NEWSLETTER n. 5/2009
ASGI
16 aprile 2009
SEGNALAZIONI NORMATIVE E GIURISPRUDENZIALI
ATTIVITA’
DELL’ASGI |
Comunicato
stampa - I costi e la demagogia del prolungamento dei tempi di detenzione
amministrativa.
L'ASGI, con una
lettera aperta al parlamento datata 11 marzo, aveva chiesto ai deputati di non procedere alla
conversione in legge dell’art. 5 del ddl n. 2232, che prevedeva il
prolungamento a sei mesi della detenzione amministrativa nei CIE, ritenendolo
incompatibile con i contenuti della direttiva europea n. 2008/115/CE. Nell'esprimere il proprio apprezzamento
per la mancata conversione in legge dell'art. 5 del Disegno di legge n.2232 di
conversione del Decreto legge n.11 del 2009, l’ASGI ritiene opportuno richiamare l'attenzione sulla portata demagogica
del provvedimento giustamente rigettato dalla Camera dei Deputati, sui costi
assai rilevanti e la sua efficacia pressoché nulla.
Il comunicato stampa
DDL Sicurezza - L'ASGI aderisce all'appello
contro le norme più gravi del
provvedimento.
L'appello, promosso da
Sergio Briguglio, mira ad illustrare le gravi conseguenze che potrebbero
derivare dall'approvazione di talune delle norme contenute nel ddl recante
Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, già approvato dal Senato ed ora
all'esame della Camera dei Deputati.
Tre in particolare sono le disposizioni che destano le maggiori preoccupazioni:
a) la soppressione del divieto di segnalazione all'autorità dell'immigrato
irregolare che ricorra alle prestazioni erogate dalle strutture sanitarie, da
considerarsi alla luce della contemporanea introduzione del reato di soggiorno
illegale;
b)
l'astensione dell'onere di esibizione del titolo di soggiorno ai fini del
perfezionamento degli atti di stato civile;
c)
l'inclusione della dimostrazione di regolarità del soggiorno tra i requisiti
necessari per la celebrazione in Italia del matrimonio da parte dello
straniero.
Nel documento sono illustrate le gravi conseguenze giuridiche e sociali che
deriverebbero dall'entrata in vigore di siffatte disposizioni, nonchè i
numerosi profili di illegittimità costituzionali che esse presentano.
Friuli-Venezia Giulia: Appello contro le discriminazioni nel
welfare regionale
Una proposta di legge
regionale presentata dalla Lega nord introdurrebbe, se approvata, forme di
discriminazione nell'accesso a prestazioni sociali regionali connesse alla
tutela dell'infanzia, all'accesso al diritto allo studio, al sostegno della
famiglia, alla genitorialità e alle persone non autosufficienti. L'ASGI sez.
F.V.G. aderisce all'appello promosso dalla Rete regionale per i diritti di
cittadinanza e dal Centro Ernesto Balducci di Zugliano (Ud).
La sez. F.v.g. dell'ASGI aderisce all’appello rivolto ai consiglieri regionali
del F.V.G. e promosso dalla Rete regionale per i diritti di cittadinanza e dal
Centro Ernesto Balducci di Zugliano contro la proposta di legge regionale n.
39, già approvata dalle commissioni regionali IV e VI del consiglio regionale e
che si appresta ad essere messa in discussione al consiglio regionale. Tale
proposta, se approvata, introdurrebbe attraverso il requisito di anzianità di
residenza quinquennale o decennale, forme di discriminazione nei confronti dei
nuclei familiari italiani non originari della regione Fvg e stranieri nella
fruizione delle principali prestazioni di assistenza sociale previste dal
welfare regionale (abbattimento delle rette degli asili nidi, carta famiglia,
assegni per il contributo alle spese di trasporto e all’acquisto dei libri di
testo degli studenti delle scuole superiori, assegni per il diritto allo studio
nelle scuole parificate, contributi per l’accompagnamento delle persone non
autosufficienti) finendo per escludere la maggior parte dei cittadini stranieri
(ma anche i cittadini italiani non “autoctoni” nel territorio regionale)
dall’accesso a tali prestazioni connesse alla tutela dell’infanzia, alla
promozione del diritto allo studio, al sostegno alla funzione genitoriale.
L’appello intende affermare il valore universalistico dei diritti alla tutela
dell’infanzia, alla promozione del diritto allo studio e al sostegno alla
famiglia, sottolineando il rifiuto di ogni discriminazione fondata sulla
provenienza, soprattutto nei confronti di minori d’età.
L’appello è aperto all’adesione di associazioni ed organizzazioni di
volontariato operanti sul territorio regionale, di operatori scolastici e del
settore socio-educativo e di personalità regionali del mondo della cultura.
L'adesione va inviata all'indirizzo: appello@fastwebnet.it
Info: retedirittifvg@gmail.com
Oppure scrivere a :
Rete diritti di cittadinanza FVG
c/o Centro E. Balducci
Piazza della Chiesa 1
33050 Zugliano Pozzuolo del Friuli (Ud)
Il testo dell'appello
Il testo della proposta
di legge regionale n. 39
Il comunicato
dell'agenzia di stampa regionale sui lavori delle commissioni del consiglio
regionale del fvg
NEWS |
LA COMMISSIONE EUROPEA CONTRO IL COMUNE DI
BRESCIA: “Il bonus bebè ai soli cittadini italiani viola il principio di non
discriminazione e di parità di trattamento nei confronti dei cittadini
dell’Unione Europea che esercitano il diritto alla libera circolazione”
BRUXELLES, 15 APR - Il commissario europeo alla Giustizia, liberta' e sicurezza, Jacques Barrot, ha confermato che il Comune di Brescia non puo' adottare misure sociali, come il cosiddetto ''bonus bebe''', escludendo i residenti comunitari non italiani. E' quanto sottolinea l'eurodeputata Pd-Pse Donata Gottardi, dopo la risposta ricevuta dallo stesso commissario a una sua interrogazione.
Le disposizioni comunitarie - rileva Barrot nella risposta diffusa dalla parlamentare - garantiscono che l'applicazione delle singole legislazioni nazionali avvenga nel rispetto dei principi fondamentali della parita' di trattamento e della non discriminazione. ''In tal modo si vuole assicurare che esse non rechino pregiudizio alle persone che esercitano il loro diritto alla libera circolazione all'interno dell'Unione Europea''. Se il bonus per i neonati corrisponde a una prestazione familiare, ''esso deve essere erogato - si legge nella risposta all'interrogazione - conformemente al diritto comunitario, affinche' siano rispettati i principi della parita' di trattamento e della non discriminazione''.
''La giunta guidata da Adriano Paroli (Pdl), che per la seconda volta e' dovuta tornare sui propri passi - ha commentato Donata Gottardi - dovra' rendersi conto che la liberta' di discriminare non esiste. Come scrive lo stesso commissario Barrot, ai cittadini dell'Ue va riservato lo stesso trattamento dei residenti italiani. E' questa l'unica strada per realizzare efficaci politiche di costruzione della cittadinanza europea''.
Fonte: ANSA, 15 aprile 2009
NORMATIVA |
Le domande potranno essere presentate a partire dalle ore 8,00 del 15 aprile utilizzando l’apposito programma scaricabile on line
A partire dalle ore 08:00 dell'11 Aprile 2009 sarà possibile effettuare
il download dei moduli di richiesta di nulla osta per lavoro
stagionale previsti dal Decreto Flussi 2009.
Le domande potranno essere presentate a partire dalle ore
08:00 del giorno 15 Aprile 2009 utilizzando l’apposito programma disponibile
per il download all'indirizzo:
http://nullaostalavoro.interno.it/Ministero/download
Si segnala che il servizio
di Help Desk sarà disponibile a partire dalle ore 09:00 del giorno 14
Aprile 2009.
Il decreto flussi 2009 consente l'entrata in Italia, per motivi di
lavoro subordinato stagionale, di cittadini stranieri non comunitari residenti
all'estero entro la quota massima di 80.000 unità, da ripartire tra le regioni
e le province autonome a cura del ministero del Lavoro, della Salute e delle
Politiche sociali.
La quota riguarda:
a) I lavoratori subordinati stagionali non comunitari di Serbia, Montenegro,
Bosnia- Herzegovina, ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, Croazia, India,
Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka e Ucraina.
b) I lavoratori subordinati stagionali non comunitari dei seguenti Paesi che
hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere accordi di cooperazione in
materia migratoria: Tunisia, Albania, Marocco, Mòldavia ed Egitto.
c) I cittadini stranieri non comunitari titolari di permesso di soggiorno per
Lavoro subordinato stagionale negli anni 2006, 2007 o 2008.
Fonte : Ministero dell'Interno
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha inoltre
diramato la ripartizione territoriale delle quote, provincia per provincia. [ Scarica ]
Vai
alle istruzioni per la procedura telematica in
sintesi
Leggi
il Decreto del PCM del 20 marzo 2009
Leggi
la Circolare del 9 aprile 2009 del Ministero
dell’Interno
Rom e
Sinti: nuova ordinanza del Governo
Pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale n. 80 del 6 aprile 2009 un ulteriore provvedimento del
Consiglio dei Ministri che prevede " disposizioni urgenti di protezione
civile "in relazione agli insediamenti di comunita' nomadi.
Ordinanza
del Consiglio dei Ministri 1° aprile 2009: Ulteriori disposizioni urgenti
di protezione civile dirette a fronteggiare lo stato di emergenza in relazione
agli insediamenti di comunita' nomadi nel territorio delle regioni Campania,
Lazio e Lombardia.
Decreto Ministero della
Giustizia 20 gennaio 2009, Adeguamento dei limiti di reddito per l’ammissione
al patrocinio a spese dello Stato (G.U. n. 72 dd. 27 marzo 2009)
Il testo del
decreto
IL CAPO DIPARTIMENTO per gli affari di giustizia del Ministero della giustizia di concerto con IL RAGIONIERE GENERALE DELLO STATO del Ministero dell'economia e delle finanze Visto l'art 76 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, che fissa le condizioni reddituali per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato; Visto l'art. 77 del citato Testo unico che prevede l'adeguamento ogni due anni dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione alla variazione, accertata dall'Istituto nazionale di statistica, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatesi nel biennio precedente; Visto il decreto dirigenziale emanato in data 29 dicembre 2005 dal Ministero della giustizia di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, con il quale, con riferimento al periodo 1° luglio 2002-30 giugno 2004, e' stato aggiornato in euro 9.723,84 l'importo originario fissato dall'art. 76, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002; Ritenuto di dover adeguare, per i periodi relativi al biennio 1° luglio 2004-30 giugno 2006 ed al biennio 1° luglio 2006-30 giugno 2008, il predetto limite di reddito fissato in euro 9.723,84; Rilevato che nel periodo relativo ai bienni considerati, dai dati accertati dall'Istituto nazionale di statistica, risulta una variazione in aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati pari al 9,3%; Decreta: L'importo di euro 9.723,84, indicato nell'art. 76, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002, cosi' come adeguato con decreto del 29 dicembre 2005, e' aggiornato in euro 10.628,16. Il presente decreto verra' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Roma, 20 gennaio 2009 Il capo del Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della giustizia Ormanni Il Ragioniere generale dello Stato del Ministero dell'economia e delle finanze Canzio Registrato alla Corte dei conti il 2 marzo 2009
Ministeri
istituzionali, registro n. 2 Giustizia, foglio n. 195 |
CIRCOLARI
AMMINISTRATIVE |
1. Una circolare
dell’INPS inserisce le aziende “etniche” tra i settori su cui concentrare prioritariamente gli
interventi ispettivi ai fini
dell’individuazione di fenomeni di
utilizzo di manodopera irregolare. La circolare INPS suscita perplessità sotto
il profilo della sua compatibilità con il divieto di discriminazioni etniche e
per l’evidente ricorso, nelle sue linee giustificative, a forme di “ethnic
profiling” o stereotipi etnici.
Circolare
INPS n. 27 dd. 25.02.2009
Un commento a
cura di Walter Citti, segreteria ASGI La circolare INPS
n. 27 dd. 25.02.2009 inserisce le “aziende etniche”, definite quali quelle
“realtà economiche gestite da
minoranze etniche o organizzate con l’impiego di lavoratori appartenenti alle
citate minoranze”, tra le principali aree di interesse sui cui avviare nel
corso del 2009 gli interventi ispettivi. La
giustificazione adottata dalla circolare fa ampio ricorso a forme di pregiudizio
etnico o di categorizzazione etnica (ethnic profiling), sostenendo che dette
aziende operano spesso “al di fuori di qualunque regolamentazione di
carattere lavorativo, previdenziale e fiscale e …realizzano non di rado vere
e proprie forme di sfruttamento della manodopera impiegata”. Ugualmente, la
circolare sostiene che “l’evoluzione multietnica che la nostra società ha
assunto negli ultimi anni ha profondamente modificato il tessuto produttivo
di molte realtà locali ed ha influito sulla caratterizzazione del sommerso,
tenuto conto che molte comunità sono state capaci di sviluppare un’attività
produttiva estremamente competitiva e non di rado totalmente sommersa”. In una lettera del 7 luglio 2006, la Commissione Europea ha
definito il concetto di “ethnic profiling” come
“comprendente qualsiasi comportamento o pratica discriminatoria effettuata
dalle autorità di polizia e pubblica sicurezza o altri attori pubblici, nei
confronti di individui e giustificata in ragione della loro razza, religione,
origine nazionale, piuttosto che del loro comportamento individuale o del
fatto che essi rispondano alla descrizione di una persona ‘sospettata’”. Più in generale, per ‘ethnic
profiling’ -
che in italiano potremmo tradurre con “definizione di profili etnici” –
possiamo intendere la pratica di classificare sistematicamente gli individui
in base alla loro origine etnico-nazionale o religiosa e di agire nei loro confronti in base a tale
visione stereotipata. La nozione si riferisce, tuttavia, in particolare all’operato delle
forze di polizia e, più in generale, di coloro che sono incaricati di
funzioni di pubblica sicurezza o ispettive. Si intende, cioe’, “l’uso o l’influenza di stereotipi
razziali, etnici e religiosi da parte delle forze di polizia nelle proprie attività e con riferimento alle decisioni concernenti il fermo,
l’arresto, la perquisizione, l’identificazione ed il controllo dei documenti
delle persone, l’inserimento di dati personali in database, la raccolta di
informazioni di intelligence e rispetto ad altre tecniche investigative”. In termini
concreti, un fenomeno di ‘ethnic
profiling’ sussiste ad esempio quando le autorità di polizia o altre autorità
pubbliche incaricate di compiti ispettivi e di indagine, nell’esercizio delle
loro attività, vengono influenzate da pregiudizi e stereotipi per cui certe
attività criminali o illegali vengono attribuite ad un determinato gruppo
etnico-nazionale in generale sulla base di una supposta prossimità di tale gruppo a tali attività ovvero
una sua propensione al crimine o
all’illegalità, etnicamente connotata. Ne consegue che i membri di tale gruppo (generalmente
immigrati o minoranze etniche) diventano il target sistematico di tali
operazioni di controllo, ispezione
ed identificazione con il risultato che essi hanno una probabilità molto più elevata di essere
fermati da agenti di polizia o
sottoposti ad indagini ispettive per
semplici accertamenti e
controllo dei documenti rispetto a quanto avviene per individui dell’etnia ‘maggioritaria’
e ciò per il solo fatto dell’appartenenza etnico-razziale, a prescindere da
ogni altro fattore comportamentale. L’ECRI, la Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI), l’organo indipendente
del Consiglio d’Europa specializzato nella lotta al razzismo e alla
discriminazione razziale, ha presentato il 4 ottobre 2007 la sua raccomandazione di politica generale n. 11,
dedicata al tema del contrasto alle forme di razzismo e di discriminazione
razziale nelle attività degli organi di pubblica sicurezza, cioè di quel
fenomeno che in lingua inglese
viene definito appunto come “ethnic” o “racial profiling”. Nella relazione
esplicativa di accompagnamento alla raccomandazione, l’ECRI sottolinea come
le attività di controllo, sorveglianza e investigazione delle autorità di
pubblica sicurezza e, più in generale delle autorità pubbliche, dovrebbero
essere sempre basate su criteri legati strettamente ed unicamente alla
valutazione concreta del comportamento individuale e/o su informazioni di
intelligence piuttosto che su generalizzazioni e stereotipi etnici, razziali o
religiosi. L’”ethnic profiling” va invece combattuto innanzitutto perché
viola i diritti umani, limitando indebitamente le libertà individuali; in
secondo luogo perché rafforza i pregiudizi e gli stereotipi riguardanti certi
gruppi sociali, generando nei suoi appartenenti sentimenti di umiliazione e
alienazione con conseguenze negative per la coesione sociale; in terzo luogo,
perché a medio e lungo termine si rileva controproducente, creando un diffuso
senso di ostilità tra gli appartenenti alle minoranze etniche nei confronti
delle agenzie di pubblica sicurezza, con conseguente impoverimento delle
forme di collaborazione e dei flussi di informazioni di intelligence che sono
invece lo strumento più efficace per la lotta alla criminalità. E’ del tutto
evidente che le giustificazioni adottate dalla circolare INPS per sostenere
l’esigenza di inserire le “aziende etniche” tra gli obiettivi cui concentrare
gli interventi ispettivi rappresentano un caso tipico di “ethnic profiling” . Questo in quanto si prefigura un sistema per cui le ispezioni
verranno ordinate e dirette verso aziende gestite da persone appartenenti a
determinate minoranze etniche al di fuori di qualsiasi criterio di
ragionevole sospetto fondato sul comportamento individuale o elementi
presuntivi o indizi obiettivi di illiceità dei comportamenti, bensì solo ed
esclusivamente in base all’appartenenza etnico-nazionale dei titolari
dell’impresa, alla quale viene dunque attribuito un “profilo etnico” fondato
su uno stereotipo o pregiudizio razziale. Sarebbe
interessante vedere ad esempio le reazioni che susciterebbe un ipotetico provvedimento amministrativo
di un autorità tedesca o belga che prevedesse un particolare regime di
sorveglianza sui bar e ristoranti
appartenenti a immigrati italiani, in quanto di per sé e solo per tale
ragione sospettati di infiltrazioni mafiose, a prescindere da ogni elemento
di ragionevole sospetto fondato sui comportamenti individuali. Sicuramente e
giustamente si griderebbe allo scandalo e al razzismo anti-italiano. Purtuttavia,
la medesima sensibilità di giudizio
dovrebbe valere anche per i cittadini immigrati presenti nel nostro
paese. Avendo in
considerazione quanto sopra affermato in materia di “ethnic profiling”, appare lecito sostenere che la
suddetta circolare INPS contiene profili in contrasto con il d.lgs. n. 215/2003, attuativo della
direttiva europea n. 2000/43/CE in materia di parità di trattamento tra le
persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nonché con
l’art. 43 del D.lgs. n. 286/98 (discriminazioni per motivi razziali, etnici,
nazionali o religiosi) e pertanto potrebbe essere soggetta ad un’azione
civile anti-discriminatoria ai sensi dell’art. 44 del T.U. immigrazione. Per saperne di
più: DISCRIMINAZIONI
ETNICO-RAZZIALI E ATTIVITA’ DELLE FORZE DI POLIZIA. UNA DISCUSSIONE
SULL’”ETHNIC-PROFILING, in Newsletter progetto Leader, n. 6/2007, disponibile
sul sito: http://www.asgi.it/content/documents/dl07060604.newsletter.6.mag.2007.pdf |
2.
Consigli territoriali per l'immigrazione: valorizzare il ruolo centrale nelle
politiche di integrazione È questo
lo spirito della circolare 2 aprile 2009 del capo del Dipartimento libertà
civili e immigrazione, che individua i settori in cui potenziare l'azione.
A dieci anni dalla loro istituzione, i Consigli territoriali per
l'immigrazione hanno assunto un ruolo fondamentale per l'elaborazione e
l'attuazione delle politiche relative a tutti gli aspetti del fenomeno
migratorio, che ha ormai assunto in Italia dimensioni 'strutturali' ed una
rilevanza strategica. Parte da questo presupposto la circolare n.5 del 2 aprile
scorso sul ruolo e sull'attività dei Consigli che il capo del Dipartimento per
le libertà civili e l'immigrazione del ministero dell'Interno ha inviato ai
prefetti, coinvolti anch'essi pienamente, come rappresentanti dello Stato sul
territorio, nel monitoraggio e nella gestione delle tematiche legate
all'immigrazione.
Ai Consigli territoriali, definiti 'sedi ideali' per dare impulso e
supporto alle istituzioni coinvolte, viene richiesto di promuovere 'azioni
sempre più incisive sul versante dell'accoglienza, dell'integrazione e della
coesione sociale, da coniugare con le nostre regole di convivenza', e a questo
fine vengono indicati una serie di settori prioritari.
Tra questi, la circolare assegna priorità assoluta alla gestione
dei minori stranieri presenti sul territorio nazionale, cui il
Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione riserva la massima
attenzione, non solo in quanto soggetti 'vulnerabili', ma soprattutto perchè
rappresentano il futuro e la speranza dell'integrazione.
Tra gli altri
aspetti legati alla presenza e all'integrazione degli immigrati su cui
lavorare, vengono segnalati: la situazione degli alloggi, la promozione
dell'accesso al credito agevolato, il lavoro e la formazione professionale, il
potenziamento dei servizi pubblici, l'impiego delle risorse del Fondo UNRRA e
del Fondo europeo per l'integrazione, le iniziative per favorire la conoscenza
della lingua italiana e dei principi fondamentali che reggono il nostro
ordinamento e la società, nonchè delle aspettative reciproche nutrite dai
cittadini stranieri in Italia e dagli italiani che li accolgono.
Fonte :
Ministero dell’Interno
GIURISPRUDENZA |
ASILO
1. Ammissione
dei richiedenti la protezione internazionale al gratuito patrocinio. Ammontare
del contributo parificato e decorrenza del gratuito patrocinio. Lettera
esplicativa del Presidente della Corte di Appello di Roma
Corte di
Appello di Roma - Presidenza, 17 febbraio 2009
a) nessuna norma
prescrive che le cause predette siano esonerate da qualsiasi imposizione
fiscale; Trattandosi di cittadini extracomunitari normalmente indigenti, essi potranno beneficiare dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Per evitare
lamentati inconvenienti (duplicazione di ammissioni al beneficio, iscrizioni
con riserva di produrre l'ammissione, ammissioni falsificate, non coerenti
dichiarazioni di valore all’atto dell'iscrizione, ecc.), occorre
sensibilizzare il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati affinché proceda con
la dovuta celerità e la necessaria oculatezza nel provvedere sull'ammissione
del chiesto patrocinio gratuito.
|
2. Il Consiglio
di Stato riconosce che anche il timore di persecuzioni provenienti da agenti
non statali, bensì riconducibili a gravi e conosciuti conflitti interni, può
costituire il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato
Consiglio
di Stato, Sez. VI, Decisione n. 1042 dd. 10 marzo 2009
La decisione del
Consiglio di Stato è stata adottata nell’ambito di un contenzioso originato da
un provvedimento di diniego al riconoscimento dello status di rifugiato
adottato dall’allora Commissione centrale nel novembre 1997, nel vigore dunque
dell’art. 5 comma 2 del d.l. n. 416/1989, che prevedeva la giurisdizione del giudice
amministrativo.
Già in prima
istanza, il TAR Lazio, con sentenza n. 5673/03 aveva accolto il ricorso
dell’appellante contro la decisione della commissione centrale che aveva negato
lo status di rifugio politico ritenendo irrilevanti i motivi di timore
rappresentanti dal richiedente di subire persecuzioni in caso di prestazione del
servizio militare, ad opera di oppositori islamisti del regime politico
algerino, in quanto tali minacce
non sarebbero provenienti da agenti statuali.
Il Consiglio di
Stato respinge il ricorso presentato dall’Amministrazione dell’Interno
affermando che “la sussistenza di gravi e conosciuti conflitti interni (non
necessariamente implicanti vera e propria guerra civile) possono costituire
presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato politico quando la
situazione socio-politica del paese pur a regime democratico, renda plausibile
il rappresentato pericolo per l’incolumità del singolo cittadino”.
La questione dei
“responsabili” o “agenti” della persecuzione, peraltro, è stata
considerata dalla Direttiva
europea n. 2004/83, recepita in Italia con il d.lgs. n. 251/2007, il cui art. 5
prevede che ai fini della valutazione della domanda di protezione
internazionale, i responsabili della persecuzione possano essere, oltre agli agenti statali o soggetti come
partiti o organizzazioni controllanti lo Stato o una parte consistente del
territorio, anche soggetti non statuali, qualora le strutture statuali o
controllanti lo Stato o il suo territorio, comprese le organizzazioni
internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione.
LAVORO
La Corte
Costituzionale non entra nel merito della legittimità costituzionale della
norma del 1931 che impedisce agli stranieri extracomunitari di accedere ai
rapporti di impiego nelle imprese del trasporto pubblico locale.
Corte
Costituzionale, ordinanza n. 71 dd. 13 marzo 2009
Con l’ordinanza n. 71 del 13 marzo 2009, la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile il quesito di legittimità costituzionale dell’art. 19 comma 1 numero 1) dell’allegato A del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148 che prevede il requisito della cittadinanza italiana per l’ammissione in prova nei rapporti di impiego presso le imprese del trasporto pubblico locale.
Tale quesito era
stato sottoposto alla Corte costituzionale con ordinanza del giudice del lavoro
del Tribunale di La Spezia (ordinanza 29 maggio 2008, n. 310) . La remissione
degli atti alla Corte costituzionale era stata richiesta dal giudice solo con
riferimento all’istanza per la condanna al risarcimento del danno subito
dall’interessato a causa del rifiuto dell’azienda di trasporto pubblico locale
a prendere in considerazione una richiesta di assunzione, non potendosi
addivenire ad un obbligo di assunzione per via giudiziale.
La Corte fa rilevare tuttavia che la condotta di un soggetto può essere assunta a fonte di responsabilità civile solo se, nel momento in cui viene posta in essere, sussisteva un preciso obbligo giuridico sancito da una norma conoscibile dall’agente (sentenza n. 202/1991). Una sentenza di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte non può far ritenere illecito il comportamento tenuto anteriormente alla sentenza medesima sulla base di una norma dichiarata illegittima; principio questo affermato dalla giurisprudenza di Cassazione (sez. lavoro 13 novembre 2007, n. 23565). Di conseguenza, la questione di illegittimità costituzionale risulterebbe irrilevante nel giudizio principale per il quale e per le cui motivazioni è stata sollevata.
Dispiace che la Corte costituzionale non sia entrata nel merito di una questione assai rilevante sotto il profilo dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione nell’accesso al lavoro per gli immigrati regolarmente soggiornanti nel nostro Paese.
Per un approfondimento sulla questione si veda Newsletter progetto Leader n. 7/2007 e n. 11/2007 (parere UNAR)
MINORI
Rilascio del permesso di soggiorno per motivi di
studio o di lavoro al minore straniero non accompagnato al raggiungimento della
maggiore età. Equiparazione del
minore sottoposto a tutela ed inserito in una comunità familiare o in un
istituto pubblico o privato al minore
sottoposto ad affidamento. Necessità del rilascio del permesso di
soggiorno.
Consiglio
di Stato, sez. VI, Decisione n. 1569 dd. 17 marzo 2009
Il Consiglio di
Stato ha affermato il diritto del cittadino straniero giunto in Italia durante la minore età e non accompagnato
dai genitori, per il quale sia stata aperta una tutela e sia stato disposto
l’inserimento in una comunità familiare ovvero in un istituto di assistenza
pubblico o privato, di ottenere la conversione del permesso di soggiorno per
minore età ad un permesso di soggiorno per motivi di lavoro o studio al momento
del raggiungimento della maggiore età.
Il Consiglio di
Stato si richiama alla nota sentenza della Corte Costituzionale 5 giugno 2003,
n. 198 relativa alla formulazione dell’art. 32 del d.lgs. n. 286/98 vigente
prima delle modifiche apportate con la legge n. 189/2002.
LAVORO STAGIONALE
(conversione)
Il Tar Emilia
Romagna ribadisce la propria linea interpretativa, secondo cui il permesso di
soggiorno per motivi di lavoro stagionale non può essere immediatamente
convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, ma
richiede l’attivazione da porte dell’interessato delle procedure volte ad
ottenere il rilascio dell’autorizzazione da parte del locale ufficio
provinciale del lavoro, una volta verificata la disponibilità delle quote di
ingresso in Italia secondo il decreto annuale dei flussi di cui all’art. 29 del
Regolamento al T.U. immigrazione.
TAR
Emilia Romagna, Sez. I, Sentenza n. 260 del 13 marzo 2009
L’art. 24 del T.U. immigrazione prevede la possibilità per il titolare del permesso di soggiorno per motivi di lavoro stagionale, che abbia usufruito del medesimo titolo di soggiorno per il secondo anno consecutivo, di convertirlo in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, in presenza delle condizioni stabilite. Conformemente all’art. 38 c. 7 del d.P. R. n. 394/99, tali requisiti sono stati individuati in un’offerta di contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, nonché nella presenza di una disponibilità all’interno delle quote annuali di ingresso in Italia stabilite dal decreto flussi.
Le incertezze applicative dell’art. 24 del T.U. hanno aperto la strada a numerosi contenziosi riguardanti in particolare i seguenti aspetti:
a) se il diritto alla conversione può ritenersi automatico in presenza di un’offerta di lavoro subordinato e, dunque, debba ritenersi illegittimo l’ulteriore requisito del limite della quota flussi, non previsto dal T.U. , ma introdotto in sede di regolamento;
b) se la previsione regolamentare della necessità del soddisfacimento del requisito della quota flussi deve comportare il rientro dello straniero nel paese di origine ai fini del rilascio di un nuovo visto di ingresso, previa attivazione della procedura di autorizzazione al lavoro presso il locale ufficio provinciale del lavoro ovvero sia sufficiente che lo straniero presenti istanza di conversione del permesso di soggiorno in questura munito della suddetta autorizzazione rilasciatagli dall’ufficio provinciale del lavoro;
c) se sia onere dello straniero interessato rivolgersi all’ufficio provinciale del lavoro per ottenere l’autorizzazione nell’ambito della quota flussi ovvero tale onere ed adempimento di verifica debba spettare alla P.A..
La giurisprudenza amministrativa richiamata dalla sentenza del TAR Emilia Romagna non appare del tutto univoca al riguardo. Il TAR Emilia Romagna sembra sposare la linea interpretativa più rigida e restrittiva, affermando che sia onere gravante solo sullo straniero interessato quello di procurarsi l’attestazione di soddisfacimento del requisito di rientro nel sistema delle quote di ingresso, che deve necessariamente corredare l’istanza di rilascio del permesso di soggiorno. Su tale linea interpretativa conviene il TAR Piemonte con la sentenza n. 13/2007, mentre per il TAR Veneto, si tratterebbe di un onere quanto meno ripartito, poiché spetterebbe all’Amministrazione invitare il richiedente a procurarsi la relativa certificazione prima di emettere un provvedimento di diniego (TAR Veneto, sez. III n. 3914/06).
Non appare comunque condivisibile quanto accennato dal TAR Emilia Romagna nella presente sentenza secondo cui il richiamo al meccanismo delle quote di ingresso farebbe intendere l’attivazione delle ordinarie procedure “che comportano il rientro dello straniero nello Stato di appartenenza”. La normativa infatti prevede un’ipotesi di conversione del permesso di soggiorno da parte della competente questura in presenza dei requisiti e delle condizioni richieste, senza dunque la necessità che lo straniero rientri nello Stato di appartenenza per il rilascio di un nuovo visto di ingresso.
PERMESSO DI SOGGIORNO
1. Il
provvedimento di revoca o di rifiuto al rilascio del permesso di soggiorno
dello straniero che abbia commesso reati collegati al traffico o spaccio di
stupefacenti non è automatico qualora l’interessato abbia fatto ingresso in
Italia per motivi di ricongiungimento familiare, in quanto la questura è
obbligata a tenere conto dei vincoli familiari dell’interessato, dell’esistenza
di legami sociali e familiari con il paese di origine e della durata del suo
soggiorno in Italia. Questo a prescindere dalla natura del permesso di
soggiorno attualmente in possesso dello straniero.
TAR
Friuli-Venezia Giulia, sentenza n. 114/2009
E’ illegittimo il
provvedimento della questura di diniego al rinnovo del permesso di soggiorno
emesso nei confronti di una cittadina serba condannata per il reato di spaccio
di sostanze stupefacenti. Il TAR
F.v.g. rileva infatti che la questura aveva erroneamente ritenuto che
l’espulsione dello straniero condannato per reati collegati al traffico di
stupefacenti fosse da ritenersi automatica anche nei confronti dello straniero
che una volta fatto ingresso in Italia per motivi di ricongiungimento
famigliare, successivamente avesse acquisito un diverso titolo di soggiorno,
nella fattispecie per motivi di lavoro. Il TAR rileva invece che la norma di
cui all’ultimo paragrafo dell’art. 5 comma 5 del d.lgs. n. 286/98, secondo la
quale “nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio , di revoca o di
diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato
il diritto al ricongiungimento familiare
ovvero del familiare ricongiunto, si tiene conto della natura e
effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami
familiari e sociale con il paese di origine, nonché, anche della durata del suo
soggiorno sul territorio nazionale”,
non si riferisce solo ai titolari di permessi di soggiorno per motivi di
famiglia, ma richiede unicamente che tale sia stato il motivo dell’ingresso in
Italia, indipendentemente dagli sviluppi successivi del titolo di soggiorno.
Nella fattispecie
il caso è stato quello di una cittadina serba giunta in Italia all’età di 10
anni per ricongiungimento famigliare con i genitori e che dunque ha trascorso
più della metà della sua esistenza nel nostro paese piuttosto che in quello di
origine.
2. E’
illegittimo il diniego al rilascio del visto di reingresso da parte delle
autorità consolari italiane all’estero nei confronti di un cittadino straniero
che non abbia ritirato il suo permesso di soggiorno in ragione di comprovati
motivi di salute che lo hanno indotto precedentemente a fare ritorno nel suo
paese di origine. L’amministrazione è tenuta in questi casi a valutare le
ragioni per cui l’interessato non ha provveduto al ritiro del permesso di
soggiorno e non può procedere automaticamente.
TAR
Lazio, Sez. I quarter, Sentenza n. 2085 del 27 febbraio 2009
Il TAR Lazio
giunge a queste conclusioni richiamandosi al fatto che l’allontanamento dal
territorio nazionale costituisce esercizio di una facoltà espressamente
riconosciuta dallo straniero dagli artt. 8 e 14 del d.P.R.
n. 394/99, così come l’art. 13 c. 4 del medesimo regolamento indica che gravi e
comprovati motivi possono essere causa giustificatrice legittima dell’assenza
dello straniero dall’Italia.
DOCUMENTI,
RAPPORTI E RISOLUZIONI DI ORGANISMI NAZIONALI ED INTERNAZIONALI |
PARLAMENTO EUROPEO
Risoluzione 02 aprile 2009, Risoluzione del Parlamento
sulla proposta di direttiva del Consiglio recante applicazione del principio di
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione o le
convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale
Il testo della
Risoluzione del Parlamento europeo in merito alla proposta di direttiva
avanzata dalla Commissione europea al Consiglio che si prefigge di estendere il
divieto di discriminazione fra le persone in ragione della religione o delle
convinzioni personali, della disabilità, dell’età o dell’orientamento sessuale
anche fuori dall’ambito lavorativo, come invece attualmente previsto dalla
direttiva europea n. 2000/78/CE.
Per approfondimenti: http://www.olir.it/news/archivio.php?id=1915
CONSIGLIO
D’EUROPA
Rapporto del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa sull’Italia.
A seguito della sua
visita in Italia del 13-15 gennaio 2009, il Commissario ai diritti umani del
Consiglio d'Europa, Thomas
Hammarberg, ha reso noto il suo
rapporto sull'Italia a proposito delle tematiche del trattamento dei Rom e Sinti, dei fenomeni della
xenofobia e del razzismo, delle
espulsioni contrarie alla Carta europea dei diritti fondamentali e del
trattenimento nei CIE.
Il rapporto include
anche le controdeduzioni inviate
dal Governo italiano.
Sono disponibili le due versioni:
- inglese
-francese
LIBERTA’
DI CIRCOLAZIONE NELL’UNIONE EUROPEA
Pubblicato il Report sulle attività dei
centri nazionali SOLVIT per l’anno 2008.
Scarica il
Report in lingua inglese
SOLVIT è una rete europea per la risoluzione di problemi online, in cui gli Stati membri collaborano per risolvere concretamente i problemi derivanti dall'applicazione scorretta delle norme sul mercato interno da parte delle amministrazioni pubbliche. Presso il centro SOLVIT, persone fisiche ed imprese possono sottoporre quesiti e reclami connessi ad una scorretta applicazione delle norme del diritto comunitario in Italia relative alla libertà di circolazione e di insediamento. SOLVIT è un servizio gratuito. Esiste un centro SOLVIT in ogni Stato membro dell’Unione Europea (come pure in Norvegia, Islanda e Liechtenstein).
Il Centro SOLVIT italiano opera presso: Presidenza del Consiglio dei Ministri Tel: +39 06 6779 5844 www.politichecomunitarie.it/servizi/?c=solvit
|
ASILO
Pubblicato il Rapporto dell’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sui trend dei richiedenti asilo nel
continente europeo nell’anno 2008. Dati statistici ed analisi.
Il
testo integrale del rapporto
ROM E SINTI
Rapporto
dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali sugli incidenti e
gli attacchi contro la popolazione Rom nel quartiere di Ponticelli a Napoli,
COSPE Firenze, RAXEN Focal Point for Italy.
RAPPORTO INPS: IMMIGRAZIONE E PREVIDENZA
Pubblicato il Rapporto III° Rapporto su
immigrati e previdenza negli archivi INPS curato dall’INPS con la
collaborazione del Dossier statistico Immigrazione Caritas/Migrantes:
“Diversità culturale, identità di tutela”.
Il
testo integrale del Rapporto
APPENDICE DI APPROFONDIMENTO E
DISCUSSIONE |
L’accesso agli impieghi pubblici dei cittadini di paesi terzi non
appartenenti all’Unione Europea familiari di cittadini dell’Unione Europea
regolarmente soggiornanti in Italia, dei rifugiati politici nonché dei familiari di cittadini
italiani. A cura di
Walter Citti, segreteria ASGI Come è largamente noto, in virtù di un consolidato orientamento interpretativo da parte ministeriale, e malgrado una consistente giurisprudenza di merito di segno contrario a tale orientamento, i cittadini extracomunitari sono esclusi dagli impieghi pubblici e nei loro confronti sono ritenute ancora applicabili le norme di cui al D.P.C.M. 7.02.1994, n. 174 e all’art. 38 del d.lgs. n. 165/2001, che prevedono la sola eccezione per i cittadini dell’Unione Europea al divieto di accesso degli stranieri al pubblico impiego . Per quanto concerne i cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea, il citato art. 38 del d.lgs. n. 165/2001 ha stabilito il diritto di accesso ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche con l’eccezione di quegli impieghi che implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero attengono alla tutela dell’interesse nazionale. Tali impieghi sono specificati nel citato D.P.C.M. n. 174/1994. L’accesso
agli impieghi pubblici dei cittadini di paesi terzi non appartenenti
all’Unione Europea famigliari di cittadini dell’Unione Europea regolarmente
soggiornanti in Italia. Non risulta, peraltro, che le citate normative, né altre disposizioni anche a carattere amministrativo abbiano mai affrontato la situazione giuridica dei famigliari extracomunitari di cittadini dell’Unione Europea regolarmente residenti in Italia. Sotto il profilo del diritto interno, infatti, le citate disposizioni non si sono conformate a quanto già previsto dagli art. 3 comma 1 e art. 11 del Regolamento comunitario n. 1612/68 che prevedono il trattamento non discriminatorio nel campo dell’accesso al lavoro a favore dei famigliari dei cittadini comunitari che esercitino il diritto alla libera circolazione e che richiedono dunque l’applicazione nei confronti di tali persone, anche se di cittadinanza di paesi terzi non appartenenti all’Unione Europea, delle stesse disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che si applicano ai cittadini nazionali in materia di accesso al lavoro e al suo esercizio. Ogni dubbio sulla legittimità dell’estensione anche ai famigliari di cittadini dell’Unione europea residenti in Italia, anche se di cittadinanza di paesi extracomunitari, dell’accesso al pubblico impiego, appare fugato dopo l’entrata in vigore della direttiva europea n. 2004/38 in materia di libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea e dei loro famigliari, recepita in Italia con il d.lgs. n. 30/2007. L’art. 23 della direttiva infatti prevede: “I famigliari del cittadino dell’Unione, qualunque sia la loro cittadinanza, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente in uno Stato membro hanno diritto di esercitare un’attività economica come lavoratori subordinati o autonomi”. L’art. 24 sancisce il principio di parità di trattamento a favore dei cittadini dell’Unione e dei loro famigliari: “Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell’Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai famigliari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente”. La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea aveva già chiarito con la sentenza Emir Guel contro Germania dd. 7 maggio 1986 (Causa n. 131/85) che il coniuge del lavoratore comunitario che abbia esercitato il diritto alla libera circolazione gode del principio di non discriminazione nell’accesso al lavoro, previsto per i lavoratori comunitari, qualunque sia la sua cittadinanza e nei suoi confronti si applicano le stesse disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative che si applicano ai cittadini nazionali (il caso in questione riguardava il divieto di accesso alla professione di medico in una struttura pubblica in Germania di un cittadino cipriota coniugato con una cittadina britannica residente in Germania). Tali principi di diritto comunitario di parità di trattamento nell’accesso all’esercizio di attività lavorativa a favore dei cittadini dell’Unione e dei loro famigliari sono stati pienamente recepiti nel d.lgs. n. 30/2007. All’art. 19 si afferma: “ 1. I cittadini dell’Unione e i loro famigliari hanno diritto di esercitare qualsiasi attività economica autonoma o subordinata, escluse le attività che la legge, conformemente ai Trattati dell’Unione europea ed alla normativa comunitaria in vigore, riserva ai cittadini italiani. 2. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal Trattato CE e dal diritto derivato, ogni cittadino dell’Unione che risiede, in base al presente decreto, nel territorio nazionale, gode di pari trattamento rispetto ai cittadini nazionali nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai famigliari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente”. Sulla base del primato del diritto comunitario su quello interno, e dell’immediata applicabilità delle sentenze interpretative della CGE, nonché dei principi generali dell’interpretazione e della successione delle leggi nel tempo di cui all’art. 15 delle disposizioni preliminari al C.C., si ritiene che le disposizioni di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 30/2007 integrino e modifichino a tutti gli effetti quanto previsto dalle norme sul pubblico impiego e dall’art. 38 del d.lgs. n. 165/2001. Di conseguenza, si conclude che anche ai famigliari di cittadini degli Stati membri dell’Unione europea regolarmente residenti in Italia, qualunque sia la loro cittadinanza, se in possesso della carta di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, debba essere consentito l’accesso agli impieghi pubblici alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per i cittadini dell’Unione europea (comma 3: godimento dei diritti civili e politici nello Stato di appartenenza, conoscenza adeguata della lingua italiana), pena la violazione degli obblighi comunitari e l’esposizione del nostro paese ad una procedura di infrazione. L’accesso
agli impieghi pubblici dei cittadini di paesi terzi famigliari di cittadini
italiani. L’art. 23 del d.lgs. n. 30/2007 prevede l’estensione delle norme previste dal decreto attuativo della direttiva europea in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari e loro famigliari anche ai famigliari di cittadini italiani non aventi la cittadinanza italiana.[1] Dal significato letterale della norma ne deriverebbe un’interpretazione della equiparazione della condizione dei famigliari dei cittadini italiani a quella dei famigliari di cittadini comunitari estensibile a tutte le disposizioni contenute nel decreto e non solo a quelle in materia di soggiorno. Pertanto, anche i famigliari dei cittadini italiani godrebbero del principio di parità di trattamento nell’accesso alle attività lavorative, salvo quelle attività escluse ai cittadini dell’Unione europea conformemente alla normativa comunitaria. Ne conseguirebbe l’estensione anche ai famigliari extracomunitari di cittadini italiani dell’accesso al pubblico impiego fatte salve le limitazioni di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 165/2001 e al D.P.C.M. n. 174/1994. L’accesso
agli impieghi pubblici dei cittadini di paesi terzi titolari della qualifica
di rifugiati politici o della protezione sussidiaria. L’art. 25 del d.lgs. n. 251/2007, attuativo della Direttiva europea n. 2004/83/CE (“Norme minime sull’attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”) ha espressamente esteso ai cittadini stranieri titolari dello status di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 l’accesso al pubblico impiego ("2. E’ consentito al titolare dello status di rifugiato l’accesso al pubblico impiego, con le modalità e le limitazioni previste per i cittadini dell’Unione Europea”). Avendo in considerazione l’impossibilità per il rifugiato politico di rivolgersi alle autorità consolari del paese di provenienza per ottenere la certificazione del godimento dei diritti civili e politici nello Stato di appartenenza e in ragione dell’obbligo di assistenza amministrativa ai rifugiati di cui all’art. 25 della Convenzione di Ginevra del 1951 (“Allorquando l’esercizio di un diritto da parte di un rifugiato richiederebbe normalmente il concorso di autorità straniere, alle quali non può ricorrere, gli Stati contraenti sul territorio dei quali risiede, faranno in modo che questo concorso gli sia fornito dalle loro stesse autorità, sia da una autorità internazionale”), si mantiene che il rifugiato dovrebbe essere esentato dall’obbligo di provare il godimento dei diritti civili e politici nello Stato di provenienza, fermo restando la sua esclusione dagli impieghi pubblici in caso di commissione di reati penali che prevedano la medesima esclusione per il cittadino italiano. Si provvede a tale annotazione, rilevando dall’esame dei bandi di concorso pubblici indetti dalle Amministrazioni centrali dello Stato, quanto dalle Amministrazioni regionali e dagli Enti locali (ad es. www.concorsi.it) che la questione del diritto all’accesso ai medesimi tanto dei famigliari di cittadini comunitari o italiani, qualunque sia la loro cittadinanza, quanto dei rifugiati politici, è completamente ignorata, con evidente omissione degli obblighi scaturenti da precise norme di diritto comunitario ed interno. Sarebbe, pertanto, auspicabile una presa di coscienza della questione da parte dei competenti Ministeri nazionali interessati (Funzione Pubblica, Politiche Europee, Lavoro ), nonché, per quanto di competenza, delle Regioni. |
Newsletter a cura di Walter Citti e Silvia
Canciani – Segreteria ASGI
Per contatti : Sedi organizzative :Udine, via S. Francesco, 39 33100 - Tel. Fax:
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Fabio Severo, 31 34100 - Tel/Fax: 040/368463 walter.citti@asgi.it
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[1] Tale norma deve intendersi quale espressione del divieto di “discriminazioni a rovescio”. Con due importanti sentenze, la Corte Costituzionale ha infatti stabilito che, in caso di deteriore trattamento della situazione puramente interna rispetto a quella applicabile all’omologa situazione disciplinata dal diritto comunitario, alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, la posizione soggettiva garantita dal diritto comunitario sarà l’elemento su cui misurare anche la disciplina riservata alla situazione nazionale (Corte Costituzionale, sent. 16.06.1995, n. 249; Corte Cost., sent. 30.12.1997, n. 443). In altri termini il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione vieta le “discriminazioni a rovescio”, quelle cioè che si verificherebbero in danno del cittadino italiano quando, per effetto di una norma comunitaria, una persona o un soggetto comunitario godrebbe in Italia di un trattamento più favorevole di quello previsto in una situazione analoga per il cittadino o soggetto nazionale in virtù della norma di diritto interno. In sostanza, la ratio dell’art. 23 del d.lgs n. 30/2007 sembra essere quella di evitare che il famigliare del cittadino comunitario goda di un trattamento più favorevole rispetto al famigliare del cittadino italiano, con evidente pregiudizio anche per quest’ultimo, visto che la famiglia è certamente uno degli ambiti più rilevanti per l’affermazione della propria personalità.