?: Principles for a New Political
Debate, Princeton University Press, 2006, capitolo 1. 9 –
Raz, J., The Morality of Freedom, Oxford
University Press, 1986. Rilevo, per scrupolo di accuratezza, che taluni autori
includono il valore dell'autonomia della persona in quello della dignità. La
stessa cosa può dirsi quanto alla giurisprudenza di alcune corti
costituzionali. Questo aspetto, che potrebbe essere importante in sede
d'interpretazione di disposizioni di legge che si riferiscano soltanto al
valore della dignità umana, non ha rilevanza ai fini della presente causa. 10 – Ibid., pag. 154. 11 –
Gardner, J., «Discrimination as Injustice», (1996) 16 Oxford Journal of
Legal Studies, 353, 355. Come spiega Gardner, si tratta di
una questione di giustizia. In tal senso, quando diciamo che è sbagliato
trattare qualcuno in modo meno favorevole per determinati motivi, ciò che
intendiamo è che la giustizia impone di non fondarsi su tali motivi per
ledere la posizione di quella persona. In altre parole, se ci fondiamo su
quei motivi vietati abbiamo inflitto a quella persona un'ingiustizia. 12 – Definita all'art. 2, n. 2,
lett. a), come la situazione in cui, «sulla base di uno qualsiasi dei
motivi di cui all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di
quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga».
13 – Definite all'art. 2, n. 3, come un
comportamento adottato per uno dei motivi di cui all'art. 1 «avente lo
scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e creare un clima
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo». 14 – Definita all'art. 2, n. 2,
lett. b), come la situazione in cui «una disposizione, un criterio o una
prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare
svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di
altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di
una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre
persone». 15 – Ho approfondito la questione delle
discriminazioni nel passato e della parità di trattamento nel contesto
dell'uguaglianza tra uomini e donne nelle conclusioni presentate nella causa
C-319/03, Briheche (Racc. 2004, pag. I-8807). 16 –
V. la discussione in Jolls, C., «Antidiscrimination and Accommodation» (2001)
115, Harvard Law Review, 642. 17 – Vi è un'ulteriore ragione idonea a confutare
l'argomento del Regno Unito. Gli obblighi in materia di parità di trattamento
imposti dalla direttiva possono avere un costo, soprattutto per i datori di
lavoro, e, in certa misura, l'imposizione di tali obblighi comporta una
decisione di ripartire i costi sulla società mediante determinati meccanismi
di mercato. Tale obiettivo può essere conseguito in modo efficiente ed equo,
che non produca distorsioni della concorrenza, soltanto ove gli obblighi in
materia di parità di trattamento siano interpretati ed applicati in maniera
uniforme nel mercato comune. Se così non fosse, ci si troverebbe di fronte al
rischio di creare in Europa un terreno di gioco iniquo, in quanto gli
obblighi in materia di parità di trattamento imposti agli operatori economici
dal diritto comunitario non sarebbero configurati allo stesso modo
all'interno del mercato comune, ma dipenderebbero dal fatto che un
determinato Stato membro abbia scelto o meno di sanzionare uno specifico tipo
di discriminazione. |
ATTUALITA’ INTERNAZIONALE
1.
La Commissione si
adopera per colmare le lacune esistenti in materia di parità di trattamento sul lavoro e nel
recepimento della direttiva europea n. 2000/78/CE da parte degli Stati membri.
Il 31 gennaio scorso la
Commissione ha inviato a 10 Stati membri pareri motivati sollecitandoli a dare
piena attuazione alle norme UE che proibiscono la discriminazione sul lavoro
basata su religione e convinzioni personali, età, handicap e tendenze sessuali.
I paesi interessati – Repubblica ceca, Estonia, Irlanda, Grecia, Francia,
Ungheria, Malta, Paesi Bassi, Finlandia e Svezia – hanno due mesi per
rispondere e, se non lo facessero, la Commissione potrebbe decidere di adire la
Corte di Giustizia europea. La Commissione ha inoltre inviato una lettera di
costituzione in mora alla Germania e due lettere complementari di costituzione
in mora alla Lettonia e alla
Lituania. La direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e
condizioni di lavoro (2000/78/CE) è stata varata nel 2000 e fissava al dicembre
2003 il termine per il recepimento nel diritto nazionale. Allo studio della
Commissione Europea anche le segnalate inadempienze dell’Italia nel recepimento
della direttiva europea che potrebbero condurre all’invio a breve anche alle
autorità del nostro paese di un parere motivato preliminare all’apertura di una
formale procedura d’infrazione.
"Gli
Stati membri hanno già fatto molto per assicurare che i cittadini abbiano il
diritto alla parità di trattamento nell'ambito dell'occupazione. Ma in certi
casi devono ancora essere varati strumenti legislativi per assicurare
l'attuazione di tali diritti." Ha affermato Vladimír Špidla,Commissario
europeo responsabile per l'Occupazione, gli affari sociali e le pari
opportunità. "La parità di trattamento nell'occupazione è essenziale per
dare equamente a tutti la possibilità di contribuire all'economia e di
partecipare alla vita sociale. Ma le direttive UE non possono realizzare
appieno le loro potenzialità se non sono recepite integralmente e correttamente
nella normativa nazionale." Il 31 gennaio scorso, 10 Stati membri che non hanno ancora
attuato correttamente la direttiva hanno ricevuto "pareri motivati".
Si tratta del secondo passo della procedura d'infrazione.
I
principali problemi riscontrati sono:
-
la normativa nazionale è limitativa in relazione alle persone e agli ambiti
coperti rispetto a quanto stabilito dalla direttiva (ad esempio: mancanza di
tutela per i dipendenti pubblici o in materia di accesso al lavoro autonomo);
-
definizioni di discriminazione divergenti dalla direttiva (in particolare, per
quanto concerne la discriminazione indiretta, le molestie e l'ordine di
discriminare);
-
inadeguato recepimento dell'obbligo, che incombe ai datori di lavoro, di
adottare misure adeguate per i lavoratori portatori di handicap;
-
incoerenza delle disposizioni volte a sovvenire alle vittime di discriminazione
(come ad esempio l'inversione dell'onere della prova, il diritto delle
associazioni di aiutare i singoli a farsi valere e la protezione delle
vittime).
La
Germania ha ricevuto oggi una lettera di costituzione in mora che rappresenta
il primo passo di una procedura d'infrazione. La Germania ha due mesi di tempo
per rispondere. Tra i punti sollevati dalla Commissione vi sono:
-
la legislazione nazionale non copre i licenziamenti
-
insufficiente protezione dei lavoratori disabili da parte del datore di lavoro
-
il termine di due mesi per presentare una denuncia è troppo breve.
La
Commissione ha anche deciso di inviare lettere complementari di costituzione in
mora alla Lettonia e alla Lituania in relazione al loro recepimento della
direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione, in particolare
a seguito di una definizione troppo restrittiva della discriminazione
(Lettonia) e di un'esenzione troppo ampia della discriminazione basata sull'età
(Lettonia e Lituania).
Nel
dicembre 2006 sono state inviate prime lettere di costituzione in mora a 17
Stati membri. Nel frattempo la procedura aperta contro la Slovenia e Cipro per
il recepimento incorretto della direttiva è stata chiusa nel dicembre 2007 in
seguito all'adozione, in questi paesi, di nuovi strumenti legislativi
rispondenti ai requisiti della Commissione.
La
prima fase della procedura d'infrazione è stata anche avviata contro il Belgio
e la Slovacchia (che hanno adottato di recente una nuova legislazione), la
Danimarca, la Italia, la Polonia, il Portogallo, la Spagna e il Regno Unito, ma
questi casi sono ancora in corso di esame.
Analogamente,
la Commissione sta ancora analizzando la legislazione che recepisce la
direttiva in Austria, Lussemburgo, Bulgaria e Romania.
La
Commissione sta preparando una relazione sull'attuazione della direttiva sulla
parità di trattamento in materia di occupazione nell'Unione europea, relazione
che dovrebbe essere pubblicata nel primo semestre del 2008.
Riguardo
al nostro Paese, la Commissione Europea ha già avviato la prima fase
preliminare di un’eventuale procedura d’infrazione, rilevando lacune ed
insufficienze nella trasposizione delle norme della direttiva n. 2000/78/CE rispetto
a quattro argomenti:
a) Le possibilità di
deroga al divieto generale di stabilire delle differenze di trattamento di
natura diretta, in base al criterio del requisito essenziale e determinante per
lo svolgimento dell’attività lavorativa. Tali eccezioni sono state trasposte
nel decreto di recepimento (d.lgs.
n. 216/2003) in modo tale da privarle sostanzialmente dell’originaria valenza
garantistica con cui esse vengono previste nella normativa comunitaria;
Dalle
norme della direttiva europea, a differenza della normativa italiana di recepimento, si ricava,
infatti, la previsione di un principio di tipicità, per cui è il legislatore e
non il datore di lavoro (come sembra suggerire il disposto del decreto n.216/2003)
a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non
discriminazione;
b)
La previsione comunitaria di un obbligo del datore di lavoro a tenere
contro in maniera ragionevole
delle specifiche esigenze dei lavoratori disabili non è stata recepita con
riferimento a tutte le categorie
di tali lavoratori;
c)
La possibilità prevista dalla legislazione nazionale di operare disparità di
trattamento fondate sul requisito dell’età è più ampia di quella prevista dalla
direttiva europea;
d)
II
diritto alla legittimazione ad agire delle organizzazioni non governative nelle
azioni giudiziarie contro la discriminazione a tutela delle vittime della
discriminazione è eccessivamente limitato rispetto ai criteri previsti dalla
direttiva europea, in quanto viene riservato unicamente alle organizzazioni
sindacali;
e)
La previsione comunitaria sullo spostamento dell’onere della prova non è stata
recepita nella normativa nazionale;
f)
La protezione contro eventuali ritorsioni a danno delle vittime di
discriminazione che hanno inteso denunciare violazioni della parità di trattamento
è eccessivamente limitata rispetto agli standard previsti dalla direttiva.
Contesto:
Nel
1997, nel Consiglio europeo di Amsterdam, gli Stati membri hanno conferito
all'UE il compito di combattere la discriminazione. Tutti e 27 i paesi dell'UE hanno
adottato nuovi strumenti legislativi per attuare la direttiva sulla parità di
trattamento in materia di occupazione accolta all'unanimità nel 2000. Tuttavia,
non tutte le legislazioni nazionali sono conformi alle sue disposizioni. La
Commissione si impegna a continuare il dialogo con gli Stati membri per
assicurare la soluzione di tutti gli aspetti problematici e la piena e corretta
attuazione in tutti gli Stati membri sia della direttiva sulla parità di
trattamento in materia di occupazione sia di quella sulla parità di trattamento
indipendentemente dalla razza.
Le
procedure d'infrazione si articolano in due fasi. La prima consiste nell'invio
allo Stato membro di una lettera di costituzione in mora cui questi ha due mesi
per rispondere. Qualora in seguito a ciò occorra ulteriormente assicurare il
rispetto della legislazione UE, la Commissione invia un parere motivato. Anche
in questo caso lo Stato membro ha due mesi di tempo per rispondere. In assenza
di una risposta soddisfacente la Commissione può deferire la questione alla
Corte di Giustizia europea sita a Lussemburgo. Essa può inoltre chiedere che la
Corte commini una sanzione pecuniaria al paese interessato qualora questi non
si adegui alla pronunzia della Corte.
Per
ulteriori informazioni
http://ec.europa.eu/antidiscrimination
2.
Il 31 gennaio scorso, il Parlamento
europeo ha adottato a larghissima maggioranza una Risoluzione su una strategia
europea per i Rom.
In base a questo provvedimento adottato con 510 voti
favorevoli, 36 contrari e 67 adesioni, la Commissione europea dovrebbe affidare
ad uno dei suoi commissari la responsabilità di coordinare le politiche a
favore dei cittadini Rom e Sinti che vivono all'interno dell'Unione europea .
In sintesi, la risoluzione chiede di porre fine alla segregazione dei rom
nell'istruzione, sostenendone l'integrazione nel mercato del lavoro e con
microcrediti, aiutarli ad avviare attività imprenditoriali. Viene inoltra sollecitata
l’adozione di buone prassi e azioni positive che pongano fine
al fenomeno delle baraccopoli e dei campi rom a favore invece di modelli positivi e riusciti di
soluzioni alloggiative. Viene, quindi, sollecitata la Commissione a sviluppare
una strategia quadro europea per l'inserimento dei Rom, che miri a dare
coerenza alle politiche della Ue a favore della loro inclusione sociale e ad
elaborare un piano d'azione comunitario dettagliato che fornisca un sostegno
finanziario per la realizzazione di questo obiettivo.
Pubblichiamo di seguito il testo integrale della
Risoluzione del Parlamento europeo.
Risoluzione del
Parlamento europeo del 31 gennaio 2008 su una strategia europea per i rom Il Parlamento europeo , – visti gli articoli 3,
6, 7, 29 e 149 del trattato CE, che impegnano gli Stati membri a garantire
uguali opportunità a tutti i cittadini, – visto l'articolo 13 del
trattato CE, in base al quale la Comunità europea può prendere i
provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sulla razza
o l'origine etnica, – viste le sue
risoluzioni del 28 aprile 2005 sulla situazione dei rom nell'Unione europea,
del 1° giugno 2006 sulla situazione delle donne rom nell'Unione europea e del
15 novembre 2007 sull'applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al
diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, – viste la direttiva
2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone
indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, e la direttiva
2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in
materia di occupazione e condizioni di lavoro, come anche la decisione quadro
sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia, – vista la relazione per
il 2007 su Razzismo e xenofobia negli Stati membri dell'Unione europea,
pubblicata dall'Agenzia per i diritti fondamentali, – visti il Decennio per
l'integrazione dei rom e il Fondo per l'istruzione dei rom, istituiti nel
2005 da numerosi Stati membri dell'Unione europea, paesi candidati e altri
paesi in cui le istituzioni dell'Unione europea sono presenti in modo
significativo, – visti l'articolo 4
della Convenzione quadro del Consiglio d'Europa per la protezione delle
minoranze nazionali e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, – visto il Piano d'azione
globale adottato dagli Stati che partecipano all'OSCE, compresi gli Stati
membri dell'Unione europea e i paesi candidati, incentrato sul miglioramento
della situazione dei rom e dei sinti nella zona OSCE, nel quadro del quale
gli Stati si impegnano, tra l'altro, a potenziare i loro sforzi volti a
garantire che le popolazioni rom e sinti possano svolgere un ruolo pieno ed
equo nelle nostre società, e a debellare la discriminazione nei loro
confronti, – visti la Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea e lo Statuto dell'Agenzia per i
diritti fondamentali, – vista la relazione del
gruppo consultivo di esperti di alto livello sull'integrazione sociale delle
minoranze etniche e sulla loro piena partecipazione al mercato del lavoro,
intitolata "Minoranze etniche sul mercato del lavoro – Un urgente
appello per una migliore inclusione sociale" e pubblicata dalla
Commissione nel 2007, – visto l'articolo 108,
paragrafo 5, del suo regolamento, A. considerando che i 12-15
milioni di rom che vivono in Europa – di cui circa 10 milioni
nell'Unione europea – sono vittime di discriminazioni razziali e soggetti
in molti casi a gravi discriminazioni strutturali e a condizioni di povertà e
di esclusione sociale, come anche a discriminazioni molteplici in base al
sesso, all'età, all'handicap o all'orientamento sessuale; considerando che
gran parte dei rom europei sono diventati cittadini dell'Unione europea a
seguito degli ampliamenti del 2004 e del 2007, beneficiando del diritto dei
cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri, B. considerando che la
situazione dei rom europei – che storicamente sono stati parte della
società in numerosi paesi europei e hanno contribuito ad essa – è
diversa da quella delle minoranze nazionali europee, cosa che giustifica
l'adozione di misure specifiche a livello europeo, C. considerando che i cittadini
rom dell'Unione europea sono spesso vittime di discriminazioni razziali
nell'esercizio del loro diritto fondamentale, in quanto cittadini dell'Unione
europea, alla libertà di circolazione e di stabilimento, D. considerando che numerosi
rom e numerose comunità rom che hanno deciso di stabilirsi in uno Stato
membro diverso da quello di cui sono cittadini si trovano in una posizione
particolarmente vulnerabile, E. considerando che sia negli
Stati membri sia nei paesi candidati non si sono compiuti progressi nella
lotta alla discriminazione razziale nei confronti dei rom e nella difesa del
loro diritto all'istruzione, all'occupazione, alla salute e all'alloggio, F. considerando che la
segregazione nell'istruzione continua ad essere tollerata negli Stati membri
dell'Unione europea; considerando che tale discriminazione nell'accesso ad
un'istruzione di qualità condiziona in modo permanente la capacità dei
bambini rom di sviluppare e di sfruttare il loro diritto ad uno sviluppo
educativo, G. considerando che
l'istruzione è uno strumento fondamentale per combattere l'esclusione
sociale, lo sfruttamento e la criminalità, H. considerando che condizioni
di vita deplorevoli e insalubri e una ghettizzazione evidente sono fenomeni
ampiamente diffusi e che, regolarmente, i rom sono vittime di espulsioni
forzate o viene loro impedito di abbandonare le aree in cui vivono, I. considerando che le comunità
rom presentano in media livelli inammissibilmente elevati di disoccupazione,
il che richiede interventi specifici volti ad agevolare l'accesso al lavoro;
sottolineando che il mercato europeo del lavoro, così come la società europea
nel suo complesso, trarrebbero enorme beneficio dall'integrazione dei rom, J. considerando che l'Unione
europea offre una varietà di meccanismi e strumenti che possono essere
utilizzati per migliorare l'accesso dei rom ad un'istruzione di qualità,
all'occupazione, all'alloggio e all'assistenza sanitaria, in particolare
politiche in materia di inclusione sociale, sviluppo regionale e occupazione, K. considerando che
l'inclusione sociale delle comunità rom continua ad essere un obiettivo da
raggiungere e che occorre utilizzare gli strumenti dell'Unione europea per
realizzare cambiamenti efficaci e visibili in questo settore, L. considerando la necessità di
garantire un'effettiva partecipazione dei rom alla vita politica, in
particolare alle decisioni che incidono sulla loro vita e sul loro benessere, M. considerando che
l''antizingarismo" o fobia dei rom è ancora diffuso in Europa, che è
promosso e utilizzato dagli estremisti, cosa che può culminare in attacchi
razzisti, discorsi improntati all'odio, attacchi fisici, espulsioni illegali
e vessazioni da parte della polizia, N. considerando che la maggior
parte delle donne rom subiscono una doppia discriminazione, in quanto rom e
in quanto donne, O. considerando che l'Olocausto
dei rom (Porajmos) merita un pieno riconoscimento commisurato alla gravità
dei crimini nazisti volti ad eliminare fisicamente i rom d'Europa, così come
gli ebrei e altri gruppi mirati; 1. condanna senza eccezioni e
senza ambiguità possibili tutte le forme di razzismo e di discriminazione cui
sono soggetti i rom e altre comunità considerate "zingari"; 2. accoglie favorevolmente le
conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo del 14 dicembre 2007 il
quale, "conscio della situazione molto particolare in cui versa la
comunità rom in tutta l'Unione, invita gli Stati membri e l'Unione stessa ad
utilizzare tutti i mezzi per migliorarne l'inclusione" e "invita a
tal fine la Commissione ad esaminare le politiche e gli strumenti vigenti e a
riferire al Consiglio, entro la fine del giugno 2008, in merito ai progressi
registrati"; 3. ritiene che l'Unione europea
e gli Stati membri condividano la responsabilità di promuovere l'inserimento
dei rom e di appoggiare i loro diritti fondamentali in quanto cittadini
europei, e che debbano intensificare prontamente i loro sforzi per conseguire
risultati visibili in tale settore; invita gli Stati membri e le istituzioni
dell'Unione europea ad avallare le misure necessarie per creare un clima
sociale e politico adeguato, che consenta di porre in atto l'inserimento dei
rom; 4. sollecita la nuova Agenzia
per i diritti fondamentali a porre l''antizingarismo" tra le massime
priorità del suo programma di lavoro; 5. riafferma l'importante ruolo
dell'Unione europea nella lotta contro la discriminazione nei confronti dei
rom, che spesso è strutturale e che per questo richiede un'impostazione
globale a livello dell'Unione europea, in particolare con riguardo allo
sviluppo di politiche comuni, ma riconosce che le competenze fondamentali e
il principale investimento in termini di volontà politica, tempo e risorse da
destinare alla protezione, all'attuazione di politiche, alla promozione e
alla responsabilizzazione dei rom devono essere a carico degli Stati membri; 6. sollecita la Commissione a
sviluppare una strategia quadro europea per l'inserimento dei rom, che miri a
dare coerenza alle politiche dell'Unione europea in materia di inclusione
sociale dei rom e, nel contempo, sollecita tale Istituzione ad elaborare un
piano d'azione comunitario dettagliato per l'inclusione dei rom volto a
fornire un sostegno finanziario per la realizzazione dell'obiettivo della
strategia quadro europea per l'inclusione dei rom; 7. Esorta la Commissione ad
elaborare un esauriente piano d'azione comunitario sull'inclusione dei Rom;
rileva che il piano deve essere elaborato ed implementato dal gruppo di Commissari
responsabili per l'inclusione sociale dei cittadini dell'UE attraverso i loro
portafogli dell'occupazione, degli affari sociali, delle pari opportunità,
della giustizia, della libertà, dell'istruzione, della cultura e della
politica regionale; 8. chiede alla Commissione di
attribuire a uno dei Commissari la competenza per il coordinamento di una
politica per i rom; 9. esorta la Commissione ad
applicare la metodologia di lavoro "da Rom-a-Rom" quale strumento
efficace per gestire le problematiche legate ai Rom e la invita a promuovere
la presenza di personale Rom all'interno della sua struttura; 10. invita la Commissione ad
istituire un'unità rom per coordinare la messa in atto della strategia quadro
europea per l'inclusione dei rom, facilitare la cooperazione tra gli Stati
membri e coordinare loro azioni comuni, nonché assicurare che tutti gli
organi competenti siano sensibilizzati sulle questioni relative ai rom; 11. Invita la Commissione a
considerare l'impatto degli investimenti privati sulle pari opportunità un
fattore pertinente e determinante ai fini della mobilizzazione delle risorse
dell'UE, imponendo alle persone fisiche e/o giuridiche che presentano
un'offerta per progetti finanziati dall'UE l'obbligo di elaborare e
implementare un'analisi e un piano d'azione sulle pari opportunità; 12. accoglie con favore le
iniziative rese note dalla Commissione, tra cui una comunicazione sulla
strategia rivista per la lotta contro la discriminazione, il prossimo libro
verde concernente l'istruzione di bambini immigrati o appartenenti a
minoranze svantaggiate, e l'intenzione di prendere misure addizionali per
assicurare l'applicazione della direttiva 2000/43/CE; si compiace, in
particolare, della proposta di istituire un forum di alto livello sui rom,
quale struttura per lo sviluppo di politiche efficaci intese ad affrontare le
questioni che interessano i rom; 13. Esorta la Commissione a
creare una mappa paneuropea delle crisi, sulla cui base sono individuate e
monitorate quelle aree dell'UE le cui comunità Rom risultano essere le più
minacciate dalla povertà e dall'esclusione sociale; 14. sollecita la Commissione ad
esaminare le possibilità di un rafforzamento della legislazione
antidiscriminazione nel settore dell'istruzione, in particolare per quanto
riguarda la desegregazione, e a riferire al Parlamento sulle risultanze dei
suoi lavori entro un anno dall'approvazione della presente risoluzione;
ribadisce che l'accesso a pari condizioni ad un'istruzione di qualità
dovrebbe essere una priorità nell'ambito di una strategia europea per i rom;
sollecita la Commissione ad intensificare i suoi sforzi per finanziare e
sostenere, negli Stati membri, azioni intese ad integrare i bambini rom, sin
dalla più tenera età, nei sistemi di istruzione ordinari; esorta la
Commissione a sostenere programmi che promuovano azioni positive a favore dei
rom nei settori dell'istruzione secondaria e superiore, includendo la
formazione professionale, l'istruzione degli adulti, l'apprendimento lungo
tutto l'arco della vita e l'istruzione universitaria; esorta altresì la
Commissione a sostenere altri programmi che offrano modelli positivi e
riusciti di desegregazione; 15. invita gli Stati membri e
la Commissione a combattere lo sfruttamento dei bambini rom, l'accattonaggio
che sono costretti a praticare e il loro assenteismo scolastico, nonché i
maltrattamenti delle donne rom; 16. sollecita la Commissione a
sostenere l'integrazione dei rom nel mercato del lavoro mediante misure che
comprendano un sostegno finanziario alla formazione e alla riconversione
professionale, misure intese a promuovere azioni positive sul mercato del
lavoro, un'applicazione rigorosa delle leggi antidiscriminazione nel settore
dell'occupazione e misure atte a promuovere presso i rom il lavoro autonomo e
le piccole imprese; 17. invita la Commissione a
considerare la possibilità di un sistema di microcredito quale suggerito
nella relazione summenzionata del gruppo consultivo di esperti di alto
livello, per promuovere l'avvio di piccole imprese e sostituire la prassi
dell'usura, che obera molte delle comunità svantaggiate; 18. invita il Consiglio, la
Commissione e gli Stati membri a sostenere programmi nazionali volti a
migliorare la situazione sanitaria delle comunità rom; in particolare introducendo
un adeguato programma di vaccinazioni per i bambini; sollecita tutti gli
Stati membri a porre fine e a rimediare in modo adeguato e senza indugio
all'esclusione sistematica di talune comunità rom dall'assistenza sanitaria,
comprese, tra l'altro, le comunità che si trovano in aree geografiche
isolate, come anche a violazioni estreme dei diritti dell'uomo nell'ambito
del sistema sanitario, laddove esse abbiano avuto o stiano avendo luogo,
comprese la segregazione razziale nelle strutture sanitarie e la sterilizzazione
forzata delle donne rom; 19. sollecita la Commissione a
basarsi sui modelli positivi esistenti per sostenere programmi volti a porre
fine, negli Stati membri in cui esiste, al fenomeno delle baraccopoli rom
– che generano gravi rischi sociali, ambientali e sanitari – e a
sostenere altri programmi che offrano modelli positivi e riusciti di alloggio
per i rom, inclusi i rom migranti; 20. sollecita gli Stati membri
a risolvere il problema dei campi, dove manca ogni norma igienica e di sicurezza
e nei quali un gran numero di bambini rom muoiono in incidenti domestici, in
particolare incendi, causati dalla mancanza di norme di sicurezza adeguate; 21. sollecita la Commissione e
il Consiglio ad allineare la politica dell'Unione europea relativa ai rom sul
"Decennio per l'integrazione dei rom" e a fare uso delle iniziative
esistenti, quali il Fondo per l'istruzione dei rom, il Piano d'azione
dell'OSCE e le raccomandazioni del Consiglio d'Europa, al fine di accrescere
l'efficacia degli sforzi compiuti in tale settore; 22. sottolinea l'importanza che
riveste il fatto di coinvolgere le autorità locali per garantire
un'esplicazione efficace degli sforzi volti a promuovere l'inserimento dei
rom e a combattere la discriminazione; 23. invita gli Stati membri a
coinvolgere la comunità rom al livello di base nel tentativo di mettere il
popolo rom in condizioni di beneficiare pienamente degli incentivi forniti
dall'Unione europea volti a promuovere i loro diritti e l'inserimento delle
loro comunità, nei settori dell'istruzione, dell'occupazione e della
partecipazione civica, dal momento che un'integrazione riuscita comporta un
approccio che va dal basso verso l'alto e responsabilità comuni; sottolinea
l'importanza di sviluppare le risorse umane e le capacità professionali dei
rom, al fine di promuovere la loro presenza a tutti i livelli
dell'amministrazione pubblica, ivi comprese le istituzioni della UE; 24. ricorda che tutti paesi
candidati si sono impegnati, nel quadro del processo di negoziazione e di
adesione, a migliorare l'inserimento delle comunità rom e a promuovere il
loro diritto all'istruzione, all'occupazione, all'assistenza sanitaria e
all'alloggio; chiede alla Commissione di effettuare una valutazione del
rispetto di tali impegni e della situazione attuale dei rom in tutti gli
Stati membri dell'Unione europea; 25. invita la Commissione e le
autorità competenti a compiere i passi necessari per porre termine alle
attività di ingrasso dei suini sul sito dell'ex campo di concentramento di
Lety (Repubblica Ceca), lasciando spazio ad un monumento commemorativo che
onori le vittime delle persecuzioni; 26. ritiene di dover dovrebbe
esaminare più nel dettaglio i diversi aspetti delle sfide strategiche europee
riguardanti l'inserimento dei rom; 27. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente
risoluzione al Consiglio e alla Commissione nonché ai governi e ai parlamenti
degli Stati membri, ai paesi candidati, al Consiglio d'Europa e all’OSCE. |
DOCUMENTI, RAPPORTI E RICERCHE
Marina Pirazzi (a cura di ), “CAUSE STRATEGICHE CONTRO LA
DISCRIMINAZIONE Prime riflessioni su linee guida per
l’individuazione e la preparazione di cause strategiche”, edita dal COSPE di
Firenze.
La pubblicazione curata da Marina Pirazzi (COSPE) con i contributi di
Alessandro Maiorca, Nazzarena Zorzella e Sara Cerretelli, è il frutto di un
progetto finanziato dall’UNAR che ha visto il COSPE quale capofila ed una serie
di associazioni non governative (ASGI, ENAR, CESTIM) ed enti territoriali
(Regione Emilia Romagna) quali partner.
La pubblicazione intende compiere una disamina sulla legislazione
nazionale ed internazionale in materia di discriminazione razziale finalizzata
all’individuazione nel contesto italiano di cause strategiche contro la
discriminazione, vale a dire cause legali da intraprendere allo scopo di
indurre un cambiamento sociale, legislativo e giurisprudenziale e che
contribuiscano allo sviluppo della tutela dei diritti umani e alla promozione
dell’inserimento sociale dei soggetti deboli (immigrati, seconde generazioni,…)
.
L’ASGI, ed in particolare l’avv. Nazzarena Zorzella e il consulente
Alessandro Maiorca, ha contribuito in misura decisiva alla stesura del testo,
che rappresenta dunque una delle analisi giuridiche più significative e preziose
attualmente disponibili in materia di contrasto alle discriminazioni
etnico-razziali.
Copia della pubblicazione in formato
elettronico può essere scaricata dal sito web del COSPE: http://www.cospe.it/italiano/dettaglioNews.php?id=344&i=wy