NUOVE INTESE TRA ITALIA E LIBIA – ANCORA SULLA PELLE DEI MIGRANTI

1 . L’ultimo accordo politico stipulato in Libia il 30 agosto scorso tra Berlusconi e Gheddafi non costituisce certo una novità. Il 19 gennaio 2007, commentando i dati degli arresti in Libia dei candidati all'immigrazione clandestina, il Ministro degli interni Giuliano Amato parlava di “buoni frutti” della collaborazione tra Italia e Libia. Pochi mesi dopo, l’ 11 giugno 2007, lo stesso  Ministro arrivava a  chiedere la partecipazione della Libia ai pattugliamenti aeronavali congiunti dell'agenzia Frontex nel Canale di Sicilia, per “impedire l'uscita dai porti delle navi”.Alla fine del 2007, tra la Libia e l’Italia si era giocata una partita diplomatica che aveva  prodotto i risultati da tempo auspicati dai diversi governi italiani, prima da Berlusconi e da Pisanu, poi da Prodi, D’Alema e Amato. Otto anni dopo l'avvio delle prime trattative con il colonnello Gheddafi, l'Italia  ha  siglato un accordo politico globale con la Libia che include anche un capitolo specifico per combattere l'immigrazione clandestina. Finora si era trattato solo di intese operative, a livello di forze di polizia, adesso quelle stesse forze di polizia ottengono dai politici la formalizzazione e la legittimazione delle prassi “riservate”  seguite fin qui, con l’aggiunta di mezzi e personale che dovrebbero migliorare “l’efficienza”  degli interventi di contrasto ( 1 ) . Si può comunque continuare a dubitare che questo ultimo accordo si sottragga alla tecnica della rinegoziazione continua imposta dal colonnello Gheddafi. Sulla pelle dei migranti, naturalmente.

L’Italia si era preparata da anni, passo dopo passo, per il sostegno del governo libico nel “contrasto dell’immigrazione irregolare”, con una politica di piena continuità tra i diversi governi che si erano succeduti nel tempo. Nel 2004 veniva promulgata la legge n. 271, che attribuiva al Ministero dell'Interno la possibilità di finanziare la realizzazione, in paesi terzi, di “strutture utili ai fini del contrasto di flussi irregolari di popolazione migratoria verso il territorio italiano”. I finanziamenti elargiti dall’Italia non sono stati mai legati al rispetto dei diritti dei migranti o alla ratifica della Convenzione di Ginevra sul diritto d'asilo, né alla conformità delle strutture di trattenimento agli standard minimi internazionali per la detenzione. Con i fondi stanziati grazie a questa legge, in Libia, negli anni sorsi, erano stati finanziati almeno tre centri di detenzione per migranti, dove le violazioni dei diritti umani sono sistematiche, come confermato da Amnesty International e da Human Rights Watch ( 2 ).

A confermare gli abusi non sono state solo le organizzazioni che difendono i diritti umani o i giornalisti che hanno potuto visitare la Libia, ma i vertici dei servizi segreti italiani, come l’ex direttore del SISDE Prefetto Mario Mori.  Nel 2005, durante una audizione del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti,   Mori  dichiarava come in Libia “ i clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi...». Mori parlava anche del centro di accoglienza finanziato dagli italiani in Libia, nella località di Seba, al confine con il deserto, uno di quei centri di detenzione dove venivano trasferiti anche i clandestini respinti dai centri di permanenza temporanea italiani. «Il centro - dichiarava Mori - prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull´altra senza il rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili». Mori aveva effettuato una visita nel Centro di Seba intorno alla metà di gennaio del 2005, cinque giorni prima dell´incontro del ministro Giuseppe Pisanu con il colonnello Gheddafi.  Già in quell’anno cominciavano a confondersi le questioni dell’immigrazione irregolare con il tema della sicurezza internazionale e della lotta al terrorismo. “In questi campi”, concludeva il prefetto, “è alto il rischio di infiltrazione terroristica. Prima di Natale un gruppo ha confessato un progetto di attentato in un hotel di Bengasi frequentato da occidentali”.

Il prefetto Mori anticipava già nel 2005 poi la grave “emergenza clandestini” che sarebbe esplosa da lì a poco tempo. «Nelle ultime due settimane i libici hanno fermato sulle loro spiagge almeno cinquemila persone già pronte per partire» e infatti nonostante le buone condizioni del tempo gli arrivi sono stati quasi azzerati. «Ma tra poco –annunciava il prefetto -ci sarà una nuova emergenza, in primavera. I motivi sono sotto gli occhi di tutti: carestia e siccità nel Sael, Niger e Ghana, spingono centinaia di migliaia di persone verso le coste del Mediterraneo. La frontiera marocchina è quasi chiusa dopo i morti di Ceuta. E in Libia le organizzazioni criminali sono sempre più strutturate e organizzate». Una situazione che lo stesso Mori definiva allora come «esplosiva». E non certo per il numero dei migranti che potevano raggiungere l’Italia, appena un decimo del totale degli immigrati irregolari che annualmente entra nel nostro paese.

2. Nel 2006, mentre cresceva in maniera esponenziale il numero delle vittime dell’emigrazione clandestina, continuavano i contatti tra la Libia e l’Italia per superare l’antico contenzioso post-coloniale ed instaurare più proficui rapporti commerciali, ridefinendo le frontiere meridionali dell’Unione Europea con la esternalizzazione dei centri di detenzione amministrativa e delle pratiche di espulsione collettiva. L’Italia è stato il paese europeo che si è maggiormente impegnato per la rimozione dell’embargo contro la Libia, dimostrando da questo punto di vista una totale continuità di politica estera, dal Governo D’Alema nel 1999, al Governo Berlusconi ed al Governo Prodi, poi, ed oggi ancora al Governo Berlusconi, malgrado la dialettica parlamentare evidenzi contrapposizioni che appaiono più rivolte alla ricerca del consenso elettorale, che ad una diversa impostazione dei problemi.

La stipula dell’accordo tra Italia e Libia , giunta alla fine del 2007 pochi giorni la conclusione del vertice europeo  di Lisbona, non stupiva più di tanto. Malgrado il progetto francese di una Unione Euromediterranea, fortemente contrastato proprio da Gheddafi,  tutti i paesi comunitari nel corso del 2008 hanno intensificato le politiche tendenti alla stipula di accordi bilaterali. In testa a tutti la Spagna di Zapatero. I diritti umani vengono evocati ormai come un richiamo formale, se non vera e propria merce di scambio, di intese che nei fatti ratificano sfruttamento ed abusi, oltre che stravolgere consolidati principi di diritto internazionale del mare.  Tutto si giustifica in nome della “lotta all’immigrazione clandestina”. Da una parte all’altra del mondo, si continua a puntare su regimi privi di una qualsiasi legittimazione democratica, per “garantire la pace” nelle relazioni internazionali e la sicurezza interna, oltre, naturalmente, i profitti delle multinazionali. Con quali risultati è possibile per tutti, oggi, verificare. 

L’allarme terrorismo si è da tempo esteso all’Africa settentrionale e ovunque si registra una “alleanza di fatto” ( malgrado dichiarino di combattersi a vicenda) tra le organizzazioni terroristiche e i fondamentalismi di stato, come si è già verificato in Egitto ed in Algeria, a danno della società civile, degli studenti, dei docenti universitari, degli operatori dell’informazione, degli avvocati, dei magistrati e di tutti coloro (anche esponenti politici) che in quei paesi lottano per la pace e la democrazia, attraverso la giustizia sociale, senza aspettare che siano le armi e le divise ad imporle.

Le pratiche poliziesche di extraordinary rendition, o di espulsione per motivi di sospetto terrorismo, che l’Italia ha continuato a praticare fino a pochi mesi fa, malgrado le condanne inflitte dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, hanno consentito la esternalizzazione della tortura, e l’arresto arbitrario di migranti,  altra merce di scambio che alcuni paesi di transito, dal Marocco alla Tunisia ed all’Egitto in Africa, ma anche altrove, utilizzano per accreditarsi come partner affidabili dei governi europei.

Il recente rapporto Hammarberg del Consiglio d’Europa condanna senza appello le politiche di espulsione sommaria praticate dall’Italia negli ultimi anni, ed è allarmante che nessuno in Italia abbia ripreso le durissime critiche rivolte al nostro paese.

Le politiche di contrasto, tanto del terrorismo che dell’immigrazione clandestina, rischiano di confondersi sempre di più. Ma la Libia presenta altre particolarità, che non andrebbero trascurate, perché non si tratta di un paese di emigrazione, ma soltanto di transito, ricco di risorse naturali e finanziarie, in certi periodi anche un paese che ha bisogno dell’immigrazione, uno stato che, dopo la riabilitazione americana,  e le promettenti offerte della diplomazia europea, può permettersi di negoziare da posizioni di forza con qualunque interlocutore malgrado gli allarmanti rapporti delle agenzie umanitarie sul rispetto dei diritti delle persone in quel paese( 4 ).

La legittimazione “globale” del colonnello Gheddafi dopo il vertice di Lisbona del dicembre 2007 ed il suo viaggio in Francia e in Spagna agli inizi di quest’anno, lasciavano facilmente prevedere una intensificazione dei rapporti già esistenti di collaborazione con i paesi europei nel contrasto dell’immigrazione clandestina, e con l’Italia di Berlusconi, Frattini e Maroni in particolare, senza troppo riguardo per quei principi elaborati a livello europeo che dovrebbero imporre in questo ambito standard più elevati per la protezione dei diritti umani ( 5 ).

Già dal 2003, peraltro, l’Italia aveva concluso e praticato con la Libia intese operative, come quelle che tra il 2004 e il 2005 avevano supportato le operazioni di rimpatrio dalla Libia verso numerosi paesi di origine dei migranti e, tra le altre, le deportazioni collettive da Lampedusa, malgrado la condanna del Parlamento Europeo e della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. E sono noti da tempo casi ( ancora) isolati di respingimento in mare di imbarcazioni cariche di migranti, praticato da unità militari italiane, verso i porti libici . Non sappiamo adesso se le intese raggiunte tra Berlusconi e Gheddafi consentiranno il pattugliamento congiunto in acque libiche per respingere verso terra le imbarcazioni cariche di migranti subito dopo la partenza, oppure se tale compito di interdizione sarà effettuato in acque internazionali al confine con le acque territoriali libiche ( sulla cui estensione non si è mai raggiunta alcuna intesa).

3. In base ai trattati internazionali, di certo, per quanto riguarda il pattugliamento congiunto nelle acque internazionali, al di fuori dei casi di terrorismo, pirateria ed inquinamento ambientale, solo da parte dello stato di bandiera ( o con la autorizzazione dello Stato di bandiera) si può esercitare un potere di interdizione della navigazione di una imbarcazione carica di migranti irregolari. A meno che non si ottenga l’autorizzazione preventiva dello stato di bandiera, o che l’imbarcazione sia priva di segnali identificativi.

Nessuna norma di diritto internazionale del mare autorizza dunque uno Stato come l’Italia o la Libia ad esercitare poteri di blocco navale su imbarcazioni sospettate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali  Le prescrizioni eventualmente derivanti da direttive comunitarie, come quella che nel 2004 ha istituito l’Agenzia di controllo delle frontiere esterne Frontex, o la attuazione di Accordi internazionali come il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale relativo al traffico clandestino di migranti, non intaccano questi principi, autorizzando soltanto il diritto di visita in acque internazionali nel caso di nave senza nazionalità o non battente una bandiera di stato. Non si ha peraltro notizia ufficiale di operazioni di “respingimento in mare” compiute nel 2008  da unità utilizzate dall’Agenzia europea FRONTEX nelle acque del canale di Sicilia. In qualche caso sono stati  comandanti di pescherecci di diversa nazionalità che, per non essere coinvolti in delicate questioni di diritto, o per non essere sottoposti a processo, hanno riportato indietro il Libia migranti salvati nelle acque del Canale di Sicilia. Salvati per essere respinti verso l’inferno dal quale erano fuggiti.

 

4. Malgrado i tentativi di “collaborazione”, a partire dai rimpatri collettivi da Lampedusa nell’ottobre del 2004, era sempre mancato un accordo politico globale e sui rapporti Italia- Libia pesavano soprattutto le questioni irrisolte del contenzioso coloniale e le tante promesse mancate da parte del nostro paese per la fornitura di infrastrutture e di armamenti, Alla fine del 2007, dopo mesi di trattative riservate condotte dai più alti vertici del ministero dell’Interno, sulle quali si è taciuto persino in Parlamento, di fronte a diverse interrogazioni parlamentari che chiedevano di fare chiarezza sui rapporti tra la Libia e l’Italia,  si era giunti soltanto alla firma di un “protocollo d’intesa” da parte del ministro Amato e del suo omologo libico.  Venivano istituite, almeno sulla carta, centrali operative e sistemi di monitoraggio comuni per contrastare l’immigrazione clandestina, con il dispiegamento di unità militari italiane in acque libiche a ridosso della costa, per adesso sei imbarcazioni della Guardia di Finanza,  tra le più avanzate tecnologicamente, che opereranno con equipaggi misti per respingere i migranti verso i porti di partenza. Esattamente gli stessi contenuti sbandierati adesso da Berlusconi dopo il viaggio in Libia di sabato 30 agosto.

Il Protocollo firmato a Tripoli nel dicembre del 2007  prevedeva inoltre che l’Italia assumesse ulteriori iniziative a livello europeo per rinforzare i dispositivi di “guerra all’immigrazione illegale” come l’agenzia FRONTEX .  Secondo quanto si apprendeva dai giornali che hanno fedelmente riportato le veline dei comunicati ufficiali, “la direzione e il coordinamento delle attività addestrative ed operative di pattugliamento marittimo vengono affidati ad un Comando operativo interforze che sarà istituito presso una «idonea struttura» individuata dalla Libia. Il responsabile sarà un «qualificato rappresentante» designato dalle autorità libiche, mentre il vice comandante (con un suo staff) verrà nominato dal Governo italiano. Tra i compiti del Comando interforze quello di organizzare l'attività quotidiana di addestramento e pattugliamento; di «impartire le direttive di servizio necessarie in caso di avvistamento e/o fermo di natanti con clandestini a bordo»; di interfacciarsì con le «omologhe strutture italiane», potendo anche richiedere l'intervento o l'ausilio dei mezzi schierati a Lampedusa per le attività anti-immigrazione”. I termini dell’accordo di dicembre 2007, malgrado il riserbo ufficiale apparivano molto chiari ma non sembra che i risultati pratici abbiano corrisposto alle attese, al punto che si potrebbe persino dubitare che il piano, definito dal prefetto De Gennaro, dalla sottosegretaria Lucidi e dal ministro dell’interno libico, sia stato mai realizzato. Colpa forse della crisi politica che ha cancellato il governo Prodi costringendo Gheddafi e Berlusconi ad una ulteriore trattativa, questa volta con la posta ancora più alta. Adesso comunque quell’accordo viene riproposto negli stessi termini sostanziali, per quanto si apprende dalle agenzie, ma con una significativa differenza. Questa volta l’accordo sull’immigrazione che prevede la costruzione da parte di Finmeccanica di un sistema di controllo radar e satellitare sulle frontiere meridionali del Paese sarà finanziato con una enorme quantità di danaro che l’Italia dovrà versare per venti anni alla Libia. Verrebbe da chiedersi, come fa la stampa francese, perché risarcire solo la Libia e non anche Etiopia ed Eritrea, altre vittime della politica coloniale voluta dal fascismo. Si osserva che Berlusconi ha scoperchiato un “vaso di pandora” con conseguenze che potrebbero essere devastanti se altri paesi si comportassero come la Libia nei confronti dei passati colonizzatori.

Un accordo globale per la chiusura del contenzioso coloniale. Un fiume di dollari destinato anche ad armare pattuglie congiunte per bloccare le imbarcazioni dei “clandestini” subito dopo la partenza. Sappiamo già cosa significa il “fermo di natanti” in mare, migliaia di morti e ancora processi per i comandanti delle imbarcazioni non militari,  autori di interventi di salvataggio. Ed è ben nota la condizione dei migranti restituiti alla polizia libica dopo il respingimento da parte delle autorità italiane. Sembra comunque assodato che le “intese tecniche” tra militari italiani e libici non erano mai andate a buon fine, come dimostrato dal raddoppio degli sbarchi di migranti in Sicilia nel 2008 , persone per la maggior parte provenienti proprio dalla Libia, con il conseguente aumento esponenziale del numero dei morti e dei dispersi, anche bambini e donne in gravidanza.

5. Gli  accordi internazionali sottoscritti  da Prodi e Amato nel 2007 e da Berlusconi oggi, con Gheddafi, dovrebbero rientrare tra gli accordi che sono previsti già nel T.U. sull'immigrazione agli articoli 2, 3 e 21, modificati dalla legge Bossi-Fini, con disposizioni che suscitano ancora gravi sospetti di incostituzionalità perché si tratta di accordi internazionali di indubbia valenza politica e di ingente portata economica che sono sottratti alla ratifica parlamentare prevista dall'art. 80 della nostra Costituzione. Gli stessi accordi, a seconda del loro contenuto, o delle intese operative che ne seguono, possono violare principi consolidati di diritto internazionale . La riammissione, o il respingimento, collettivo, a mare, di migranti verso stati che non garantiscano il rispetto dei diritti umani fondamentali, ovvero nei quali gli interessati possano essere vittime di trattamenti disumani o degradanti, sono tassativamente proibiti dall'art. 3 della stessa Convenzione Europea. Analogamente è vietato il rinvio verso stati nei quali non vi è l'effettiva possibilità di accedere alla protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, convenzione che la Libia non ha ancora sottoscritto, macigno che non può essere rimosso dal consueto pretesto che lo stesso paese è parte dell’Organizzazione degli stati africani ( OUA) il cui statuto richiama quella Convenzione. Del resto è sufficiente verificare la impossibilità per l’ACNUR e le altre organizzazioni umanitarie di assolvere liberamente le proprie funzioni di assistenza come in tutti i paesi firmatari della Convenzione di Ginevra, per cogliere il cinismo di chi in nome del contrasto dell’immigrazione clandestina sostiene argomenti che avallano la cancellazione del diritto di asilo in Libia ed in Italia.

Rimane ancora molto concreto il rischio – se non la certezza - che dopo gli interventi di pattugliamento congiunto praticato dalle unità miste italo-libiche si possano verificare vere e proprie espulsioni o respingimenti collettivi verso la Libia e da qui verso i paesi di provenienza. Non meno preoccupanti le prospettive di uno sbarramento delle frontiere meridionali della Libia, zona notoriamente controllata dai gruppi tribali e dalle mafie che trafficano armi, droga e persone. Qualunque legittima intensificazione dei controlli non deve aumentare il potere di ricatto dei gruppi criminali collusi con gli agenti istituzionali. La Libia non è l’Albania, come qualcuno a Roma sembrerebbe credere. E l’immigrazione da est è temporaneamente diminuita perché si è moralizzata la polizia di frontiere e sono venuti meno i fattori di spinta come la crisi balcanica, non certo perché si sono piazzate alcune unità di carabinieri nei porti dell’adriatico o alle frontiere albanesi.

In questi anni si è avuta notizia di migliaia di casi di respingimento di potenziali richiedenti asilo da parte delle autorità libiche, e dopo le parziali ammissioni del Colonnello Mori, sono ormai numerose le testimonianze sulla detenzione amministrativa che viene praticata in Libia senza un effettivo controllo di una autorità giurisdizionale, senza alcuna possibilità di difesa ( 6 ). Migliaia di persone, tra le quali donne e minori sono trattenuti ancora oggi in condizioni disumane, come si è verificato nel caso degli eritrei e degli altri migranti irregolari detenuti nel carcere di Misurata ed in altri luoghi di detenzione, anche fosse scavate nel deserto. I migranti irregolari, anche quelli giunti in Libia per lavorare, attratti dagli inviti del colonnello Gheddafi ai tempi dell’embargo, sono stati poi rastrellati e, utilizzati come merce di scambio.  Chi è riuscito a fuggire ha dovuto pagare somme sempre più elevate alla polizia libica. La maggior parte delle giovani donne viene sistematicamente stuprata dai trafficanti o da poliziotti in divisa. Così almeno raccontano la maggior parte delle sopravvissute in fuga dall’inferno libico. E Gheddafi si proclama ancora un campione dei diritti umani e in questa veste ottiene riconoscimenti dalla comunità internazionale. Con questo leader politico e con queste forze di polizia adesso l’Italia ha firmato un vero e proprio accordo politico dopo il protocollo tecnico per la “cooperazione contro l’immigrazione clandestina” già sottoscritto alla fine del 2007. L’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, che vieta trattamenti inumani e degradanti, e l’art. 33 della Convenzione di Ginevra che sancisce il principio di non refoulement avrebbero dovuto impedire la conclusione degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi. Ma questi due leader hanno dimostrato da tempo in quale considerazione tengano il rispetto dei diritti umani dei migranti( 7 ). Gli organismi internazionali preposti alla salvaguardia di queste convenzioni internazionali dovranno denunciare il comportamento del governo italiano.

 

6. Al di là del giudizio negativo che si può formulare su un accordo concluso sulla pelle dei migranti, senza alcun riguardo per le categorie più vulnerabili, viene forte il dubbio che i paesi, come la Francia e l’Italia, che stanno investendo risorse ingenti attribuendo a regimi dittatoriali compiti sempre più importanti per bloccare l’immigrazione e per combattere il terrorismo, possano avere fatto male i propri conti, per la inaffidabilità dei partner che non sembrano certo in grado di garantire quanto hanno millantato, ma che intanto prosperano sugli aiuti economici e sulle forniture militari che gli vengono generosamente elargite. Continuando a governare con la violenza clandestina dei servizi segreti e con la repressione di qualunque forma di dissenso. Violenza militare e repressione che possono alimentare negli strati più disperati della popolazione locale, o degli stessi migranti,  la base di consenso  verso le organizzazioni terroristiche. E’ bene che l’opinione pubblica sia consapevole dei gravissimi rischi che potrebbero essere innescati proprio dalla politica estera seguita dal governo Berlusconi con la Libia.

Gli inviti, assai rari, finora rivolti alla Libia di assicurare un maggior rispetto per i diritti umani, non solo dei migranti, sono finora caduti nel vuoto ( 8 ). Nel corso dei suoi incontri a Parigi, lo scorso gennaio, Gheddafi ha immediatamente smentito Sarkozy quando questi ha affermato di avere trattato, nel suo colloquio con il leader libico, il dossier sul rispetto dei diritti umani in Libia, questione sollevata ancora di recente da Human Rights Watch , e lo stesso atteggiamento infastidito è stato opposto all’amministrazione americana. 

Sulla base della esperienza maturata in questi ultimi anni è ben difficile che i nuovi accordi sottoscritti adesso da Berlusconi, malgrado diversi miliardi di dollari sottratti ai cittadini italiani e regalati a Gheddafi, con buona pace per le attese dei cittadini italiani espulsi dalla Libia nel passato, possano produrre gli effetti auspicati dal governo italiano.

Come veniva ricordato in  documento dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione  dopo le intese tra l’Italia e la Libia alla fine del 2007 ( 9 ), “l’accordo italo-libico, per quanto è dato desumere dalle notizie ufficiali diramate dal governo, mancherebbe di ogni effettivo elemento di controllo e di garanzia sulla sorte dei migranti che verranno intercettati e rinviati in Libia. In tal modo, al di là delle dichiarazioni espresse dal Governo italiano relative alle finalità meritorie del contrasto del tragico traffico degli esseri umani, l’accordo pone oggettivamente l’Italia in un pericolosissimo vortice di gravi responsabilità dirette per le violazioni dei diritti fondamentali della persona che in territorio libico potranno essere commesse a danno dei migranti che saranno respinti o arrestati in quel paese” ( 10 ). La stessa incertezza sulla sorte delle persone, sulle vite delle migliaia di uomini, donne e bambini, in prevalenza potenziali richiedenti asilo, che la Libia incarcera in condizioni disumane, lascia morire nel deserto o costringe a fuggire in mare su imbarcazioni fatiscenti, spesso verso la morte, una incertezza che purtroppo diviene sempre più spesso cronaca di tragedie annunciate, può affermarsi ancora oggi dopo l’intesa politica “raggiunta” ( ma rimangono ancora aperte questioni tecniche ed  operative…) tra Berlusconi e Gheddafi.

Di fronte alla politica seguita dall’attuale governo italiano in materia di immigrazione ed asilo sembra utopistico persino proporre poche iniziative ragionevoli che potrebbero salvare migliaia di vite, consentire identificazioni certe e tempestive dei clandestini, restituire credibilità ai trattati internazionali e sicurezza ai cittadini ed ai migranti. Ancora di più è necessario, dopo l’accordo politico Berlusconi-Gheddafi, aprire corridoi umanitari che permettano ai potenziali richiedenti asilo somali, eritrei, etiopici, burkinabè, togolesi, nigeriani, e di altri paesi, bloccati in Libia, di essere identificati da operatori internazionali indipendenti . In modo  da potere raggiungere legalmente l’Europa e sottrarsi, sia al ricatto delle organizzazioni criminali che al calcolo politico ed alle intese di finto “sbarramento” che si traducono presto in un mercanteggiamento continuo tra gli stati, le forze di polizia e le bande di trafficanti di uomini.

Bisogna poi rilanciare a livello europeo la proposta di aumentare le possibilità di ingresso per ricerca di lavoro, anche in modo da contrastare il lavoro schiavistico, e modificare la disciplina delle espulsioni, effettuando l’allontanamento forzato ed il respingimento nei casi più gravi, solo quando possono essere garantiti i diritti fondamentali della persona, nel rispetto della Convenzione di Ginevra e della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, con strumenti alternativi che consentano identificazioni certe e possibilità di reinserimento nella legalità ( come abbattimento dei divieti di reingresso e forme di regolarizzazione successiva a regime).

Se solo una parte dei cinque miliardi di dollari che  Berlusconi ha promesso a Gheddafi nei prossimi anni fosse impiegata in questa direzione, con misure di integrazione e di inclusione sociale, solo in quel caso che oggi appare utopistico, malgrado gli appelli della Chiesa e di molte agenzie internazionali a partire dalle Nazioni Unite, potrebbe garantirsi una maggiore sicurezza ai cittadini ed ai migranti, senza scatenare guerre tra poveri o alzare ancora altre frontiere che uccidono.  


Fulvio Vassallo Paleologo

Università di Palermo

 

 

 

 

 

 

NOTE

( 1 ) Il Corriere della Sera, 30 dicembre 2007 - Dietro le quinte La mediazione di De Gennaro.
ROMA — Si è mossa su un doppio binario la trattativa dell'Italia con la Libia. Ma alla fine l'uomo della svolta è stato Gianni De Gennaro, l'ex capo della polizia attuale responsabile del gabinetto del ministro Giuliano Amato. È stato lui a tessere la tela con le autorità di Tripoli sin dal giugno scorso e a ottenere il via libera definitivo all'accordo. Il resto lo hanno fatto i diplomatici che in questi ultimi mesi hanno assicurato a Gheddafi l'impegno formale per sanare i vecchi conti del passato, cioè i danni causati dal colonialismo che il colonnello non ha mai smesso di pretendere. E così il titolare della Farnesina Massimo D'Alema agli inizi di novembre ha potuto dichiarare pubblicamente: «Abbiamo raggiunto un'intesa di massima che dovrà essere perfezionata». Un patto che prevede l'impegno dell'Italia alla costruzione dell'autostrada che attraversa tutto il Paese, visto che parte dal confine con la Tunisia e arriva a quello con l'Egitto. È il «grande gesto» più volte promesso da Silvio Berlusconi quando era a capo del governo e mai realizzato. È stato il nodo da sciogliere per riuscire a convincere il governo della Giamahiria a consentire il pattugliamento delle sue coste. Ma non è stato l'unico. Perché De Gennaro ha mostrato concretamente quale potesse essere l'apporto che l'Italia era disposta a fornire per aiutare i libici a presidiare le proprie frontiere interne. E così sono stati consegnati «cinque veicoli fuoristrada completamente allestiti per il deserto e dotati di apparecchiature satellitari gps e impianti radio; gli strumenti per l'individuazione del falso documentale; sette computer e altrettanti sistemi di comunicazione satellitare». Ma è stato soprattutto messo a disposizione un finanziamento di due milioni di euro dell'Unione Europea al quale l'Italia ha partecipato con 700.000 euro, per mettere a punto il progetto di rimpatrio volontario per gli extracomunitari entrati in Libia dai Paesi limitrofi. Segnali forti che, uniti all'organizzazione dei voli interni per riportare a casa i clandestini affidata proprio agli italiani, hanno alla fine convinto il colonnello Gheddafi. Il negoziato, come del resto avviene da anni, ha avuto anche nell'ultimo periodo fasi alterne. Avviato quando al Viminale c'era ancora Giuseppe Pisanu, è stato più volte interrotto dal governo libico. E gli analisti sono stati concordi nel valutare come nei momenti di crisi tra i due Paesi gli sbarchi di persone provenienti dai porti che guardano l'Italia si siano intensificati. Del resto, basta allentare i controlli e consentire alle carrette del mare di salpare per far sì che sulle coste siciliane arrivino migliaia di clandestini. Persone che dovrebbero essere riportare in patria, ma che molto spesso si è costretti a trattenere visto che con alcuni Stati non esistono accordi di riammissione. Nel giugno scorso è stato consegnato il centro di accasermamento per la polizia libica a Gharyan, costruito con fondi italiani, e il Viminale ha messo a disposizione sette milioni di euro per creare il sistema informatico di registrazione dei dati anagrafici dei cittadini. L'Italia si è fatta carico della formazione del personale di polizia e dell'addestramento dei piloti e degli ufficiali che a bordo di elicotteri e motovedette si occupano della ricerca in mare. L'impegno a concedere altri fondi e farsi garante nei confronti dell'Unione Europea per la consegna di mezzi e ulteriori soldi alla fine ha sbloccato la trattativa. Ieri mattina il ministro Amato, accompagnato da De Gennaro, è volato a Tripoli per la firma definitiva. L'incontro con Gheddafi è saltato all'ultimo minuto, ma ci sarà tempo per rivedersi. Anche perché il premier Romano Prodi sembra intenzionato a tornare in Libia entro la fine di gennaio.

( 2 ) Si rinvia al dossier “Fuga da Tripoli” ed agli altri documenti sulla situazione dei migranti in Libia, di Human Righs Watch e dell’Agenzia Europea Frontex, nel sito www.fortresseurope.blogspot.com 

( 3 ) Dal Resoconto stenografico dell'Assemblea Seduta n. 37 del 19/9/2006

(Sbarchi di immigrati clandestini in Sicilia - nn. 3-00005, 3-00175, 3-00195 e 3-00196)

PRESIDENTE. Avverto che le interrogazioni Lomaglio n. 3-00005, Gasparri n. 3-00175, Lucchese n. 3-00195 e Minardo n. 3-00196, che vertono sullo stesso argomento, saranno svolte congiuntamente (vedi l'allegato A - Interpellanze e interrogazioni sezione 4).
Il sottosegretario di Stato per l'interno, Marcella Lucidi, ha facoltà di rispondere.

MARCELLA LUCIDI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Signor Presidente, con le interrogazioni iscritte all'ordine del giorno della seduta odierna alcuni deputati hanno posto all'attenzione del Governo il problema dell'intensificazione degli sbarchi di immigrati, in particolare a Lampedusa e, più in generale, sulle coste della Sicilia, chiedendo quali siano le iniziative intraprese per contrastare il fenomeno.
Mi preme premettere che l'amministrazione dell'interno sta dedicando la massima attenzione alle problematiche connesse all'immigrazione, operando per assicurare un governo efficace e rigoroso dei flussi migratori, nel rispetto delle regole, nonché dei diritti e delle tutele fondamentali da garantire a tutti gli immigrati.
In particolare, negli ultimi anni, l'isola di Lampedusa, in ragione della sua centralità nel bacino del Mediterraneo, è stata fortemente esposta a flussi migratori crescenti che ne hanno fatto una delle principali porte di ingresso all'Europa per l'immigrazione clandestina.
Ricordo che, con decreto interministeriale del 16 febbraio 2006, il centro di Lampedusa è stato riqualificato da centro di permanenza temporanea e assistenza a centro di soccorso e prima accoglienza. La nuova configurazione giuridica del centro risponde pienamente all'esigenza che gli extracomunitari vi sostino il tempo strettamente necessario per ricevere la prima assistenza di carattere umanitario e sanitario.
In coerenza con la nuova configurazione giuridica, il 23 febbraio 2006 il Ministero dell'interno ha sottoscritto delle convenzioni con l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con l'Organizzazione internazionale delle migrazioni e con la Croce Rossa italiana, finalizzate al potenziamento del sistema di accoglienza degli immigrati irregolari che sbarcano nell'isola.


La locale prefettura ha altresì destinato uno dei moduli abitativi del centro ai rappresentanti delle predette organizzazioni umanitarie che contribuiscono, in base alle proprie prerogative istituzionali, ad assicurare la massima informazione ed orientamento sociale agli ospiti sulla loro condizione giuridica in Italia in materia di asilo e di rimpatrio volontario.
La qualificazione della struttura per immigrati irregolari di Lampedusa quale centro di soccorso e prima accoglienza ha comportato l'adozione di ulteriori misure organizzative finalizzate a garantire un più celere trasferimento di cittadini extracomunitari giunti sulle isole ed ospitati nel centro, sia utilizzando la nave di linea che collega Lampedusa con Porto Empedocle, sia attraverso ponti aerei organizzati dal Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell'interno verso i centri di Crotone e di Foggia. Sono state adottate, altresì, tutte le misure per trasferire quanto più tempestivamente possibile i cittadini extracomunitari dal centro di Lampedusa, al fine di evitare situazioni di sovraffollamento all'interno della struttura, che, com'è noto, è passata da una capacità recettiva di 186 posti ad una di 220 grazie alla realizzazione di una zona autonoma per donne e minori.
In considerazione della pur sempre limitata ricettività del centro, l'amministrazione dell'interno si è adoperata, in sinergia con le autorità locali e nel rispetto delle loro prerogative, per l'individuazione di siti alternativi in cui realizzare un nuovo e più funzionale centro di accoglienza per immigrati.
In attesa della realizzazione del nuovo centro, viene posta la massima attenzione al potenziamento delle condizioni di vivibilità dell'attuale struttura, attraverso la realizzazione di continui interventi migliorativi volti ad elevare la qualità delle prestazioni e dei servizi agli ospiti della confraternita Misericordie d'Italia, ente che gestisce il centro. Ulteriori lavori sono stati recentemente eseguiti. Tra questi: la realizzazione ed il potenziamento della rete idrica interna al centro, con allaccio alla rete idrica comunale; la manutenzione ordinaria e straordinaria presso tutti i moduli abitativi; la realizzazione di una zona autonoma per donne e minori, con la posa in opera di due padiglioni, di cui uno adibito a dormitorio, con circa trenta posti letto, e l'altro per i servizi igienici; lavori di ripavimentazione dei locali adibiti a mensa; realizzazione di un nuovo impianto elettrico in tutto il centro. Sono in corso di esecuzione, inoltre, interventi di manutenzione di alcuni servizi nella parte del centro adibita ad uffici delle Forze di polizia e dell'ente gestore, mentre è programmata la realizzazione di una tettoia per il riparo dal sole e dalle intemperie nella zona riservata alle donne ed ai minori.
Relativamente ai servizi alle persone, si è provveduto a stipulare un atto aggiuntivo alla convenzione con l'ente gestore per il potenziamento del numero di operatori presenti nell'arco delle ventiquattro ore, prevedendo la presenza obbligatoria di un operatore di sesso femminile in ogni turno di servizio.
Ricordo che, nello scorso mese di luglio, si è insediata la commissione, presieduta dall'ambasciatore De Mistura, istituita per verificare la situazione dei centri di permanenza temporanea e di assistenza, dei centri di identificazione e dei centri di prima accoglienza. Il gruppo di lavoro ha cominciato la sua attività proprio con il centro di Lampedusa, in considerazione della priorità che esso riveste a causa dei continui sbarchi di immigrati.
La commissione ha notato un notevole miglioramento strutturale del centro ed ha constatato che, da quando il centro ha cambiato la sua funzione, gli ospiti vengono trattenuti, in media, dalle ventiquattro alle quarantotto ore prima di essere trasferiti in altri centri d'Italia.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI CASTAGNETTI (ore 17,30)

MARCELLA LUCIDI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Oltre all'isola di Lampedusa, gli sbarchi di clandestini toccano anche la provincia di Ragusa, come ricorda l'onorevole Minardo nella sua interrogazione. Il fenomeno ha avuto inizio, a Ragusa, sin dagli anni Novanta, agevolato da una fascia costiera che si estende per circa ottanta chilometri con numerosi punti di facile approdo.
La locale prefettura ha da tempo disposto l'attuazione di un piano provinciale antisbarco, volto a realizzare un efficace coordinamento operativo delle forze navali a disposizione. Tale piano prevede, infatti, servizi coordinati di vigilanza a mare, con l'impiego sinergico dei mezzi navali della capitaneria di porto di Pozzallo, della Guardia di finanza e dei carabinieri, al fine di consentire un pattugliamento costante della fascia costiera. Inoltre, nel caso in cui le imbarcazioni non vengano intercettate e i clandestini giungano sul litorale, scatta immediatamente un servizio coordinato di controllo delle Forze dell'ordine, con l'impiego anche dei vigili urbani, lungo la fascia costiera interessata, per poter rintracciare nel più breve tempo possibile gli extracomunitari sbarcati. Il piano ha dimostrato nel tempo la sua efficacia, da un lato, consentendo l'intercettazione in mare delle imbarcazioni clandestine (che, in varie circostanze, sono state soccorse, anche in condizioni meteomarine proibitive, e condotte al sicuro nel porto di Pozzallo), dall'altro, evitando che i clandestini sbarcati si disperdessero sul territorio.
Quanto agli sbarchi che quest'anno hanno interessato le nostre coste, il rapporto tra il loro numero e quello degli immigrati che, per tale via, hanno raggiunto il nostro territorio ci indica che il fenomeno tende ad essere caratterizzato dal ricorso ad imbarcazioni più piccole e più modeste che espongono a maggior rischio i passeggeri e, nei fatti, hanno già determinato eventi drammatici nei quali al prezzo economico si è aggiunto il prezzo della vita. A questo riguardo, merita un riconoscimento l'attività di soccorso e di accoglienza che è stata ed è svolta da numerosi operatori delle Forze di polizia, da personale militare e civile, dall'associazionismo e dal volontariato.
Come hanno ricordato gli onorevoli Lomaglio e Piro nella loro interrogazione, la forte preoccupazione che già espresse, nel 2005, il ministro Pisanu sull'evoluzione del fenomeno degli sbarchi ci sollecita a considerare necessario che l'Italia non sia sola a fronteggiare un problema che interessa l'intero territorio europeo. Il coordinamento tra i paesi europei, nonché tra questi ultimi e quelli nordafricani, è da ritenere condizione essenziale per fronteggiare più efficacemente il fenomeno dell'immigrazione clandestina, sia dal punto di vista normativo sia da quello più prettamente operativo. In questa prospettiva si collocano alcune iniziative già assunte d'intesa con l'Unione europea, che si sono tradotte nella decisione di inviare in Italia una missione tecnica di esperti dell'Agenzia per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri (Frontex)
, nella progettazione di una operazione congiunta di pattugliamento aereo-navale del Mediterraneo (Jason 1) e nella volontà di intensificare il dialogo tra Unione europea e Libia, una collaborazione più ampia che investa il loro confine sud. L'Italia partecipa, inoltre, ai due progetti, finanziati dall'Unione europea, Across Sahara e Epolmed.
Sempre con riferimento all'area mediterranea, il Ministero della solidarietà sociale, allo scopo di rafforzare i canali legali di ingresso di lavoratori stranieri e i meccanismi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, ha concluso accordi bilaterali di regolamentazione e gestione dei flussi migratori per motivi di lavoro con il Marocco e con l'Egitto. Accordo analogo attualmente è in corso di negoziazione con la Tunisia. Tali accordi prevedono la collaborazione tra l'amministrazione italiana e le competenti autorità del paese di origine.
Da parte sua, per scoraggiare gli sbarchi di clandestini, il Governo ha già promosso numerose iniziative concrete che possono così sintetizzarsi. Innanzitutto, l'avvio di una articolata strategia di contrasto al fenomeno dell'impiego di manodopera straniera irregolare - importante elemento di attrazione dell'immigrazione clandestina - attraverso la costituzione di una apposita commissione in sede centrale e l'impulso, dato alle prefetture, per il coordinamento di più capillari iniziative sul territorio. Inoltre, l'istituzione di un tavolo di lavoro congiunto fra esperti degli uffici legislativi dei Ministeri dell'interno e della giustizia, per porre allo studio eventuali strumenti e modifiche normative in grado di contrastare più efficacemente il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani. Sempre d'intesa con il Ministero della giustizia e con il procuratore nazionale antimafia, è stata decisa l'istituzione di un desk
interforze presso la Criminalpol e di un pool di investigatori presso la procura delle repubblica di Agrigento, entrambi in funzione di supporto all'attività giudiziaria per la lotta allo sfruttamento e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Sul piano delle relazioni internazionali, sono stati intensificati i contatti e la cooperazione con le autorità libiche per contenere il fenomeno delle partenze di stranieri clandestini dai porti di quel paese - che è diventato quello di maggiore transito dei migranti diretti verso l'Europa -, riscontrando un elevato livello di convergenza che si intende ulteriormente innalzare, attraverso ulteriori e già programmate intese intergovernative. Proseguono le iniziative già avviate di collaborazione con le autorità libiche per un programma di assistenza tecnica e formazione professionale, l'assistenza per il rimpatrio degli immigrati illegali verso i paesi terzi, la fornitura di equipaggiamenti per un controllo più efficace delle frontiere e una cooperazione operativa ed investigativa per combattere le organizzazioni criminali che alimentano il fenomeno.
Il 12 settembre scorso, nel quadro della collaborazione con le autorità di polizia libica per il contrasto dell'immigrazione clandestina, ha avuto luogo un incontro tecnico per definire le modalità di partecipazione di funzionari della polizia italiana alle operazioni in corso sulle coste di quel paese, dove sta iniziando ad operare una speciale task force
allo scopo di bloccare in partenza le imbarcazioni cariche di clandestini.
L'incontro è anche servito per mettere a punto la collaborazione contro le organizzazioni criminali implicate nella tratta degli esseri umani. È stato in tal senso definito l'imminente arrivo a Roma di un esperto della polizia libica che fungerà da ufficiale di collegamento, rafforzando così la cooperazione investigativa già avviata grazie alla presenza, a Tripoli, di un ufficiale di collegamento della polizia italiana.
I funzionari italiani forniranno il loro supporto anche per consentire l'immediato sviluppo di ogni utile spunto investigativo.
Più in generale, in vista del rafforzamento della collaborazione euromediterranea e della cooperazione con i paesi del nord Africa, la Commissione europea, di intesa con il Governo italiano, ha proposto la convocazione della prossima Conferenza dell'Unione europea e dell'Unione africana sull'immigrazione a Tripoli, in Libia.
Ricordo che l'Italia ha sottoscritto 29 accordi di riammissione per conseguire un più agevole rimpatrio e allontanamento degli stranieri rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale, attività che il Governo intende proseguire e sta proseguendo.
Il Governo italiano ha avviato anche altre forme di cooperazione con l'Egitto, la Tunisia e la Nigeria basata su programmi di assistenza tecnica con forniture di equipaggiamenti e mezzi. Il progressivo intrecciarsi dello sfruttamento dell'immigrazione illegale non solo con il traffico di esseri umani, di armi e di droga, ma anche con il terrorismo internazionale ci obbliga ad una particolare vigilanza sui clandestini provenienti dal Corno d'Africa, così come su quelli provenienti dall'area subsahariana, dove l'estremismo islamico si diffonde rapidamente.
L'azione di repressione nei confronti degli scafisti è stata intensificata. Infatti, dal 1o gennaio al 10 settembre di quest'anno, sono state arrestate dalla polizia di Stato 102 persone a fronte dei 12 arrestati nello stesso periodo dello scorso anno.
Per quanto riguarda, infine, le preoccupazioni espresse dall'onorevole Gasparri nella sua interrogazione, sull'eventualità che gli sbarchi di immigrati siano incentivati dalla politica del Governo in materia di immigrazione, vorrei ricordare che ciò che alimenta l'immigrazione clandestina è, nella realtà, il mercato del lavoro nero, e non certo il Governo che lo contrasta.
Quanto specificamente agli sbarchi, nel 2004 sono arrivate circa 13 mila persone e nel 2005 quasi 23 mila. Dunque, il raddoppio degli sbarchi è intervenuto tra il 2004 e il 2005.
Per far fronte a un numero di domande di nulla osta al lavoro subordinato per cittadini extracomunitari notevolmente superiore alla corrispondente quota di ingresso che fu fissata dal decreto del 15 febbraio 2006, il Governo non ha varato alcuna sanatoria, bensì ha fatto ricorso alla possibilità prevista dall'articolo 3, comma 4, del decreto legislativo n. 289 del 1998, che consente di emanare, qualora se ne ravvisi l'opportunità, ulteriori decreti-flussi nel corso dell'anno.
Il nuovo decreto-flussi, che ha già ottenuto il previsto parere della Conferenza unificata e che è stato sottoposto anche al gruppo tecnico delle associazioni datoriali, che hanno espresso il loro consenso, è ora all'esame del Parlamento per il parere.
Non vi è, d'altro canto, nessun rapporto di connessione tra l'adozione di tale provvedimento nell'ambito di un più generale indirizzo di Governo in materia di immigrazione e l'evoluzione dei flussi migratori degli ultimi anni che, come già detto, rappresenta un fenomeno epocale del nostro tempo, fenomeno che merita - ben al di là della polemica politica interna - risposte di segno strutturale nel campo della cooperazione internazionale e dello sviluppo economico e civile dei paesi di origine dei migranti.

PRESIDENTE. Il deputato Lomaglio ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00005.

ANGELO MARIA ROSARIO LOMAGLIO. Signor Presidente, ringrazio il rappresentante del Governo per aver risposto in maniera incisiva in ordine ad una tematica complessa che presenta problematiche di rilevanza non solo nazionale, ma europea.
Sono consapevole - insieme al collega Piro, firmatario anch'egli dell'interrogazione - che, tuttavia, si debba fare ancora molto per realizzare una politica di accoglienza che il nostro paese, negli ultimi anni, non ha attuato.
Anche quanto descritto dal sottosegretario Lucidi in ordine alle misure predisposte per il centro di accoglienza di Lampedusa - riguardanti una modifica dello status
giuridico del centro e delle situazioni di accoglienza dello stesso, nonché delle condizioni di vita degli immigrati più volte descritte dagli organi di stampa - non può che confortarci, a condizione che il Governo continui ad esercitare, insieme alla commissione formata in tal senso, un'operazione di controllo e di vigilanza su quanto accade all'interno del centro ed a garantire una realtà diversa che prenda inizio dal superamento delle politiche sull'immigrazione previste nella legge Bossi-Fini. Tale legge ha ormai registrato il suo fallimento, che emerge proprio dal fatto che tali flussi migratori continuano; flussi che evidentemente non possono essere evitati attraverso politiche repressive o basate sulla cosiddetta dissuasione. Non esistono politiche alternative a quella della cooperazione internazionale, non esistono politiche alternative a quelle che il Governo sta cercando di attivare attraverso la collaborazione euromediterranea e con i paesi della sponda nord dell'Africa.
Avendo la consapevolezza che Lampedusa e la costa della Sicilia rappresentano la porta dell'Europa, occorre sollecitare l'intera comunità europea a realizzare politiche concrete che considerino tali territori parti di un progetto europeo. L'isola di Lampedusa ha sopportato e continua a sopportare - dimostrando in ogni caso grande solidarietà - un peso eccessivo derivante da questa continua invasione.

Infatti, non si può chiedere ad una piccola cittadina di sopportare da sola un'invasione di queste proporzioni senza che vi sia il conforto della comunità nazionale e internazionale.
Con riferimento al nuovo centro di accoglienza in fase di realizzazione nell'isola di Lampedusa, in contrada Vallone Imbriacole, vorrei ricordare che sono in corso imponenti opere di sbancamento del costone roccioso.
Chiedo al Governo di verificare l'esistenza di tali poderose opere di sbancamento che non sarebbero, secondo una denuncia fatta nei giorni scorsi da Legambiente, affatto riconducibili a interventi di ristrutturazione della preesistente caserma Adorno dell'esercito italiano. Tali opere sembrano invece avere di gran lunga una qualità ed un contenuto...

PRESIDENTE. Onorevole Lomaglio, ha esaurito il tempo a sua disposizione.

ANGELO MARIA ROSARIO LOMAGLIO. ...che portano - e concludo - alla trasformazione permanente del territorio e potenzialmente a gravissimi danni ambientali. Anche in questo senso chiedo l'intervento del Governo.

PRESIDENTE. Il deputato Gasparri ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00175.

MAURIZIO GASPARRI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono insoddisfatto della risposta e della politica complessiva che il Governo sta svolgendo. Sappiamo tutti che il problema dell'immigrazione è epocale: conosciamo i flussi di popolazione, i tassi demografici, l'aumento dell'età media nel mondo occidentale, le nascite numerose in altre parti del pianeta. Tuttavia, negli anni passati abbiamo fronteggiato tale problema con leggi, strumenti ed azioni: dagli accordi internazionali più efficaci di quelli realizzati in questi mesi, alla politica della legge Fini-Bossi più rigorosa, al rafforzamento dei centri di trattenimento temporaneo che molte forze di questo Governo vorrebbero smantellare dimenticando che furono istituiti non dalla legge Fini-Bossi ma da una legge della legislatura 1996-2001, con Governi di centrosinistra.
Sulle cose pericolose fatte in questi mesi non c'è stato chiarimento, al di là delle descrizioni degli impianti elettrici più o meno ristrutturati in questo o in quel centro di trattenimento che denotano il minimalismo, l'irresponsabilità, l'incoscienza con cui il Governo affronta le suddette problematiche. Vi è la volontà di attuare una politica di ricongiungimenti familiari in maniera demagogica perché si allargano le maglie. Non siamo contrari ai ricongiungimenti: la legge Fini-Bossi li consente e sono in vigore norme che hanno consentito, con procedure abbastanza attente, i ricongiungimenti familiari anche nell'ottica di una maggiore stabilità dell'immigrato, che con una famiglia nel territorio italiano può essere portato a comportamenti più responsabili. Tuttavia, oggi si vuole estendere a congiunti di vario grado ed a qualsiasi tipo di parentela la possibilità di far venire in Italia queste persone: probabilmente si tratta anche di anziani bisognosi di cure, quindi con costi che il sistema sanitario ed il welfare
italiano difficilmente potranno sostenere, perché a fronte delle prestazioni che saranno necessarie non ci sono versamenti e contributi.
Vi è stato l'uso improprio della normativa sui flussi: la legge Fini-Bossi consente flussi programmati di ingresso, ma fare un decreto flussi che aggiunge 350 mila unità alle 180 mila che il nostro Governo aveva già previsto rappresenta una politica delle sanatorie. La sanatoria si può realizzare o con un provvedimento che consente a chiunque è qui in questo momento di rimanere, oppure facendo di mese in mese provvedimenti sui flussi di diverse centinaia di migliaia di persone. È la stessa cosa, perciò parliamo di una politica di sanatorie.
Il ministro della solidarietà sociale ha annunciato, per evitare la tragedia degli sbarchi, che tale è - anche noi, ovviamente, di fronte a tali episodi esprimiamo tutto il nostro dolore -, che si andranno a prendere le persone con i traghetti. Può essere questo un annuncio responsabile? Ecco perché si crea l'effetto annuncio: ricongiungimenti familiari facili, decreti sui flussi continui che regolarizzeranno tutto. Ci vogliono addirittura venire a prendere (poi non lo si fa perché l'annuncio non viene seguito dai fatti)! Andiamo in Italia, non ci manderà via nessuno! Si crea, quindi, un aumento di pressione.
Veniamo contestati dalla Francia e da altri paesi. La sinistra inneggiava a Zapatero, è stato anche fatto il film Viva Zapatero
. Ci vuole «Viva Zapatero 2» e potrebbe farlo qualche esponente del centrodestra, posto che il Presidente del Consiglio spagnolo celebrato dalla sinistra ha annunciato provvedimenti per l'espulsione di 800 mila extracomunitari a fronte di una situazione insostenibile, quindi con una revisione di politica totale da parte della Spagna. È inutile dire che la Francia, con un Governo di orientamento di centrodestra, ha espresso determinazione e consapevolezza.
La legge sulla cittadinanza che si è iniziato a discutere è una legge folle che vuole passare dallo ius sanguinis
allo ius soli. Non basta dire «io sono qui» per diventare cittadino, bisogna essere di un posto, riconoscersi nelle regole, nelle logiche, negli usi, nei costumi.
Il Ministero dell'interno ha assistito passivamente a concessioni di cittadinanza - anche adesso che vige una legge un po' più severa, che si vuole cambiare in maniera demagogica - a persone che - si è vista qualche giorno fa che una foto sul Corriere della Sera
- si sono presentate con tanto di burqua in alcuni comuni, con atteggiamenti che non solo sono in contrasto con le leggi vigenti in Italia, che non consentono tali comportamenti, ma che dimostrano come si voglia concedere la cittadinanza anche a chi tiene le donne in quello stato di costrizione.
Del resto, anche il padre di Hina (quella ragazza pakistana, troppo rapidamente dimenticata, uccisa perché non voleva ottemperare all'obbligo di sposare colui che la sua famiglia aveva deciso per lei), residente in Italia da molto tempo, aveva presentato domanda di cittadinanza in base alla legge vigente. Figuriamoci, con questo effetto annuncio, che cosa si può generare dimezzando da dieci a cinque anni il tempo necessario per ottenere la cittadinanza e introducendo lo ius soli
, anziché lo ius sanguinis.

PRESIDENTE. Collega Gasparri...

MAURIZIO GASPARRI. Ho finito, Presidente. Non solo siamo insoddisfatti della risposta, ma siamo insoddisfatti del Governo, come la maggior parte degli italiani, e siamo preoccupati di una politica irresponsabile, demagogica e che danneggia anche chi viene attratto in Italia e che spesso trova la miseria o addirittura la morte. Accogliere un numero limitato di persone è l'unica politica seria, responsabile e solidale che si possa fare.

PRESIDENTE. L'onorevole Lucchese ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00195.

FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. Signor Presidente, ringrazio il sottosegretario per avere risposto all'interrogazione. So che ho a disposizione cinque minuti, ma devo poter parlare quanto il collega Lomaglio, che ha parlato di più. Lei è stato così attento ad interrompere l'onorevole Gasparri...

PRESIDENTE. No, l'onorevole Lomaglio ha parlato qualche secondo in più, come l'onorevole Gasparri!

FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. Non voglio fare polemica...

PRESIDENTE. Non sciupi il tempo a sua disposizione, onorevole Lucchese.

FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. Accetto il suo invito.
L'onorevole sottosegretario e tutti noi abbiamo detto e diciamo che è un fatto epocale, che è poco definire tale. Ci troviamo di fronte ad una tragedia epocale. Il  Mediterraneo è diventato un cimitero: ogni giorno muoiono persone e qualche giorno fa ne sono morte altre.
Questo fenomeno, che vogliamo chiamare epocale, è una tragedia superiore a quella della tratta dei neri che andavano in America due secoli fa. Ci dobbiamo rendere conto che bisogna affrontare questo problema con grande serietà. Sì, è vero: ci vuole una cooperazione internazionale. Non bisogna far sopportare all'Italia e, in particolare, alla Sicilia e a Lampedusa il peso di questi immigrati. Dobbiamo sapere - sicuramente lo saprà il sottosegretario - che in Libia c'è un milione di emigranti che provengono da tutti i paesi dell'Africa e che sono lì da alcuni anni. Non sono arrivati ora, ma sono arrivati un paio d'anni fa e il loro numero è sempre di un milione. Quando ventimila di essi vengono in Italia sono una goccia nell'oceano, un granello di sabbia nel deserto. Quando vengono da noi sono pochissimi. Quando la Libia afferma che l'anno scorso ha espulso 44 mila emigranti verso i loro paesi di origine, si tratta di una piccola cosa.
Allora, il problema è quello di rendersi conto che il milione di emigranti in Libia è come una pentola a pressione che deve scoppiare. Essi devono per forza prendere la via del mare e venire da noi. Ci dobbiamo rendere conto di questo. Dobbiamo capire che noi Europa, noi mondo occidentale non siamo un paese civile se non affrontiamo in modo corretto questo problema e non dobbiamo farlo con spirito cristiano e con carità, ma con spirito di civiltà, quella civiltà che pensiamo di avere.
Il problema, quindi, è a monte, sulla filiera. Sappiamo che da tutti i paesi dell'Africa arrivano in Libia molti immigrati, che devono imbarcarsi dalla Libia, che ha quattromila chilometri di coste e altri 12 mila chilometri di frontiere, verso il nostro paese. Loro sanno come tenere gli immigrati in Libia.
Ci sono stati diversi contatti tra l'Italia, la Libia e l'Europa - ultimamente il commissario Frattini ha affrontato tale problema da parte dell'Europa - e bisogna percorrere questa strada. L'Europa deve affrontare il problema in modo corretto e completo. Non voglio fare proposte provocatorie, ossia che tutto il milione di emigranti presenti in Libia dovrebbe essere regolarizzato e portato in Europa. Ognuno se ne può prendere un po': l'Italia se ne può prendere cinquecentomila ogni anno e gli altri paesi europei il resto. Poi si cerca di regolarizzare il flusso nei vari paesi di origine, dell'Africa o dell'est, e di disciplinare i flussi e la loro filiera.
I provvedimenti che sono stati presi in Italia riguardano soltanto la punta dell'iceberg
del problema che stiamo affrontando con spirito di carità, per alleviare le sofferenze di questi soggetti, che sono persone che soffrono, e piange il cuore a vederle soffrire. C'è poi il problema della regolarizzazione, cui accennava poco fa l'onorevole Gasparri. Sono stati aumentati i flussi: sono stati portati a 500 mila unità, ma mezzo milione di immigrati sono ancora nel limbo. Sono state presentate domande di regolarizzazione e in quattro mesi soltanto trentamila sono stati regolarizzati, mentre gli altri aspettano. Il Governo vuole risolvere il problema inasprendo i controlli, con un'azione repressiva, andando a controllare il lavoro nero nelle fabbriche, negli opifici. Questa gente deve vivere e non bisogna perseguitarla, colpendo il lavoro nero. Se non lavorano come fanno a vivere? Questo è un falso problema. Il problema non è di repressione ma di prevenzione, a monte, nei paesi di origine, e a valle, su tutti i fronti.
Ho apprezzato l'onorevole Lucidi che, nel periodo estivo, girando molti centri in Sicilia, ha chiaramente detto ciò che sta facendo. Sta affrontando il problema nel modo giusto, ma bisogna insistere. Si tratta di un problema europeo, epocale, una tragedia molto più grande della tratta dei neri.

PRESIDENTE. L'onorevole Minardo ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00196.

RICCARDO MINARDO. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, ho  ascoltato con attenzione la risposta del sottosegretario e devo dire che essa mi lascia del tutto insoddisfatto. Insoddisfatto, perché il fenomeno degli sbarchi clandestini in Sicilia, con particolare riguardo alla provincia di Ragusa, è una situazione insostenibile, sia a livello umano che economico. Gli sbarchi clandestini, che quotidianamente hanno interessato la costa iblea, devono essere assolutamente fermati con interventi concreti e non con dichiarazioni che illudono tanti poveri disperati. Insieme alle notizie sugli sbarchi, purtroppo, ci sono sempre le notizie di quelli che non ce la fanno, centinaia di persone che muoiono in mare. Gli sbarchi clandestini, con le tragedie che li accompagnano, dimostrano che l'attuale strategia adottata da questo Governo sull'immigrazione non sta funzionando. Con il Governo Prodi gli sbarchi clandestini sono aumentati in maniera esponenziale, soprattutto dal nord Africa e il motivo è da ricercarsi nel fatto che il ministro Ferrero vuole sanare subito 480 mila clandestini, dando un permesso di soggiorno a chi cerca lavoro, così autorizzando di fatto chiunque ad entrare illegalmente nel nostro paese. Il passaparola tra disperati funziona benissimo.
Centinaia di migliaia di clandestini sono pronti a sbarcare verso il nostro paese, attratti da promesse assurde, come la casa, il permesso automatico di soggiorno, la cittadinanza; promesse fatte da vari esponenti della maggioranza di Governo e soprattutto dal ministro Ferrero, che ha detto che l'Italia accoglierà chiunque. Ma il ministro non si è reso conto di ciò che ha detto. Il ministro comprende la tragicità di questi viaggi della speranza, che molto spesso si trasformano in viaggi della morte? Per non parlare dell'aggravio degli enormi costi a carico degli enti pubblici per accogliere clandestini, per offrire l'assistenza sanitaria, il vitto e alloggio. Queste persone affrontano questi viaggi da irresponsabili, in quanto non sanno a cosa vanno incontro e spesso, pur spendendo molti soldi, trovano la morte. Quindi bisogna agire per salvaguardare la vita umana, così come si è fatto, nella passata legislatura, gestendo questa emergenza, dal Governo Berlusconi.
Bisogna adottare una politica di forti interventi, non per favorire l'illegalità, ma per arginare un fenomeno che sta assumendo proporzioni devastanti. In questo modo, mentre Spagna e Francia stanno adottando leggi pericolose in tema di immigrazione, l'Italia si appresta a ritornare come era all'epoca del Governo Prodi, il ventre molle del Mediterraneo.
Basta quindi con le assurde promesse: si deve intervenire concretamente con accordi internazionali da stipulare con i paesi interessati per fermare questo drammatico spostamento. È solo nel quadro di una politica concertata, fatta di accordi bilaterali e soprattutto di prospettive di cambiamento, di sviluppo e di trasformazione che il fenomeno dell'immigrazione può essere canalizzato. Bisogna inoltre aiutare gli enti, dove avviene la maggior parte degli sbarchi (in provincia di Ragusa, Lampedusa), a livello economico, proprio perché diversi milioni di euro sono stati spesi e si continuano a spendere per offrire la migliore accoglienza ed assistenza possibile, soldi che, altrimenti, potevano essere destinati ad interventi concreti per la collettività. Il problema va risolto a monte: quindi, prevenzione e sicurezza devono essere le priorità da seguire per risolvere l'annosa problematica e per garantire e custodire l'alto valore della vita umana.

 ( 4 ) Amnesty International -LIBYAN ARAB JAMAHIRIYA- BRIEFING TO THE UN HUMAN RIGHTS COMMITTEE - June 2007 - AI Index: MDE 19/008/2007

Introduction

Amnesty International submits this summary of concerns for the consideration of the Human

Rights Committee (HRC) at the pre-sessional meeting in July 2007 in connection with its

upcoming examination of the Libyan Arab Jamahiriya’s (Libya’s) fourth periodic report on

implementation of the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR). This

briefing summarizes some of Amnesty International’s concerns during the period since

Libya’s last examination by the HRC in October 1998, as documented in the organization’s

public material, in particular the report Libya: Time to make human rights a reality (AI Index:

MDE 19/002/2004), April 2004, and the public statement Libya: Six foreign medics should be

released (AI Index: MDE 19/002/2007), 30 January 2007. It also provides updates on issues

which appear in the documents and information on developments not covered by them. For

ease of reference the two documents are enclosed. The organization highlights in particular its

concerns about the failure of the state party to fully comply with its obligations under Articles

2, 6, 7, 9, 10, 13, 14, 19, 21 and 22 of the ICCPR.

Arrest and detention procedures

Articles 9

Legal framework

The Libyan government’s report to the HRC sets out in paragraphs 12 some of the legal

safeguards regarding arrest, detention and trial existing in the Great Green Charter of Human

Rights of the Jamahiriyan Era, adopted in June 1988, and Law No. 20 of 1991 on the

Promotion of Freedom, “regarded as a kind of basic law”. As the report says, the Criminal

Procedure Code “establishes the procedures with which law enforcement officers (the police,

others vested with similar functions similar to prevailing laws, and the Department of Public

Prosecutions) must comply”.

According to Article 26 of the Criminal Procedure Code, in most circumstances, “the

officer must promptly hear the accused person’s statement and, if the accused person says

nothing that proves his innocence, must refer him, within 48 hours, to the Department of

Public Prosecutions which must question the accused within 24 hours and then issue an order

for his detention or release”. According to the same article, law enforcement officers may

hold individuals suspected of offences against the state, such as undermining state security,

for a longer period of seven days before referring them to the Department of Public

Prosecutions. Paragraph 13 of the Libyan government’s report indicates that the same period

applies to those accused of certain drug offences.

Again according to Article 26 of the Criminal Procedure Code, the Department of

Public Prosecutions “must question the accused within 24 hours and then issue an order for

his detention or release”. The detention order is valid for six days (Article 175). Paragraph 13

of the Libyan government’s report indicates that a longer period of 30 days applies to those

accused of certain drug offences and that extensions of up to 45 days can then be sought from

the competent court “until the investigation is concluded”. Other provisions regulating the

length of preventive detention are found in Articles 122, 123 and 176 of the Criminal

Procedure Code. Suspects have the right to be informed of the charges against them on their

first appearance before the examining magistrate (Article 105) and not to be questioned

without legal counsel unless the suspect has been caught in flagrante delicto or unless there is

a fear that evidence will be lost (Article 106).

The Criminal Procedure Code also includes safeguards concerning: the need for

security officers to hold a warrant from the competent authority when arresting or detaining a

suspect (Article 30); the requirement to detain suspects in prisons designed for that purpose

(Article 31); and the right of detainees to challenge the legality of their detention (Article 33).

In addition, Article 53 of Law No. 47 of 1975 on prisons provides the right to lawyers to visit

their clients in custody.

Incommunicado detention

In theory, the legal guarantees outlined above provide reasonable protection to suspects. In

practice, however, they are routinely flouted, particularly in the case of political detainees. At

the heart of a series of violations lies the widespread practice of prolonged incommunicado

detention. For periods of weeks or months, and in some cases even years, detainees in Libya

have been held, often without charge, with little or no contact with the outside world, putting

them at serious risk of torture and other ill-treatment. During this period, their families and

legal counsel usually do not know where they are being held. In the majority of political cases,

detainees are held by the Internal Security Agency, which reports to the General People’s

Committee for Public Security, in what appear to be their own places of detention.

The majority of the cases of political detainees referred to in this briefing involve

such concerns. Fathi al-Jahmi has been held in an undisclosed location, reportedly a special

facility of the Internal Security Agency on the outskirts of Tripoli, since his arrest in March

2004. He has had only irregular contact with his family during this time and reportedly

allowed no visits from them since August 2006. Abdurrazig al-Mansouri was, after arrest in

January 2005, reportedly held for over three months without charge in an undisclosed location

believed to be a facility of the Internal Security Agency and denied access to his family or

lawyer. Idriss Boufayed and 11 others arrested in February 2007 were reportedly held for over

two months by the Internal Security Agency without access to their families or lawyers and

without being informed by a judicial authority of the charges against them. For details on

other cases, see Section 2.2 of Amnesty International’s report Libya: Time to make human

rights a reality (AI Index: MDE 19/002/2004), April 2004. Opinions No. 13/2005 and No.

27/2005 of the UN Working Group on Arbitrary Detention, which concluded that two

individuals, respectively Abdenacer Younes Meftah Al Rabassi and Muhammad Umar Salim

Krain, were being detained arbitrarily, point to similar violations of legal procedures.

The UN Working Group on Arbitrary Detention made a request to visit Libya in

January 2003, but, to Amnesty International’s knowledge, is yet to receive a positive response

from the authorities.

Prohibition of torture and cruel, inhuman or degrading

treatment or punishment

Articles 7, 10

Legal framework

Article 2 of the Great Green Charter of Human Rights of the Jamahiriyan Era states:

“Jamahiriyan society prohibits any and all injuries, whether physical or moral, against the

person of a prisoner. It condemns any and all speculations and experiments, whatever their

nature, to which he might be subjected.”

Article 17 of Law No. 20 of 1991 on the Promotion of Freedom states:

“It is prohibited to inflict any form of corporal or psychological punishment on the accused,

or to treat him with severity or degradation, or in any manner which is damaging to his

dignity as a human being.”

According to the Libyan Penal Code, torture is considered a crime. Article 435

stipulates that “Any public official who orders the torture of the accused or tortures them

himself is punished by a prison term of three to 10 years.” However, Libyan legislation does

not define the crime of torture or make explicit that it is absolutely prohibited under all

circumstances.

Political detainees

Amnesty International has received dozens of allegations of torture or other ill-treatment

against political detainees in recent years. From the testimonies collected by Amnesty

International, it appears that if a detainee “confesses” quickly, they are usually subjected to

light beatings or other forms of ill-treatment. However, if a detainee refuses to “confess”,

torture may be used in order to extract a “confession”. The most frequently reported

techniques are beatings with electric cables, beatings on the soles of the feet (falaqa), the use

of electric shocks and being suspended by the arms.

For details on allegations of torture against dissidents arrested in February 2007, see

the case of Idriss Boufayed and 11 others in the section on “Freedom of expression and

assembly” below. For details on allegations of torture in the case of the five Bulgarian nurses

and Palestinian doctor arrested in 1999 and sentenced to death for a second time on 19

December 2006 and that of members of the Muslim Brotherhood arrested in 1998, see Section

2.3 of Amnesty International’s report Libya: Time to make human rights a reality (AI Index:

MDE 19/002/2004), April 2004. See also Amnesty International’s public statement Libya: Six

foreign medics should be released (AI Index: MDE 19/002/2007), 30 January 2007.

In some cases, the conditions in which political detainees are held may amount to illtreatment.

A medical assessment of Fathi el-Jahmi conducted in Tripoli in February 2005 by a

medical doctor and prison health expert sent by Physicians for Human Rights and the

International Federation of Health and Human Rights Organisations reported that his isolated

confinement and sporadic and inadequate treatment constituted cruel, inhuman and degrading

treatment (see case of Fathi el-Jahmi in the section on “Freedom of expression and assembly”

below).

Migrants, asylum-seekers and refugees

In recent years, there have been persistent allegations of migrants, asylum-seekers and

refugees being exposed to torture and cruel, inhuman and degrading treatment on arrest or in

detention. Between and February and May 2007, the organization received reports concerning

several hundred foreign nationals, including dozens of minors, who were held in detention

centres in Misratah, some 200km east of the capital Tripoli, and al-Marj, some 1,000km east

of Tripoli. Sources from inside the centres alleged that conditions did not meet international

human rights standards, with reports of poor hygiene and a shortage of food and medical

treatment. Several of the detainees were said to be pregnant women, who reportedly had to

pay bribes to receive adequate drinking water.

Amnesty International has received recent reports indicating that dozens of Eritrean

nationals, some of whom are believed to be individuals who have fled Eritrea for fear of

persecution on account of their political beliefs, are being held in Misratah, some 200km east

of the capital Tripoli, and al-Marj, some 1,000km east of Tripoli, and are currently at risk of

deportation. To the organization’s knowledge, they have not been allowed access to UNHCR

officials in Libya. Some reports also indicated that an Eritrean government representative was

allowed to enter the detention centre in Misratah in February 2007 and speak to Eritrean

detainees to try to persuade them to sign papers that would facilitate their deportation.

Allegedly none of the detainees agreed to do so and were punished by the prison guards as a

result. Sources from inside the detention centre indicated that the punishment included

beatings with iron rods, death threats and, in several cases, sexual abuse against women

detainees. (See also section on “Protection against arbitrary detention” below.)

A context of impunity

The General People’s Committee for Foreign Liaison and International Cooperation has told

Amnesty International that any allegations of torture or ill-treatment received by the

Department of Public Prosecutions are investigated and the suspect perpetrators brought to

justice. In a communication dated 23 February 2006, it said that, during the year 2004, “43

cases of alleged torture were investigated” and that “48 defendants were referred to court

accordingly”. It pointed out that “it is worth mentioning that some individuals allege that they

were tortured to escape punishment.” However, no more details were provided and Amnesty

International is not aware of similar figures for other recent years.

In all the cases known to Amnesty International, the only one in which the

organization is aware that investigations have been carried out and suspected perpetrators

prosecuted in connection with alleged torture or ill-treatment is that concerning the five

Bulgarian nurses and Palestinian doctor arrested in 1999 and sentenced to death for a second

time on 19 December 2006. The medics have repeatedly testified that they were tortured in

pre-trial detention in 1999 to force them into making “confessions”. (For further details, see

Amnesty International’s public statement Libya: Six foreign medics should be released (AI

Index: MDE 19/002/2007), 30 January 2007.) Amnesty International has a number of

concerns regarding the investigation, the prosecution and subsequent events.

Eight members of the security forces and two others, a doctor and a translator, were

tried in connection with the allegations of torture against the health professionals and

acquitted in 2005. However, in Amnesty International’s view, the investigation and trial

proceedings were irregular. Firstly, the investigation into the allegations of torture was not

adequately conducted. On the one hand, the medical examinations of the medics were ordered

only some three years after the alleged acts of torture were committed. On the other, the

evidence of a Libyan doctor appointed by the prosecutor, who said that they found traces on

the medics’ bodies resulting from “physical coercion” or “beatings” or both, was successfully

refuted in court without the medics being re-examined by a doctor. Secondly, the right of the

medics to counsel of their choice was violated. Foreign lawyers acting on behalf of the

Bulgarian nurses did not have access to their file, could not meet them despite repeated

demands and were not able to obtain visas to attend key hearings of the trial in Libya during

May 2005.

In 2007, four of those tried and acquitted in connection with the torture allegations

filed complaints that the six health professionals had falsely accused them of torture. They

demanded compensation equivalent to several million US dollars each for the distress caused

by the accusations. On 11 February 2007 the six medics were brought before a court in

Tripoli charged with defamation and faced maximum penalties of several years’

imprisonment. Amnesty International does not have the full details of the complaints, but

understands that they related mainly to statements made by the medics during their second

trial in 2006, when they reaffirmed statements made before and during their first trial, which

ended in 2004, that they had been tortured in custody to force them to “confess”. The

plaintiffs’ reportedly claimed that, since they had been acquitted of the torture charges, the

medics’ continuing allegations amounted to defamation. The medics were acquitted of the

defamation charges on 27 May 2007, but the plaintiffs have reportedly appealed against the

verdict.

Amnesty International is concerned that the defamation case brought against the

medics amounted to a form of intimidation. The Principles on the Effective Investigation and

Documentation of Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment,

recommended to governments by UN General Assembly resolution 55/89 of 4 December

2000, states: “Alleged victims of torture or ill-treatment… shall be protected from violence,

threats of violence or any other form of intimidation that may arise pursuant to the

investigation.”

Furthermore, this case risks having wider implications. To Amnesty International’s

knowledge, only a tiny proportion of victims who allege that they were tortured in custody by

Libyan security personnel make formal complaints. The organization is concerned that the

threat of prosecution for making such allegations, coupled with the risk of being exposed to

an unfair trial, will further dissuade people from doing so and reinforce impunity for such

crimes.

The UN Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading

treatment or punishment made requests in 2005 and 2007 to visit Libya, but, to Amnesty

International’s knowledge, is yet to receive a positive response from the authorities.

Corporal punishment

Corporal punishments provided by law remain in force. Amnesty International has received

information that corporal punishments, including the amputation of the right hand and the left

foot, have been carried out in recent years. For further details, see Section 2.3 of Amnesty

International’s report Libya: Time to make human rights a reality (AI Index: MDE

19/002/2004), April 2004.

Protection against arbitrary expulsion

Article 13

In recent years, the government has arrested and forcibly returned tens of thousands of

foreigners who are suspected of having entered the country illegally. In November 2006, on

the occasion of a Euro-African conference on migration and development held in Tripoli, the

Libyan authorities announced that they had significantly increased repatriations of migrants.

They said they had deported 64,430 irregular migrants so far that year, compared to figures of

47,991 and 4,947 for 2005 and 2004 respectively. Many are migrant workers, but the

authorities appear to make little attempt to differentiate between migrants, refugees and

asylum-seekers.

In terms of the legal framework, Libya is a party to the 1969 Organization of African

Unity Convention Governing the Specific Aspects of Refugee Problems in Africa. Article 11

of Libya’s Constitutional Declaration of 1969 states that “The extradition of political refugees

is prohibited.” Article 21 of Law No. 20 of 1991 on the Promotion of Freedom states that:

“The Great Jamahiriya is a refuge for oppressed people and those struggling for freedom and,

therefore, refugees seeking protection may not be surrendered to any authority.”

However, Libya is not a party to the 1951 Convention related to the Status of

Refugees or its 1967 Protocol. Although the UN High Commissioner for Refugees (UNHCR)

has an office in Tripoli and on 26 February 2007 announced that it had received a pledge of

support from the chairman of a Tripoli-based organization known as the International

Organization for Peace, Care and Relief, it still has not, to Amnesty International’s

knowledge, signed a cooperation agreement for a formal UNHCR presence in the country. In

practice, therefore, those wishing to present an asylum claim to UNHCR have little

opportunity to do so. In national legislation, there are no procedures which would allow

asylum-seekers to present an application for recognition of their refugee status by the Libyan

authorities.

There are continuing concerns about the nature of deportations by the Libyan

authorities. According to Amnesty International’s information, those suspected of entering the

country illegally are deported collectively without access to a lawyer or adequate translation

facilities, without an assessment of their individual cases and without the opportunity to

appeal the decision to deport them.

In some cases, Amnesty International is concerned that the deportations constitute

acts of refoulement to countries where the individuals may be at risk of torture or other

serious human rights violations. Of particular concern in recent years has been the deportation

of hundreds of Eritreans, some of whom have faced persecution on their return. On 21 July

2004, the Libyan authorities deported some 110 Eritrean nationals, most of them asylumseekers

fleeing from military conscription, reportedly at the request of the Eritrean authorities.

On arrival in Eritrea, they were reportedly arrested, detained incommunicado and tortured in

secret military prisons. On 27 August 2004, the Libyan authorities attempted to deport a

further 75 Eritrean nationals, including six children. Claiming that they were afraid of the

risks they might face on return, some of the passengers hijacked the plane taking them to

Eritrea and forced it to land in Sudan. Sixty of the passengers sought and obtained refugee

status from UNHCR in Sudan. UNHCR made a statement on 21 September 2004, in which it

said:

“The group [of 60 asylum-seekers interviewed by UNHCR] said that they had been detained

without charges for a prolonged period of time in the Libyan town of Kufra, and had endured

repeated physical abuse. They also said that, despite their request to see UNHCR, they had

not been given access to any asylum procedure. Additionally, the group was never informed

of the decision to deport them to Eritrea, were forced to board a special charter flight, and

only found out after their plane took off that the destination was their country of origin.”

It went on to note:

“The deportation of potential refugees from Eritrea on 27 August constitutes a severe

violation of the OAU Convention and clearly goes against the norms of international

protection and the principle of non-refoulement.”

Between February and June 2007 Amnesty International received reports indicating

that dozens of Eritrean nationals, some of whom are believed to be individuals who have fled

Eritrea for fear of persecution on account of their political beliefs, were being held in

Misratah, some 200km east of the capital Tripoli, and al-Marj, some 1,000km east of Tripoli,

and were at risk of deportation. To the organization’s knowledge, they had not been allowed

access to UNHCR officials in Libya. Some reports also indicated that an Eritrean government

representative was allowed to enter the detention centre in Misratah in February 2007 and

speak to Eritrean detainees to try to persuade them to sign papers that would facilitate their

deportation. The detainees allegedly all refused to do so and were punished by the prison

guards as a result. Sources from inside the detention centre indicated that the punishment

included beatings with iron rods, death threats and, in several cases, sexual abuse against

women detainees. (See also section on “Prohibition of torture and cruel, inhuman and

degrading treatment or punishment” above.)

Trial procedures

Article 14

Special courts

In an important and welcome move, the People’s Court, a special court before which many

political suspects had received grossly unfair trials in previous years, was formally abolished

in January 2005. The authorities announced that all cases being tried before the People’s

Court at the time of its closure, either at first instance or on appeal, would be transferred to

ordinary criminal courts, but have not since published figures on the number of cases affected.

Some cases on which the People’s Court had handed down a final ruling were

subsequently reviewed by the Supreme Court. The case of the 86 individuals arrested in 1998

and convicted of affiliation with the Muslim Brotherhood is one such example (see section on

“Freedom of association” below). However, the authorities have not published information on

the number of people who were convicted by the People’s Court in previous years and who

remain in prison without the possibility of having their cases reviewed. Amnesty International

is concerned that hundreds of individuals may be in such a situation and that, given that their

trials before the People’s Court were likely to have been grossly unfair, continue to be

imprisoned on the basis of unsafe convictions. For further details on concerns about trials

before the People’s Court, see Section 2.4 of Amnesty International’s report Libya: Time to

make human rights a reality (AI Index: MDE 19/002/2004), April 2004.

In addition, Amnesty International has received reports that an ad hoc court was

established to try some of the cases previously examined by the People’s Court. One such

case was that of the Muslim Brothers, which was retried after being reviewed by the Supreme

Court. Information received by Amnesty International indicated that the trial was being

conducted at an ad hoc court in the grounds of the Police Academy in Tripoli, where the

People’s Court used to convene, and that the presiding judge had been transferred from the

People’s Court. However, in a communication dated 26 July 2006, the Libyan authorities told

Amnesty International that the trial had not taken place before an ad hoc court, but before the

Criminal Court in Tripoli, following the procedures set out in the Criminal Procedure Code.

The authorities did not, however, indicate whether the trial was held in the main building of

the Criminal Court in Tripoli or whether it did indeed take place in the grounds of the Police

Academy in Tripoli, perhaps in a building considered by the authorities as an annexe of the

Criminal Court.

Right to life

Article 6

Death penalty

Article 8 of the Great Green Charter of Human Rights of the Jamahiriyan Era states that “the

goal of the Jamahiriyan society is to abolish capital punishment” and Libyan leader

Mu’ammar al-Gaddafi and other senior Libyan officials have expressed their personal

opposition to the death penalty on several occasions in recent years. However, these

statements of principle are not matched by the stand of the Libyan authorities on the issue at

the international level. Libya has not supported resolutions calling for the abolition of capital

punishment and a moratorium on executions which were tabled at recent sessions of the UN

Commission on Human Rights, most recently in 2005. On the contrary, it has not only voted

against the resolution but also supported statements of disassociation from it, sponsored by

Saudi Arabia.

At the national level, Amnesty International remains extremely concerned that capital

punishment continues to be prescribed in Libyan legislation for a large number of offences,

including for activities which merely amount to the peaceful exercise of the rights to freedom

of expression and association (for further details, see the sections on “Freedom of expression

and assembly” and Freedom of association”), and that death sentences continue to be handed

down and carried out. Nowadays, the firing squad appears to be the preferred method of

carrying out the death penalty, though, up until around 2000, hanging was also widely used.

The General People’s Committee for Foreign Liaison and International Cooperation

told Amnesty International, in a communication dated 27 June 2006, that the application of

the death penalty was being studied by the relevant authorities and would be discussed

publicly at the time of the presentation of a draft new Penal Code, which, it said, would

restrict the death penalty to the most serious crimes. The Committee did not, however,

indicate which crimes would fit this description. The Libyan government’s report to the HRC

states, in addition, that, in the draft Penal Code, “the scope of the death penalty is reduced and

is confined to persons whose life poses a threat to others”. Amnesty International notes,

however, that the version of the draft Penal Code which it was given by the Libyan authorities

in February 2004 contained 26 articles prescribing the death penalty. It maintained the death

penalty for a wide range of offences, including activities merely amounting to freedom of

expression and association. The organization does not have information about any subsequent

changes to the draft Penal Code.

Libyan law provides certain safeguards for the application of the death penalty.

According to Article 81 of the Libyan Penal Code, offenders under the age of 18 cannot be

sentenced to death. According to Article 436 of the Libyan Criminal Procedure Code,

pregnant women and new mothers cannot be executed until two months after they have given

birth. All death sentences have to be reviewed by the Supreme Court, which can overturn the

ruling in favour of the accused. When a death sentence is confirmed by the Supreme Court,

according to Article 131 of Law No. 51 of 1976 on the organization of the judiciary, as

amended by Law 10 of 14251, it cannot be implemented without the consent of the Supreme

Council of Judicial Bodies.

However, death sentences continue to be handed down after proceedings which

violate international standards for fair trial. A case in point is that of the five Bulgarian nurses

and Palestinian doctor sentenced to death by firing squad for a second time on 19 December

2006 after being convicted of knowingly infecting hundreds of Libyan children with HIV in a

hospital in Benghazi in 1998. For further details, see Amnesty International’s public

statement Libya: Six foreign medics should be released (AI Index: MDE 19/002/2007), 30

January 2007.

The Libyan authorities continue to carry out the death penalty, but neither publish

details of the numbers of those sentenced and put to death, nor provide such information

when requested by organizations such as Amnesty International. Most recently, unofficial

sources reported that nine Libyan citizens were executed on 17 April 2007, but, as far as

Amnesty International is aware, no official statement was issued to provide details of their

names, their ages, the trials which led to their sentencing or the manner and place of their

execution.

Four Egyptian nationals – Arafa Ali Abd al-Latif, Barakat Abd al-Zaher, Basyouni

Ahmed al-Tayyeb and Maged al-Sayyid Mohamed – were executed in July 2005 after being

convicted for murder and robbery in three separate cases. Two Turkish nationals – Selim

1 The year 1425 according to the Libyan calendar used in official documents at the time covered

approximately the period from 9 August 1995 to 27 July 1996.

Aslan and Yunus Özkan – were executed in July 2005 for a murder committed in 1995. The

Libyan authorities told Amnesty International, in a communication dated 27 June 2006 that

all six foreigners had been sentenced to death in fair trials and that the decisions were

confirmed by the Supreme Court and the Supreme Council of Judicial Bodies. Given the lack

of access to reliable information on trial proceedings in Libya, Amnesty International is not

able to make an assessment of whether the executions violate Libya’s obligations under the

ICCPR.

For further details on Libya’s application of the death penalty, see Section 2.5 of

Amnesty International’s report Libya: Time to make human rights a reality (AI Index: MDE

19/002/2004), April 2004.

Unlawful killings

Amnesty International has received a number of reports of unlawful killings during the period

under review and sets out information below regarding the key incidents into which it has

conducted research. The killing of journalist Daif al-Ghazal in 2005 was a possible

extrajudicial execution. Other potentially unlawful killings include deaths during

demonstrations in Benghazi in 2006 and a disturbance in Abu Salim Prison the same year.

Investigations have been opened by the authorities into each of the incidents, but

Amnesty International believes that they may not be in line with international human rights

standards, such as the UN Principles on the Effective Prevention and Investigation of Extralegal,

Arbitrary and Summary Executions. In particular, the organization is concerned that the

investigative body in each case, the Department of Public Prosecutions, which reports to the

Secretary of the General People’s Committee for Justice, lacks the necessary impartiality and

independence to carry out the investigations effectively. Amnesty International is also

concerned that, as far as it is aware, neither in these cases nor other incidents of suspected

unlawful killings in previous decades, have the results of such investigations, including a list

of the dead and injured and the methodology used, been made public. Furthermore, those

officials suspected of having committed, ordered or failed reasonably to prevent any human

rights violations have not been prosecuted, and those injured as a result of unlawful acts and

the families of those killed unlawfully have not been provided with reparation, such as

financial compensation.

Killing of journalist Daif al-Ghazal

Journalist Daif al-Ghazal was killed in circumstances which gave rise to concerns that he

was extrajudicially executed for the content of his writing. His mutilated body was found near

Benghazi on 2 June 2005, 12 days after he was reported to have been arrested by two men

who identified themselves as officials of the Internal Security Agency. A friend witnessed his

arrest. According to the autopsy report, he had been shot in the head, his body was covered

with bruises and stab wounds and most of his fingers had been severed.

In March 2005, he had left his job as a journalist on al-Zahf al-Akhdar (The Green

March), the official newspaper of the Revolutionary Committees, apparently because of his

concern about corruption. However, he had continued to denounce corruption and call for

political reform on news websites such as the UK-based Libya Today. On 16 May 2005 he

posted an article in which he announced that he would soon be publishing documents in his

possession which revealed corruption in Libya.

The Libyan authorities have told Amnesty International, most recently in a written

communication dated 26 July 2006, that there was no state involvement in the killing and that

an official investigation into the murder is in progress. Security officers and witnesses have

reportedly been questioned by the Benghazi Prosecutor’s Office, but the results of the

investigation appear to be pending. The Special Rapporteur on extrajudicial, summary or

arbitrary executions sent an allegation letter on 10 June 2005 with the Special Rapporteur on

freedom of expression and, in his annual report of 2006, expressed regret that the Libyan

government had failed to respond.

Killings of Benghazi demonstrators in 2006

At least 12 people were killed and many more injured on 17 February 2006 when police

opened fire on demonstrators in Benghazi protesting against the publication of cartoons

depicting the Prophet Mohamed in a number of European newspapers and the actions of an

Italian government minister who appeared on Italian television wearing a T-shirt showing one

of the cartoons. According to official statements, the demonstration by several hundred

protestors began peacefully but became violent when a group of demonstrators attacked the

Italian Consulate in Benghazi with stones and clashed with police protecting it, who then

opened fire with live ammunition. Further demonstrations then took place in Benghazi and

other eastern cities, including Tobruk and Darna, in the following days and were also

dispersed with excessive force by the security forces, reportedly resulting in at least five more

deaths.

The authorities publicly denounced the excessive use of force and dismissed the

Secretary of the General People’s Committee for Public Security. In June 2006 they reported

that the Department of Public Prosecutions had undertaken the necessary investigations

immediately after being informed of the incident and had charged 10 senior officials with

various offences, including giving orders for the illegal use of gunfire. However, Amnesty

International is not aware that, to date, either the officials have been tried or that the results of

the investigations have been published.

Killing at Abu Salim Prison in 2006

On 4 October 2006 one prisoner, Hafed Mansur al-Zwai, died and several others were injured

when security forces clashed with detainees at Abu Salim Prison in Tripoli. A week later, the

Department of Public Prosecutions announced that it had opened an investigation, but to date

Amnesty International is not aware that it has been completed or that its results have been

published.

Initial reports indicated that the death was caused by a bullet, but the official autopsy

stated that it resulted from a blow to the head. The Department of Public Prosecutions stated

that three other prisoners – al-Sanussi Muhammad al-Bishari, Iman Muhammad Ali al-

Busayfi and Fadhlallah Muhammad al-Maghribi – and six police officers – al-Najeh Khalifa

Abdallah, Osama Milad Muhammad al-Alus, Muhammad Izz el-Din Salem Ben Faraj,

Muhammad Bashir Ghaith Hamid, Murad Salem Ali al-Rabbani and Mahy el-Din Ashur al-

Sabuni – had required hospital treatment. However, unofficial sources reported that another

six prisoners not mentioned in the statement of the Department of Public Prosecutions – Abd

al-Mun’em Ahmad Abd al-Rahman, Hafed al-Amami, Ashraf al-Fazzani, Rida al-Hariri, Abd

al-Wahab al-Katshi and Khaled al-Mansuri – had also been taken to hospital for treatment of

bullet wounds and other injuries.

The incident occurred after dozens of prisoners were returned to the prison following

the postponement of a trial hearing at a criminal court specializing in terrorism-related crimes,

at which the defendants faced charges of belonging to a banned organization, reportedly the

Libyan Islamic Fighting Group, and terrorism-related offences. The court had reportedly been

ordered to retry the cases by the Supreme Court, which overturned previous sentences,

including the death penalty and life imprisonment, handed down by the People’s Court. Many

of the prisoners were reportedly arrested in the second half of the 1990s, after which they

were reportedly held in prolonged incommunicado detention. Some allege that statements

they made during the investigation of their case were extracted from them under torture or

other ill-treatment.

On their return to prison, some of the prisoners demanded to meet senior prison

officials. An altercation then ensued between prisoners and some of the prison guards. Some

reports indicated that, at this point, the prison administration called in security forces from

outside the prison to assist the guards in controlling the situation. It appears that the situation

became more serious and that law-enforcement officials fired tear-gas grenades and then live

ammunition at some of the prisoners. Amnesty International was not able to ascertain whether

the shots were fired by prison guards or security force personnel who had been called into the

prison or both.

Later the same day, a delegation including senior security officials Abdullah Sanussi

and al-Mu’atassim al-Gaddafi reportedly visited Abu Salim Prison and, together with the

Director of Abu Salim Prison, Abd al-Hamid al-Sayah, met a group composed of several

representatives of the prisoners. The official delegation apparently expressed regret over the

death and injuries which had occurred and informed the prisoners that they would ensure

certain measures were taken in response to the events, such as a change of personnel within

the prison guards.

Freedom of expression and assembly

Articles 19, 21

The legal framework

Libyan law provides certain, limited guarantees concerning the right to freedom of expression.

Article 13 of the Constitutional Declaration of 1969 states that “Freedom of opinion is

guaranteed within the limits of public interest and the principles of the Revolution.” The

Great Green Charter of Human Rights of the Jamahiriyan Era, adopted in June 1988, refers

obliquely to the right in Article 19: “The Jamahiriyan society is a society of splendour and

fulfilment. It guarantees each person the right of thought, creation and innovation.” Article 8

of Law No. 20 of 1991 on the Promotion of Freedom states that “Every citizen has the right to

openly express his opinions and thoughts in the Peoples’ Congresses and in the Jamahiriyan

media.”

However, all forms of public expression, including the Peoples’ Congresses and the

print and broadcast media, are tightly controlled by the authorities. Article 1 of Law No. 76 of

1972 on Publications allows freedom of expression, but only insofar as it falls “within the

framework of the principles, values and objectives of society”. Along with Law No. 120 of

1972 and Law No. 75 of 1973, Law No. 76 of 1972 imposes severe restrictions on the

freedom of the press, effectively preventing the formation of independent newspapers. The

state also owns virtually all national broadcast media. A single privately owned radio station

opened recently, but reportedly limits its broadcasting to popular music and official news

agency reports. In August 2006, Saif al-Islam al-Gaddafi, head of the Gaddafi Development

Foundation and son of Libyan leader Mu’ammar al-Gaddafi, criticized the continuing

restrictions, including the domination of the media by four state-owned newspapers.

Furthermore, Article 8 of Law No. 20 of 1991 on the Promotion of Freedom, despite

its initial guarantees, goes on to place vaguely worded restrictions on the expression of

opinions even within the official forums, leaving those who challenge the system from within,

as well as those who use unofficial forums, at risk of punishment:

“No citizen shall be questioned as regards practising this right [to openly express his thoughts

and opinions in the Peoples’ Congresses and in the Jamahiriya media] unless he uses it in

violation of the people’s authority or for personal motives. It is prohibited to secretly promote

or spread thoughts or opinions or to force them upon others by means of allurement, coercion,

terror or fraud.”

A number of provisions in the Penal Code severely restrict the right to freedom of

expression and have been used to repress those suspected of being opposed to or critical of

the current political system. Article 178, for example, prescribes life imprisonment for the

dissemination of information considered to “tarnish [the country’s] reputation or undermine

confidence in it abroad.” Article 207 states:

“The punishment is execution for whoever spreads within the country, by whatever means,

theories or principles aiming to change the basic principles of the Constitution or the

fundamental structures of the social system or to overthrow the state’s political, social or

economic structures or destroy any of the fundamental structures of the social system using

violence, terrorism or any other unlawful means.”

Few foreign publications are available in Libya. Those that are available are

reportedly often censored or prevented from being distributed. Satellite television is widely

available, although the government reportedly sometimes censors foreign programming.

Internet access is available through a single state-run service provider. The government

appears to sometimes block certain websites. In the aftermath of demonstrations in Benghazi

on 17 February 2006 in which at least 12 protestors were killed, for instance, Amnesty

International received reports that several independent websites carrying detailed information

on the incidents were no longer accessible within Libya, allegedly as a result of censorship by

the authorities.

The right to freedom of assembly is severely restricted. Article 1 of the Law on

Public Assemblies and Demonstrations of 1956 stipulates:

“Individuals have the right to meet peacefully. Policemen are not to attend their meetings and

they do not need to notify the police about such gatherings.”

The law also provides for the right to hold public meetings in accordance with the regulations

set by the law. However, in practice, public assembly is tolerated only when the protestors are

demonstrating in support of the government’s positions.

Imprisonment and intimidation of dissident voices

Journalists, writers and political activists who criticize the authorities or seek to organize

meetings or demonstrations to protest against the government are at risk of arrest and

detention, as well as other forms of intimidation or harassment. In some cases, such as that of

Fathi el-Jahmi, they have been charged with vaguely worded offences. In others, such as that

of Abdurrazig al-Mansouri, the charges appear to have been trumped up. In many cases, they

have been held for extended periods of detention with little or no contact with the outside

world. There are frequently concerns that they have been subjected to torture or other forms

of cruel, inhuman or degrading treatment. Several government critics, such as Idriss Boufayed

have been arrested or otherwise intimidated when they returned to the country, in some cases

apparently after receiving official assurances that they would not be.

In one case known to Amnesty International in the period under review, a journalist

was killed in circumstances which gave rise to concerns that he was targeted by the state for

the content of his writing (see case of Daif al-Ghazal in the section on “Unlawful killings”

above).

The UN Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom

of opinion and expression made a request in June 2004 to be invited to Libya. While a visit is

apparently under consideration, it has reportedly been postponed. Amnesty International is

not aware of the reasons for this postponement.

Fathi el-Jahmi

Political dissident Fathi el-Jahmi remains in detention at an undisclosed location, reportedly

a special facility of the Internal Security Agency on the outskirts of Tripoli. He was arrested

and detained on 26 March 2004 after he criticized Libyan leader Mu’ammar al-Gaddafi and

called for political reform in international media interviews. The General People’s Committee

for Foreign Liaison and International Cooperation told Amnesty International in a written

communication dated 26 July 2006 that he was being tried on charges of “exchanging

information with employees of a foreign state causing harm to the interests of the country and

providing them with information with the aim of their states attacking the Great Jamahiriya”

and “scheming with a foreign state in peacetime”. The Committee also stated that Fathi el-

Jahmi had access to a lawyer. However, they did not disclose where he was being tried.

It is Amnesty International’s assessment that the charges against Fathi el-Jahmi relate

to his contact with US diplomats before his arrest and to his outspoken interviews in March

2004 to satellite news channels, including Dubai-based Al Arabiya and US-based Al Hurra.

The organization believes that he has been detained solely for acts which involved the nonviolent

exercise of his right to freedom of expression and that he is therefore a prisoner of

conscience.

Amnesty International is also concerned that the current conditions of Fathi el-

Jahmi’s detention may amount to cruel, inhuman and degrading treatment or punishment.

Since late 2004, when the Libyan authorities released his son, Muhammad al-Jahmi, in

September and then his wife, Fawzia Gogha, in November, Fathi el-Jahmi appears to have

been held in isolated confinement with minimal contact with the outside world. The situation

appears to have worsened in recent months, in that reportedly no member of his family has

been allowed to visit him since late August 2006. Moreover, he is apparently permitted

neither to receive mail nor read books or newspapers.

In addition, according to the findings of a medical assessment conducted in Tripoli in

February 2005 by a medical doctor and prison health expert sent by Physicians for Human

Rights and the International Federation of Health and Human Rights Organisations, Fathi el-

Jahmi had up to then been receiving only “sporadic and inadequate medical treatment”,

despite “suffering from several chronic and mutually adverse conditions (diabetes,

hypertension, coronary artery disease) that are independently life threatening and difficult to

control”. On 22 March 2005, Physicians for Human Rights received a response from Fathi el-

Jahmi’s government-appointed doctors confirming the seriousness of his condition, but giving

assurances that he was receiving “reasonable medical service”. Physicians for Human Rights

and the International Federation of Heath and Human Rights Organisations stated in an

addendum to their March 2005 report that they remained concerned, however, that the

continuity and quality of his long-term care would not be adequate and that the Libyan

doctors had not addressed the conditions of his isolation and confinement without trial.

Fathi el-Jahmi was previously detained between 2002 and 2004 for peacefully

expressing his political views. For further details, see Section 2.1 of Amnesty International’s

report Libya: Time to make human rights a reality (AI Index: MDE 19/002/2004), April 2004.

Abdurrazig al-Mansouri

Writer and journalist Abdurrazig al-Mansouri spent nearly 14 months in detention in 2005

and 2006 on an apparently trumped-up charge. He was arrested on 12 January 2005 at his

home in Tobruk. After an initial period of incommunicado detention in an undisclosed

location believed to be a facility of the Internal Security Agency, he was reportedly

transferred to Abu Salim Prison in Tripoli. Until he was presented to the public prosecutor on

28 May 2005, he was reportedly neither permitted access to his family or lawyer nor informed

by a judicial authority of the charges against him. He was sentenced to 18 months’

imprisonment on 19 October 2005 for possessing an unlicensed pistol and ammunition. He

says that the weapon was an old pistol belonging to his father, which no longer functioned

and which he kept as a memento, and that the ammunition consisted of used bullets his father

had collected on the seashore.

Amnesty International believes that Abdurrazig al-Mansouri was targeted by the

authorities for writing critical articles about politics and human rights in Libya that were

published on the UK-based Akhbar Libya news website shortly before his arrest. This

assessment is supported by the fact that, according to his family, the pistol was apparently

only found by Internal Security Agency agents the day after his arrest. However, ISA agents

reportedly confiscated his computer, papers, floppy and compact discs and later questioned

him about the articles he had written. Amnesty International consequently believes that

Abdurrazig al-Mansouri was probably a prisoner of conscience held solely for the non-violent

exercise of his right to freedom of expression. He was released, along with some 130 other

detainees, following an amnesty on 2 March 2006.

Amnesty International wrote to the Libyan authorities on 19 August 2005 to express

concern that Abdurrazig al-Mansouri was being denied adequate medical care after reportedly

falling from his prison bunk bed and breaking his pelvis around 7 August 2005. No response

was received. During his detention, Abdurrazig al-Mansouri’s family said that the Libyan

authorities had intimidated them, by asking them to denounce him as mentally deranged.

Idriss Boufayed and 11 others

Amnesty International is concerned that 12 individuals appear to have been arrested and

detained in February 2007 in view of their peaceful political opposition to or criticism of the

government. None of these men seems to have been arrested pursuant to a recognizable

criminal charge. The organization has received reports that they have been held in

incommunicado detention for prolonged periods of time since their arrest and that at least two

of them have been subjected to torture.

Idriss Boufayed, a government critic formerly in exile in Switzerland, was reportedly

arrested at around 1am on 16 February 2007 by officers of the Internal Security Agency.

Idriss Boufayed, along with three other men, al-Mahdi Saleh Hmeed, Ahmed Youssef al-

Abidi and Bashir Qasem al-Hares, had issued a communiqué to news websites announcing

that they were planning a peaceful demonstration in Tripoli on 17 February 2007, to

commemorate the first anniversary of the killing of at least 12 people and the injuring of

many more during a demonstration in Benghazi. The Libyan authorities said in 2006 that 10

senior officials had been charged in connection with the incident, but Amnesty International

is not aware that any have yet been brought to trial.

Idriss Boufayed had been recognized as a refugee in Switzerland, where he cofounded

the National Union of Reform (NUR), which has been critical of the political

situation in Libya. However, he returned to Libya in September 2006, after being issued a

passport and reportedly receiving assurances from the Libyan embassy in Bern that he would

not be at risk from the authorities. He was initially arrested on 5 November 2006 and detained

incommunicado until 29 December 2006, when he was released, apparently without charge.

During his detention, the authorities reportedly did not tell his family why he had been

arrested or where he was being held. Amnesty International wrote to the Libyan authorities on

21 December 2006 to express concern that he might be a prisoner of conscience. On 15

January 2007, Idriss Boufayed issued a public statement pledging to continue the struggle for

a “modern, democratic Libya”.

Shortly after Idriss Boufayed’s arrest on 16 February 2007, his brother, Jum’a

Boufayed, described the incident in a telephone interview for the Libya al-Mostakbal news

website. He said that on the day of Idriss Boufayed’s arrest, a group of armed men arrived at

the family home and broke down the door when nobody answered, taking his brother away.

Jum’a Boufayed said that he had recognized the officer apparently in charge of the operation

as the head of a local branch of the Internal Security Agency. Jum’a Boufayed said he did not

know where they had taken his brother, and added that he feared he would be arrested too,

because of the information he had revealed in the interview and other phone calls. He was

reportedly arrested a few hours later.

Al-Mahdi Saleh Hmeed was reportedly arrested in the afternoon of 16 February

2007. Earlier the same day, his father’s house had been set on fire by a group of young men,

allegedly colluding with the authorities, who reportedly also assaulted members of his family.

His brothers Adel Saleh Hmeed, Ali Saleh Hmeed, Faraj Saleh Hmeed and al-Sadeq Saleh

Hmeed were also arrested.

The two other organizers of the demonstration, Ahmed Youssef al-Abidi and Bashir

Qasem al-Hares, were also reportedly arrested on 16 or 17 February, along with several

others, Alaa al-Dressi, writer Jamal al-Hajji and writer Farid Mohammed al-Zwai. None

of these men was arrested pursuant to a recognizable criminal charge according to the law,

and it appears that all were arrested and detained in view of their planned peaceful

demonstration or recent criticism of the government on the Internet.

All 12 men are reportedly still in detention. On 20 April 2007, more than two months

after their arrest, Ahmed Youssef al-Abidi, Adel Saleh Hmeed, Ali Saleh Hmeed, Faraj Saleh

Hmeed, al-Mahdi Saleh Hmeed and al-Sadeq Saleh Hmeed were reportedly charged by a

court in the district of Tajoura in Tripoli with offences such as possession of weapons with

the intention of carrying out subversive activities, incitement to demonstration and

communication with enemy powers. They were transferred to al-Jadida Prison in Tripoli,

where they are said to be held in solitary confinement. Idriss Boufayed, Jum’a Boufayed,

Alaa al-Dressi, Jamal al-Hajji, Bashir Qasem al-Hares and Farid Mohammed al-Zwai are

reportedly being held in a detention centre operated by the Internal Security Agency in Sikka

Street in Tripoli, but Amnesty International is not aware whether they have been charged or

not.

Amnesty International is concerned that all 12 men are being held for exercising their

rights to peaceful expression of their political views, or attempting to organize a

demonstration criticizing the government. Their detentions may therefore be arbitrary. If so,

the organization would consider them to be prisoners of conscience.

According to Amnesty International’s information, all 12 men have had little or no

communication with their families. So far it appears that none of the men has received a visit

from his family. Amnesty International is particularly concerned about reports that at least

two of the detainees, Faraj Saleh Hmeed and al-Mahdi Saleh Hmeed, have been subjected to

torture during their detention. Amnesty International has received a report that, on at least one

occasion, Faraj Saleh Hmeed and al-Mahdi Saleh Hmeed received medical treatment after an

interrogation session during which the two men were punched, beaten with wooden

implements, subjected to falaqa and placed in a coffin as a form of intimidation.

Freedom of association

Article 22

The legal framework

Libyan law guarantees the right to freedom of association for protecting professional interests,

but fails to protect associations of a social or political nature. According to Article 6 of the

Great Green Charter of Human Rights of the Jamahiriyan Era, “the members of the

Jamahiriyan society are free to form associations, trade unions and leagues in order to defend

their professional interest”. Article 9 of Law No. 20 of 1991 on the Promotion of Freedom

states that “Citizens are free to establish unions and federations or social associations and

charities and to join any of these in order to safeguard their enterprises or to achieve legal

motives for which these were established.”

However, other legal provisions severely restrict the right to freedom of association

and have been used to repress hundreds of those suspected of being opposed to or critical of

the current political system. Law No. 71 of 1972 on the Criminalization of Parties bans any

form of group activity based on a political ideology opposed to the principles of the al-Fateh

Revolution of 1 September 1969. Article 3 of the Law provides for the death penalty for

forming, joining, financing or supporting such groups, and for “encouraging that by whatever

means”.

Law No. 19 of 13692 deals with the formation and activities of associations providing

services of a social, cultural, sporting, charitable or humanitarian nature. It requires those

wishing to establish such an association to present a statute signed by at least 50 founding

members to the secretariat of the General People’s Congress, if it plans to work nationwide,

or to the provincial People’s Congress, if it proposes to restrict its activities to a particular

province. The law does not set a time limit on the state to respond to applications, nor permit

an association’s members the right of appeal against a rejection of their application.

Article 206 of the Penal Code provides for the death penalty for those who call “for

the establishment of any grouping, organization or association proscribed by law”, and for

those who belong to or support such an organization. Article 208, which bans forming or

joining an international association, states:

“The punishment is imprisonment for whoever sets up, establishes, organizes or directs

international non-political organizations, associations or bodies, or a branch thereof, without

government authorization, or where such authorization is based on false or insufficient

information.”

Human rights organizations

Amnesty International’s assessment continues to be that there are no independent human

rights organizations operating within Libya.

The Libyan government’s report to the HRC draws particular attention to two

organizations which it describes as “civil human rights associations” and lists the goals of

their work, without making any reference to their activities. The first is the Libyan Arab

Committee for Human Rights in the Age of the Masses, which it terms a “civil, nongovernmental

organization”. However, as far as Amnesty International is aware, the

Committee was set up by the government in 1989 and, since then, has not released any report

on human rights issues.

The second is the Human Rights Society, a subsidiary of the Gaddafi Development

Foundation, formerly known as the Gaddafi International Foundation for Charitable

Associations. The Human Rights Society, until earlier this year headed by Giuma Atiga, a

lawyer and former political prisoner, has become an important voice for human rights and

protection in the country. In recent years, it has carried out prison visits to push for better

conditions. It has advocated the release of political prisoners it considered not to have been

involved in violence or its advocacy. It has campaigned against torture and adopts positions

2 The year 1369 according to the Libyan calendar used in official documents at the time covered

approximately the period from 4 June 2001 to 23 May 2002.

distinct from those of the Libyan authorities on such cases as that of the Bulgarian and

Palestinian medical staff sentenced to death for a second time in 2006 for deliberating

infecting children with HIV in a hospital in Benghazi. The Gaddafi Development Foundation

also facilitated visits to Libya by Amnesty International in 2004 and Human Rights Watch in

2005.

However, it would be difficult to describe the Foundation as independent. It is headed

by Saif al-Islam al-Gaddafi, one of the sons of Libyan leader Mu’ammar al-Gaddafi and

considered a possible successor. He also plays a senior diplomatic role, having played a key

part in negotiating with foreign states on behalf of the Libyan authorities the payment of

billions of dollars to the victims of the Lockerbie and UTA bombings. Furthermore, the

Foundation on occasion makes statements which appear to be aimed simply at defending the

reputation of the authorities. On 20 October 2005, for instance, the Foundation issued a

comprehensive denial that torture occurs in Libyan prisons, despite the existence of repeated

allegations to the contrary.

In addition, the Libyan government’s report to the HRC mentions “a number of nongovernmental

committees” operating within officially sanctioned professional bodies.

Amnesty International notes the importance of the work of bodies such as the Bar Association

in contributing, for instance, to the abolition of the People’s Courts, but is not aware that any

of the committees have recently made statements critical of the Libyan authorities on human

rights issues or undertaken actions that do not conform to the latter’s views. In addition, there

are continuing reports of government interference in the work of some of the professional

bodies, such as the journalists’ and lawyers unions.

Political bodies

Libyan law, as outlined above, prohibits the formation of political parties or associations

outside the existing political system. Dissident movements are forced to operate in secret or,

otherwise, face heavy sanctions. In recent years, members of movements such as the Libyan

Islamic Group, better known as the Muslim Brotherhood, and the Islamic Alliance Movement

have been sentenced to long prison terms and, in some cases, death for belonging to

unauthorized political bodies. Many were released in government amnesties in 2005 and 2006,

but reportedly had to pledge that they would not again become involved in politics as a

condition of their release

On 16 February 2002, 86 individuals were convicted by the People’s Court in Tripoli

following a grossly unfair trial on charges relating to their affiliation to the Muslim

Brotherhood, under Law No. 71 of 1972 on the Criminalization of Parties. Two were

sentenced to death, 73 others to life imprisonment and 11 more to 10 years in prison. They

had been arrested in 1998 and spent more than two years in incommunicado detention, during

which time some of the defendants allege that they were tortured by members of the Internal

Security Agency. For further details, see Sections 2.1 and 2.3 of Amnesty International’s

report Libya: Time to make human rights a reality (AI Index: MDE 19/002/2004), April 2004.

The sentences were overturned by the Supreme Court in September 2005, but reimposed by a

lower court in February 2006. On 2 March 2006, all – with the exception of one individual

who had died in custody – were released in an amnesty. The Gaddafi Development

Foundation had concluded that they had neither used nor advocated violence, echoing

Amnesty International’s opinion that they were prisoners of conscience, imprisoned solely for

the peaceful expression of their ideas and for meeting to discuss those ideas with others in

private. The authorities maintain, however, that they were fairly convicted in a regular

criminal court on charges of setting up a banned secret organization with the aim of

overturning the political system. Finally, their release appeared to be conditional, as the

Muslim Brothers were reportedly forced to sign pledges that they would not engage in any

political activity in the future.

Freedom from discrimination

Articles 26

Women’s rights

Men and women are generally treated as equals under Libyan legislation. Article 21 of the

Great Green Charter of Human Rights of the Jamahiriyan Era states:

“The members of Jamahiriyan society, whether men or women, are equal in every

human respect. The distinction of rights between men and women is a flagrant

injustice that nothing whatsoever can justify.”

Article 1 of Law No. 20 of 1991 on the Promotion of Freedom stipulates that:

“Citizens in the Great Jamahiriya, male and female, are free and equal in rights.”

However, inequalities and discrimination remain in Libyan legislation, especially

with regard to marriage, divorce and inheritance. For instance, polygamy is still permitted,

under judicial supervision, although the practice is believed to be limited.

Women have the same rights as men regarding the right to acquire, change or retain

their nationality. However, Libyan women do not have the same rights as Libyan men to

transfer their nationality to their foreign-born spouses or children. While children of a Libyan

father and non-Libyan mother are given Libyan nationality, children of a Libyan mother and a

non-Libyan father are not and reportedly require visas to enter the country.

Remedies for gross human rights violations of the past

Articles 2, 6, 16

Enforced disappearances and killings

The legacy of gross human rights violations committed in the past, particularly during the

1970s, 1980s and 1990s, continues to cast a long shadow on Libya’s human rights record. The

violations include notably the enforced disappearance of hundreds of individuals, many of

whom are feared to have died in custody while detained on political charges, and the killing

of dozens of Libyan dissidents inside and outside the country in circumstances suggesting that

they were extrajudicially executed by members of the security forces or by agents working on

behalf of the Libyan authorities. Some of these violations are described in Amnesty

International’s reports Libya: Time to make human rights a reality (AI Index: MDE

19/002/2004), April 2004, and Libya: Gross human rights violations amid secrecy and

isolation (AI Index: MDE 19/008/1997), June 1997.

The Gaddafi Development Foundation has made several statements in recent years

calling for investigations into cases of certain prisoners who had died in custody in unclear

circumstances, but there has been so far very little attempt by the Libyan authorities to

address the gross human rights violations of the past.

One incident that has received particular attention concerns events which occurred in

June 1996 at Abu Salim Prison in Tripoli, during which an unknown, but allegedly large,

number of prisoners died. For many years, the authorities refused to acknowledge that such

events had taken place. Amnesty International first received official recognition that they had

occurred when it met Libyan leader Mu’ammar al-Gaddafi in February 2004. The authorities

claim that the security forces responded appropriately to an uprising and escape attempt and

states that casualties and deaths included both prisoners and guards. By contrast, testimonies

from former prisoners indicate that, following the outbreak of disturbances sparked by

appalling prison conditions, security forces shot prisoners in their cells. Estimated figures of

the number killed range from ten to hundreds. One source has suggested that up to 1,200 died.

The authorities told Human Rights Watch delegates visiting Libya in May 2005 that a

committee had been established to investigate the events and, in a written communication to

Amnesty International dated 26 July 2006, reported that the investigation was ongoing.

Amnesty International called for the committee to have full powers to investigate and to

recommend prosecutions of perpetrators and compensation for victims or their families, and

for its findings to be made public. However, no details have been made available regarding

the timing, nature, scope or methods of the investigation, or who is carrying it out.

Regarding enforced disappearance cases, thorough, independent and impartial

investigations are not known to have taken place into any individual cases and those

responsible have not been held to account. Family members remain without clarification of

the fate of their relatives. In one case, that of Iranian-born Shi’a religious leader Imam Musa

al-Sadr, who disappeared while visiting Libya in 1978, the Libyan authorities appear also to

have failed to cooperate effectively with a foreign investigation. The case has been the subject

of legal action in Lebanon, where Imam Musa al-Sadr holds citizenship. A Lebanese

examining magistrate called for Mu’ammar al-Gaddafi and other Libyan officials to appear

before his court in March 2005, but they declined to do so.

 

( 5 ) Dal resoconto stenografico di una audizione delle Commissioni riunite, martedì 17 luglio 2007
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) - XIV (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 1a (AFFARI COSTITUZIONALI, AFFARI DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E DELL'INTERNO, ORDINAMENTO GENERALE DELLO STATO E DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE) - 14a (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

 

Audizione del vicepresidente della Commissione europea Franco Frattini.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 127-ter, comma 2, del Regolamento, del vicepresidente della Commissione europea, nonché commissario responsabile per la giustizia, la libertà e la sicurezza, Franco Frattini.
Salutiamo calorosamente il vicepresidente Frattini, al quale rinnoviamo la nostra stima per il lavoro che sta svolgendo in Europa, per l'Europa stessa e dando anche un rilievo importante alla presenza italiana, sia per la sua opera, sia in considerazione delle sue competenze.
Come XIV Commissione della Camera dei deputati, abbiamo chiesto che questa audizione si svolgesse in sede di Commissioni riunite. Ricordo peraltro che, presso la XIV Commissione, è in corso l'esame della strategia politica annuale della Commissione per il 2008. Per la XIV Commissione è relatore l'onorevole Tondo, il quale, assieme alla presidente, ha avanzato le proposte per le audizioni.
Do ora la parola al vicepresidente Frattini.

FRANCO FRATTINI, Vicepresidente della Commissione europea. La ringrazio molto, presidente. Anche per me è un grande piacere tornare qui per questa audizione e avere la possibilità di illustrare, sia pure molto rapidamente, le linee di azione che nel mio ambito di responsabilità rappresenteranno le priorità per il prossimo anno.
Negli ultimi due anni (2005 e 2006), le responsabilità che mi sono state affidate hanno rappresentato, in termini di proposte concretamente presentate, rispettivamente il 17 per cento e il 18 per cento dell'intera attività della Commissione europea. Se considerate che i portafogli sono 27, ciò dà l'idea del fatto che il settore sicurezza è in grande sviluppo. Evidentemente, esso riguarda temi altamente sensibili, anche dal punto di vista politico, ma soprattutto temi per i quali si registra un consenso crescente - a livello politico - del Consiglio europeo sulla necessità di una politica e di una strategia realmente europea. Questo si è tradotto anche in termini di bilancio, tanto che il nuovo bilancio che abbiamo adottato, entrato in vigore dal gennaio 2007, ha destinato circa il 300 per cento in più, rispetto al precedente, alle politiche di sicurezza, giustizia e promozione dei diritti fondamentali. Ciò traduce anche l'aumento delle responsabilità in un risvolto finanziario non indifferente.
Mi limiterò, nella mia introduzione, a indicare quasi soltanto i titoli delle aree di azione prioritarie, per lasciare a voi uno spazio maggiore per le domande di approfondimento.
Il primo tema sarà quello dell'immigrazione. Lo è già, tanto che posso dire che, dopo il raggiungimento di un accordo unanime in Consiglio europeo, lo scorso mese di dicembre, e dopo aver concordato con l'Unione africana nel corso della Conferenza internazionale di Tripoli, lo scorso mese di novembre, oggi possiamo dire che l'idea della Commissione europea, da me proposta un anno fa, di approccio globale ai temi migratori è condivisa dai leader del Consiglio europeo, ossia dai Capi di Stato e di Governo.
L'approccio globale consiste nel considerare tutte le dimensioni della sfida dell'immigrazione, nell'abbandonare un approccio solamente improntato agli aspetti di sicurezza e di prevenzione, senza però trascurarli, ma considerando tre grandi pilastri della strategia europea per l'immigrazione.
Il primo riguarda una cooperazione internazionale con i Paesi di origine e con i Paesi di transito. Qualche giorno fa abbiamo confermato, con una Conferenza internazionale delle Nazioni Unite svoltasi a Bruxelles, che i legami tra immigrazione e sviluppo sono i soli che potranno permettere una prevenzione nei Paesi di origine dei grandi flussi migratori.
L'Europa ha destinato 17 miliardi di euro per gli aiuti allo sviluppo, in particolare dell'Africa, e in questo ambito abbiamo introdotto per la prima volta un concetto politico altamente sensibile, ossia quello di una certa condizionalità degli aiuti. In altri termini, proporremo e proponiamo ai Paesi interessati accordi politici che includano non soltanto il trasferimento finanziario a pioggia, ma soprattutto proposte e progetti per la stabilizzazione istituzionale, per la lotta alla corruzione, per lo sradicamento del traffico di esseri umani, per la promozione dei diritti dell'uomo. In questo ambito, siamo pronti a finanziare la formazione degli aspiranti immigranti, sul piano linguistico e professionale. Siamo altresì pronti a organizzare il mercato del lavoro legale verso quei Paesi europei che lo chiederanno. Come sapete, infatti, molti Paesi europei - e tra questi il nostro - chiedono ciò.
In altri termini, il tema è trasformare una politica di immigrazione frutto soltanto della disperazione in un sistema di partenariato strategico con i Paesi di origine, promuovendo finanziamenti allo sviluppo, finanziamenti alla formazione, offerte di lavoro legale nei Paesi europei, pur sapendo che quote migratorie europee non ci saranno mai. Ci saranno, piuttosto, quote nazionali, ma la nostra proposta, ormai condivisa, è che, una volta determinate tali quote nazionali, la loro gestione sia operata dall'Europa in nome dei Paesi che lo hanno richiesto.
Abbiamo inaugurato un centro europeo per il lavoro in un primo Paese subsahariano. Difatti, nella capitale del Mali esiste, già da fine febbraio, un centro in cui si attingono informazioni, in cui si chiedono programmi di formazione e in cui gli aspiranti immigrati sanno che potranno chiedere dove trovare un lavoro regolare in Europa. Si tratta di un progetto pilota che, ovviamente nel corso degli anni, contiamo di riprodurre anche in Senegal, in Mauritania, in Guinea e, considerata l'attenzione portata dalla Presidenza portoghese, a Capo Verde. Svilupperemo nei prossimi sei mesi una concreta accelerazione di tutte queste iniziative.
La seconda area tematica, per quanto riguarda l'immigrazione, è la prevenzione e il controllo rispetto al traffico di essere umani, alla drammatica perdita di vite umane in mare, all'immigrazione clandestina. Sono tre elementi che non vanno assolutamente confusi; l'immigrazione clandestina è un fenomeno ben diverso dal traffico di esseri umani. La nostra prima preoccupazione è il salvataggio delle vite umane in mare, ma ovviamente anche la prevenzione ai porti di origine dell'immigrazione clandestina, operazione che l'Italia, a livello bilaterale, riuscì a realizzare con l'Albania alcuni anni fa.
Abbiamo avviato azioni di pattugliamento congiunto. Quest'anno stiamo pattugliando, con una missione guidata dall'Agenzia europea per le frontiere esterne, il tratto di oceano tra le Isole Canarie e le coste senegalesi. Abbiamo avviato a fine giugno un analogo programma per il Mediterraneo centrale, tra la Sicilia, Malta e le coste libiche.
Posso dirvi fin d'ora che i primi sette mesi di lavoro della missione di questa Agenzia - che si chiama Frontex - nell'Oceano Atlantico ha portato ad una riduzione del 60 per cento dei flussi di immigrati irregolari, perché il Senegal collabora. Questo Paese, infatti, consente il pattugliamento all'interno delle acque territoriali e l'attuazione di programmi di rimpatrio volontario e assistito per coloro che vengono intercettati.
La Libia ancora non collabora, ma ad essa ho proposto un piano di azione. Ho parlato più volte con il Ministro Amato, con il ministro maltese responsabile per questo aspetto e in sede di Consiglio dei ministri. C'è un accordo affinché l'Europa offra alla Libia un analogo programma di partenariato strategico per la prevenzione, che includa addirittura - concessione non consueta per l'Unione europea - un aiuto alla Libia per il pattugliamento della frontiera meridionale. Si tratta di una frontiera desertica di circa duemila chilometri, una vera porta aperta verso nord, dove purtroppo molta gente muore cercando di attraversare il deserto a piedi; è la frontiera con il Ciad e col Niger. Noi siamo nelle condizioni di aiutare la Libia, e la Libia potrà incoraggiare un migliore coordinamento con noi per il pattugliamento della costa mediterranea.
Questo per quanto riguarda il pattugliamento, che diventerà permanente, proprio dal gennaio 2008, per gli anni a venire. Queste azioni di pattugliamento saranno una dimostrazione concreta della solidarietà tra gli Stati membri, che non possono essere solo quelli mediterranei - per così dire - maggiormente in prima linea.
Il terzo pilastro della nostra azione migratoria sull'immigrazione è l'integrazione. Per la prima volta, nel 2006, mi resi conto che occorreva un'azione strategica anche con finanziamenti mirati per l'integrazione. Non ci può essere politica di immigrazione se non c'è una strategia di integrazione. Integrazione significa educazione, conoscenza della lingua, lavoro regolare - quindi lotta severa al lavoro nero degli immigrati clandestini -, e significa anche decorosa politica dell'alloggio e dell'abitazione, per evitare i ghetti urbani, fonte di frustrazione e umiliazione. È evidente che per l'integrazione occorrono fondi. Esiste ora il primo Fondo europeo per l'integrazione: sono circa 900 milioni di euro; non è una cifra enorme, ma è comunque una somma discreta per aiutare gli Stati membri.
Ogni anno faremo il punto in una città europea. Lo scorso anno, il Forum europeo si è svolto a Rotterdam, mentre quest'anno si svolgerà a Milano, su richiesta del sindaco, agli inizi di novembre. Le città italiane ed europee, il governo delle regioni - quindi, secondo un approccio dal basso -, discuteranno delle migliori pratiche per l'integrazione: dove l'integrazione funziona e dove non funziona. È chiaro che integrazione significa definire una base comune di doveri e di diritti, non soltanto di diritti. Una base di doveri fondata innanzitutto sul rispetto delle leggi, dei princìpi fondanti che stanno scritti nella nostra Carta europea dei diritti fondamentali, la Carta di Nizza, che è pienamente applicabile.
Sto conducendo delle azioni di sensibilizzazione e di comunicazione relativamente a certi fenomeni che si sono verificati e si verificano in alcune comunità non comunitarie residenti; mi riferisco particolarmente alla diffusione preoccupante dei matrimoni forzati e della poligamia in alcune comunità. Siamo svolgendo indagini a livello europeo e ne presenterò tra breve i risultati.
Queste sono le linee della politica europea per quanto riguarda l'immigrazione. Con la Presidenza portoghese abbiamo già organizzato tre eventi politici importanti: il primo sarà una conferenza euromediterranea a livello ministeriale, che si terrà nel mese di novembre, dedicata all'immigrazione. Sponda sud ed Europa si troveranno insieme per fare il punto e per rilanciare con ancor più forza queste strategie sulle linee che vi ho rapidamente indicato.Il secondo evento politico si terrà all'inizio di dicembre: faremo il primo Consiglio misto, tra Ministri del lavoro e Ministri dell'interno, per far uscire l'immigrazione dal ristretto ambito della politica soltanto di sicurezza. Sarà un Consiglio dei ministri importante, all'inizio di dicembre, dove prepareremo le conclusioni per il Consiglio europeo di fine anno.
Il terzo evento politico sarà un vertice Europa-Africa, che avrà ovviamente molti temi in agenda, il primo dei quali, strategico, sarà quello dell'immigrazione. Questo per significare quanto in Europa si è fatto e si sta facendo per l'immigrazione, se pensate che nel 2005 non c'era neppure un documento comune dei Paesi membri dell'Unione europea sul tema.
Vi ho parlato solo del sud, ma, con un rapido flash, vi dico che la nostra strategia si orienta anche ad est. Ho presentato un documento strategico per un programma di controllo della frontiera est dell'Unione europea, specie nel momento in cui allarghiamo l'area Schengen verso est. È chiaro che l'area chiave, in questa nostra politica, è quella del Mar Nero, dove abbiamo chiamato Bulgaria e Romania ad assumere il coordinamento operativo, e Bielorussia, Ucraina, Moldavia e Russia a partecipare come Paesi non europei, ma come vicini estremamente interessati, perché quella è un'area da cui provengono flussi migratori illegali, spesso legati al traffico di esseri umani per ragioni di sfruttamento sessuale o per il traffico di organi (una migrazione, quindi, che ha caratteristiche estremamente diverse).
A queste politiche si è accompagnata, nel 2006 e nel 2007, una politica dei visti completamente nuova. Abbiamo deciso - io credo che fosse opportuno e rivendico questa scelta, che è stata peraltro condivisa unanimemente dal Consiglio dei ministri - di usare la politica dei visti come strumento di azione di politica estera. Noi abbiamo proposto ad un certo numero di vicini e di partner una facilitazione del movimento di persone, quindi una facilitazione della politica dei visti, in cambio dell'adesione a pacchetti ed accordi politici che includano misure di sicurezza. Abbiamo proposto delle formule che prevedano l'emissione obbligatoria di passaporti biometrici, il controllo integrato ed elettronico delle frontiere esterne, una collaborazione piena nel rimpatrio degli immigrati clandestini. Tutto questo ha come contropartita politica una facilitazione dei visti per studenti, imprenditori, ricercatori e appartenenti in genere alle amministrazioni pubbliche, particolarmente a quelle diplomatiche.
Questi accordi sono stati non solo negoziati, ma anche firmati. Rispetto al 2005 abbiamo aggiunto, nel 2006, un numero notevole di Paesi di estrema importanza.

MARCO BOATO. Firmati con chi?

FRANCO FRATTINI, Vicepresidente della Commissione europea. Con la Federazione russa, con l'Ucraina, con tutti i Paesi dei Balcani occidentali, quindi Serbia, Bosnia-Erzegovina, Albania, Montenegro, Moldova, e stiamo riflettendo sul negoziato con la Georgia. Questi Paesi si aggiungono quindi ai pochissimi con cui c'erano accordi in precedenza.
Avremo accordi di facilitazione dei visti e, parallelamente, accordi di riammissione degli immigrati illegali provenienti da quei Paesi. In più, vi è l'impegno politico a far scattare l'applicazione di questi accordi, che avverrà a partire dal dicembre di quest'anno, in parallelo con la messa in funzione delle misure di sicurezza che vi ho accennato; in primo luogo, i passaporti con dati biometrici e il controllo delle frontiere esterne.
Credo che sia il momento di riflettere sulla possibilità di attuare misure analoghe per alcuni Paesi chiave della fascia sud mediterranea. Sto riflettendo sul Marocco, che è un attore, a mio avviso, particolarmente importante e affidabile, con cui un esperimento pilota di questo genere potrebbe essere avviato.
Il secondo grande tema che ricade nella mia responsabilità è l'allargamento dell'area Schengen. Ne ho parlato con il presidente Gozzi in sede di Comitato Schengen; ormai i temi sono maturi per tradursi in realtà. Dal dicembre di quest'anno,  se il monitoraggio sul terreno che i nostri esperti stanno conducendo sarà positivo, come io credo, nove Paesi membri entrati nel 2004 saranno chiamati a far parte dell'area Schengen, nel senso che aboliremo le frontiere interne e rafforzeremo in modo considerevole le frontiere esterne.
La precondizione perché questo accada è che il Sistema informativo Schengen (SIS) venga interconnesso a tutti i nuovi Stati membri e, quindi, che tutti i posti di frontiera di tutti gli Stati membri che hanno frontiere esterne siano interconnessi in modo automatico ed in tempo reale. Si tratta di un'operazione enorme; stiamo monitorando ogni singolo posto di frontiera, ogni singolo aeroporto. L'obiettivo è la soppressione delle frontiere interne terrestri e marittime da dicembre, e di quelle agli aeroporti da marzo 2008. Questo è un grande obiettivo politico, come voi comprendete, che richiederà un notevole sforzo in termini di sicurezza esterna.
Il terzo grande asse della mia azione è la lotta al terrorismo e al crimine organizzato. Non occorre che vi dica che tutti i Paesi europei considerano il terrorismo la prima e consistente minaccia attuale.
Le linee di azione prevedono, innanzitutto, la prevenzione con una strategia politica che affronti la radicalizzazione violenta ed il reclutamento delle giovani generazioni, purtroppo formate, educate e spesso nate nel territorio dell'Unione europea. Questo è un fenomeno che ci preoccupa grandissimamente, perché si moltiplica. Non solo nel Regno Unito; si sono aggiunte anche la Francia, l'Olanda, la Danimarca, Paesi fino a poco tempo fa insospettabili per il radicamento di cellule di quello che noi chiamiamo homegrown terrorism, cioè il terrorismo che si sviluppa in casa.
È evidente che questo richiede una strategia di prevenzione e forte collaborazione con le comunità, soprattutto con quelle musulmane moderate, che sono disponibili a collaborare con noi per diffondere messaggi di netta contrarietà e di bando assoluto alla violenza, all'azione violenta, alla disseminazione della violenza e al terrorismo.
È evidente, però, che la persuasione non basta; occorre la prevenzione. Come sapete, abbiamo messo in cantiere un meccanismo, a fine 2005, che permette un collegamento in tempo reale rispetto ad alcuni dati sensibili, compresi quelli relativi al traffico telefonico, che possono essere indispensabili per tracciare i movimenti di sospetti terroristi. In alcuni casi, anche recentissimi, quegli elementi sono stati preziosi per arrivare all'arresto di sospetti terroristi.
È evidente che questo lavoro continuerà, con un lavoro su Internet. Ad ottobre, presenterò alla Commissione un pacchetto di proposte. La prima sarà quella di una banca dati europea su movimento, fabbricazione, produzione e commercio degli esplosivi, con particolare riferimento agli esplosivi liquidi, alla circolazione e al commercio di detonatori e delle sostanze che chiamiamo «precursori». Abbiamo scoperto, infatti, che fare una bomba in casa è facilissimo.
Questa proposta sarà accompagnata da una modifica della direttiva europea, per punire, finalmente, gli atti di incitamento concreto all'azione terroristica diffusi su Internet, come anche le istruzioni per fabbricare bombe, che sono facilissime da trovare in rete. Credo non sia possibile non punire a livello europeo, nello stesso modo in 27 Paesi, fatti di questo genere.
Presenteremo, inoltre, un'azione strategica per fare fronte alla minaccia ancora più drammatica rappresentata dal bioterrorismo. Abbiamo varato, alcuni giorni fa, uno studio, un Libro verde, che pone delle domande, in vista della creazione di un vero e proprio network europeo di collegamento per un'allerta precoce, ad esempio, in caso di sparizione di sostanze pericolose - questo oggi avviene, ma non è registrato, in assenza di una banca centrale europea - e per una reazione rapida in caso di attacco bioterroristico, un evento statisticamente poco probabile, ma non da escludere. Viste le disastrose conseguenze che esso potrebbe avere, è ovvio che l'Europa deve dotarsi di un vero network di cooperazione in tempo reale per casi di questo genere.
Sul terrorismo stiamo lavorando assai bene con la cooperazione intelligence; stiamo lavorando altrettanto bene con una cooperazione con i nostri partner internazionali. Lo scorso mese di aprile, abbiamo concordato di lavorare, entro la metà del 2008, ad una definizione comune dell'azione di atto terroristico, da concordare tra Unione europea, Stati Uniti e Federazione russa. C'è un accordo dei Paesi del G8 per arrivare ad una definizione comune da sottoporre nel 2008 come contributo alle Nazioni Unite, per arrivare finalmente all'adozione della convenzione ONU sulla definizione di atto terroristico, che ancora manca a seguito di differenze troppo grandi. È chiaro che il contributo congiunto di Europa, G8, Stati Uniti e Russia sarebbe di per sé un contributo importante. Noi siamo impegnati a lavorare su questo.
Anche la lotta alla criminalità organizzata è materia di azione dell'Europa. Europol ed Eurojust stanno vivendo una fase di grande potenziamento, tanto che hanno assunto un ruolo crescente: oggi non più soltanto il terrorismo, ma anche la criminalità organizzata di ogni tipo, a livello transnazionale, ricade nell'ambito di azione di Europol e di Eurojust. La prima sarà chiamata a partecipare direttamente alle squadre investigative comuni multinazionali, plurinazionali e bilaterali. L'altro elemento di grande importanza è il lavoro di tranciatura della rete Internet, con particolare riferimento all'incitamento al terrorismo e alla pedofilia internazionale.
Su questi due terreni, abbiamo riportato dei successi veramente importanti, con lo smantellamento, negli ultimi sette mesi, di tre reti di pedofili che operavano su una media di sette-otto Paesi - si tratta, quindi, di un gran numero di persone coinvolte -, con oltre 150 persone arrestate grazie ad una serie di azioni, una delle quali partita dall'Italia, per la straordinaria azione della Polizia postale e delle unità specializzate per la lotta alla pedofilia on line esistenti nelle forze di polizia italiane.
L'altro tema su cui rapidamente vorrei soffermarmi è la promozione e la protezione dei diritti fondamentali. Non dobbiamo mai dimenticare che non possiamo innalzare la sicurezza a scapito della garanzia dei diritti individuali delle persone. Sto da tempo lavorando affinché si adotti finalmente una legge europea - sarà una decisione quadro - per la protezione dei dati personali nel cosiddetto «terzo pilastro», cioè quella attività di polizia giudiziaria che finora era esclusa dalla direttiva del 1996 sulla normale - per così dire - protezione dei dati personali. È il momento che anche in questo ambito vi sia un livello maggiore di protezione dei dati. Le gravissime violazioni della privacy individuale che abbiamo registrato anche in Italia chiamano all'assunzione di una forte responsabilità europea in questo ambito. La diffusione di notizie fortemente lesive dev'essere sanzionata, a mio avviso, a livello europeo.
Esiste già un'Agenzia per i diritti fondamentali, che ho personalmente inaugurato a marzo, che funziona e avrà come primo obiettivo quello di proseguire l'azione nella lotta al razzismo e all'antisemitismo a livello europeo - sarà una priorità del 2008 -, un'azione mirata per capire e studiare il fenomeno della violenza domestica a danno delle donne in Europa, nonché per studiare e riferire sul fenomeno, che ho indicato già, dei matrimoni forzati e della poligamia in territorio europeo. Questi saranno tre dei primi temi che l'Agenzia europea per i diritti fondamentali studierà, riferendoci poi i risultati nella prima parte del 2008.
L'ultimo tema è quello del ruolo dell'Europa nel mondo, nella promozione dei diritti fondamentali e dello Stato di diritto. Come ho detto, siamo intenzionati a inserire organicamente questi temi nell'ambito delle politiche di partenariato. Vi posso dire che in tutti i piani d'azione bilaterali inseriamo una clausola, che lo Stato partner deve accettare se vuole firmare l'accordo, che si richiama al dovere che in quel Paese i diritti umani siano rispettati secondo i criteri della Carta di Nizza e che nell'attuazione dell'accordo sia possibile verificare se e come tali diritti siano rispettati. È un passo avanti importante, perché tutti i Paesi della strategia di vicinato, che voi conoscete, hanno finora accettato di firmare la cosiddetta clausola dei diritti umani.
Mi fermo qui per dare spazio a eventuali interventi e domande.

PRESIDENTE. Do la parola ai senatori e deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ANDREA MANZELLA, Presidente della 14a Commissione del Senato della Repubblica. Dell'esposizione, come di consueto ricca, documentata e piena di suggestioni, del commissario Frattini vorrei sottolineare in particolare due questioni di equilibrio, che egli sicuramente avrà affrontato. Mi piacerebbe conoscere al riguardo la sua opinione.
La prima questione riguarda le decisioni sull'ordinamento istituzionale di Bruxelles: come conciliare la necessità, che da ogni sua parola è emersa, di accelerazione dei processi di decisione con le attribuzioni (che sono state aumentate proprio nel settore della cooperazione giudiziaria, delle Forze di polizia) dei Parlamenti nazionali. C'è un pericolo di veto in questo senso? Dico questo anche sulla base di una piccola esperienza di casa nostra. Ad esempio, domani si discuterà in Senato la legge comunitaria; si contesta che in tale legge siano state incluse delle decisioni quadro - credo le prime - in materia di blocco dei beni. Ebbene, una parte dei senatori contesta che, in sede di legge comunitaria, si possa parlare anche di problemi sensibili.
La seconda questione di equilibrio riguarda come conciliare tutte le iniziative di lotta contro il traffico di esseri umani e il terrorismo, come la tracciabilità di dati sensibili, con la protezione dei dati personali.
Sono questioni di equilibrio su cui mi piacerebbe sentire l'opinione del commissario Frattini.

ARNOLD CASSOLA. Ringrazio il commissario Frattini per la sua esposizione interessante.
Penso che, a lungo termine, la soluzione dovrà essere l'aiuto allo sviluppo; i 17 miliardi dati dall'Unione europea vanno proprio in tale direzione. Questo, comunque, è un processo a lunga scadenza.
Mi soffermo su due punti che lei ha menzionato. Sia la settimana scorsa, al Congresso del PPE di Malta, sia in questa sede, lei ha menzionato il fatto che dal 1o gennaio inizierà il pattugliamento del Mediterraneo e ha annunciato - se ho ben capito - che si effettuerà anche il pattugliamento della frontiera lungo il deserto tra Ciad, Niger e Libia. Considerando l'enorme flop che ha registrato l'operazione «Nautilus II», dalla quale si sono defilati tutti i Paesi che avevano promesso di fornire delle navi, fra cui anche Italia, Spagna e Grecia (praticamente, adesso l'intero lavoro è svolto da due o tre navette maltesi, senza neanche il sostegno di una Marina), come si può pensare che dal 1o gennaio sia effettuato un pattugliamento a mare per 365 giorni nel Mediterraneo? Sappiamo, infatti, che tutti i Paesi del nord, e anche altri, non hanno partecipato a questa operazione fino ad ora (ad eccezione della Germania), neanche per salvare vite umane. Se, dunque, non siamo riusciti a svolgere questa operazione per otto settimane, come potremmo riuscire a condurla per 365 giorni?
In secondo luogo, le vorrei chiedere se la Libia ha già accettato che l'Unione europea pattugli le sue frontiere nel deserto. Sarà un'operazione dell'esercito dell'Unione europea (lei ha detto di aver parlato con Tonio Borg e con il Ministro Amato), o saranno le truppe italiane, maltesi e libiche che pattuglieranno la frontiera?
Infine, lei ha menzionato la necessità di aderire alla Carta di Nizza, ma la Libia non ha firmato neanche la Convenzione di Ginevra, figuriamoci se aderirà alla Carta di Nizza. Come si potrà conciliare, dunque, l'attività di pattugliamento delle frontiere con il trattamento umano delle persone che passano attraverso la Libia?

 

FRANCO RUSSO. Signor presidente, ho poche domande da porre, con un'unica premessa, poiché una delle mie domande riguarderà proprio il rapporto fra Stati nazionali ed Europa. Siccome io e il commissario Frattini non ci conosciamo, vorrei precisare che sono un convintissimo federalista europeo; la mia domanda, dunque, sarà tesa a capire come conciliare alcuni interventi in materia di libertà e sicurezza con gli ordinamenti nazionali.
Mi consenta, però, due considerazioni e due domande legate a queste considerazioni. La prima considerazione riguarda lo Stato di diritto nel mondo. Questa promozione dei diritti nel mondo mi pare di impianto molto antico, molto vecchio e anche un po' neocoloniale. Vorrei capire se, per esempio, nelle clausole di rapporto tra Unione europea, Cina e Stati Uniti, esiste una clausola sulla pena di morte; se lo Stato di diritto deve valere per tutti, se deve valere in generale in tutte le iniziative e in tutte le politiche che l'Unione europea attua nel mondo, comprese quelle con partner molto forti. Vorrei sapere, a tale proposito, quale sia la politica dell'Unione europea, viste le difficoltà che abbiamo avuto a raggiungere una posizione unanime, all'interno dell'Unione europea, addirittura sulla moratoria da presentare all'ONU.
Vengo alla seconda considerazione. Non metto in dubbio le decisioni attinenti alla sovranità dei singoli Stati, ma l'operazione «Frontex» e il pattugliamento in acque territoriali degli altri Paesi mi sembrano iniziative abbastanza ambigue, sulle quali ho molte perplessità e molte riserve, poiché l'Unione europea impone il tipo di politiche migratorie che le convengono. Ben venga, naturalmente, l'aiuto allo sviluppo, ma le clausole che lei ha citato, ad esempio attinenti alle condizionalità, sono quelle stesse che la Banca Mondiale applica a fenomeni come la corruzione, pur conoscendo il fallimento che queste politiche hanno avuto.
Io penso - ma questa è una mia valutazione - che la politica di chiusura delle frontiere a cui l'Europa si ispira stia causando più danni che benefici. È positiva dal punto di vista delle vite umane, però mi pare che il pattugliamento sia fatto contro gli immigrati e non a loro favore.
Concludo con la terza domanda, quella che mi sta più a cuore. Lei saprà meglio di me - mi corregga, se ho mal compreso - che nelle ultime decisioni del 21-22 giugno del Consiglio europeo, per quanto riguarda il nuovo trattato, è emersa la prospettiva della comunitarizzazione dei vari pilastri. Può darsi che abbia letto male le conclusioni del Consiglio europeo; se così fosse, me le illustrerà lei stesso.
Sono molto interessato a questa problematica, commissario Frattini. Mi sembra che vi sia l'intenzione di comunitarizzare una serie di materie - e io sono d'accordo, lo considero un fatto positivo -, come la giustizia, la libertà e la sicurezza. Siccome, però, sappiamo che l'Unione europea pecca di un certo deficit di democrazia - nel senso che i Parlamenti intervengono successivamente alle decisioni della Commissione, che ha l'esclusivo potere di iniziativa - anche in campi attinenti alla giustizia penale (anzi, le saremmo grati se lei potesse fornirci dei dati su quanto incidono le decisioni europee in campo penale), non le sembra che noi dovremmo operare affinché avvenga un superamento di tale deficit? Questo anche perché ormai stiamo investendo nei campi in cui tradizionalmente la rappresentanza democratica ha inciso.
Non so se la mia domanda è chiara. In altre parole, più noi investiamo - e concordo sul farlo nel campo della giustizia -, più dovremmo superare il deficit della democrazia, dando ai Parlamenti nazionali e al Parlamento europeo il compito di intervenire, altrimenti anche in campo penale saranno i Governi a decidere.

RENZO TONDO. Signor presidente, sarò molto breve, in quanto la XIV Commissione della Camera ha già avuto modo di esprimere un sostanziale apprezzamento per il lavoro della Commissione europea.
Devo dire che ho apprezzato molto la relazione del vicepresidente Frattini, in quanto si è sforzato di entrare nel dettaglio rispetto ai temi, in particolare a quelli relativi all'Africa.
Vorrei porre una domanda specifica. Quando si parla di allargamento dell'area Schengen, ci si riferisce, ovviamente e giustamente, al superamento delle frontiere interne e al rafforzamento di quelle esterne. Credo che, quando facciamo questo ragionamento, oltre a dire, come lei fa nella sua relazione, che è giusto immaginare un sistema informativo di seconda generazione, si debba anche immaginare una task force comune di tutti i Paesi europei, che distaccano mezzi, forze, uomini affinché lavorino insieme. Vorrei sapere se su questo percorso esiste già un lavoro comune.
Vorrei inoltre svolgere una considerazione che conduce a una domanda. In Europa - almeno questo è il mio parere -, abbiamo un mix di rigidità del mondo del lavoro e di benefit che fa sì che molti immigrati cerchino di entrare alla ricerca di welfare, prima ancora che di una posizione. Non c'è dubbio che il welfare europeo sia decisamente generoso rispetto, ad esempio, a quello americano o a quello dei Paesi di origine degli immigrati. Credo che la Commissione europea farebbe bene non tanto a rivedere gli scandali del welfare, quanto piuttosto a ribadire il concetto che la dignità della persona si sviluppa attraverso il contributo che ciascuna persona dà alla crescita della società attraverso il lavoro.
Ritengo che questo concetto - per così dire - filosofico andrebbe ribadito e, se possibile, esteso a tutti i Paesi. Anche perché, in passato, legislazioni troppo tolleranti hanno determinato dei vulnus molto evidenti - penso, ad esempio, all'erogazione degli assegni di maternità agli extracomunitari, a causa dei quali il nostro Paese si è trovato in difficoltà, perché venivano assegnati in base a semplici certificazioni di residenza - e la necessità di intervenire con provvedimenti che avrebbero potuto essere evitati con legislazioni più corrette e controlli più seri.

MAURIZIO TURCO. Signor vicepresidente, so che lei rappresenta in questa sede una istituzione di tipo collegiale, quindi so anche che quanto lei riferisce oggi è il sunto di questo lavoro. Vorrei però soffermarmi in particolare sulle questioni riguardanti la libertà.
Lei ci ha parlato a lungo di giustizia e sicurezza. Credo che proprio la funzione delle istituzioni europee, in particolare del Parlamento, ma anche della Commissione, sulla libertà chiami in causa molte responsabilità. Nel 2004, il Parlamento europeo, per la prima volta congiuntamente con l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, chiese una convenzione relativa al rispetto dei diritti umani fondamentali nelle prigioni europee. Vorrei sapere se questa richiesta abbia avuto un seguito.
Le chiederei, poi, le ragioni del blocco sulla decisione quadro delle garanzie procedurali e come la Commissione intenda procedere e corrispondere alle conclusioni del Parlamento sui voli segreti della CIA in Europa.
Inoltre, vorrei conoscere le ragioni per le quali, quando si parla di trasparenza dei lavori del Consiglio europeo, ogniqualvolta vi siano procedimenti in sede di Corte europea di giustizia, la Commissione, a differenza del Parlamento europeo, si schiera sempre dalla parte del Consiglio. Che fine ha fatto la proposta della Presidenza greca di cinque o sei anni fa sul ne bis in idem, per evitare il doppio processo all'interno delle istituzioni? Quali iniziative sono state prese a seguito delle conclusioni della Commissione di inchiesta del Parlamento europeo sul sistema ECHELON? Intende la Commissione europea rispondere alla richiesta ultradecennale del Parlamento europeo di un controllo democratico di Europol?
Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha denunciato, lo scorso febbraio, per l'ennesima volta, che a causa delle lentezze della giustizia penale, civile ed amministrativa, sin dal 1980, l'Italia è ripetutamente condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e questo mette in pericolo lo Stato di diritto nel nostro Paese. Vorrei conoscere i motivi della disattenzione della Commissione europea rispetto a queste reiterate denunce.
Una sola considerazione, infine, rispetto a quanto richiamato anche dal collega Russo in merito alla clausola del rispetto dei diritti umani negli accordi di cooperazione. La Commissione europea, sin dall'inizio dei lavori preparatori per introdurre la clausola del rispetto dei diritti umani, si è sempre dichiarata contraria ad una applicazione puntuale della stessa. Infatti, sebbene questi accordi di cooperazione tra i vari Stati si estendano a tutti gli Stati totalitari, mai un Paese terzo è stato denunciato per violazione della clausola democratica. Anzi, anche ultimamente, in relazione ad una denuncia presso il mediatore europeo per cattiva amministrazione da parte della Commissione europea per il mancato rispetto di questa clausola, ancora una volta la Commissione europea ha ribadito, due anni fa, che questa è una clausola politica e che, in quanto tale, deve essere applicata.

MERCEDES LOURDES FRIAS. Ringrazio il commissario Frattini per la sua relazione.
Il primo pilastro che ci ha illustrato il commissario, ovvero la cooperazione con i Paesi d'origine degli emigranti, dovrebbe essere una testimonianza dell'assunzione, da parte dell'Unione europea, della necessità di riequilibrare quel piano inclinato che è il rapporto iniquo, soprattutto dal punto di vista economico, fra Paesi del sud e Paesi del nord. Dunque, l'immigrazione sarebbe vista come uno strumento naturale di riequilibrio.
Tuttavia, date le cifre ed il contesto, a mio avviso si fa quel che si può, ma la questione rimane comunque su un piano fondamentalmente simbolico, rispetto alla soluzione effettiva del problema dei movimenti. Vorrei riferirmi, in particolare, all'Agenzia Frontex e al problema del pattugliamento già richiamato da alcuni colleghi. Lei ci ha fornito dei dati e ha parlato del 60 per cento di diminuzione dei movimenti verso le Canarie. Ritengo che siano dati importanti ed incoraggianti. Tuttavia, per completezza, commissario, credo si debba fare riferimento anche al costo umano di queste diminuzioni. Infatti, è vero che sono diminuiti gli sbarchi, ma è anche vero che sono aumentate le morti in mare, anche perché le rotte sono diventate più insicure e difficili per la necessità continua di scappare.
Il vicedirettore esecutivo di Frontex, Gil Arias, rispondendo ad una domanda che gli è stata posta, ha dichiarato che Frontex non ha come obiettivo il salvataggio. Allora, qual è l'obiettivo di Frontex? Il respingimento verso acque di nessuno, oppure il consolidamento dell'Europa nella sua dimensione di fortezza?
Per quanto riguarda la Libia - e mi avvio alle conclusioni, presidente -, mi associo nel ribadire che essa non ha firmato la Convenzione di Ginevra. Sappiamo tutti che in Libia ci sono tre centri di trattenimento finanziati dal Governo italiano. Vorrei sapere, dunque, se le condizioni del rispetto dei diritti umani delle persone che cercano di attraversare il mare o il deserto siano oggetto di interesse per l'Europa, oppure se si tratti solo di una questione di respingimento fine a se stesso.
Lei citava i costi dell'azione che effettueremo il prossimo anno per contrastare il razzismo, la violenza domestica, i matrimoni forzati. Vorrei sapere se, a proposito di razzismo, sia possibile inserire un'azione mirata a contrastare la questione della sovrarappresentazione delle minoranze etniche nelle carceri in tutta Europa. Numericamente, tali minoranze sono sovrarappresentate, non per un problema economico, prima rilevato da un collega.
Infine, vorrei sollevare la questione riguardante la cessione di sovranità dell'Europa nei confronti degli Stati Uniti per quanto riguarda la protezione dei dati personali. Ogni Paese europeo effettua degli sforzi per fronteggiare i problemi esistenti, ma vorrei sapere se sia possibile dimostrare il nostro orgoglio nei confronti degli Stati Uniti, che chiedono la violazione di un diritto che in Europa viene garantito ai cittadini.

ROBERTO COTA. Innanzitutto, saluto il vicepresidente Frattini. Aggiungerò due brevi considerazioni, la prima delle quali è legata all'immigrazione.
Lei ha sottolineato gli sforzi che sta compiendo a livello europeo su questo tema. Vorrei chiederle, però, come viene interpretata in Europa la mutata posizione del nostro Governo sull'immigrazione, ovvero il passaggio dalla politica rigorosa che ispirava la legge Bossi-Fini alla nuova politica che il Governo sta portando avanti con la legge Amato-Ferrero.
La seconda considerazione è relativa all'allargamento. Lei ha parlato di superamento delle frontiere attraverso il Trattato di Schengen e la sua applicazione, laddove noi consideriamo invece con preoccupazione alcuni allargamenti che hanno comportato la libera circolazione delle persone sul nostro territorio, quali ad esempio l'allargamento alla Romania senza l'introduzione di una moratoria sull'entrata dei cittadini rumeni, in particolare per quanto concerne alcune tipologie di cittadini, quali gli zingari rom. Riteniamo infatti che, a questo punto, se l'Europa si allargasse senza un consolidamento, rischierebbe un maggiore sfaldamento.

GABRIELE FRIGATO. Solo una mozione d'ordine: vorrei capire se in Italia esista la legge Amato-Ferrero e quale sia.

MARCO BOATO. Signor presidente, per interloquire con questa cosiddetta mozione d'ordine, è ovvio che esistano opinioni diverse, e la mia è drasticamente diversa da quella accennata dal collega Cota. Mi auguro che tra qualche mese l'Italia abbia una legge Amato-Ferrero.
Vorrei ringraziare il vicepresidente Frattini per l'ampia relazione svolta, sia per le dimensioni che per i contenuti. È possibile individuare gli elementi di insoddisfazione rispetto alla realtà attuale o sottolineare gli aspetti di strategia, da oggi al futuro, rispetto alle enormi carenze degli anni precedenti.
Ritengo positivo che il vicepresidente Frattini abbia sottolineato i progressi compiuti soprattutto negli ultimi due anni. Ovviamente, in merito ai singoli aspetti ciascuno esprime le proprie considerazioni. Il mio breve intervento parte da una condivisione di fondo della relazione ascoltata, in particolare sul tema toccato dall'intervento che mi ha preceduto, sulla questione dell'immigrazione e su quello che il vicepresidente Frattini ha definito l'approccio globale (la comparazione internazionale, la prevenzione, l'integrazione), come elemento fondamentale di novità per quanto riguarda l'Europa. Poi, è evidente che su ciascun tema potremmo dilungarci. Auspico comunque che ci sia un rapido adeguamento della legislazione italiana a questo riguardo, a differenza del collega che mi ha preceduto, che ha idee opposte alle mie al riguardo.
Vorrei chiedere un chiarimento al vicepresidente Frattini in ordine alla questione, che ha toccato ampiamente, relativa al rapporto fra terrorismo e lotta contro il terrorismo e tutela delle garanzie dello Stato di diritto, tema forse indirettamente accennato da qualche altro collega. Poiché condivido molti aspetti della sua relazione, mi riferisco al tema non sfiorato - forse in modo intenzionale, nella convinzione che non riguardasse la questione - che ha attraversato molti Paesi europei, compresa l'Italia, riguardante le cosiddette extraordinary rendition, termine eufemistico che allude ad un fenomeno di notevole gravità, in una concezione della lotta contro il terrorismo che fa strame dello Stato di diritto. Lei ha parlato di una cooperazione sotto il profilo delle intelligence, e questo è assolutamente condivisibile. Nel caso in questione, che ha dato luogo anche ad una Commissione d'inchiesta all'interno del Parlamento europeo, siamo fuori da questi limiti.
Le chiederei anche, nei limiti di una replica in cui dovrà affrontare decine di argomenti, di affrontare più puntualmente un tema su cui non solo non obietto, ma che trovo di grande interesse: la questione del rapporto di cooperazione con le comunità musulmane definite moderate. Ritengo sia un tema strategico rispetto a tutti i problemi dello sviluppo dell'integralismo internazionale di matrice fondamentalista, che purtroppo ha radici anche all'interno dei Paesi, fenomeno delle seconde e delle terze generazioni che ha afflitto soprattutto il Regno Unito, ma che riguarda anche altri Paesi (lei ha citato la Francia, l'Olanda, la Danimarca). Mi pare che queste siano questioni fondamentali.
Le chiedo un chiarimento giuridico sulla questione concernente la Carta di Nizza. Lei ha fatto più volte riferimento alla Carta di Nizza relativa alla tutela dei diritti fondamentali. Poiché, dal punto di vista giuridico, la Carta di Nizza non è ancora in vigore, giacché avrebbe fatto parte integrante del nuovo Trattato costituzionale europeo ma allo stato attuale si trova in una sorta di limbo, vorrei chiederle un chiarimento al riguardo, non perché non condivida le sue considerazioni, ma perché mi trovo in una situazione di perplessità e di preoccupazione rispetto al carattere cogente o vincolante della Carta di Nizza nell'ordinamento europeo.
Anche da parte mia c'è una richiesta (già formulata dal presidente Manzella all'inizio, e anche altri colleghi hanno affrontato l'argomento) sulla questione della protezione dei dati personali, tema di rilevante problematicità. La lotta contro il terrorismo implica indagini penetranti sotto il profilo non solo della Polizia e dell'autorità giudiziaria, ma anche dei servizi di informazione e sicurezza. D'altra parte, lei ha sottolineato una devastazione della privacy che preoccupa sotto il profilo delle garanzie dello Stato di diritto.
Da ultimo, vorrei avere un chiarimento. Condivido la decisione di allargare l'area Schengen ai nove membri dell'Unione europea entrati nel 2004 e ho l'impressione che il decimo possa essere Cipro. Lei non l'ha detto, ma vorrei un chiarimento al riguardo.

JOLE SANTELLI. Vorrei rivolgere al commissario Frattini alcune domande.
Alcuni colleghi hanno giustamente sottolineato il problema dell'allargamento, e soprattutto i problemi legati all'ingresso della Romania. In Italia, lo stesso Ministro Amato ha più volte espresso allarme. Vorrei sapere se esistano politiche europee in relazione a questi problemi. Abbiamo infatti politiche di innalzamento degli standard di garanzia, ma vorremmo sapere quali aiuti siano garantiti ai singoli Stati nazionali.
Vorrei inoltre sapere se il Governo italiano abbia ufficialmente trasmesso il Testo unico sull'immigrazione alla Commissione europea, e se nelle politiche di immigrazione, per quanto riguarda le direttive europee, sia stato introdotto qualche cambiamento e avviato un discorso in merito ai ricongiungimenti familiari. Mi riferisco soprattutto alla nuova legge francese, caratterizzata da una serie di abusi dello strumento, e quindi alla conseguente necessità di rivedere le direttive europee, attualmente molto allargate.
Passando ad un altro tema, vorrei sapere come stia funzionando il percorso dei Paesi che hanno aderito alla Convenzione di Prum, in considerazione del ritardo parlamentare o dell'eccessiva fretta del Ministro Amato nel chiudere un accordo, nonostante la nostra legislazione non sia ancora completamente a posto, ovvero se si rischi di perdere un'importante occasione a causa dei ritardi parlamentari.
Concludo con un tema affrontato anche da altri colleghi. Spesso, almeno sul versante della giustizia, abbiamo assistito a un'Europa molto delle manette e poco delle garanzie, poco fedele quindi alla visione originaria. Vorrei sapere se si siano aperti spiragli diversi sul pacchetto di garanzie minime, soprattutto per quanto concerne i Paesi dimostratisi finora molto chiusi e gelosi delle proprie prerogative.
Lei ha accennato al fondamentale tema del terrorismo sulle sponde del Mediterraneo e degli oceani. Purtroppo, sappiamo solo quanto apprendiamo dai giornali, sui quali di recente ho letto un'intervista del Ministro degli esteri italiano, Massimo D'Alema, in cui egli affermava che Hamas sarebbe un partito democratico. Considerata l'attuale situazione in Palestina, vorrei sapere come l'Europa si muova in relazione ai finanziamenti all'autorità palestinese e quali garanzie ci assicurino che questi non giungano ad Hamas, e quindi non foraggino il terrorismo e la guerriglia.

GIANNI FARINA. Ringrazio innanzitutto il commissario Frattini per la relazione ampia, esaustiva e con interessanti spunti di riflessione.
Mi sembra che il fallimento del Trattato costituzionale abbia riportato indietro l'orologio della costruzione europea e della lotta per l'integrazione. Parto da un presupposto, su cui vorrei avere una sua autorevole opinione, ovvero dalla convinzione che i processi integrativi siano due: uno riguarda i cittadini dell'Unione e non è affatto concluso, come molti ritengono, anzi è in costruzione e a mio parere in grave ritardo; l'altro riguarda l'integrazione di tutte le comunità immigrate, in particolare di quella proveniente dall'erroneamente definita «altra sponda del Mediterraneo».
Innanzitutto, parto dalla considerazione che, se non ci fosse stato il fallimento del Trattato costituzionale e in previsione di una sua definitiva approvazione, la Carta dei diritti fondamentali di Nizza avrebbe assunto un altro significato. Oggi, però, è una direttiva priva di valore giuridico, sulla quale gli Stati giocano anche in riferimento alle comunità e ai cittadini dell'Unione europea. Le libertà sono tante: per il cittadino dell'Unione europea, si tratta di libertà di esercizio professionale, di libertà interculturale. Ritengo che in questi campi la Commissione, il Parlamento europeo, gli Stati nazionali dell'Unione debbano compiere giganteschi progressi, perché siamo in gravissimo ritardo.
L'altra questione riguarda l'integrazione delle comunità immigrate, che sono quasi essenzialmente comunità dell'altra parte del Mediterraneo. La Carta dei diritti fondamentali lì non si può applicare, e questo rappresenta un fatto gravissimo. Al riguardo - è l'ultima domanda che desidero porle -, sono convinto che manchi una politica europea di riferimento e che l'iniziativa di un'alleanza mediterranea promossa dal Presidente Sarkozy debba riguardare non solo la Francia, sebbene molto interessata per ragioni storiche, bensì l'Europa. Credo che il processo integrativo di quella comunità serva anche a combattere i fenomeni accennati in vari interventi.
Vorrei chiederle un ultimo chiarimento sulla Carta dei diritti fondamentali e su quali passi possano compiere la Commissione europea e il Parlamento europeo affinché, nonostante una situazione oggettivamente difficile, si possano trovare soluzioni per una sua applicazione.

MICHAELA BIANCOFIORE. Innanzitutto, vorrei ringraziare il vicepresidente Frattini per la completezza della sua relazione e per la chiarezza esemplificativa delle linee del suo mandato.
Desidero porre due domande, una di carattere nazionale e una di carattere più localistico, riguardante una località che il vicepresidente Frattini ha l'onore di conoscere.
All'interno del capitolo sulla criminalità, lei ha accennato all'impegno profuso per la lotta alla pedopornografia. Oggi, il Ministro delle comunicazioni Gentiloni, dalle pagine di un noto quotidiano nazionale, invoca una polizia europea per far fronte a questa piaga, che risiede proprio nel continente europeo. Vorrei sapere cosa stia facendo nel dettaglio la Commissione europea e in particolare lei, da sempre impegnato nella tutela dell'infanzia, che ha predisposto una Carta per l'infanzia proprio in Europa.
La seconda domanda, anche per chi purtroppo ignora questa piaga italiana, concerne la presenza nel suo portafoglio, come lei ha sempre affermato, anche delle libertà fondamentali. Da ultimo, credo che le sia stato affidato anche il dossier sulle minoranze linguistiche, qualora ne avesse pochi, come rilevava all'inizio della sua relazione. Nel corso del suo mandato, ha anche dato vita all'Agenzia europea per i diritti fondamentali, che si occupa delle minoranze linguistiche.
In Italia, uno dei Paesi fondanti dell'Unione europea, a causa di una declinazione errata dell'autonomismo, ci troviamo  di fronte, in Alto Adige, terra che lei conosce, al paradosso della formazione di una minoranza italiana in terra italiana. Anche a nome di questa minoranza italiana, da cui sono onorata di essere stata eletta deputata della Repubblica, chiedo se l'Europa sia in grado di trovare soluzioni per minoranze «non formalmente individuate», e come possa arginare fenomeni di trasformazione di minoranze linguistiche ed etniche immigrate in maggioranze locali, sulla fattispecie dell'Alto Adige. Solo in quella terra, ad esempio, si prevede che fra meno di dieci anni sarà maggioritaria la popolazione immigrata rispetto alle popolazioni autoctone di lingua italiana, ladina e tedesca.
Mi chiedo, signor vicepresidente, consapevole delle difficoltà della risposta, cosa succederebbe se costoro prevedessero statuti di autonomia speciale, e se l'Europa si farà carico di questo pericolosissimo fenomeno, considerando anche la bassa crescita demografica delle popolazioni europee.

ROCCO BUTTIGLIONE. Molte congratulazioni al commissario Frattini per il grande lavoro che sta svolgendo, che fa onore al nostro Paese. Non ha, però, messo in rilievo come svolga questo ruolo anche in condizioni di grande difficoltà. C'è stato un momento in cui ha avuto un lapsus, citando una «legge quadro» e poi correggendosi con «decisione comune». Vorrei sapere quando possiamo sperare di avere la comunitarizzazione - già prevista dal Trattato di Nizza, ma non concessa dal Consiglio dei ministri - di tanta parte dell'ambito di cui lei, signor commissario, è competente. Presumo infatti che lavorare in queste condizioni sia straordinariamente difficile, laddove è duro produrre risultati con il vincolo della regola dell'unanimità.
Constato con rammarico l'attuale possibilità di passare, sulla base del Trattato di Nizza, da decisioni all'unanimità a decisioni a maggioranza, quindi comunitarie, sulla base di una semplice scelta del Consiglio dei ministri competente, che all'unanimità decide infatti di rinunciare alla regola dell'unanimità. Ritroviamo invece questo tema nel mandato affidato alla CIG. Mi sembra quasi un'indicazione di cattiva volontà, laddove sarebbe opportuno realizzare quanto possibile senza ricorrere alla CIG, guadagnando tempo ed evitando di accumulare ulteriori problemi.
Vorrei chiederle, quindi, se sia possibile avere uno scatto di energia e riproporre al Consiglio dei ministri competente di assumere una decisione. Molti hanno citato il tema della difesa dei diritti. Ricordo che, in occasione della decisione comune in materia di mandato dall'est europeo, con il commissario Vittorino proponemmo un habeas corpus europeo, e credo sia stato realizzato un Libro bianco o verde, in cui si cominciava a raccogliere il consenso in merito.
Ad una maggiore condivisione di parti del nostro sistema giudiziario e penale con Paesi che non siano solo la Gran Bretagna o la Germania corrisponde, infatti, una maggiore esigenza di migliore tutela del cittadino europeo. Vorrei sapere se sia possibile riprendere quel progetto, più attuale oggi di quando inizialmente fu proposto.
La terza osservazione riguarda il tema della pedopornografia, ma in generale il problema della polizia di Internet. Contrariamente all'opinione di molti, non è tecnicamente impossibile, sebbene difficile, sottoporre a una regola di legge questo ambito, che però tipicamente esula dalle possibilità dei singoli Paesi. Una regolamentazione europea e una successiva iniziativa europea per giungere a un accordo con gli altri grandi Paesi sarebbero opportune. Mentre l'Italia è impotente, l'Europa può entrare in un processo negoziale con altri Paesi e rappresentare il punto di partenza per regolamentare, non solo rispetto alla pedopornografia, un ambito destinato ad avere un grande sviluppo e a influenzare la nostra vita.
Per quanto riguarda infine l'annosa questione di Hamas, collaboriamo intensamente con l'autorità palestinese. Da sempre, le garanzie fornite dall'autorità palestinese in materia di rinuncia all'antisemitismo sono fragili, mentre quelle di  Hamas appaiono inesistenti. Vorrei sapere quale atteggiamento assuma la Commissione nei riguardi di questo problema.
Si rileva una certa preoccupazione per la riforma dell'Istituto di Vienna, la cui vocazione originaria implicava una forte concentrazione sul tema dell'antisemitismo, mentre oggi sembra occuparsi di numerosi aspetti, a scapito di questa concentrazione, in una fase storica in cui l'antisemitismo rimane emblematico della persecuzione delle minoranze e costituisce un problema di grandissimo rilievo in Europa, ma anche fuori di essa.

PRESIDENTE. Vi ringrazio. Credo che il vicepresidente Frattini abbia la somma di tutti i nodi posti da diversi punti di vista, più i desiderata di molti di noi. Questo, forse, lo farà sentire potente!
Do la parola al vicepresidente Frattini per la replica.

FRANCO FRATTINI, Vicepresidente della Commissione europea. Ho contato 43 domande, presidente, che dovrò accorpare per non abusare della vostra pazienza.
Il primo grande tema è la prospettiva di riforma del settore comunitario giustizia, sicurezza, libertà. Ritengo che il mandato conferito dal Consiglio europeo sia importante e che l'azione della presidenza portoghese sia mirata a giungere a un accordo in ottobre. Avremo una prima riunione entro la fine di luglio (il 23 o il 24 luglio) e la riunione finale a metà ottobre. Questa, in aderenza al mandato ricevuto, renderà comunitarie 44 nuove aree tematiche, che passeranno, quindi, dall'unanimità alla codecisione con il Parlamento europeo e alla maggioranza qualificata.
Ciò rappresenterà uno straordinario progresso. In tutto il settore di mia responsabilità, solamente il diritto di famiglia non passerà a materia di maggioranza qualificata, in considerazione delle sue sensibilità assolute. In un settore non di mia diretta responsabilità, le relazioni esterne rimarranno materia di unanimità - grande occasione perduta -, per cui la politica estera europea continuerà a essere governata dalla regola dell'unanimità.
Tutti i settori che hanno finora dimostrato una difficoltà di raggiungere decisioni, i temi cui molti di voi hanno fatto riferimento, quali la normativa quadro sui diritti procedurali, la normativa che ho proposto un anno e mezzo fa sul giudizio in contumacia dell'imputato, le norme sul trasferimento delle persone condannate e inquisite nei Paesi di origine, la normativa relativa allo scambio di informazioni tra autorità di investigazione, materie oggi in parte regolate dalla Convenzione di Prum, citata dall'onorevole Santelli, passeranno con il nuovo regime a maggioranza qualificata, con la partecipazione in codecisione del Parlamento europeo. Sarà un grandissimo progresso, e mi auguro che i Parlamenti nazionali interpretino in questa fase l'applicazione delle leggi comunitarie annuali includendo tutti gli strumenti.
È stato rilevato dal presidente Manzella come sull'attuazione della normativa europea sul blocco dei beni per le organizzazioni terroristiche della criminalità organizzata, incluso nel disegno di legge comunitaria, non esista ancora un via libera definitivo del Parlamento italiano. Questo mi spiace; spero che tale normativa sia inclusa e che la legge comunitaria possa finalmente trasporre, in quanto l'Italia è uno dei pochi Paesi che ancora non hanno dato piena attuazione alla decisione quadro del lontano 2002 sulla lotta al terrorismo.
Il ruolo dei Parlamenti internazionali sarà molto rafforzato. C'era una posizione estrema all'inizio del negoziato, in base alla quale un Parlamento nazionale avrebbe potuto sollevare una red card e bloccare tutte le proposte della Commissione europea. Fortunatamente, tale proposta non è stata accettata.
Sono convinto che per l'analisi della sussidiarietà i Parlamenti nazionali debbano avere un ruolo maggiore di quello attuale, ma che questo non si debba riflettere in un potere di blocco di un Parlamento nazionale verso l'iniziativa della Commissione europea.
La soluzione individuata è equilibrata e mi auguro venga adottata. Qualora infatti un'iniziativa della Commissione fosse criticata sotto il profilo della violazione della sussidiarietà, ovvero dell'interferenza nei poteri nazionali, con lo stesso tipo di maggioranza necessario per adottarla in Consiglio, i Parlamenti nazionali potrebbero bocciarla. Si tratta di una maggioranza del 55 per cento degli Stati, che ritengo ragionevole, perché sarà raro raggiungere una maggioranza così ampia e implicherà un rilevante errore della Commissione. La discussione più profonda con i Parlamenti nazionali costituisce un importante progresso.
Molti di voi hanno sollevato il grande tema dell'equilibrio tra lotta al terrorismo e protezione dei dati personali, che considero uno dei grandi nodi davanti a noi. Un anno e mezzo fa ho formulato una proposta, purtroppo non ancora accettata dal Consiglio, perché si tratta di una prima proposta e non c'è mai stata una normativa europea di protezione dei dati personali nell'ambito della cooperazione di polizia investigativa. Si tratta di uno dei classici settori esclusi. Alla fine del 2005, proprio perché stavamo rafforzando la capacità investigativa e le misure di lotta al terrorismo, ho ritenuto necessario un bilanciamento attraverso una normativa che proteggesse rispetto al trattamento dei dati, indicando chiaramente chi avesse diritto di accedervi, per quanto tempo lo avesse e quali fossero le sanzioni in caso di uso illecito dei dati. La mia proposta arriva fino alla sanzione penale europea.
Gli Stati membri hanno discusso a lungo, il Parlamento europeo da un anno e mezzo invoca l'adozione di questa mia proposta, il Consiglio si è impegnato politicamente con il Parlamento europeo, insieme a me, che ho rinnovato l'impegno, ad adottarla entro dicembre. Quindi, entro la fine della Presidenza portoghese, dovremmo finalmente avere una legislazione europea che, in modo organico, individui le autorità legittimate, il tempo di custodia dei dati, le modalità di uso dei dati e le sanzioni, incluse quelle penali, per l'eventuale abuso dei dati personali. Credo che questo fosse davvero necessario.
Molti hanno parlato di immigrazione. Non credo affatto che la missione «Nautilus» sia stata un flop. Vi partecipano Francia, Spagna, Malta, Grecia, Germania, Italia - solo con un aereo, non con una nave, cosa che mi spiace molto, come ho detto al Ministro Amato -, e l'esito di questa missione, iniziata il 25 giugno, pur non pattugliando nelle acque territoriali, è stata una riduzione del 40 per cento del flusso di immigrati irregolari dalle coste libiche, sia perché la Libia coopera maggiormente, sia per l'effetto deterrenza della missione.
Se non siamo credibili nel contrasto al traffico di esseri umani, rischia di perdere credibilità anche la nostra politica di accoglienza verso gli immigrati regolari. Non si può equiparare l'immigrato clandestino a quello regolare, quindi è necessario negoziare degli accordi per trovare un lavoro regolare a quelli che lo meritano, ma anche essere credibilmente impegnati a respingere quelli che violano le regole, perché altrimenti daremmo un segnale sbagliato. Nel sud del nostro Paese è infatti facilissimo lavorare in nero: si viene reclutati da un caporale, si lavora 14 ore al giorno, si dorme ammassati in uno scantinato. Questo è un segnale che l'Europa non può tollerare.
Per questo, in ottobre presenterò una direttiva sulle condizioni uguali di diritti e di doveri degli immigrati in Europa. Sarà la prima direttiva che, con il Portogallo, porremo sul tavolo del Consiglio dei ministri, insieme ad una direttiva, che ho già presentato e spero verrà adottata, che punisce anche penalmente lo sfruttamento degli immigrati irregolari. Lo sfruttamento di coloro che reclutano per pochi euro al giorno un immigrato irregolare è infatti una violazione dei diritti umani dell'immigrato, per cui chi sfrutta deve essere punito. Alcune migliaia di imprese agricole, in Europa, ricevono da noi i finanziamenti comunitari e poi sfruttano gli immigrati clandestini.
Credo che la mia proposta di sospensione immediata dei finanziamenti comunitari sia un deterrente migliore del minacciare la detenzione in carcere, perché tagliare il flusso di finanziamenti alle imprese agricole che occupano per la raccolta dei pomodori quasi solo immigrati irregolari determinerà un rilevante effetto deterrenza. Queste proposte saranno sul tavolo del Consiglio immediatamente dopo l'estate.
La Libia ha un ruolo chiave e se chiuderà, come in queste ore sta facendo, la partita politica con l'Europa, ovvero la cancellazione della condanna a morte delle infermiere bulgare e del medico palestinese, per noi inaccettabili, ci auguriamo di poter avviare un negoziato specifico bilaterale con tale Paese, che comprenda, ad esempio, la mia proposta di affidare il trattamento degli immigrati irregolari da rimpatriare dalla Libia all'Alto Commissariato delle Nazione Unite per i rifugiati. Da un anno esiste un progetto pilota che molti di voi non conoscono, ma che la Libia ha già accettato e che è delegato da me all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite, per i rimpatri volontari dalla Libia verso il Niger e il Ciad. Tale progetto «Trim» ha permesso di rimpatriare volontariamente alcune centinaia di persone ed è gestito dall'UNHCR. È dunque evidente che la Libia è interessata a collaborare.
Il pattugliamento nel deserto libico non sarà effettuato da poliziotti europei ma, nonostante la partecipazione di qualche unità italiana o di altri Paesi europei, sarà soprattutto un pattugliamento delle forze di polizia libiche, cui forniremo assistenza, non un co-pattugliamento in senso proprio, sebbene il Ministro Amato mi sia sembrato disponibile anche ad una partecipazione di unità. La bandiera sarà europea in ogni caso: non saranno unità nazionali, ma Frontex, ovvero l'unità europea. Ho già inviato una missione nel deserto libico un mese fa, e mi è stata riferita una situazione drammatica. Si tratta quindi di una collaborazione offerta come Europa, non in quanto sommatoria di Stati nazionali. Delegheremo la gestione di questi rapporti all'UNHCR, che ci sembra una buona garanzia di equilibrio.
Per quanto riguarda il tema dello Stato di diritto e degli accordi, mi rendo conto che si tratta di clausole politiche che non possiamo imporre contrattualmente, ma comunque importanti. Riguardano Paesi diversi dai tradizionali partner internazionali, e nessuno potrebbe immaginare la redazione di un action plan con gli Stati Uniti d'America imponendogli regole standard di azione.
Per quanto riguarda la pena di morte, l'Europa ha assunto una posizione molto chiara, i nostri amici americani hanno una visione diversa, ma questo non ci impedisce di procedere e di sostenere prima la moratoria e poi la sospensione. Si tratta di accordi di politica europea, ovvero della strategia politica di vicinato, che include clausole politiche in ciascun accordo. Questa pratica è stata avviata non da me, bensì dal Presidente Prodi, quando era Presidente della Commissione europea, per cui è una strategia consolidata, su cui stiamo continuando quanto abbiamo trovato con la Commissione Barroso.
Qualcuno mi ha posto una domanda molto interessante, chiedendomi se non ritenga che le norme penali europee debbano essere «maneggiate con cura». Sono convinto di sì. La norma penale è una eccezione nell'ordinamento, ma alcuni settori a mio avviso richiedono una norma penale europea, perché non possiamo permettere porti franchi in un Paese riguardo ad atti straordinariamente gravi, quali l'uso di Internet per fabbricare una bomba o per incitare ad un'azione terroristica. È assurdo pensare che in uno Stato membro un atto simile sia consentito.
Il secondo tema riguarda i reati di inquinamento ambientale grave. Non possiamo accettare che chi inquina in Ungheria, quindi anche noi, sia punito meno severamente. È pertanto necessario uno standard di deterrenza anche penale.
Il terzo tema è quello della contraffazione. I prodotti falsi non sono più ormai solo le magliette, ma anche le medicine, i prodotti alimentari, e la mancanza di una sanzione europea autorizza in qualche Paese membro la creazione di un porto franco, in cui non sia punito il reato di chi produce e distribuisce prodotti contraffatti. Il quarto tema è lo sfruttamento del lavoro nero degli immigrati. Non è possibile accettare che in un Paese membro si recluti illecitamente un immigrato clandestino e lo si faccia lavorare 14 ore al giorno senza che nulla accada, perché questo è un tremendo fattore attrattivo per l'immigrazione illegale.
Questi sono i quattro settori tipici in cui ho proposto norme penali europee, e sono convinto di tale esigenza.
Per quanto riguarda i diritti, dobbiamo fare molto, ma è materia purtroppo finora soggetta all'unanimità. Ho proposto una decisione quadro sui diritti procedurali, ma su questa proposta, dopo molti anni di lavoro, non è stato ancora raggiunto un accordo.
Il tema dei voli della CIA sull'Europa è molto importante. Sono stato il solo responsabile europeo ad aiutare concretamente il Parlamento europeo, perché ho messo a disposizione tutti i dati del tracciamento dei voli di eurocontrollo e le fotografie satellitari dei luoghi sospetti, per cui sono stato il solo ad essere ringraziato sia dal Parlamento europeo sia dal Consiglio d'Europa. Su questi fatti devono però indagare i magistrati, perché l'Europa non è un supergiudice né un superprocuratore. Quando dunque tali fatti emergono come elementi, spetta ai magistrati nazionali indagare. I magistrati che indagano hanno ovviamente pieni poteri per farlo, come in molti Paesi sta accadendo.
Quanto alla domanda in merito al controllo democratico su Europol, onorevole Turco, mi dichiaro pienamente favorevole, tanto che l'ho proposto. Il problema è che il Consiglio non è favorevole e, poiché deve votare all'unanimità, finora il finanziamento europeo di Europol non è stato adottato e resta il finanziamento intergovernativo. Si sospetta infatti un'ingerenza politica su Europol. È un sospetto del Consiglio su cui non voglio entrare, perché la materia non è ancora matura, ma esiste una mia proposta che il Consiglio non ha finora condiviso.
Sul fatto che l'Italia sia condannata dalla Corte europea per violazione dei diritti umani, ne prendo atto, esistono casi particolarmente gravi e dipende dai Governi di ciascun Paese, non dalla Commissione. Possiamo avviare procedure d'infrazione, e riconosco che la devastante violazione della privacy in Italia è una delle materie che potrebbero giustificare un'azione severa dell'Unione europea. Il Ministro Mastella mi ha assicurato che il Parlamento italiano intende accelerare l'adozione di una legislazione nazionale. Confido nell'impegno del Ministro e nel fatto che il Parlamento approvi in fretta la legge.
Sulla missione «Frontex», è stato chiesto se il salvataggio sia vero. Il vicedirettore Arias ha sottolineato come nel mandato formale di Frontex non sia incluso il salvataggio di vite umane. Ho già chiesto di cambiare il mandato formale di Frontex, che dipende dal consiglio di amministrazione. Di fatto, Frontex salva vite umane in mare. Negli scorsi sette mesi, sono infatti state salvate 400 persone che sarebbero certamente morte; molte sono state salvate dagli italiani, dalle Forze di polizia, dalla Capitaneria di porto, dalla Guardia di finanza, dalla Polizia, che lavorano in mare e svolgono un compito meritevole. Tali persone sarebbero sicuramente morte se non fossero state salvate, e tra gli obiettivi di Frontex deve essere inserito il salvataggio.
Non c'è ancora la legge Amato-Ferrero, quindi non posso rispondere su questo, ma mi sarà trasmessa formalmente tra breve. Ho già espresso al Ministro Amato alcuni dubbi su taluni punti. Il tema dell'autosponsorizzazione è il tema chiave su cui mi auguro venga introdotta una modifica. Spero che il Parlamento ci lavorerà.
L'allargamento di Schengen non riguarda Romania e Bulgaria. Se ne parlerà ancora per i prossimi tre anni. Certamente, il problema dei cittadini rumeni che commettono reati è serio. Ho segnalato al Ministro dell'interno italiano l'esistenza di direttive europee che permettono di espellere cittadini comunitari in particolari situazioni, quando costituiscano un grave pericolo per l'ordine pubblico e - clausola ancor più importante - quando non dimostrino di avere adeguati mezzi di sussistenza. Si può quindi effettuare un'analisi a campione e nei casi più gravi è consentita l'espulsione. Noi preferiamo un rimpatrio pilotato. Alcune città italiane stanno negoziando con alcune città rumene programmi di reinclusione sociale di cittadini rumeni che qui delinquono e che potrebbero tornare nelle città d'origine, se aiutati dall'Unione europea, magari attraverso l'eventuale utilizzazione del Fondo sociale europeo. Il sindaco di Milano ed il sindaco di Roma hanno promosso iniziative in alcune città rumene, che personalmente sostengo, ritenendo che alcuni progetti potrebbero essere finanziati dall'Unione europea.
Il tema delle comunità musulmane, onorevole Boato, mi interessa molto. Perseguiamo l'obiettivo di ottenere un forte sostegno dai leader e dai formatori religiosi islamici, quindi dagli imam. Abbiamo avviato progetti di formazione pilota per imam, ancora poco conosciuti, che stanno funzionando in Francia e in Olanda. Gli imam sono formati a predicare nella lingua del Paese in cui vivono e alle regole di educazione civica di quel Paese. Tali progetti, finanziati dall'Unione europea, sono meritevoli di espandersi largamente, perché gli stessi imam sono contenti di ricevere una formazione europea pienamente rispettosa della loro tradizione musulmana. I giovani sono quindi educati al rispetto della donna e al divieto del matrimonio forzato, cosa che alcuni non credono. Se il predicatore lo afferma nella predica del venerdì, questo ha un effetto piuttosto interessante.
La Carta di Nizza è politicamente in vigore, anche se non legalmente, tanto che vi facciamo riferimento esplicito nelle clausole e negli accordi politici con i Paesi terzi, sebbene non sia giudicabile come un atto legislativo pienamente in vigore. Abbiamo ottenuto che nel futuro trattato ci sia un riferimento che includa la Carta dei diritti fondamentali, dandole quindi valore costituzionale, anche se, purtroppo, il Regno Unito ha deciso per un opt out. È un peccato, perché in materia di diritti fondamentali l'esistenza di 26 Stati che dichiarano di aderire e la deroga di uno non si rivela edificante.
Per quanto riguarda i ricongiungimenti familiari, non c'è un'idea di revisione per l'immediato, ma un rapporto sul funzionamento della normativa vigente, che pubblicherò a febbraio dell'anno prossimo.
Sul tema di Hamas, l'Unione europea ha recentemente ribadito che Hamas è un'organizzazione terroristica. Alcuni avevano immaginato una revisione dopo il risultato elettorale di un anno e mezzo fa, ma, a larghissima maggioranza, l'Unione ha ritenuto opportuno non riconsiderare la lista nera, in cui Hamas è inclusa come organizzazione terroristica. Abbiamo ripreso l'erogazione dei finanziamenti all'autorità nazionale palestinese in seguito alla fuoriuscita di Hamas dal Governo. La posizione, quindi, per ora non cambia, tanto che non consideriamo Hamas interlocutore di negoziati politici, altrimenti non avremmo sospeso come Europa i finanziamenti, con il voto unanime di tutti i Paesi membri. Questa è la posizione attuale dell'Unione europea, che non ritengo cambierà, specialmente se il Governo Fayad, come sembra, compierà progressi grazie al lavoro del quartetto verso il processo di pace.
Ultimo tema trattato è quello della pedopornografia, ultimissimo quello dell'Alto Adige. Abbiamo già fatto molto per quanto riguarda Internet ed esiste un progetto europeo funzionante da aprile. Il nome «Check the web», ovvero «Controlla il web», è eloquente; è affidato a Europol, che ha il compito di controllare sui siti web la presenza di violazioni delle regole concernenti il rispetto dei diritti dei bambini, quindi l'eventuale uso di Internet per reati di pedopornografia e di terrorismo.
Questi sono i due settori affidati. Quasi in anteprima, vi informo che abbiamo siglato un accordo di straordinaria importanza con alcune compagnie di carte di credito, che si sono impegnate a tracciare i dati dei pedofili che acquistano in rete con le carte di credito. I pedofili sapranno che i loro dati saranno trasmessi alle autorità di polizia. Certo, potrebbero non utilizzare più le carte di credito, ma è difficile che un pedofilo acquisti cash su Internet.
Si è trattato di una grandissima risposta e continueremo su questa linea. Mi auguro che le dichiarazioni del Ministro Gentiloni siano la vigilia di una collaborazione operativa, da me fortemente auspicata, in quanto le Forze di polizia italiane hanno una tradizione straordinaria e sono tra quelle che più stanno collaborando a questa azione di controllo dei siti web.
Per quanto riguarda l'Alto Adige, la minoranza italiana ha uno status finora solamente politico, nella mia personale visione. Consideriamo le minoranze linguistiche europee come minoranze rispetto ad uno Stato centrale, non come minoranza in una regione in cui esista un'altra minoranza. Se questo dovesse portare alla minaccia o alla prospettiva di statuti autonomi o di differenziazioni operate per creare ulteriori contrasti, si renderebbe evidentemente necessaria una riflessione anche a livello europeo.

PRESIDENTE. Ringrazio il Commissario Frattini, anche per il fatto di rappresentare con tale impegno l'Italia nella Commissione europea. Peraltro, i presidenti delle Commissioni per le politiche europee dei Parlamenti degli Stati membri hanno deciso, su proposta della troika, di proporre la prossima proposta di decisione quadro sulla lotta al terrorismo come prossimo oggetto per il controllo di sussidiarietà, per cui i Parlamenti nazionali stanno lavorando in tal senso.
Dichiaro conclusa l'audizione.

( 6 ) Sulle espulsioni collettive effettuate dal governo italiano verso la Libia, nel periodo che va dal 2004 al 2005, si veda il sito dell’On Tana De Zulueta, dal quale riportiamo questo breve resoconto cronologico:

Nel giugno 2004 la Relatrice speciale dell'ONU sui migranti ha visitato 5 CPT italiani, tra cui Lampedusa, concludendo, nel suo Rapporto, che "le strutture del Cpta di Lampedusa sono palesemente inadeguate per gestire gli arrivi frequenti di numerosi gruppi di migranti sull'isola. L'azione in risposta ad arrivi di questo tipo non può essere improvvisata o gestita sotto la pressione di condizioni congiunturali, e l'Italia non deve venir meno agli obblighi internazionali relativi al rispetto dei diritti umani che s'è impegnata ad osservare". Ha poi raccomandato "l'adozione di provvedimenti urgenti al fine di assicurare l'assistenza sanitaria per gli arrivi di massa a Lampedusa. La priorità del Cpta di Lampedusa è quella di procedere alla corretta identificazione di qualsiasi persona approdi sull'isola e non l'immediato rinvio degli immigrati appena arrivati".

Gli organismi internazionali condannano il governo italiano per le espulsioni

Il caso Lampedusa nelle istituzioni dell'Unione Europea dopo le prime espulsioni

Ad ottobre 2004 gli europarlamentari Rizzo e Guidoni (Comunisti italiani) presentano una interrogazione sulle espulsioni da Lampedusa. Ricevono, a dicembre, una risposta del commissario europeo Franco Frattini, che dichiara di aver ricevuto rassicurazioni dal governo italiano sulle procedure messe in atto e dichiara che la Commissione non può agire contro stati membri per violazioni del diritto d'asilo.
A febbraio 2005 una interrogazione di Monica Frassoni (Verdi) riceve come risposta un riferimento alla precedente dichiarazione di Frattini.

Lampedusa al Consiglio d'Europa

Il 25 gennaio 2005 Tana de Zulueta ha presentato alla Commissione Migrazione, Rifugiati e Popolazione dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa una dichiarazione scritta sulle espulsioni collettive di centinaia di migranti da Lampedusa nell'ottobre 2004, ora agli atti dell'Assemblea. La raccolta delle firme andrà avanti anche nelle prossime sessioni del Consiglio d'Europa.
La dichiarazione è stato firmata finora da 23 membri della Commissione, incluso il Presidente, il conservatore britannico John Wilkinson.
Tana de Zulueta ha inviato a tutti i parlamentari italiani una lettera in cui si chiede di firmare la dichiarazione.
A giugno l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa approva un'altra dichiarazione in cui si esprime forte preoccupazione per le condizioni nel centro di Lampedusa e per il rispetto delle procedure d'asilo.

L'esposto alla Commissione europea contro il governo italiano

A gennaio Arci, ICS ed ASGI, insieme ad altre organizzazioni europee, hanno presentato un esposto contro il governo italiano alla Commissione Europea per il trattamento dei migranti a Lampedusa nell'ottobre 2004.

L'ONU condanna il centro di accoglienza di Lampedusa

La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani sui migranti, Gabriella Rodriguez Pizarro, ha definito il centro di Lampedusa 'non adatto a far fronte ai frequenti e massicci sbarchi di stranieri' nella sua relazione, presentata ad aprile 2005.

La decisione della Corte europea dei Diritti umani: l'Italia rischia di violare la Convenzione Europea sui Diritti Umani con le espulsioni

Ad aprile la Corte Europea dei Diritti umani ha parzialmente accolto il ricorso contro le espulsioni di 79 migranti giunti a Lampedusa presentato dagli avvocati Anton Giulio Lana e Alessandra Ballerini, che è riuscita ad entrare nel CPT di Crotone, dove sono rinchiusi molti dei migranti arrivati a Lampedusa. La lettera al governo italiano non sospende le espulsioni, ma chiede al governo italiano di fornire una serie di informazioni: a) indicare in maniera precisa i procedimenti di identificazione, che devono essere individuali; b) assicurare che i migranti abbiano potuto avere accesso alla domanda d'asilo; c) ci sono procedure di espulsione in corso?; d) la documentazione relativa alle singole persone.
Se l'Italia non lo farà entro il 6 maggio o se attuerà altre espulsioni violerà la Convenzione europea dei Diritti umani. Tana de Zulueta ha contattato il Ministero dell'Interno per sottolineare la sentenza e ribadire che devono cessare le espulsioni.

Il Parlamento europeo ed il Consiglio europeo si occupano di Lampedusa

Il 14 aprile il Parlamento europeo si è occupato per la prima volta di violazioni dei diritti umani in uno stato membro: si tratta dell'Italia, con le espulsioni da Lampedusa. La risoluzione approvata, presentata da Socialisti, Verdi, Liberaldemocratici e Sinistra Europea, invita l'Italia e ''tutti gli stati membri ad astenersi dall'effettuare espulsioni collettive di richiedenti asilo e di 'migranti irregolari' verso la Libia e altri paesi e ad assicurare l'esame individuale delle domande di asilo nonche' il rispetto del principio di non espulsione''. Inoltre gli europarlamentari ritengono che ''le espulsioni collettive di migranti verso la Libia da parte delle autorita' italiane, compresa quella del 17 marzo, costituiscano una violazione del principio di non espulsione e che le autorita' italiane siano venute meno ai loro obblighi internazionali, omettendo di assicurarsi che la vita delle persone espulse non fosse minacciata nel loro paese di orgine''.
L'euroassembla invita anche le autorita' italiane ''a garantire all'UNCHR libero accesso al centro rifugiati di Lampedusa e alle persone che vi sono detenute, che potrebbero avere bisogno di una protezione internazionale''. La risoluzione approvata fa anche riferimento alla richiesta ''presentata all'Italia dalla Corte europea dei diritti umani il 6 aprile di trasmettere informazioni sulla situazione a Lampedusa, a seguito del reclamo presentato da un gruppo di migranti espulsi''. Il Parlamento, infine, chiede l'invio di una delegazione parlamentare al ''centro rifugiati di Lampedusa e in Libia per poter valutare la portata del problema e verificare la legittimita' dell'operato delle autorita' italiane e libiche''.
Sempre il 14 aprile, il Consiglio europeo su Giustizia e Affari interni ha affrontato il tema della cooperazione con la Libia sulla base di un rapporto segreto della Commissione europea (neanche il Parlamento europeo ne è a conoscenza), stabilendo che si proceda ad un accordo di cooperazione per 'frenare i flussi migratori clandestini'.
La Commissione Libertà civili del Parlamento europeo deciderà prossimamente la composizione di una sua delegazione che dovrà visitare Lampedusa e Crotone per poi riferire al Parlamento.
Il 20 aprile Frattini, Commissario europeo alla Giustizia ed agli Affari interni, è stato ascoltato dalla Commissione Diritti umani del Senato, di cui Tana de Zulueta è membro. Frattini ha chiesto al governo italiano di fornire una 'documentazione più precisa' sulle espulsioni di migranti da Lampedusa, come ha fatto la Corte europea dei Diritti umani. Auspicando che la Libia aderisca al trattato di Barcellona sul partenariato euro-mediterraneo, Frattini ha chiesto che la Libia garantisca 'trasparenza nei confronti dei diritti delle persone'.

Un rapporto UE smentisce il governo e Frattini: la Libia viola i diritti dei migranti

A fine aprile 2005 'l'Espresso' pubblica ampi stralci di un rapporto segreto della Commissione europea sul trattamento dei migranti in Libia. Il rapporto contiene anche una lista dettagliata dei beni forniti a Gheddafi dall'Italia sulla base del celebre - ma segreto - accordo sull'immigrazione: gommoni, cani anti-droga ma anche 1000 'body bags', sacchi da morto, oltre ai finaziamenti per costruire un centro di detenzione per immigrati e per espellere oltre cinquemila migranti con voli charter.

Il Consiglio d'Europa indica i criteri per i rimpatri

L'11 maggio il Comitato dei Ministri dei 46 paesi del Consiglio d'Europa ha adottato un testo contenente 20 linee guida che dovranno essere comunicate alle autorità nazionali responsabili per il rimpatrio degli immigrati. Le linee guida costituiscono la risposta ai numerosi incidenti mortali avvenuti durante i rimpatrii forzati. Obiettivo delle linee guida è riconciliare la politica del rimpatrio con il pieno rispetto dei diritti umani. Si tratta del primo testo internazionale che fa riferimento a ogni singola fase del processo di rimpatrio: dal rilevamento di una situazione irregolare al rimpatrio stesso.

La Corte europea dei Diritti umani blocca le espulsioni: l'Italia ha violato il diritto internazionale

Il 10 maggio la Corte europea dei Diritti dell'Uomo emana un provvedimento d'urgenza per bloccare le espulsioni di 11 tra i 79 ricorrenti rappresentati dall'avvocato Anton Giulio Lana. La Corte ha appena ricevuto la documentazione richiesta dal governo italiano, che dichiara che 14 persone sono già state espulse ed 11 sono in attesa di espulsione. Degli altri 54 il governo non conosce neppure i nomi, tantomeno sa indicare dove siano ora. Questa è la prova che l'Italia ha attuato espulsioni collettive arbitrarie al di fuori del diritto internazionale. La decisione della Corte è anche una bocciatura dell'accordo (tuttora segreto) tra Italia e Libia.
Il 13 maggio la Corte blocca l'espulsione di un altro migrante ricorrente. Nei primi giorni di giugno 2005, dopo oltre 100 giorni di detenzione – ovvero ben oltre i 30 più 30 previsti dalla legge Bossi-Fini – e dopo numerose ingiunzioni per l’immediata rimessa in libertà da parte dei loro avvocati, solo 2 dei ricorrenti (dei 12 individuati dalla Corte) sono potuti uscire dai centri in cui erano trattenuti. La sorte delle altre 10 persone non è attualmente conosciuta e nessuna informazione relativa alla loro sorte è stata resa ai loro avvocati.
Tana de Zulueta presenta un'interrogazione per sapere se il governo cesserà le espulsioni, per chiedere che l'accordo segreto con la Libia venga sottoposto al Parlamento e per sapere dove si trovano gli 11 migranti identificati e gli altri 54 di cui il governo non sa nemmeno i nominativi.

Presentato il rapporto annuale di Amnesty International: condannata l'Italia

Il 25 maggio 2005 Amnesty International presenta il suo rapporto annuale. Nella parte dedicata all'Italia, la denuncia delle deportazioni in Libia, del comportamento del governo sulla Cap Anamur e del trattamento riservato ai rifugiati.
Nel maggio 2006, il nuovo rapporto annuale di Amnesty condanna nuovamente l'Italia per le espulsioni da Lampedusa e la condizione dei rifugiati.

Il rapporto sul diritto d'asilo in Italia della Federazione Internazionale della Lega dei Diritti dell'Uomo

Nel giugno 2005 la FIDH presenta il suo rapporto sul diritto d'asilo in Italia al Parlamento europeo a Bruxelles. Il rapporto, frutto di una serie di visite ai CPT di Lampedusa, Trapani, Caltanissetta e Roma, a centri di identificazione ed al cosiddetto 'Hotel Africa' alla stazione Tiburtina di Roma (dove vivono in condizioni aberranti richiedenti asilo africani) e di incontri con dirigenti ministeriali italiani dal 5 al 15 dicembre 2005, faceva seguito alle visite ed ai rapporti dell'Inviato Speciale del Segretario Generale dell'ONU sui Lavoratori Migranti (giugno 2004) e del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d'Europa (novembre 2004).
Il rapporto della FIDH condanna duramente l'Italia per la mancanza di una legge sull'asilo, per le condizioni di vita nei CPT, per la detenzione illegittima di migranti irregolari e richiedenti asilo e per le espulsioni coatte e collettive da Lampedusa.

GISTI presenta un ricorso contro la Commissione europea sulle espulsioni da Lampedusa

Nel gennaio 2005 10 ONG europee, tra cui le italiane ASGI, ICS ed Arci, hanno depositato una richiesta alla Commissione europea affinché si facesse portatrice di una procedura di violazione del diritto comunitario da parte dell'Italia riguardo alle espulsioni da Lampedusa. La Commissione rispose che non era competente per quanto riguarda i "diritti fondamentali". Nel giugno 2005 GISTI (Gruppo d'Informazione e di Sostegno degli Immigrati), una delle 10 ONG, presenta un ricorso contro la Commissione al Tribunale di prima istanza delle Comunità Europee (TPICE), o Tribunale di Lussemburgo.
A settembre 2005 il Tribunale di prima istanza rigetta il ricorso delle ONG, che fanno appello.

Una delegazione di parlamentari europei a Lampedusa

Il 28 giugno 2005 12 eurodeputati della Sinistra europea visitano Lampedusa. Nonostante il centro non sia sovraffollato come spesso accade perché le autorità italiane hanno provveduto a spostare dall'isola con solerzia 800 persone, i parlamentari europei definiscono le condizioni nel centro "inumane". I pochi servizi igienici sono senza porte e per lavarsi c'è solo l'acqua di mare. Nessun migrante giunto a Lampedusa ha mai chiesto asilo politico. I parlamentari denunciano, inoltre, come le date d'arrivo vengano contraffatte a penna per non dover liberare i migranti dopo 48 ore di detenzione tracorse senza la convalida di un giudice di pace (come stabilisce la Bossi-Fini).
Il 15 settembre una
delegazione ufficiale del Parlamento europeo ha visitato Lampedusa. Il centro era stato accuratamente svuotato e ripulito prima della visita.

La Corte europea dei Diritti umani chiede nuovamente chiarimenti al governo italiano

Durante la visita degli europarlamentari, gli avvocati Alessandra Ballerini ed Anton Giulio Lana hanno raccolto le procure di tutti i migranti presenti inoltrando un ricorso urgente alla Corte europea dei Diritti umani. La Corte di Strasburgo ha intimato al governo italiano di rispondere entro il 5 agosto, fornendo i decreti di espulsione per 206 migranti e la documentazione sul trattenimento dei migranti, sulle procedure d'identificazione e d'asilo. L'Italia deve anche chiarire se è stata garantita l'assistenza legale ai migranti al fine di ricorrere contro le procedure di espulsione e di trattenimento e se è stato garantito il diritto a ricorrere alla corte di Strasburgo.

L'esposto alla Procura di Roma contro il governo


Il 20 luglio 2005 alcuni parlamentari, fra cui Tana de Zulueta, e membri di associazioni che si battono per i diritti dei migranti depositano un
esposto presso la Procura di Roma contro il governo italiano per il trattenimento dei migranti nel "centro di accoglienza" di Lampedusa e le espulsioni in Libia.
Nel marzo 2006 trapela la notizia che Pisanu, come conseguenza dell'esposto, è indagato per le espulsioni forzate da Lampedusa.
Il pm incaricato dell'indagine chiede l'archiviazione per Pisanu per il reato contestato di abuso d'ufficio in quanto ciò che il ministro ha fatto "rientra nell'ambito dell'esercizio della discrezionalità politica, attività che esorbita dal vaglio della magistratura". La responsabilità di Pisanu, quindi, sarebbe solo politica e non di rilevanza penale. Dal punto di vista giudiziario restano, però, i pesanti richiami della Corte europea dei Diritti umani.
Tana de Zulueta e gli altri parlamentari presentano un ricorso contro la richiesta di archiviazione: il governo non ha fornito le prove dell'avvenuta identificazione indivuduale dei migranti espulsi e le espulsioni collettive sono vietate sia dalla legislazione italiana che da quella internazionale. Il pm, tra l'altro, non ha neanche sentito Tana de Zulueta, Chiara Acciarini ed Elettra Deiana, che hanno visitato a più riprese il Cpt di Lampedusa, né Fabrizio Gatti, trattenuto nel centro per una settimana quando si finse curdo per un reportage.
Il giornalista Fabrizio Gatti, sull' ' Espresso, svela che l'interrogatorio del prefetto Carlo Mosca, capo di gabinetto di Pisanu, da parte del tribunale ministeriale prova inoltre che altre indagini sono necessarie: il prefetto non solo afferma che il fantomatico accordo con la Libia non esiste (per cui le espulsioni sono avvenute al di fuori della legalità internazionale), ma ammette anche che Pisanu potrebbe aver dato direttamente gli ordini di espulsione e che nessun giudice ha convalidato i fermi dei migranti e la loro espulsione.

La Commissione sui Cpt di Amato e l'arrivo a Lampedusa di agenti Frontex

A luglio 2006 il nuovo ministro dell'Interno, Amato, istituisce una Commissione sui Cpt con il compito di stilare un rapporto esaustivo dopo un periodo di sei mesi di visite nei centri. La prima visita, il 19 luglio, è al centro di detenzione di Lampedusa.
A fine luglio 2006 viene comunicato l'arrivo a Lampedusa di agenti tedeschi nel quadro di operazioni congiunte di paesi UE coordinati dall'agenzia Frontex (neonato organismo UE che si occupa di controllo delle frontiere esterne dell'Unione). Intanto sono più di 2000 le persone arrivate nelle ultime due settimane del mese.
Ad agosto giungono sull'isola i primi esperti della Commissione europea per redigere un rapporto per l'agenzia Frontex in vista dei pattugliamenti congiunti Italia-Malta-Grecia contro l'immigrazione irregolare.

 ( 7 ) Sulla applicazione dell’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo si rinvia alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo nella rivista Diritto, Immigrazione e cittadinanza, varie annate, FrancoAngeli, Milano. Si deve osservare, in particolare, che l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (C.E.D.U.) sancisce il diritto a non subire torture o maltrattamenti disumani o degradanti. Si tratta di un diritto che deve essere garantito dagli Stati membri attraverso tutti i propri organi e, in particolare, attraverso la giurisdizione. L’articolo 3 è stato ampiamente interpretato dalla Corte europea dei diritti umani come limite all’espulsione degli stranieri ogni qual volta l’allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato ospite possa esporlo al rischio grave di subire un tale trattamento o tortura (Cruz Varas and Others, 20 marzo 1991, ricorso n. 15576/89). Si tratta quindi di una fattispecie diversa da quella contemplata dalla Convenzione di Ginevra o dalla Costituzione, volta a comprendere ipotesi non rientranti né nell’una né nell’altra e tuttavia tale da impedire, l’allontanamento di uno straniero che incorra in un tale rischio.
Si consideri che le norme della Convenzione sono direttamente applicabili nell’ordinamento giuridico italiano. Infatti è assolutamente pacifico, per giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite e delle altre Sezioni della Cassazione, che le norme della C.E.D.U. sono direttamente applicabili nell’ordinamento interno e per questo sono fonte di diritti soggettivi, invocabili dinanzi al giudice italiano. Tale orientamento è stato affermato, con nettezza dalle Sezioni Unite, da oltre quindici anni, con la nota sentenza Polo Castro (23 novembre 1988), ribadito dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la Sentenza Medrano (Sentenza 10 luglio 1993 n. 2194), ribadito ulteriormente dalla Prima Sezione civile della Corte di Cassazione con la Sentenza Galeotti (Sentenza 8 luglio 1998 n. 6672).  Tale orientamento, si è ulteriormente consolidato, dopo che sull’argomento sono intervenute nuovamente le Sezioni Unite, con la Sentenza n. 5902 del 14 aprile 2003 e con la Sentenza n. 6853 del 6 maggio 2003.
Con la prima sentenza le Sezioni Unite hanno ribadito, ancora una volta, che le norme della Convenzione sono fonte di diritti direttamente azionabili nell’ordinamento interno, con riferimento all’articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla C.E.D.U. Con la seconda sentenza le Sezioni Unite, entrando più nello specifico, hanno statuito che il compito di ciascuno Stato di assicurare il godimento dei diritti riconosciuti al singolo (articolo 1) richiede: “la garanzia dell’esistenza, nel diritto interno, di un ricorso effettivo, dinanzi ad una istanza nazionale, che consenta di avvalersi dei diritti e delle liberà consacrati dalla normativa convenzionale (art. 13)”. Sul divieto di refoulement affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e sulla sua applicazione extraterritoriale, si richiama un recente studio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati   “Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal suo Protocollo del 1967”, consultabile nel sito
www.altrodiritto.unifi.it, alla rubrica Diritti/Frontiere.

 

( 8 )  Per informazioni  aggiornate sulla situazione dei diritti imani in Libia con riferimento alla corrzione diffusa in diversi ambiti si rinvia al report di Human Rights Watch del 4 gennaio 2008 “Human Rights Conditions Required”

January 4, 2008  
 
The EU has declared a “new era” in its relations with Libya. Counter-terrorism, energy, and migration are among the main areas of concern to Brussels.

Human Rights Watch welcomes improved EU-Libya ties, but not at the expense of human rights. The “new era” should include a framework to address Libya’s dismal human rights record and to encourage desperately needed reform. In particular, EU–Libya agreements should establish clear human rights benchmarks to promote Libya’s compliance with international standards of free expression, free association, judicial independence, and other human rights norms.  
 
This memorandum presents the most pressing human rights concerns in Libya today, as well as recommendations for human rights benchmarks the EU should establish.  
 
Recent Background  
 
The EU signed a memorandum of understanding with Libya on July 23, 2007, that dealt primarily with issues around the release of the five Bulgarian nurses and Palestinian doctor who had been unlawfully jailed since 1999 and convicted of deliberately infecting 426 children with HIV.
1 The MoU mentions five areas that Libya wanted included in future agreements with the EU: agricultural trade, assistance with archaeological restoration, academic scholarships, visa facilitation, and technical support for Libyan border control of illegal immigration on the EU’s behalf.  
 
On October 15, 2007, the EU General Affairs and External Relations Council decided to proceed with negotiations with Libya on a framework agreement. The objective of the agreement, the Council said, is to “set EU-Libya relations into an appropriate, coherent long-term framework that will take into account the interests of Libya and of the EU and its Member States.”
2 The Council said the agreement should include “areas of mutual interest such as human rights, migration, among others.”  
 
On December 8-9, 2007, Libyan leader Mu`ammar al-Qadhafi attended an EU-Africa summit in Lisbon. On December 10, he arrived in Paris, his first visit to France in 34 years. Following that, he visited Spain.  
 
On January 1, 2008, Libya became a nonpermanent member of the UN Security Council, and it assumed the rotating presidency for the first month.  
 
The EU’s engagement policy is an important lever to improve Libya’s human rights record, which includes the use of torture, unfair trials, and sweeping restrictions on freedom of expression and association. Building on the mention of human rights in the October 15 Council conclusions, a framework EU-Libya agreement should include concrete human rights benchmarks, such as those listed at the end of this paper.  
 
It is imperative that the EU not be satisfied merely with the foreign healthcare workers’ release, which ended a long miscarriage of justice, but also highlighted the Libyan government’s continuing human rights abuses. Scores of Libyans and others remain in prisons after torture and unfair trials, their cases largely unknown to the outside world. The government continues to imprison people who peacefully express alternative political views, and some of them have “disappeared.” The mistreatment of women and girls, and abuse against foreigners, including the refoulement of refugees, also demand the EU’s attention.  
 
This document describes some of the ongoing human rights violations in Libya that the EU should not ignore.  
 
Violations of civil and political rights  
 
Despite some improvements in recent years, in Libya torture remains a deep concern. Torture is prohibited under Libyan law, its commission is a criminal offence,
3 and the government has repeatedly claimed that it investigates and prosecutes cases in which torture is alleged. Nevertheless, fifteen out of 32 prisoners interviewed by Human Rights Watch in 2005 reported having been tortured during interrogations by Libyan security personnel in recent years.4 Prisoners said that interrogators subjected them to electric shocks, hung them from walls, and beat them with clubs and wooden sticks.5 Confessions extracted through torture are admitted as evidence in court.  
 
During interviews in Tripoli’s Jdeida prison in May 2005, four of the six foreign healthcare workers recently released told Human Rights Watch that they had confessed only after enduring torture, including sexual assault. On August 10, in an interview on al-Jazeera, Saif al-Islam al-Qadhafi, the Libyan leader Mu’ammar al-Qadhafi’s influential son, affirmed that the healthcare workers had been tortured. The torture of these workers is the only case in which the authorities are known to have conducted a criminal investigation into torture, but the ten Libyan security officials charged with torturing the workers were acquitted in June 2005.  
 
The Libyan justice system continues to violate due process rights, including by admitting coerced confessions as evidence and by subjecting persons to prolonged periods of pre-trial detention. In January 2005, the government abolished the People’s Court, a body that had tried most political cases without adequate due process guarantees. The cases before the court at the time of closure were transferred to the regular courts, but many of the people already imprisoned by the People’s Court remain in prison and their cases have apparently not been reviewed. In October 2007, the UN Human Rights Committee expressed concern that the difference between the former People’s Court and the currently functioning State Security Court is “unclear.”
6  
 
Libya’s media, including major newspapers and magazines, are controlled by government authorities or by the Revolutionary Committees Movement, a powerful organization that promotes the values of the al-Fateh Revolution that brought al-Qadhafi to power in 1969. After Libya’s legislative body, the General People’s Congress, created a committee to examine the state-controlled media in April 2007, journalists and writers inside Libya issued a bold statement that described the media as “dependent solely on propaganda and positive government messages.” The statement called on the committee to promote private media and a free press, but to date the government has provided no information about the committee’s work.  
 
Although a company reportedly owned by Seif al-Qadhafi opened two private newspapers and a private television station in August, the only truly free media are satellite television programs and the Internet. While both have proliferated in recent years, the government occasionally blocks websites. In 2005 the Internet writer `Abd al-Raziq al-Mansuri was sentenced to one-and-a-half years in prison, ostensibly for illegal possession of a weapon, although the circumstances of his arrest, detention and conviction indicate that the actual motivation was his critical writings.  
 
Individuals and groups are not free to express views critical of the government, the unique Jamahiriya political system, or Mu`ammar al-Qadhafi. Those who do express criticism or try to organize opposition political groups face arbitrary detention and long prison terms after unfair trials. A pervasive security apparatus monitors the population to a high degree.  
 
The Libyan government strictly curtails freedom of association, particularly if based on political activity. Most notably, Law 71 bans any group activity based on a political ideology opposed to the principles of the al-Fateh Revolution.  
 
Fathi al-Jahmi is Libya’s most well-known political prisoner. Internal security forces first arrested him in October 2002, after he publicly criticized Mu`ammar al-Qadhafi and called for free elections, a free press, and the release of political prisoners. A court sentenced him to five years in prison, but an appeals court ordered his release in March 2004.  
 
That same month, after al-Jahmi again criticized al-Qadhafi and called for Libya’s democratization, security agents promptly re-arrested him. His wife and eldest son were also arrested and detained without charge for more than six months, ostensibly “for their safety.”  
 
Al-Jahmi remains in detention today. His trial began in late 2005, but has since stopped with the government providing no further information or announcing the charges against him. According to his court appointed lawyer, al-Jahmi may face the death penalty for supporting or calling for the establishment of “any grouping, organization or association proscribed by law.” According to al-Jahmi’s family, the government has denied them visits since August 2006. His brother told Human Rights Watch: “We don’t know at this moment if he’s dead or alive.”  
 
In another troubling case, on February 16 and 17, 2007, state security arrested 13 men as they planned a peaceful demonstration to commemorate the first anniversary of an attack by Libyan police on a demonstration in Benghazi, in which 12 people were killed and many injured.
7 A fourteenth man, a brother of a man from the original group, was arrested one hour later, after he gave an interview to a London-based Libyan website, Libya al-Mostakbal, about his brother’s arrest.  
 
The authorities are holding most of the men at Jdeida prison or ‘Ayn Zara prison in Tripoli, but Jum`a Boufayed (brother of Dr. Idris Boufayed, who was arrested after giving the interview) is currently missing. The authorities also have refused to acknowledge the detention or whereabouts of another of the arrested men, `Abd al-Rahman al-Qotaiwi. In addition, two of the detainees—Ahmad Yusif al-`Ubaidi and al-Sadiq Salih Humaid—reportedly suffer from medical ailments, and it appears that medical treatment has been denied.  
 
Repeated requests by Human Rights Watch to the Libyan government for information about the case – including the location of the two “disappeared” men – have gone unanswered.  
 
To Human Rights Watch’s knowledge, none of the arrested men engaged in or advocated violence. Dr. Idris Boufayed, the demonstration’s main organizer, is an outspoken critic of the Libyan leader and runs a small exile group called the National Union for Reform (he lived in Switzerland for 16 years). Security agents detained him for at least one month in November 2006, after he wrote critical letters to Libyan opposition websites.
8  
 
Another of the men, Jamal al-Haji, is a writer and government critic. In an article he wrote a few days before his arrest he called for “freedom, democracy, a constitutional state, and law.” Al-Haji holds Danish citizenship. The Danish government has, without success, repeatedly requested access to al-Haji, under the terms of the Vienna Convention on Consular Relations. Libya refuses to recognize al-Haji’s Danish citizenship or to grant Danish diplomats access to him.  
 
At least 13 members of the group, and possibly all 14, are currently on trial facing three major allegations: planning to overthrow the government, arms possession, and meeting with an official from a foreign state (the US).
9 Reportedly, their last court hearing was in August, subsequent hearings have been indefinitely postponed, and their case has been transferred from a regular court to a Revolutionary Security Court. The next trial date is set for January 8.  
 
While the precise charges and their legal basis remain unclear, some or all of these defendants could face the death penalty, as could Fathi al-Jahmi. Despite numerous promises to abolish the death penalty, capital punishment still exists, including for actions that should not be considered criminal, but should be protected as the exercise of the rights to free assembly and expression.  
 
Both Law 71 and Article 206 of the Libyan penal code impose the death penalty on those who call “for the establishment of any grouping, organization or association proscribed by law,” and on those who belong to or support such an organization.  
 
Article 166 of the penal code provides that the death penalty may be imposed on anyone who talks to or conspires with a foreign official to provoke or contribute to an attack against Libya. Article 167 provides that sentences up to life in prison can be imposed for conspiring with a foreign official to harm Libya’s military, political or diplomatic position. The UN Human Rights Committee criticized Libyan government for applying the death penalty to a “vague and broadly defined” set of offences.
10  
 
The EU Guidelines on Human Rights Defenders (2004) commit the EU to use the tools at its disposal, including undertaking demarches to raise the cases of human rights defenders who are at risk. At least two of the 14 men, and perhaps the entire group, may fit into the category of human rights defenders who were exercising their rights to freedom of expression and assembly.  
 
The EU Guidelines on the Death Penalty (1998) state that “where the European Union becomes aware of individual death penalty cases which violate minimum standards, the EU will consider making specific demarches,” and notes that “speed will often be essential in these cases.” All 14 men may face the death penalty for attempting to organize a peaceful, public demonstration in memory of the 12 killed demonstrators in Benghazi. The EU has so far failed to act on behalf of the 14 men, and should immediately undertake a demarche that expresses profound concerns about their arrest and well being and demands that the Libyan government observe all international due process standards.  
 
As a matter of urgency, the EU should request information from the Libyan authorities about the location and condition of the “disappeared” detainees Jum`a Boufayed and `Abd al-Rahman al-Qotaiwi.  
 
Guantanamo Returnees  
 
Over the past year, the U.S. government has returned two Libyan citizens from the Guantanamo Bay detention facility to Libya, and both are currently in detention without charge and apparently with no access to a lawyer. Sofian Ibrahim Hamad Hamoodah was returned on or around September 30, 2007. Mohamed al-Rimi was returned on or around December 17, 2006. According to the U.S. government, the Libyan authorities gave credible assurances of humane treatment prior to the returns.  
 
Shortly after al-Rimi’s return, an official from the Qadhafi Development Foundation, a quasi-governmental organization run by Saif al-Qadhafi, said the Libyan authorities did not want al-Rimi, and he would "go back to his family soon." More than one year later, al-Rimi remains in detention.  
 
The U.S. State Department and the Qadhafi Development Foundation say they have visited both men, in the presence of Libyan security officials, most recently on December 25, 2007. Despite repeated requests, Libyan authorities have provided Human Rights Watch with no information about either man.  
 
The EU should urge the Libyan authorities to charge or release the two men, provide them with access to lawyers, and allow independent medical and human rights organizations to visit them in detention.  
 
Women’s rights  
 
Libya has supported advances in women’s rights, but serious problems remain.
11 Although the real extent of violence against women in Libya is still unknown, the government's position continues to be one of denial, leaving victims unprotected and without legal remedies. There is no domestic violence law in Libya and laws punishing sexual violence are inadequate. Only the most violent rape cases are criminally prosecuted, and judges have the authority to propose marriage between the rapist and the victim as a “social remedy” to the crime. Rape victims themselves risk prosecution for extramarital sexual relations if they attempt to press charges.  
 
Human Rights Watch has focused on the government’s practice of arbitrarily detaining women and girls indefinitely in so-called “social rehabilitation” facilities, which hold women and girls suspected of transgressing moral codes. The state may detain the women and girls indefinitely because, the government says, their families have rejected them and they are at risk. The government routinely violates the detainees’ rights, including due process, liberty, freedom of movement, personal dignity, and privacy. Many women and girls detained in these facilities have committed no crime, or have already served a sentence. Some are there because they were raped and are now ostracized for allegedly staining their family’s honor. There is no way out of these facilities unless a male relative takes custody of the woman or girl or she consents to marriage.  
 
The “social rehabilitation” facilities have a distinctly prison-like character. The women and girls sleep in locked quarters and are not allowed to leave the gates of the compound. The custodians sometimes subject them to long periods of solitary confinement, occasionally in handcuffs, for trivial reasons like “talking back.” They are tested for communicable diseases without their consent upon entry, and most are forced to endure invasive virginity examinations. Some residents are as young as 16, but authorities provide no education, except weekly religious instruction.  
 
In a meeting with Human Rights Watch, Aisha al-Qadhafi, daughter of the Libyan leader, promised to investigate the abuses documented in our report on the topic.
12 In February, the government said it had established a committee to study the conditions in Libya’s “social rehabilitation” facilities, including examining the physical and psychological well-being of the detained women and children. The results of the committee’s work, if any, remain unclear.  
 
We urge the EU to follow up on the committee’s progress in reviewing these conditions to see if there has been any change in the circumstances leading to such arbitrary detentions.  
 
Migration concerns  
 
Over the past decade, hundreds of thousands of people have come to Libya, mostly from sub-Saharan Africa, either to stay in the country or to travel through to Europe. Many of the foreigners came for economic reasons, but some have fled their home countries due to persecution or war. Once welcomed as cheap labor, sub-Saharan Africans in Libya now face tightened immigration controls, detention and deportation. From 2003 to 2005, the government repatriated roughly 145,000 foreigners, according to official Libyan figures.  
 
In 2006 Human Rights Watch released a report that documented how Libyan authorities have arbitrarily arrested undocumented foreigners, mistreated them in detention, and forcibly returned them to countries where they could face persecution or torture, such as Eritrea and Somalia.
13 Foreigners interviewed by Human Rights Watch reported arbitrary arrests, beatings and other abuse during their detention and deportation. On July 8, 2007, Libya reportedly rounded up approximately 70 Eritrean men, some of whom may have fled conscription into the Eritrean military. Eritrea has no conscientious objector status and military offenders are frequently subjected to torture. Reportedly at Eritrea’s request, the 70 men were photographed and made to give their names and dates of birth. They say Libyan guards have threatened them with deportation.  
 
An overarching problem is Libya’s refusal to introduce an asylum law or procedure, despite repeated promises to do so and the establishment of a Committee to draft such a law in 2006. Libya has not signed the 1951 Refugee Convention, and the government makes no attempt to identify refugees or others in need of international protection.  
 
In negotiations with Libya on the subject of migration, the EU must recognize that Libya does not provide effective protection to refugees and asylum seekers, and that any cooperation with Libya to reduce irregular migration to Europe needs to ensure that potential asylum seekers are given the opportunity to lodge refugee claims before being returned to Libya, where they would be at risk of return to countries where they could face persecution. The EU should also insist, in any agreement on migration, that Libya does not physically abuse or maltreat migrants during arrest and in detention and that it treat non-Libyan nationals on its territory according to international human rights standards.  
 
Issues Related to HIV/AIDS  
 
Finally, at least 50 of the Benghazi children who were infected with HIV in the medical workers’ case have died, and the case has rightfully angered the Libyan public. Families of the children told Human Rights Watch in 2005 that they had suffered discrimination and stigmatization from Libyan officials and the public. The Memorandum on Relations between the EU and Libya signed in July 2007 involves treatment for children at hospitals in Europe, which is welcome move, as these children need and deserve proper care. It is essential that the EU steps forward now and engages with the Libyan government to develop a program to increase understanding of AIDS and to reduce stigma and discrimination against people living with HIV.  
 
Recommended Human Rights Benchmarks:  
 
As EU-Libyan relations evolve, the EU should raise and press human rights matters with the Libyan authorities, according to the EU’s guidelines on, inter alia, the death penalty; torture and other cruel, inhuman or degrading treatment; and human rights defenders. It is imperative that the EU take these concerns into account in all discussions and in pending agreements between Libya and the EU. Failure to do so will undermine EU efforts in the domain of human rights in Libya, the Middle East and elsewhere in the world. In particular, the EU should call on Libya to:  
 
Regarding Torture  
 
• Promptly investigate all allegations of torture and ill-treatment in a thorough and impartial manner that is capable of leading to successful prosecutions when appropriate;  
 
• Hold accountable, including through criminal prosecutions, all those who resort to or condone torture or ill-treatment against prisoners and detainees;  
 
• Ensure that confessions and other forms of evidence obtained by means of torture are not admissible in a court of law;  
 
• Extend a standing invitation to all of the human rights specialists (“special procedures”) of the U.N. Commission on Human Rights, facilitate their visits to Libya, and implement their recommendations.  
 
Regarding the now-abolished People’s Court  
 
• Release all prisoners convicted by the People’s Court solely for having peacefully expressed their political views;  
 
• Retry all other cases tried by the People’s Court since its inception with full transparency and due process guarantees. Such trials were frequently marred by serious due process violations, including long periods of pre-trial detention and unreasonable restrictions on access to lawyers;  
 
Regarding Political Prisoners  
 
• Observe all international due process standards in relation to the 14 men arrested in Tripoli on February 16-17, 2007;  
 
• As a matter of urgency, provide information about the location and condition of the “disappeared” men Jum`a Boufayed and `Abd al-Rahman al-Qotaiwi;  
 
• Comply with its obligations under the Vienna Convention on Consular Relations and allow Danish diplomats access to the detained Danish citizen Jamal al-Haji;  
 
•Proceed with trial or release Fathi al-Jahmi, detained since 2004 by the Internal Security Agency, after criticizing Libyan leader Mu’ammar al-Qadhafi;  
 
• Immediately inform the family members of all prisoners, political and otherwise, of the location of their imprisoned relatives. If the prisoner is deceased, the government should provide a death certificate and, if possible, the body or mortal remains.  
 
Regarding Freedom of Expression  
 
• Repeal Law 71 of 1972, which bans any group activity based on a political ideology opposed to the principles of the 1969 al-Fateh Revolution;  
 
• Repeal articles of the penal code that criminalize free expression;  
 
• Release all individuals imprisoned or detained solely for exercising their right to free expression;  
 
• Allow for the establishment of private media outlets beyond the two newspapers and one television station reportedly owned by the al-Ghad company, controlled by Saif al-Qadhafi. Libyan citizens should be free to receive and impart information through the media of their choice;  
 
• Provide unrestricted access to Internet websites that carry material protected by the rights to free expression and free information.  
 
Regarding Freedom of Association  
 
• Pass legislation that facilitates the registration of non-governmental organizations by a non-political body, with the right to appeal;  
 
• Repeal Law 71 of 1972 and related articles of the penal code that criminalize free association;  
 
• Allow unions and professional organizations to appoint their leadership without government interference;  
 
• Allow all Libyan citizens to engage freely in human rights work, including by forming independent human rights groups.  
 
Regarding the Death Penalty  
 
• Abolish the death penalty in the new penal code currently being drafted, as called for in the Great Green Charter for Human Rights in the Jamahariya Era (article 8);  
 
• Declare an immediate moratorium on executions until the new penal code comes into effect;  
 
• Become a party to the Second Optional Protocol of the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), which aims at the abolition of the death penalty.  
 
Regarding the Draft Penal Code  
 
• Eliminate the death penalty as a punishment;  
 
• Eliminate all articles that criminalize peaceful acts and forms of association and expression protected by international human rights law;  
 
• Define “terrorism” in a focused and narrow way to exclude peaceful acts and expressions critical of the government.  
 
Regarding Women’s Rights:  
 
• Release all women and girls detained in so-called “social rehabilitation” facilities who have not been charged with or convicted of a crime, and those who have served their sentence;  
 
• Cease immediately the practice of forcing detained women and girls to undergo virginity examinations against their will.  
 
• Repeal regulations that condition a woman’s release from any form of detention on a male relative claiming custody of her;  
 
• Repeal Law No. 70 (Regarding the Establishment of the Hadd Penalty for Zina Modifying some of the Provisions of the Penal Law) of 1973;  
 
• Pending repeal of the zina law, ensure that women accused of the crimes of adultery and fornication are afforded due process rights. When detained, authorities must inform them of the charges against them, formally charge them, and allow them to contact family members and legal counsel;  
 
• Establish voluntary shelters for women and girls at risk of violence that function as refuges without compromising the residents’ privacy, personal autonomy, and freedom of movement;  
 
• Prosecute perpetrators of domestic and sexual violence to the fullest extent of the law;  
 
• Prohibit judges from suggesting the marriage of the perpetrator and the victim as a remedy in rape cases;  
 
Regarding Children’s Rights:  
 
• Prohibit the use of disciplinary measures for detained children that involve closed or solitary confinement or any other punishment that may compromise the physical or mental health of the child. Use cell confinement only when absolutely necessary for the protection of a child. Where necessary, it should be employed for the shortest possible period of time and subject to prompt and systematic review.  
 
Regarding International Human Rights Treaties  
 
• Sign and ratify the International Convention for the Protection of All Persons from Enforced Disappearance.  
 
Regarding protection of refugees and asylum seekers  
 
• Sign and ratify the 1951 Convention relating to the Status of Refugees and its 1967 Protocol;  
 
• Sign a Memorandum of Understanding with the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) and allow the agency to perform its functions freely in Libya;  
 
• Introduce laws to respect the prohibition on refoulement and to establish an effective, fair and lawful asylum procedure;  
 
• Monitor conditions in all detention facilities housing migrants and possible asylum seekers, ensure that conditions conform to international minimum standards, and criminally prosecute guards and other officials who physically abuse or otherwise mistreat detainees;  
 
• Suspend all expulsions until effective and accessible mechanisms are in place by which non-nationals facing expulsion may challenge both their detention and deportation on human rights as well as immigration grounds;  
 
• Present all migrants, asylum seekers and refugees taken into custody on non-immigration offenses promptly before a judicial authority, and charge them with a cognizable criminal offense, or release them.
 
 
 
[
1]Memorandum on Relations between Libya and the European Union, July 23, 2007.  
[
2] Conclusions of EU General Affairs and External Relations Council, Luxembourg, October 15, 2007.  
[
3] These include article 2 of the Great Green Charter of Human Rights; article 17 of Law 20, On Enhancing Freedom; and articles 435, 341 and 337 of the penal code. Human Rights Watch, Words to Deeds: The Urgent Need for Human Rights Reform, pp. 48-49.  
[
4] Human Rights Watch, Words to Deeds: The Urgent Need for Human Rights Reform, http://hrw.org/reports/2006/libya0106/  
[
5] In addition, the UN Human Rights Committee recently noted its concern that Libyan law prescribes corporal punishments such as flogging and amputation, which, even if rarely applied, constitute torture or other cruel, inhuman or degrading treatment. Concluding observations on Libya’s fourth periodic report, CCPR/C/LBY/CO/4/CRP.1, 30 October 2007, para. 16.  
[
6] Id., para 22.  
[
7] The full list of those arrested is: Al-Mahdi Humaid, Al-Sadiq Salih Humaid, Faraj Humaid, `Adil Humaid, `Ali Humaid, Ahmad Yusif al-`Ubaidi, `Ala' al-Dirsi, Jamal al-Haji, Dr. Idris Boufayed, Farid al-Zuwi, Bashir al-Haris, Al-Sadiq Qashut, Jum`a Boufayed, `Abd al-Rahman al-Qotaiwi  
[
8] Human Rights Watch, “Security Agency Detains Critic,” December 4, 2006, http://hrw.org/english/docs/2006/12/04/libya14735.htm. For an example of Dr. Boufayed’s writing, see http://www.libyaalwafa.com/idrees_abufyed/public_announcement_112106.htm.  
[
9] A report from the last court session is at:  
http://www.libya-almostakbal.net/Alakhbar2007/July2007/feb_demo_trial160707.html  
[
10] Concluding observations on Libya’s fourth periodic report, CCPR/C/LBY/CO/4/CRP.1, 30 October 2007, para. 13.  
[
11] For example, the UN Human Rights Committee noted that Libya had admitted women to the judiciary and had established both a center for women’s studies and a Department for Women’s Affairs. However, in addition to other concerns, the Committee also “reiterate[d] its previous concern that inequality between women and men continues to exist in many areas, in law and practice, such as notably inheritance and divorce.” CCPR/C/LBY/CO/4/CRP.1, 30 October 2007, para. 11.  
[
12] Human Rights Watch, A Threat to Society?: Arbitrary Detention of Women and Girls for“Social Rehabilitation,” http://hrw.org/reports/2006/libya0206/.  
[
13] Human Rights Watch, Stemming the Flow: Abuses Against Migrants, Asylum Seekers and Refugees, http://www.hrw.org/reports/2006/libya0906/  

 

( 9 ) 31 dicembre 2007 – Associazione studi giuridici sull’immigrazione.
Accordo Italia Libia sui migranti
Estrema preoccupazione per l’annunciato accordo italo-libico espressa dall'Associaizone Studi Giuridici sull'Immigrazione.

L’ASGI esprime estrema preoccupazione per l’ accordo raggiunto, dopo trattative coperte dal più stretto riserbo, tra il Governo italiano ed il Governo libico in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, accordo di cui il Ministero dell’Interno ha dato notizia con un laconico comunicato emanato il 29 dicembre 2007. La condizione dei migranti irregolari, arrestati o detenuti in Libia, denunciata da diverse agenzie umanitarie, e testimoniata da coloro che, giunti in Italia, hanno avuto accesso alla procedura di asilo, rimane ben lontana dall’effettivo rispetto dei diritti fondamentali della persona. I futuri tentativi di respingimento in mare, attuato con il pattugliamento congiunto italo libico delle acque prospicienti quel paese, potranno essere causa di ulteriori tragedie, aumentando il numero già impressionante delle vittime.

L’ASGI ricorda che gli accordi bilaterali di riammissione dei migranti irregolari non possono limitarsi ad intese operative a livello di forze di polizia o di rappresentanze diplomatiche, sottratte come tali alla verifica del Parlamento, né possono risultare in contrasto con il diritto internazionale del mare universalmente riconosciuto o con le norme di diritto interno ed internazionale relative alla protezione dei rifugiati. In particolare nel caso di interventi di pattugliamento in alto mare o nelle acque territoriali dei paesi di transito dei migranti occorre sempre dare scrupolosa attuazione alle norme che garantiscano l’accesso effettivo dei potenziali richiedenti asilo al territorio dei paesi che aderiscono alla Convenzione di Ginevra.

La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS) impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico”, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”. In base al diritto internazionale marittimo un luogo sicuro è non solo una località dove la sicurezza dei sopravvissuti e le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte, ma è anche un luogo nel quale i richiedenti asilo presenti tra i migranti irregolari possano godere di un accesso pieno alla procedura di asilo prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1951, nel rispetto rigoroso del principio di non refoulement sancito all’art. 33 della stessa Convenzione.

L’ASGI ricorda che la Libia è un paese che non ha neppure ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e che pertanto l’esercizio del diritto d’asilo in Libia è impossibile. Parimenti la Libia è ancora caratterizzata da un regime dittatoriale, responsabile tanto in passato che ancora oggi, di gravissime violazioni dei diritti fondamentali della persona. Centinaia di potenziali richiedenti asilo, tra i quali molti eritrei, e soggetti vulnerabili come donne e minori, sono ancora rinchiusi nel carcere di Misurata ed in altri centri di detenzione in Libia, dove subiscono quotidianamente gravissimi abusi.

L’accordo italo-libico, per quanto è dato desumere dalle notizie ufficiali diramate dal governo, mancherebbe di ogni effettivo elemento di controllo e di garanzia sulla sorte dei migranti che verranno intercettati e rinviati in Libia. In tal modo, al di là delle dichiarazioni espresse dal Governo italiano relative alle finalità meritorie del contrasto del tragico traffico degli esseri umani, l’accordo pone oggettivamente l’Italia in un pericolosissimo vortice di gravi responsabilità dirette per le violazioni dei diritti fondamentali della persona che in territorio libico potranno essere commesse a danno dei migranti che saranno respinti o arrestati in quel paese.

Di fronte ad una situazione di tale gravità, l’ASGI chiede al Governo italiano di rendere pubblico il testo dell’accordo, ivi comprese le modalità operative e l’impegno di spesa a carico dell’Erario, e comunque di rinviare con immediatezza la intera tematica al Parlamento, come sarebbe peraltro richiesto dall’art. 80 della Costituzione per i trattati internazionali “che sono di natura politica” o che importano “oneri alle finanze”, al fine di potere individuare nelle opportune sedi, e con la dovuta trasparenza, le iniziative da attuare sul piano internazionale rivolte al contrasto del traffico degli esseri umani nel pieno rispetto dell’insieme delle norme internazionali sui diritti dell’uomo e del diritto di asilo in particolare.

( 10) ) Gli accordi bilaterali di riammissione come le misure adottate a livello europeo, e soprattutto quelle disposte da agenzie tecnico operative come FRONTEX, o da gruppi riservati di coordinamento, a livello di forze di polizia o di rappresentanze diplomatiche, non possono risultare in contrasto con il diritto internazionale del mare universalmente riconosciuto.

 

La Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (UNCLOS) costituisce la fonte primaria del diritto internazionale del mare. L’art. 311 dispone, infatti, che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa. Due o più Stati - continua l’art. 311 della Convenzione sul diritto del mare - possono concludere accordi che modifichino o sospendano l’applicazione delle disposizioni della Convenzione e che si applichino unicamente alle loro reciproche relazioni, solo a condizione che questi accordi non rechino pregiudizio ad una delle disposizioni della Convenzione, la cui mancata osservanza sarebbe incompatibile con la realizzazione del suo oggetto e del suo scopo e, parimenti, a condizione che questi accordi non pregiudichino l’applicazione dei principi fondamentali della Convenzione e non pregiudichino anche il godimento dei diritti o l’adempimento degli obblighi degli altri Stati derivanti dalla Convenzione stessa. Questo principio di compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di Montego bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori.

 

Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 dell’UNCLOS, perché esso costituisce l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà . Ogni Stato - si legge nel citato art. 98 - impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione, all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.

 

Varie convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all’UNCLOS, costituiscono un completamento della norma ora citata. In primo luogo, l’art. 10 della Convenzione del 1989 sul soccorso in mare così dispone: Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo.

 

La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 ( Convenzione SOLAS) impone al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”.

 

La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. La Convenzione SAR si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti.

 

La Convenzione SAR impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “regardlerss of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found”, senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”.

 

I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda. Occorre però garantire che dopo l’espletamento delle operazioni di salvataggio i migranti siano ricondotti in un porto sicuro.

 

Soprattutto nei rapporti con la Tunisia e la Libia rimangono ancora da definire le regole d'ingaggio delle marine nel caso vengano salvati immigrati in difficoltà e questo può comportare gravi ritardi nelle operazioni di salvataggio, oltre che respingimenti collettivi verso i porti di partenza di paesi che non riconoscono (o non siano nelle condizioni di applicare effettivamente, come nel caso della Tunisia) la Convenzione di Ginevra o altre norme internazionali che tutelano i diritti della persona umana, con particolare riferimento ai soggetti più vulnerabili ( donne, minori, vittime di tortura).

In ogni caso, la doverosa cooperazione dello Stato coinvolto nell’operazione di soccorso in mare, comprende l’obbligo dello sbarco dei naufraghi in un logo sicuro sulla base del giudizio del comandante dell’unità che porta a compimento l’intervento di salvataggio, prescindendo dal potere dello Stato stesso di perseguire i presunti favoreggiatori (comandante ed equipaggio) o di adottare verso i clandestini (ma in tutta sicurezza) i provvedimenti di espulsione o di respingimento previsti dalla legge.  

 

Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per conduzione della persona salvata in luogo sicuro. Infatti è dal momento dell’arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione etc.). Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all’annesso della Convenzione SAR 1979 (luglio 2006) e alla Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida - adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli - viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso.

 

Le “linee guida” insistono particolarmente sul ruolo attivo che deve assumere lo Stato costiero nel liberare la nave soccorritrice dal peso non indifferente di gestire a bordo le persone salvate.

Secondo le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare adottate nel maggio del 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza, che emendano le convenzioni SAR e SOLAS, “il governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito”. Secondo le stesse linee guida “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie ( come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti  nella destinazione vicina o finale.