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Martedì 02 Settembre 2008 Chiudi chiudi finestra
di CORRADO GIUSTINIANI

ROMA - Prima puntare alla cittadinanza italiana per i figli degli immigrati nati nel nostro paese, poi giocare la carta del voto amministrativo per gli stranieri extracomunitari. Se l’obiettivo dell’opposizione è quello di influenzare concretamente le scelte del governo, e non invece di cozzare contro muraglie cinesi, la scala delle priorità di Veltroni avrebbe potuto essere questa. Oggi i figli degli immigrati, nati in Italia, si trovano in un limbo pericoloso sino alla maggiore età: potranno ottenere la cittadinanza italiana solo al compimento dei 18 anni e sempre che abbiano trascorso tutta la loro vita senza interruzioni nel nostro paese. Un calvario assurdo e ingiusto, previsto dalla legge 91 del 1992. Nella scorsa legislatura il governo Prodi ha presentato un progetto di riforma secondo il quale questi bambini verranno subito naturalizzati, se i genitori risiedono regolarmente nel nostro paese da almeno cinque anni, garantendo, quindi, una famiglia sufficientemente integrata. Una proposta moderata, e per questo più difficilmente liquidabile.
E perché mai questa iniziativa sarebbe più tempestiva del voto? Perché della citata proposta di modifica della 91, il governo Berlusconi ha già fatto propria un’altra norma: quella che mira a ostacolare i matrimoni di comodo con un cittadino o una cittadina italiana, elevando dagli attuali sei mesi, previsti dalla legge n.91, a due anni il periodo di convivenza dopo le nozze necessario per chiedere la naturalizzazione. Su questo punto il governo ha presentato prima dell’estate un disegno di legge: esiste già, insomma, il convoglio al quale agganciare anche la norma sui bimbi degli stranieri, che risponde a criteri di integrazione e securitari nello stesso tempo. Oggi in Italia nascono 60 mila bimbi stranieri all’anno, e l’esercito delle seconde generazioni tocca quota 700 mila. Ragazzi che parlano solo italiano e tifano per le nostre squadre di calcio. Vogliamo proprio perderli?
L’iniziativa per concedere il voto amministrativo è certo più che giusta. Perché l’Unione Europea raccomanda di garantirlo a chi soggiorna regolarmente da almeno cinque anni in un paese membro e perché fu lo stesso Gianfranco Fini, da vicepremier del governo Berlusconi, in un famoso discorso al Cnel, il 7 ottobre 2003, ad affermare: «I tempi sono maturi per discutere di diritto di voto, almeno amministrativo, per le persone immigrate». E dieci giorni dopo An presentò il relativo disegno di legge in Parlamento, che fu poi abbandonato. Ma, su questo, non solo Pdl e Lega sparano cannonate: persino l’Italia dei Valori è contraria. Non dimentichiamo, poi, che i cittadini stranieri dell’Unione europea possono già votare alle comunali, e da ben 12 anni. Lo prevede il decreto legislativo 197 del 12 aprile 1996, che recepì una legge di Bruxelles. I romeni, tanto per essere chiari, questo diritto lo posseggono già.