Newsletter ASGI n. 4
Rassegna di segnalazioni normative e
giurisprudenziali
a cura dell’Associazione Studi Giuridici
sull’Immigrazione
27 aprile 2010
IN EVIDENZA
La scuola per l'infanzia va garantita a tutti i
minori in condizioni di parità
Il Ministero dell’Interno ha confermato che alla luce delle norme vigenti, i minori
stranieri sul territorio, indipendentemente dalla regolarità del soggiorno,
hanno diritto all’istruzione nelle scuole di ogni ordine e grado. Non sussiste
alcun obbligo per il comune di Torino, o per altri uffici pubblici, di
segnalare alle Autorità competenti la situazione di irregolarità dei genitori
dei minori da iscrivere alla scuola dell'infanzia. È quanto ha precisato il prefetto di Torino Paolo
Padoin in seguito alla questione sollevata dall'Assessore alle politiche
educative del comune di Torino, sulla necessità, da parte dei genitori di
esibire il permesso di soggiorno per iscrivere il minore straniero alla scuola
per l'infanzia, con conseguente obbligo di denuncia da parte del Comune dei
bambini iscritti alle scuole materne dei figli di immigrati irregolari o
clandestini.«Il ministero dell'Interno - precisa il prefetto di Torino - ha
concordato con l'avviso espresso da questa prefettura secondo cui alla luce
delle norme vigenti, ed in particolare dell'articolo 38 del T.U. Immigrazione e
dell'art.45 del D.P.R. 349/99, i minori stranieri presenti sul territorio,
indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno, hanno diritto
all'istruzione nelle scuole di ogni ordine e grado»Successivamente, anche nel
caso delle iscrizioni ai nidi della città di Bologna, il Ministero dell’Interno
ha risposto al quesito posto dal Comune della città circa la
documentazione necessaria per l’iscrizione ai nidi d’infanzia.
Il Ministero ha accolto l’orientamento espresso
dall’Amministrazione Comunale secondo il quale – alla luce del fatto che
in Emilia Romagna gli asili nido sono definiti come “servizi educativo-sociale
d’interesse pubblico” – non vi è l’obbligo di esibire il permesso
di soggiorno per i cittadini di Paesi non membri dell’Unione Europea
residenti in città.
OSSERVATORIO CONTRO LE
DISCRIMINAZIONI
1. Tribunale di Brescia: Discriminatorie le restrizioni
all'iscrizione anagrafica degli stranieri attuate dal comune di Montichiari
Nuova ordinanza del Tribunale di Brescia contro provvedimenti
discriminatori degli enti locali del bresciano nei confronti di cittadini
stranieri. Accolto il ricorso presentato dall'ASGI.
È arrivata prima del previsto la sentenza del tribunale di Brescia
sulla gestione dell'iscrizione all'anagrafe dei cittadini stranieri attuata dal
Comune di Montichiari. E si tratta di un pronunciamento che «bacchetta» senza
attenuanti la Giunta guidata dal sindaco di «fede» leghista Elena Zanola. I
giudici hanno accertato di fatto il «carattere discriminatorio» della famosa,
anzi famigerata, circolare diramata per regolamentare la concessione della
residenza agli immigrati regolari. L'ACCOGLIMENTO del ricorso presentato da uno
straniero residente dal paese della Bassa, dall'Associazione studi giuridici
sull'immigrazione e dalla Fondazione Piccini potrebbe fare giurisprudenza e
costringere molti enti pubblici guidati dal Carroccio a rivedere le norme di
accesso alle liste dell'anagrafe. Il sistema di Montichiari è infatti diventato
un modello per altri Comuni. Ieri mattina il dispositivo della sentenza è stato
reso pubblico, mentre la sentenza per intero sarà disponibile solo a partire da
domani. IL CASO ERA SCOPPIATO ai primi di marzo, quando fondazione Piccini e
Asgi avevano puntato il dito contro un'ordinanza comunale nella quale venivano
elencati i documenti da esibire da parte dei cittadini stranieri per la
richiesta di iscrizione all'anagrafe, tra i quali l'ultima busta paga, il Cud e
una copia del contratto di lavoro. Poco più di un mese dopo il tribunale di
Brescia, nella persona del giudice Cesare Massetti, ha dato ragione ai
ricorrenti, ordinando al comune di non tenere conto di quell'ordinanza «ai fini
delle richieste di iscrizione all'anagrafe della popolazione residente» poiché
la medesima «contempla dei requisiti non previsti dalla legge». Il tutto
richiamandosi alla «parità di trattamento tra straniero e cittadino italiano in
materia di diritti civili». Ma non è finita, perché il tribunale ha ordinato al
comune «di iscrivere alla suddetta anagrafe il ricorrente a partire dal 30
giugno 2009», vale a dire con effetto retroattivo di quasi un anno, condannando
infine l'amministrazione al pagamento delle spese processuali per un ammontare
complessivo di 4.500 euro. «In attesa di leggere il testo integrale della
sentenza - commenta l'avvocato Alberto Guariso dell'Asgi -, non possiamo che
esprimere la nostra piena soddisfazione. Le restrizioni imposte agli immigrati
stranieri da parte del comune erano palesemente assurde. Come dice chiaramente
la legge, il permesso di soggiorno è documento necessario e sufficiente per
l'iscrizione all'anagrafe. Qualsiasi ulteriore imposizione, oltre a violare la
dignità degli immigrati, è da ritenersi discriminatoria. Tra l'altro non si
capisce come possa giovare alla sicurezza osteggiare la concessione della
residenza ai cittadini stranieri. In questo modo si creano dei fantasmi che
sfuggono a ogni tipo di controllo». Soddisfatto anche Damiano Galletti,
segretario provinciale della Cigl. «È l'ennesima dimostrazione che le ordinanze
dei comuni leghisti sono anticostituzionali e prive di fondamento giuridico». Fonte:
Brescia oggi, quotidiano di Brescia
2. Il Sindaco del Comune di San Martino di Lupari
(PD): ospitalità agli stranieri solo se l'alloggio è idoneo
Ordinanza discriminatoria del Sindaco leghista di un
comune del padovano. L'ASGI scrive all'UNAR e annuncia ricorsi.
Con ordinanza n. 8 dell'11 febbraio 2010, il
Sindaco del Comune di San Martino di Lupari (prov. di Padova) ha disposto
che la segnalazione dell' ospitalità di un cittadino comunitario o
extracomunitario sia sottoposta all'esibizione di documentazione aggiuntiva
rispetto a quella prevista dall'art. 7 del d.lgs. n. 286/98 e
specificatamente il titolo di proprietà o possesso dell'alloggio ed il
certificato di idoneità alloggiativa. Inoltre, con l'ordinanza viene previsto
un divieto di ospitalità del cittadino straniero per un periodo superiore ai
trenta giorni, se le persone coabitanti risultano in eccesso rispetto al
numero delle persone previsto dal certificato di idoneità dell'alloggio, con
l'applicazione di una sanzione amministrativa in caso di
trasgressione.L'ASGI ritiene che la suddetta ordinanza sia palesemente
illegittima per straripamento dei poteri di ordinanza del Sindaco di cui
all'art. 54 del T.U.E.L. in quanto in materia di sicurezza pubblica i
poteri esercitabili dal Sindaco possono essere finalizzati esclusivamente
all'attività di prevenzione e repressione dei reati (Corte Cost. sent.
383/2005, n. 237 e 222/2006) mentre l'eventuale prevenzione del fenomeno degli
sovraffollamenti degli alloggi, indicato dal Sindaco come ragione
dell'ordinanza, non rientra certo in tale casistica. Ugualmente appare
palesemente arbitrario ed incostituzionale intervenire con ordinanza del
Sindaco in una materia suscettibile di incidere su libertà e diritti
umani fondamentali quali quelli del rispetto della vita privata e
familiare e della libertà di circolazione; ambiti che ammettono limitazioni ed
ingerenze solo se previste da leggi (e l'ordinanza sindacale certo non lo
è) ed in conformità con precisi standard internazionali (art. 8 CEDU).
Ulteriormente, l'ASGI ritiene che l'ordinanza violi il
principio di uguaglianza e di non discriminazione, in quanto viene a
discriminare direttamente i cittadini stranieri nel godimento del diritto alla
vita privata e di relazione qualora essi si trovino nella situazione di persona
ospitata, e li discrimina indirettamente qualora essi si trovino nella
posizione di persona ospitante, in quanto sebbene la disposizione
comunale formalmente si rivolge a tutti gli abitanti nel territorio comunale,
siano essi cittadini italiani o stranieri, è certamente suscettibile di
incidere maggiormente ed in misura sproporzionata sui cittadini stranieri,
perché è più probabile che siano essi a volere ospitare temporaneamente loro
connazionali stranieri.
L'ASGI ha segnalato
l'ordinanza all'UNAR chiedendo se intenda raccomandare
al Prefetto di Padova l' esercizio dei poteri di annullamento
dell'ordinanza sindacale in oggetto in base alle disposizioni del T.U.E.L. In
ogni caso, l'ASGI ha annunciato ricorso alle vie legali contro l'ordinanza.
Ordinanza
del Sindaco di San Martino di Lupari dd. 11.02.2010 n. 8 (792.39 KB)
3. TAR Lombardia: E’ illegittima l’ordinanza
comunale di sgombero di un gruppo di Sinti perché non sussistono i requisiti di
minaccia alla salute e alla sicurezza pubblica
I poteri di ordinanza devono far fronte a reali
situazioni contingibili di pericolo e di emergenza. La precarietà abitativa di
gruppi di Sinti deve essere affrontata nel rispetto dei loro diritti
fondamentali e con gli strumenti legislativi ordinari (TAR Lombardia, n.
981/2010).
Segna un precedente giurisprudenziale assai
importante per la causa dei diritti dei Rom e dei Sinti in Italia, la sentenza
pronunciata dal TAR Lombardia, sez. III, n. 981/2010 (dd. 06.04.2010) che ha
annullato l'ordinanza del Sindaco del Comune di Gambolò volta ad ordinare lo
sgombero di un gruppo di Sinti cittadini italiani, insedianti con le loro
roulottes da almeno tre decenni in un'area periferica del Comune.
Il Sindaco del predetto Comune aveva ordinato
ai Sinti di liberare l'area, sulla base dei rapporti della Polizia locale che
avevano indicato la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie
dell'insediamento.
Il Sindaco aveva dunque invocato gli artt. 50 comma
5 e 54 del D.lgs. n. 267/2000, come modificato dal D.L. n. 92/08,
sostenendo che l' allontanamento del gruppo di Sinti poteva essere
giustificato da motivi di tutela della salute pubblica e della sicurezza
urbana.
Accogliendo il ricorso inoltrato dai Sinti medesimi,
il TAR Lombardia ha invece sostenuto che i poteri di ordinanza del Sindaco per
motivi di tutela della salute pubblica, di cui all'art. 50 comma 5 d.lgs. n.
267/2000, possono essere giustificati solo da circostanze imprevedibili
all'origine di vere e proprie emergenze igienico sanitarie non fronteggiabili
con mezzi ordinari (Consiglio di Stato, sez. V. sentenza n. 868 dd.
16.02.2010). Nell'ordinanza sindacale, invece, i paventati pericoli per
la salute dei residenti, indotti, secondo il Sindaco di Gambolò,
dall'insediamento dei Sinti, non risultavano minimamente accertati
e documentati, rilevandosi soltanto una situazione di precarietà igienica dei
luoghi, che ben può essere affrontata con mezzi ordinari.
Ugualmente, il TAR Lombardia rileva che l'adozione
dell'ordinanza di allontanamento non poteva nemmeno essere giustificata da
motivi di sicurezza urbana. Anche dopo le modifiche introdotte dal
decreto-legge n. 92/2008 ed i nuovi poteri attribuiti ai Sindaci in materia,
il potere di ordinanza sindacale ai sensi del nuovo art. 54 del
d.lgs. n. 267/2000 deve sempre riferirsi alla tutela della sicurezza
pubblica, intesa come un'attività di prevenzione e repressione dei reati
penali, come indicato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost., n.
196/2009), escludendosi invece gli ambiti di riferimento della polizia
amministrativa locale.
Di conseguenza, la presenza di situazioni di degrado
o marginalità urbane, incuria o occupazione abusiva di immobili, di alterazione
del decoro urbano, richiamate dal D.M. 5 agosto 2008, non possono giustificare
di per sé l'attribuzione dei poteri di ordinanza del Sindaco, se non
viene dimostrato il nesso con fenomeni di criminalità suscettibili
di minare la sicurezza pubblica e la capacità obiettiva di tali situazioni
di degrado di determinare situazioni contingibili ed immediate di
pericolo per la collettività. Altrimenti, il potere di ordinanza dei Sindaci
sarebbe suscettibile di incidere su diritti individuali fondamentali in
modo assolutamente indeterminato e al di fuori delle garanzie costituzionali e
internazionali.
Il Comune di Gambalò non avrebbe
sufficientemente motivato in ordine ai paventati pericoli immediati per
l'incolumità o la sicurezza pubblica derivanti dalla presenza
dell'insediamento di Sinti sul proprio territorio e pertanto l'ordinanza
sindacale appare illegittima per carenza di motivazione e di istruttoria.
La sentenza del TAR Lombardia sottolinea infine che,
anche alla luce della consolidata presenza della comunità Sinti sul territorio
del comune di Gambolò da almeno tre decenni, la questione dovrebbe essere
oggetto di accurata ponderazione, tenendo conto del rispetto dei diritti
fondamentali degli appartenenti alla comunità Sinti e del necessario
bilanciamento con l'interesse pubblico, anche alla luce degli strumenti
istruttori e partecipativi previsti tanto dalla legge n. 241/90 quanto dalla
legge regionale n. 77/1989 in materia di interventi per le popolazioni nomadi.
Il Comune di Gambolò è stato anche condannato al
pagamento delle spese legali.
a cura di Walter Citti
Tar
Lombardia, sentenza n. 981 dd. 06.04.2010 (32.87 KB)
4. Circolare "Gelmini" sul tetto di
alunni stranieri nelle classi: In discussione al tribunale di Milano il ricorso
presentato dall'ASGI e da "Avvocati per Niente"
L'Avvocatura dello Stato: la circolare non ha
efficacia esterna ed il "tetto" del 30% di alunni stranieri non è
strettamente vincolante. La riflessione degli avvocati dell'ASGI.
All'udienza fissata dal Tribunale di Milano per
discutere del ricorso presentato da ASGI e Associazione "Avvocati per
niente", nonché da due mamme straniere, l'Avvocatura dello Stato ha
sostenuto che la circolare "Gelmini" costituisce soltanto un'
"indicazione" interna alla P.A. per favorire l'integrazione degli
alunni stranieri nel pieno rispetto però dell'autonomia degli istituti e dei
dirigenti regionali..
L'Avvocatura dello Stato ha precisato che "il limite previsto entrerà in
vigore in modo graduale e favorirà l'integrazione" ed il "documento
non ha un'efficacia normativa generale ed esterna e quindi non può essere
considerato atto regolamentare".
I dirigenti scolastici, pertanto, potranno innalzare il tetto del 30% di
alunni di cittadinanza stranieri, a fronte della presenza di alunni stranieri
già in possesso delle adeguate competenze linguistiche.
Il prossimo 11 maggio sarà ascoltato dal Tribunale
di Milano il dirigente dell'ufficio scolastico regionale lombardo.
L'ASGI, raccogliendo la sollecitazione di alcuni
genitori e insegnanti aveva depositato presso il Tribunale di Milano il 21.2.10
un ricorso ex art. 44 TU immigrazione contro la tanto discussa "circolare
Gelmini" che fissa il tetto del 30% per la presenza di stranieri e contro
la circolare "applicativa" dell'Ufficio Scolastico Regionale della
Lombardia.
Il ricorso è stato proposto assieme all'associazione
milanese "Avvocati per niente ONLUS" e a due mamme: una rumena e
l'altra egiziana.
Naturalmente l'oggetto del contendere non è
l'opportunità che la presenza di alunni con problemi di conoscenza della lingua
sia "armonicamente distribuita" (come dice il Ministero) su tutte le
classi: su questo obiettivo nessuno ha nulla da ridire, tanto più che già il
regolamento attuativo del TU immigrazione (DPR 394/99) , all'art. 45, prevedeva
che i consigli di classe dovessero attivarsi "evitare comunque la costituzione
di classi in cui risulti predominante la presenza di alunni stranieri" (ma si noti subito
che la norma neppure ipotizza spostamenti d'autorità tra istituti).
I problemi che gli avvocati delle associazioni
ricorrenti hanno posto sono invece altri due:
A) il primo (che attiene ai principi, ma non per
questo è meno importante) è se questo obiettivo possa essere perseguito creando
regimi differenziati di iscrizione in ragione della cittadinanza (gli italiani/gli
stranieri) e non piuttosto in ragione di un esame effettivo delle esigenze del
singolo studente, cittadino o straniero che sia. Da questo punto di vista il
criterio scelto appare non solo irrazionale (si pensi all'adottato-cittadino
che può avere problemi di lingua gravissimi e allo straniero nato e vissuto in
Italia che nel 99% dei casi non ha alcun problema linguistico) ma certamente vietato da norme sovraordinate,
alle quali il Ministero si deve attenere: l'art. 45 citato prevede infatti che
le iscrizioni dei minori stranieri avvengano "nei modi e alle
condizioni previsti per i minori italiani". Ulteriori norme a tutela
del principio di parità sono previste dall'ordinamento giuridico in relazione a
particolari categorie di minori non aventi la cittadinanza italiana, anche in
relazione ad obblighi internazionali e comunitari (quelli comunitari, i
rifugiati e gli apolidi);
B) Il secondo è invece di immediata tutela dei
diritti degli stranieri: la circolare introduce un cervellotico sistema di
"deroghe" (la scuola può fare domanda di deroga all'Ufficio Regionale e
questo può
concederla) ma in nessuna parte della circolare è scritto che - deroga o non
deroga - lo straniero deve comunque essere iscritto , se lo richiede, alla sua
scuola di bacino o comunque alla stessa scuola alla quale sarebbe stato
iscritto se fosse italiano. In mancanza di questo fondamentale chiarimento (e anzi in
presenza di affermazioni di segno opposto, specie nella circolare Regionale
della Lombardia) le norme amministrative prefigurano quindi la possibilità di
un "dirottamento" d'autorità dello straniero su altre scuole ("non
ti puoi iscrivere qui perché abbiamo già più del 30% e non abbiamo la deroga"): il che ovviamente
non è consentito da alcuna norma di legge.
Probabilmente, nella pratica, questo non
avverrà e i dirigenti si arrabatteranno a non rifiutare nessuno,
l'Ufficio Regionale interverrà, magari ex post, fingendo di rilasciare deroghe
a destra e a manca E si sarà così trovata la solita situazione
"all'italiana".
Tuttavia, secondo gli avvocati dell'ASGI e di
"Avvocati per niente" questo non è un buon motivo per accettare
passivamente che la pubblica autorità - invece di curare il risultato
concreto, prevedendo effettivi interventi di sostegno della didattica ove vi
sono problemi linguistici o di interculturalità - pretenda ancora una
volta di utilizzare la "cittadinanza" come una spada che divide
anziché come un filo di collegamento solidale.
5. La posizione della Commissione europea
sull’accesso degli stranieri di Paesi terzi non membri dell’Unione europea al
pubblico impiego.
Risposta della Commissione europea
all’interrogazione dell'europarlamentare Serracchiani (PD- APSE). In un esposto
l’ASGI aveva denunciato la sistematica violazione in Italia delle norme
comunitarie nelle procedure concorsuali per l’accesso di determinate categorie
di stranieri agli impieghi pubblici.
Esposto
ASGI alla Commissione europea in materia di accesso al pubblico impiego (86 KB)
In risposta ad un'interrogazione presentata dalla
parlamentare europea Debora Serracchiani (PD), il 26 marzo scorso la
Commissaria europea per gli Affari Interni, Sig.ra Malmström, a nome della
Commissione europea, ha precisato che le norme del diritto comunitario
garantiscono l'accesso al pubblico impiego dei cittadini di Paesi terzi
titolari dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, secondo le
norme generalmente applicabili in ciascun Stato membro agli impieghi nella
pubblica amministrazione (art. 26 c. 1 direttiva n. 2004/83/EC). Avendo
l'Italia trasposto la norma della direttiva nel diritto interno con il d.lgs.
n. 251/2007, vi è un preciso obbligo giuridico delle autorità italiane a
garantire l' accesso all'impiego pubblico dei rifugiati politici, a parità di
condizione con i cittadini di altri Paesi membri dell'UE.
Ugualmente, la Commissione europea precisa che, a
seguito dell'entrata in vigore della direttiva n. 2004/38/EC relativa al
diritto dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari alla libertà di
circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri, anche i
cittadini di Paesi terzi familiari di cittadini dell'Unione europea debbono
godere del principio di parità di trattamento con i cittadini nazionali
in materia di accesso agli impieghi pubblici, con la sola eccezione degli impieghi
che implichino l'esercizio di pubblici poteri o attengano alla tutela
dell'interesse nazionale .
Sulla base di una denuncia/dossier presentata
alla Commissione europea dall'ASGI lo scorso 31 ottobre, l'europarlamentare
Serracchiani nella sua interrogazione aveva riferito la generalizzata
inosservanza da parte delle autorità italiane delle citate norme comunitarie,
rilevando invece come in materia di concorsi pubblici, le pubbliche
amministrazioni italiane continuino a fare riferimento unicamente al D.P.C.M.
7.02.1994, n. 174 e all'art. 38 del d.lgs. n. 165/2001, che prevedono la sola
eccezione per i cittadini dell'Unione Europea al divieto di accesso degli
stranieri al pubblico impiego .
La Commissione europea, pertanto, ha assicurato che
richiederà alle autorità italiane informazioni dettagliate al riguardo.
Nella denuncia inviata alla Commissione europea lo
scorso 31 ottobre 2009, l'ASGI aveva sottolineato inoltre che il
legislatore italiano, nel recepire la direttiva europea n. 2004/83/CE, non ha
ottemperato integralmente agli obblighi scaturenti dall'art. 26 c. 3,
escludendo illegittimamente i beneficiari della protezione sussidiaria dai
rapporti di lavoro nella Pubblica Amministrazione, mentre la direttiva europea
prevede per loro un trattamento identico a quello dei rifugiati.
Sul piano del diritto interno, l'ASGI rammenta,
peraltro, che l'art. 23 del d.lgs. n. 30/2007 prevede l'estensione delle norme
previste dal decreto attuativo della direttiva europea in materia di
libera circolazione dei cittadini comunitari e loro familiari anche ai
familiari extracomunitari di cittadini italiani. Tale norma deve intendersi
quale espressione del divieto di "discriminazioni a rovescio". Con
due importanti sentenze, la Corte Costituzionale ha infatti stabilito che, in
caso di deteriore trattamento della situazione puramente interna rispetto a
quella applicabile all'omologa situazione disciplinata dal diritto comunitario,
alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, la posizione soggettiva
garantita dal diritto comunitario sarà l'elemento su cui misurare anche la
disciplina riservata alla situazione nazionale (Corte Costituzionale, sent.
16.06.1995, n. 249; Corte Cost., sent. 30.12.1997, n. 443). In altri termini il
principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione vieta le
"discriminazioni a rovescio", quelle cioè che si verificherebbero in
danno del cittadino italiano quando, per effetto di una norma comunitaria, una
persona o un soggetto comunitario godrebbe in Italia di un trattamento più
favorevole di quello previsto in una situazione analoga per il cittadino o
soggetto nazionale in virtù della norma di diritto interno. In sostanza, la ratio dell'art. 23 del d.lgs n.
30/2007 sembra essere quella di evitare che il familiare del cittadino
comunitario goda di un trattamento più favorevole rispetto al familiare del
cittadino italiano, con evidente pregiudizio anche per quest'ultimo, avendo in
considerazione la famiglia quale ambito tra i più rilevanti nei
quali si forma la personalità dell'individuo. Dal significato letterale
della norma ne deriverebbe un'interpretazione della equiparazione della
condizione dei familiari dei cittadini italiani a quella dei familiari di
cittadini comunitari estensibile a tutte le disposizioni contenute nel decreto
di recepimento della normativa comunitaria e non solo a quelle in materia di
soggiorno. Pertanto, anche i familiari dei cittadini italiani godrebbero del
principio di parità di trattamento nell'accesso alle attività lavorative, salvo
quelle attività escluse ai cittadini dell'Unione europea conformemente alla
normativa comunitaria. Ne conseguirebbe il diritto all'estensione anche ai
familiari extracomunitari di cittadini italiani, titolari della carta di
soggiorno o del diritto al soggiorno permanente di cui agli artt. 10 e 17
del d.lgs. n. 30/2007, dell'accesso al pubblico impiego fatte salve le
limitazioni di cui al D.P.C.M. n. 174/1994. Questo per effetto, in
sostanza, della combinata applicazione del diritto comunitario e del
divieto costituzionale di "discriminazione a rovescio".
Ugualmente, l'ASGI ricorda la prevalente
giurisprudenza di merito che negli ultimi anni ha affermato
l'illegittimità in generale dell'esclusione dei cittadini
extracomunitari dagli impieghi pubblici, e la necessità invece di una loro
parificazione ai cittadini italiani, con le uniche eccezioni previste per
quegli impieghi che implicano l'esercizio diretto o indiretto di pubblici
poteri ovvero attengono alla tutela dell'interesse nazionale.
Questo in ragione innanzitutto del carattere
sovraordinato della norma in materia di parità di trattamento nell'accesso al
lavoro di cui alla Convenzione O.I.L. n. 143/1975, pienamente recepita nel
nostro ordinamento con l'art. 2 c. 3 del T.U. immigrazione. Si veda un elenco
per nulla esaustivo di decisioni giurisprudenziali:
OSSERVATORIO EUROPEO
1. Discriminazione nelle classi separate per
bambini rom. La Corte europea dei diritti dell’Uomo condanna la Croazia.
Nel caso Oršuš e altri c. Croazia la Grande Camera
della CEDU ha accertato la violazione degli articoli 6 §1 e 14 della
Convenzione e 2 del Protocollo n. 1.
Il 16 marzo 2010 la Grande Camera della CEDU ha
emesso la sentenza riguardante il caso Oršuš e altri c. Croazia (ricorso n°
15766/03) (qui le versioni in francese
e in inglese).
Ricordo che il 1° aprile 2009, era stata tenuta un’udienza di Grande Camera. Il
caso riguarda 14 ricorrenti di origine rom che si erano lamentati di essere
stati inseriti in classi composte esclusivamente da persone appartenenti alla
loro etnia.
Invocando gli artt. 3 (divieto di trattamenti
inumani o degradanti) e 6 § 1 (diritto ad un processo equo entro un termine
ragionevole) della Convenzione, l’art. 2 del Protocollo n° 1 (diritto
all’istruzione) e l’art. 14 della Convenzione, i ricorrenti affermavano che il
loro inserimento nelle classi riservate ai Rom li aveva privati del loro
diritto di essere educati in un ambiente multi-culturale e di aver causato loro
un pregiudizio educativo, psicologico ed emozionale che si è tradotto in
particolare in un sentimento di alienazione e di perdita di autostima.
Denunciavano inoltre la durata eccessiva della procedura intentata davanti alle
giurisdizioni civili per far valere tali diritti.
Con sentenza del 17 luglio 2008, la CEDU aveva
concluso all’unanimità per la non violazione dell’art. 2 del Protocollo n° 1
(diritto all’istruzione) preso isolatamente e in combinazione con l’art. 14
della Convenzione (divieto di discriminazione). La CEDU aveva invece accertato
la violazione dell’art. 6 § 1 (diritto ad un processo equo entro un termine ragionevole)
della Convenzione.
All’udienza del 1° aprile 2009, la CEDU, sentite le parti, si è riunita in
camera di consiglio per deliberare.
Con la sentenza del 16 marzo 2010, la CEDU, oltre a confermare la violazione
dell’art. 6 § 1 della Convenzione, ha anche accertato la violazione degli
articoli 14 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1.
A modifica della prima sentenza del 17 luglio 2008, La CEDU ha ritenuto che il
caso in esame riguardasse principalmente una questione di discriminazione. La
CEDU ha sottolineato che i Rom costituiscono una minoranza sfavorita e
vulnerabile e che pertanto hanno bisogno di una protezione speciale anche
nell’ambito educativo.
La CEDU ha ritenuto che formare nelle scuole
elementari classi separate per i bambini rom quando in Croazia, all’epoca dei
fatti, non esisteva alcuna politica generale che prevedesse la costituzione di
questo tipo di classi per bambini che non conoscessero bene la lingua croata,
fosse un comportamento che poneva una manifesta differenza di trattamento tra i
bambini rom e gli altri.
Per questo motivo la Croazia è stata invitata a dimostrare nella pratica se
tale differenziazione potesse essere obiettivamente giustificata, appropriata e
necessaria.
La CEDU ha sottolineato che i test effettuati
all’epoca sui bambini rom al fine di inserirli in classi separate non erano
volti a conoscere il grado di conoscenza del croato, ma avevano lo scopo di
capire lo stadio del loro sviluppo psico-fisico. Inoltre il programma
scolastico adottato per le classi dove erano stati inseriti i bambini rom non
era speciale né concepito per favorire le insufficienze linguistiche lamentate.
Questo trattamento differenziato ha avuto come conseguenza di sfavorire il
grado di istruzione dei ricorrenti e, in generale, della comunità rom.
La CEDU ha quindi statuito che all’epoca dei fatti
la Croazia, non avendo adottato le misure idonee per assicurare che le esigenze
speciali dei ricorrenti, quali membri di una comunità rom vulnerabile e
sfavorita, venissero presi in considerazione, ha violato l’articolo 14, che
vieta ogni discriminazione, combinato questo con l’articolo 2 del Protocollo n.
1, che garantisce il diritto all’istruzione.
La CEDU ha imposto alla Croazia di versare a ciascun ricorrente la somma di
4.500 euro per danni morali e la somma complessiva di 10.000 euro per spese e
competenze legali.
I giudici Jungwiert, Vajić, Kovler, Gyulumyan, Jaeger, Myjer,
Berro-Lefèvre e Vučinić hanno espresso un’opinione parzialmente
dissenziente comune, allegata alla sentenza.
Fonte:
Antonella Mascia
2. Conseil d’État francese: L’interdizione
generale ed assoluta del velo integrale islamico nei luoghi pubblici non
avrebbe un fondamento giuridico incontestabile, ma al contrario potrebbe
portare ad una lesione delle libertà fondamentali
Rapporto del Conseil d’État francese sulla proposta
avanzata dal Primo Ministro francese ed in discussione all’Assemblée Nationale.
Il 25 marzo scorso il Conseil d'État francese ha
adottato il Rapporto intitolato: "Etude relative aux possibilités
juridiques d'interdiction du port du voile intégral" (Studio relativo alle
possibilità giuridiche di proibizione del velo integrale). Il Rapporto è
stato redatto su richiesta avanzata il 29 gennaio scorso dal Primo ministro
francese, in relazione all'intenzione dell'esecutivo francese di proporre
all'Assemblée Nationale il varo di una legislazione che pervenga alla
proibizione generale ed assoluta dell'uso del velo integrale nei luoghi
pubblici.
A tale riguardo, il Conseil d'État nel proprio
documento di analisi esprime serie perplessità sul fondamento giuridico di una
tale misura, sottolineando la possibile incompatibilità della medesima con la
libertà di manifestazione del credo religioso garantita dalla Costituzione
francese e dalla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e delle libertà
fondamentali.
Il Conseil d'État, peraltro, sottolinea come
nell'ordinamento giuridico francese già esistano disposizioni volte a
dissuadere ovvero a proibire in determinate circostanze l'uso del velo
integrale ovvero, più in generale, di indumenti volti a nascondere il
volto. In Francia, in nome del principio di laicità è proibita
l'ostentazione di simboli religiosi ovvero l'uso del velo integrale
ovvero di indumenti religiosamente connotati atti a coprire il volto, da parte
di impiegati della pubblica amministrazione nell'esercizio delle loro funzioni.
Ugualmente è proibita l'ostentazione di simboli religiosi e l'uso del
velo islamico nelle scuole pubbliche (legge 15 marzo 2004). Allo stesso modo,
considerazioni di pubblica sicurezza o di contrasto alla frode impongono
l'identificazione precisa delle persone e dunque escludono l'uso del velo
integrale nei controlli d'identità da parte delle forze dell'ordine, nelle
fotografie per i documenti identificativi, nei controlli per l'accesso alle sale
d'imbarco degli aeroporti ovvero in quelle situazioni ove la persona debba
essere identificata per circostanze oggettive ai fini della somministrazione di
servizi e beni. Il Conseil d'État, dunque, pur escludendo la
legittimità giuridica di una proibizione assoluta e generalizzata dell'uso del
velo integrale nello spazio pubblico, suggerisce dunque la possibilità di uno o
più dispositivi di legge o regolamentari che meglio precisino le
possibilità di interdizione del velo integrale da parte dei Prefetti o dei
Sindaci in quelle circostanze particolari di luogo e di tempo ove
obiettive e giustificabili considerazioni di ordine pubblico
possano ritenersi prevalenti rispetto al diritto alla manifestazione
della libertà religiosa dell'individuo (ad es. riguardo all'accesso ad istituti
bancari, in occasioni di certe manifestazioni sportive o di conferenze
internazionali,...). Ugualmente, il Conseil d'État suggerisce che
l'interdizione del velo integrale potrebbe avere una legittimità giuridica se
circoscritta all'ingresso e alla circolazione in determinati luoghi pubblici
ove le esigenze di immediata verifica dell'identità della persona o della sua
età sarebbero obiettivamente giustificate da esigenze di buon
funzionamento dei servizi pubblici (tribunali, seggi elettorali, municipi
per le celebrazioni del matrimonio o gli atti di stato civile, la riconsegna
dei minori all'uscita delle scuole, centri di cura ove sono somministrate
prestazioni sanitarie, svolgimento di concorsi, esami e selezioni pubbliche, o
anche uffici postali e bancari in relazione a pagamenti ed operazioni
finanziarie...). Anche in questi casi, tuttavia, il Conseil d'État raccomanda
che eventuali violazioni non conducano alla somministrazione di
sanzioni penali o pecuniarie, bensì all'ingiunzioni a sottoporsi ad
interventi di mediazione culturale.
Il Conseil d'État invece ritiene che sarebbe
legittima l'introduzione di una fattispecie penale specifica a carico di coloro
che costringano l'altrui persona all'uso del velo integrale in pubblico
mediante la violenza, l'uso della forza, la minaccia, l'abuso di potere e di
autorità.
Secondo il Conseil d'État, il principio di laicità,
pur essendo un principio costituzionale fondamentale, non potrebbe giustificare
di per sé una proibizione integrale dell'uso del velo integrale negli spazi
pubblici . Il principio di laicità si impone legittimamente alle
istituzioni pubbliche imponendo un obbligo di neutralità per i funzionari
pubblici nell'esercizio delle loro mansioni, ma non può imporsi direttamente
alla società e agli individui se non in circostanze particolari in ragione
delle esigenze proprie di determinati servizi pubblici (come nel caso in
Francia delle scuole pubbliche). Al di fuori di tali circostanze, deve
invece essere garantito il principio di autonomia personale, sancito dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo, in base al quale
ciascuno ha diritto a condurre la propria vita secondo le proprie convinzioni e
scelte personali, finchè tali convinzioni e scelte personali non si traducano
in comportamenti che portino offesa alle altre persone. Pertanto, finchè la
scelta di indossare il velo integrale è volontariamente operata dalle dirette
interessate e non invece frutto di costrizione e violenza altrui, tale scelta
deve essere rispettata e non sottoposta a misure limitative che risulterebbero
discriminatorie, almeno fintantochè non si impongano considerazioni di
ordine pubblico, obiettivamente giustificate e prevalenti, in situazioni ben
determinate e circoscritte.
NOTIZIE
1. Al via le procedure on line per i nulla osta
del decreto stagionali 2010
Dalle ore 8.00 del 21 aprile i datori di lavoro
possono presentare le domande per i cittadini non comunitari residenti
all'estero, entro la quota massima di 80.000 lavoratori stranieri. Previste
4.000 unità per lavoro autonomo
Dalle ore 08.00 del giorno 21 aprile 2010, sino alle
ore 24.00 del 31 dicembre 2010, i datori di lavoro possono presentare le
domande di nulla osta per lavoro stagionale previste dal Decreto Flussi 2010,
utilizzando l’apposito programma disponibile per il download all'indirizzo:
http://nullaostalavoro.interno.it/Ministero/download
Il decreto flussi 2010 consente l'entrata in Italia di lavoratori
extracomunitari stagionali entro la quota massima di 80.000 unità, da ripartire
tra le regioni e le province autonome con provvedimento del ministero del
Lavoro e delle Politiche sociali.
La quota riguarda:
--- --- --- --- --- --- --- --- ---
Le quote per lavoro autonomo
Lo stesso provvedimento consente, inoltre, come
anticipazione della quota massima di ingresso di lavoratori extracomunitari non
stagionali per l'anno 2010, l'ingresso, per motivi di lavoro autonomo, di 4.000
cittadini stranieri non comunitari residenti all'estero, appartenenti alle
seguenti categorie:
Nell'ambito di detta quota, sono ammesse, sino ad un
massimo di 1.500 unità, le conversioni di permessi di soggiorno per motivi di
studio e formazione professionale in permessi di soggiorno per lavoro autonomo
ed è anche consentito l'ingresso in Italia, per motivi di lavoro autonomo, di
1.000 cittadini libici.
Per quanto concerne l'ingresso sul territorio nazionale per
lavoro autonomo si richiamano le procedure previste dall'art.26 del T.U.
n.286/98 e dall'art.39 del D.P.R. 394/99.
Normativa di riferimento
La circolare n.2699
del 19 aprile 2010
Fonte : Ministero dell'Interno
2. Sul sito del Ministero dell'Interno i dati
statistici relative alle istanze di acquisto della cittadinanza per
naturalizzazione e matrimonio
Negli ultimi tre anni un significativo incremento delle
istanze di naturalizzazione. 30 tabelle statistiche curate dal Dipartimento
libertà civili e immigrazione.
Le statistiche evidenziano negli ultimi 3 anni un
notevole incremento delle domande, legate soprattutto alla residenza
Sul numero di marzo-aprile 2010 della rivista 'libertàcivili', bimestrale di studi e
documentazione sui temi dell'immigrazione curata dal Dipartimento per le
libertà civili e l'immigrazione, sono riportati i dati definitivi, relativi al
2009, riguardanti le istanze e le concessioni della cittadinanza
italiana. Si tratta di una fotografia significativa di quella che
rappresenta per molti stranieri la tappa conclusiva del percorso di
integrazione in un paese che, con il suggello della concessione della
cittadinanza, diventa il proprio paese a tutti gli effetti.
La lettura dei dati statistici, elaborati dalla direzione centrale per i
diritti civili, la cittadinanza e le minoranze, consente di analizzare nel
dettaglio le tendenze in atto, che vedono nell'ultimo triennio un consistente
incremento delle istanze presentate, fondate prevalentemente sul connotato
della residenza (oltre il 56%) rispetto a quello del matrimonio. Le due
fattispecie sono disciplinate rispettivamente dagli articoli 9 e 5 della Legge
5 febbraio 1992 n. 91, come modificata ed integrata dalla Legge 15 luglio 2009
n.94, disposizioni richiamate da alcune tabelle sulla cittadinanza. I dati
statistici completi relativi al 2009 sono riportati in 30 tabelle disponibili
nella sezione Statistiche del Dipartimento per le libertà civili e
l'immigrazione.
Non è compreso nella statistica il dato riguardante gli stranieri che, al
raggiungimento della maggiore età, dichiarino di voler diventare cittadini
italiani, in quanto l'accertamento dei requisiti ed il conseguente acquisto
della cittadinanza sono di competenza del sindaco del luogo di residenza. Non
sono altresì di competenza del ministero dell'Interno gli adempimenti relativi
ad altre tipologie di acquisto, come ad esempio quella di adozione.
I dati 2009 su istanze e concessioni di cittadinanza italiana
Fonte: Ministero
dell'Interno
SEGNALAZIONI NORMATIVE
DIRITTO EUROPEO
1. Entrati in vigore il 5 aprile scorso il
Regolamento (Ue) n. 265 /2010 che modifica la convenzione di applicazione
dell’accordo di Schengen e il regolamento (CE) n. 562/2006 per quanto riguarda
la circolazione dei titolari di visto per soggiorni di lunga durata ed il
Regolamento CE n. 810/2009 del 13 luglio 2009 che istituisce un codice
comunitario dei visti (codice dei visti)
Novità in materia di libera circolazione nell’area
Schengen per i titolari di visto per soggiorni di lunga durata o di permesso di
soggiorno di lunga durata così come in materia di tempi e costi di rilascio dei
visti “Schengen”.
REGOLAMENTO (UE) N. 265/2010 DEL PARLAMENTO EUROPEO
E DEL CONSIGLIO del 25 marzo 2010 che modifica la convenzione di applicazione
dell'accordo di Schengen e il regolamento (CE) n. 562/2006 per quanto riguarda
la circolazione dei titolari di visto per soggiorni di lunga durata
(pubblicato nella G.U.U.E. L. 85 del
31/03/2010)
Il testo è in vigore dal 5 aprile 2010.
Il testo è reperibile al link seguente:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:085:0001:0004:IT:PDF
Il regolamento, in vigore dal 5 aprile 2010, e
modifica sia l'accordo di Schengen, sia il regolamento del 2006 sul codice
frontiere Schengen.
Conseguentemente anche il testo di quegli atti
normativi dovrà essere modificato.
In base a tale regolamento i visti per soggiorni di
lunga durata dovranno essere tutti uguali, quindi avranno la stessa efficacia
del permesso di soggiorno per quanto riguarda la libera circolazione, con la
possibilità di viaggiare liberamente per tre mesi ogni semestre in tutti i
Paesi dell'area Schengen. Perciò anche i cittadini extracomunitari in
attesa di permesso di soggiorno potranno utilizzare il loro visto nazionale di
lunga durata così come tale possibilità di libera circolazione per un trimestre
ogni semestre viene garantita allo straniero titolare di un permesso di
soggiorno per motivi di lavoro, studio o ricongiungimento familiare.
La norma, quindi, consente agli stranieri di poter
circolare o fare i turisti in tutti gli stati dell'UE, anche quando sono
in attesa del permesso di soggiorno senza aspettare le lunghe procedure di
rilascio (in Italia dopo circa una anno) come di norma era previsto
precedentemente. Con questa nuova procedura è così possibile far ritorno
nel Paese di origine attraversando qualsiasi frontiera Schengen che sia scalo
aereo, terrestre o marittimo.
I visti per soggiorni di lunga durata hanno validità
non superiore a un anno e qualora lo Stato membro autorizzi uno straniero a
soggiornare sul suo territorio per un periodo superiore a un anno, il visto per
soggiorni di lunga durata è sostituito prima della scadenza della sua validità
con un titolo di soggiorno.
Molto più significative, le modifiche introdotte dal
REGOLAMENTO (CE) N. 810/2009 DEL PARLAMENTO EUROPEO
E DEL CONSIGLIO del 13 luglio 2009 che istituisce un codice comunitario dei
visti (codice dei visti), pubblicato sulla G.U.U.E. del 15 settembre 2009 che
si applicano sempre dal 5 aprile 2010.
Le novità normative sono senz'altro molto importanti
e dal 5 aprile 2010 prevarranno su tutte le norme nazionali incompatibili.
E' tra l'altro molto significativo l'elenco delle
abrogazioni contenute nell'art. 16:
1) gli artt. da 9 a 17 della convenzione di
applicazione dell'accordo di Schengen del 14 giugno 1985;
2) la decisione del comitato esecutivo Schengen del
28 aprile 1999 riguardante le versioni definitive del manuale comune e
dell'istruzione consolare comune [SCH/Com-ex (99)13 - Istruzione consolare
comune, compresi gli allegati];
3) le decisioni del comitato esecutivo Schengen del
14 dicembre 1993 riguardanti la proroga del visto uniforme [SCH/Com-ex (93) 21]
e le procedure comuni relative all'annullamento, alla revoca e alla riduzione
della validità del visto uniforme [SCH/Com-ex (93) 24], la decisione del
comitato esecutivo Schengen del 22 dicembre 1994 riguardante lo scambio di dati
statistici relativi al rilascio di visti uniformi [SCH/Com-ex (94) 25], la
decisione del comitato esecutivo Schengen del 21 aprile 1998 riguardante lo
scambio a livello locale di dati statistici relativi ai visti [SCH/Com-ex (98)
12], e la decisione del comitato esecutivo Schengen del 16 dicembre 1998
relativa all'introduzione di un documento uniforme quale giustificativo di un
invito, di una dichiarazione di garanzia o di un certificato recante l'impegno
a fornire ospitalità [SCH/Com-ex (98) 57]; c) l'azione comune 96/197/GAI, del 4
marzo 1996, sul regime di transito aeroportuale;
4) il regolamento (CE) n. 789/2001 del Consiglio,
del 24 aprile 2001, che conferisce al Consiglio competenze esecutive per quanto
concerne talune disposizioni dettagliate e modalità pratiche relative all'esame
delle domande di visto ( 2 );
5) il regolamento (CE) n. 1091/2001 del Consiglio,
del 28 maggio 2001, relativo alla libera circolazione dei titolari di un visto
per soggiorno di lunga durata;
6) il regolamento (CE) n. 415/2003 del Consiglio,
del 27 febbraio 2003, relativo al rilascio di visti alla frontiera, compreso il
rilascio di visti a marittimi in transito;
7) l'articolo 2 del regolamento (CE) n. 390/2009 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, recante modifica
dell'istruzione consolare comune diretta alle rappresentanze diplomatiche e
consolari di prima categoria in relazione all'introduzione di elementi
biometrici e comprendente norme sull'organizzazione del ricevimento e del
trattamento delle domande di visto
Inoltre col nuovo regolamento si produce una riduzione
dei costi (60 euro di diritti di visto per tutti; 35 euro per i bambini da 6 a 12
anni e per i cittadini di paesi terzi che hanno un accordo di facilitazione con
l'UE) e una riduzione dei tempi di rilascio (due settimane massimo per
la richiesta di visto; 15 giorni di calendario per la risposta, che in caso
negativo dovrà essere sempre motivata).
Infine il visto UE sarà unico e cesserà la previgente distinzione del
visto di "transito" e di "soggiorno".
Con il nuovo visto si potrà rimanere nel paese per un totale di 90 giorni su un
arco temporale di 6 mesi e i detentori di un visto di lunga durata avranno il
diritto di muoversi alle stesse condizioni di chi ha un permesso di soggiorno
negli altri paesi Schengen per 90 giorni in un qualunque arco temporale di 180
giorni.
Il testo del regolamento è rinvenibile al seguente
link
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:243:0001:0058:IT:PDF
Commissione europea: l’Italia rispetti le norme del
diritto comunitario sull’accesso all’impiego pubblico dei rifugiati e dei titolari
della protezione sussidiaria, nonché dei cittadini di Paesi terzi familiari di
cittadini comunitari
2. In vigore dal 1 maggio 2010 il Regolamento
(CE) n. 883 2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale
negli Stati dell'UE
Le prime indicazioni sulle novità contenute nel
Regolamento in una circolare dell'INAIL del 20 aprile 2010 (n. 16).
L'INAIL, in relazione alla entrata in vigore - il 1°
maggio 2010 - del Regolamento
(CE) n. 883/2004 (c.d. Regolamento di base), relativo al coordinamento dei
sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri, integrato e modificato dal Regolamento
(CE) n. 988/2009, ha pubblicato la circolare n. 16 del 20 aprile 2010,
contenente le prime informazioni a carattere normativo in materia e,
soprattutto, le prime indicazioni operative, tenuto conto che a livello
comunitario è in corso la definizione dei contenuti e delle procedure
applicative tra i vari Stati membri.
Circolare
dell'INAIL n. 16 del 20 aprile 2010
Fonte : DPL Modena
CIRCOLARI AMMINISTRATIVE
Regole per l'iscrizione
anagrafica di cittadini egiziani
Necessaria l'attestazione consolare per le
generalità solo se sussistono effettivi dubbi. I criteri in una circolare dei
Servizi demografici
Circolare
del Ministero dell’Interno – Direzione servizi demografici n. 12/2010
Circolare
del Ministero dell’Interno – Direzione servizi demografici n. 16/2008
La Direzione centrale per i servizi demografici
torna a fornire chiarimenti, con la circolare n. 12 del 15 aprile 2010, in
merito all'esatta indicazione delle generalità (nome e cognome) per
l'iscrizione anagrafica di cittadini egiziani.
Come già indicato con la circolare n. 16 del 2008, viene stabilito che 'la
sequenza dei nomi presenti sul passaporto deve essere riportata nei registri
anagrafici individuando nel NOME il primo nome della sequenza presente sul
passaporto, nel COGNOME, le restanti parti della stessa sequenza'.
Quindi, nel rispondere a quanto segnalato dalla sezione Consolare
dell'Ambasciata della Repubblica Araba d'Egitto a Roma, la Direzione ha
sottolineato l'opportunità di richiedere ai cittadini egiziani la produzione
dell'attestazione consolare solo ove sussistano effettivi dubbi sulle esatte
generalità degli interessati.
GIURISPRUDENZA
REGOLARIZZAZIONE 2009
1. Regolarizzazione 2009: La condanna per
l’inottemperanza all’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale a
seguito di espulsione di cui all’art. 14 co. 3-ter d.lgs. n. 286/98 non è ostativa
all’emersione dal lavoro irregolare.
Il TAR Toscana ordina la sospensione di alcuni
provvedimenti di rigetto alla sanatoria 2009 perché il delitto di cui all’art.
14 c. 3-ter non rientrerebbe tra le fattispecie previste dagli artt. 380 e 381
c.p.p. ostative alla regolarizzazione.
TAR
Toscana, sez. II, ordinanza di sospensiva n. 296 dd.21.04.2010 (59.88 KB)
TAR
Toscana, sez. II, ordinanza di sospensiva n. 497 dd. 21.04.2010 (74.94 KB)
TAR
Toscana, sez. II, ordinanza di sospensiva n. 301 dd. 21.04.2010 (74.76 KB)
Il giudice amministrativo toscano ha accolto la
richiesta di sospensiva di alcuni provvedimenti con i quali la Questura di
Pistoia aveva rigettato le dichiarazioni di emersione dal lavoro irregolare
presentate da cittadini stranieri ai sensi della legge n. 102/2009, in
quanto i medesimi risultavano condannati per il delitto di inottemperanza
all'ordine del questore di lasciare il territorio nazionale di cui all'art. 14
c. 3 ter del d.lgs. n. 286/98. Secondo l'interpretazione della questura di
Pistoia, avallata dalla nota circolare del capo della Polizia dd. 17 marzo
2010, la condanna per tale delitto rientrerebbe tra quelle previste dagli
art. 380 o 381 c.p.p, e come tale risulterebbe ostativa al provvedimento di
regolarizzazione ai sensi dell'art.-1 ter c. 13 lett. c) del D.L. n. 78/09, poi
convertito in L. n. 102/90.
Il TAR toscana, sebbene nell'ambito di un
procedimento cautelare e dunque nei limiti di un giudizio prima facie sulla fondatezza delle
argomentazioni proposte dai ricorrenti, ha sostenuto l'erroneità
dell'interpretazione ministeriale, in quanto il delitto di cui al citato art.
14-ter, pacificamente non ricadrebbe nell'art. 380 c.p.p., ma nemmeno nell'art.
381 c.p.p., in quanto sebbene astrattamente assimilabile ad esso quanto alla
pena edittale prevista, se ne discosta rispetto alla previsione codicistica
dell'arresto facoltativo, mentre come è noto per espressa previsione del
legislatore, in caso di inottemperanza dell'ordine del questore di lasciare il
territorio nazionale, è previsto l'arresto obbligatorio. Secondo il giudice
amministrativo, inoltre, non corrisponderebbe a criteri di ragionevolezza
l'assimilazione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 14 c. 3-ter d.lgs.
n. 286/98 a quelle di cui agli artt. 380 e 381 c.p.p. quali cause ostative alla
regolarizzazione.
Il giudice amministrativo toscano ha dunque accolto
integralmente le argomentazioni che erano state diffuse dall'ASGI, nella
persona dell'Avv. Guido Savio, a commento della citata circolare ministeriale
del 17 marzo 2010 che aveva inteso avallare una discutibile e a nostro
avviso illegittima prassi restrittiva avviata da diverse questure
italiane.
Per ulteriori info: melting pot
2. Sanatoria 2009 - Tribunale di Perugia: la
sopravvenuta richiesta di emersione comporta l'estinzione del reato di cui
all'art. 14 comma 5 ter
Sentenza riferita però ad un caso di procedimento in
corso ove non era stata ancora pronunciata una sentenza di condanna (tribunale
di Perugia, sentenza n. 381 dd. 23 marzo 2010).
Con la Sentenza n. 381 del 23 marzo 2010 il
Tribunale di Perugia ha disposto l'estinzione del reato di cui all'art. 14,
comma 5ter
del Testo unico sull'immigrazione a seguito dell'avvenuto inoltro della domanda
di regolarizzazione.
E' bene precisare che si tratta di un caso in cui
non era ancora stata pronunciata una sentenza di condanna.
Il dispositivo riguarda infatti un ordine del
questore del maggio 2009, la cui inosservanza era stata contestata dopo la
richiesta telematica di emersione e dopo la relativa convocazione per il
fotosegnalamento (era già avvenuta la convocazioni delle parti presso il SUI
per la domanda di emersione).
Il Giudice ha quindi applicato il disposto di cui all'art.
1 ter, comma 11, legge 102/09, per cui la sottoscrizione del contratto di
soggiorno, congiuntamente alla comunicazione obbligatoria di assunzione
all'INPS di cui al comma 7, e il rilascio del permesso di soggiorno comportano
per il lavoratore l'estinzione dei reati relativi all'ingresso e al soggiorno
nel territorio nazionale (come quello di cui all'art. 14 co 5 ter t.u. imm.).
Commento a cura dell'Avv. Francesco Di Pietro del Foro di Perugia .
Sentenza del Tribunale di Perugia n. 381 del 23 marzo 2010
Fonte: Melting pot
3. Sanatoria colf-badanti 2009: Il
licenziamento prima della stipula del contratto di soggiorno è inefficace se
intimato da persona diversa dal datore di lavoro
Ordinanza del giudice del lavoro di Ferrara su un
caso originato dal licenziamento di una badante straniera effettuato dal nipote
dell’assistita (Tribunale di Ferrara, n. 2608 dic. 2009).
La sentenza che si annota riguarda gli effetti del
licenziamento intimato alla lavoratrice domestica nelle more della domanda di
emersione dal lavoro irregolare ex art. 1 ter Legge 3 agosto 2009, n. 102
"Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° luglio
2009, n. 78".
A tal riguardo, il Tribunale di Ferrara Sez. Lavoro, partendo dal presupposto
fattuale del recesso dal rapporto di lavoro avvenuto unilateralmente ad opera
di soggetto terzo, «senza alcuna concreta riferibilità dell'iniziativa alla
vera e propria titolare della posizione giuridica ossia la datrice di lavoro»,
ha concluso per l'inefficacia dello stesso asserendo la attuale sussistenza
dell'obbligo del datore di lavoro di presentarsi allo Sportello Unico
Immigrazione presso la Prefettura assieme al lavoratore per stipulare il
contratto di soggiorno. Non esaminata dall'autorità giudiziaria la questione
del carattere discriminatorio del licenziamento, in quanto assorbita dal
preminente rilievo dell'inefficacia dell'atto di recesso unilaterale posto in
essere da persona non legittimata.
In realtà, la prova della natura discriminatoria del
licenziamento della "badante" nelle more della procedura di
emersione, pur se ardua, è stata già affermata di recente dalla giurisprudenza
(cfr. Tribunale di Brescia Sez.
Lavoro Ord. 25 settembre 2009 in http://www.meltingpot.org/).
Così, si ricordi che l'art. 4 della legge n. 604 del 1966 sancisce la nullità
del licenziamento discriminatorio e dispone: «il licenziamento determinato da
ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza a un sindacato e
dalla partecipazione ad attività sindacale è nullo, indipendentemente dalla
motivazione adottata». Il contenuto prescrittivo dell'art. 4 è stato ampliato
dall'art. 15 L. n. 300 del 1970, il quale dispone la nullità di qualsiasi atto
o patto diretto a «licenziare un lavoratore (...) a causa della sua
affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno
sciopero», nonché la nullità dei licenziamenti attuati «a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso».
Infine, i decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003 hanno allargato
ulteriormente i fatti di discriminazione vietati (Cfr. Miscione M. (a cura di)
Diritto del lavoro - Il rapporto di lavoro subordinato: garanzie del reddito,
estinzione e tutela dei diritti, Utet, Torino, 2007). In particolare l'art. 2
del d. lgs. n. 215 del 2003 stabilisce che «ai fini del presente decreto, per
principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi
discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica.
Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o
indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando,
per la razza o l'origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di
quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in situazione analoga; b)
discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un
atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le
persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone... Sono, altresì, considerate
come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei
comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine
etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di
creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo».
Peraltro, la prova dell'intento discriminatorio del datore di lavoro è onere
che ricade sul lavoratore, ma la giurisprudenza ammette l'assolvimento dello
stesso ricorrendo a presunzioni (cfr. Cass. 1.2.1988, n. 898, in Giustizia
civile, 1988, I, 1533; Cass. 19.3.1996, n. 2335 OGL, 1996, 413). Sulla base di
tali considerazioni sarà compito dell'interprete, caso per caso, valutare se il
licenziamento abbia quale movente l'approfittamento delle condizioni di
debolezza del lavoratore derivante dal suo status di cittadino straniero
irregolarmente presente sul territorio dello Stato. Occorre in questa sede
sottolineare che, a differenza degli altri lavoratori (italiani o comunitari), il
lavoratore extracomunitario irregolare è soggetto ai sensi dell'art. 13 D. Lgs.
286 del 1998 alla sanzione amministrativa dell'espulsione, nonché a sanzione
penale ex art. 10 bis D. Lgs. 286 del 1998, che prevede il nuovo reato di
clandestinità, circostanze che lo pongono in una situazione ontologica di
inferiorità. Infine, merita particolare attenzione la decisione in commento
nella parte in cui asserisce che «l'archiviazione del procedimento [di
emersione n.d.a.] possa essere disposta solo per effetto di una mancata
presentazione presso lo sportello dell'immigrazione di entrambi i soggetti
coinvolti dal procedimento ed in assenza di giustificato motivo; qualora sia
presente anche uno solo dei due soggetti (essendo, invero, che anche il datore
di lavoro sia titolare di un interesse irrinunciabile al completamento
dell'emersione) il procedimento non potrà essere archiviato e ciò, se non
altro, per la conclamata presenza di interessi di parte parimenti aventi il
rango di diritti soggettivi». Tale decisione si pone nel solco di due
importanti circolari del Ministero dell'Interno che hanno fornito chiarimenti
in merito alla possibilità di interrompere il rapporto di lavoro prima della
data di convocazione presso lo Sportello unico e la conseguente stipula del contratto
di soggiorno per chi ha presentato domanda di emersione. Con la Circolare del
29 ottobre 2009 n. 6466 da una parte si affermava l'obbligo per il datore di
lavoro di stipulare il contratto di soggiorno presentandosi alla convocazione
della Prefettura, dall'altro si asseriva che la rinuncia alla dichiarazione di
emersione intervenuta in pendenza della procedura avrebbe comportato
l'archiviazione della stessa. Con la Circolare diffusa il 7 dicembre 2009 n.
7950 si ribadiva che i datori di lavoro ed i lavoratori che hanno interrotto il
loro rapporto di lavoro prima della convocazione dovranno comunque presentarsi
allo Sportello Unico della Prefettura alla data prevista per stipulare il
contratto di soggiorno relativo al periodo di effettivo lavoro, per la
comunicazione di assunzione all'Inps e la contestuale comunicazione di
cessazione del rapporto di lavoro, solo in tal caso sarebbe stato rilasciato al
lavoratore un permesso di soggiorno per attesa occupazione. La prassi delle
Prefetture, avallata dalle menzionate circolari del Ministero dell'Interno,
fino ad oggi è stata nel senso di disporre l'archiviazione del procedimento di
emersione ove non si fosse presentato il datore di lavoro alla convocazione,
nonostante vi fosse stata la presentazione e l'interesse attuale alla
stipulazione da parte del lavoratore. Il provvedimento giudiziario in commento
smentisce la legittimità di una siffatta prassi.
Commento a cura dell'avv. Giovanni Guarino
Fonte: Melting pot
ESPULSIONI
Le Regioni non possono rifiutarsi di avere sul proprio territorio i
CIE (centri di identificazione ed espulsione)
La Corte Costituzionale dichiara illegittima la norma della
l.r. della Liguria che affermava l’indisponibilità alla costituzione di CIE sul
proprio territorio. La materia appartiene all’esclusiva competenza statale
(sentenza n. 134 dd. 15.04.2010).
Corte
Costituzionale, sentenza n. 134 dd. 15.04.2010 (31.27 KB)
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 134 dd. 15 aprile 2010, ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della legge della Regione
Liguria n. 4/2009 (Norme per l'accoglienza e l'integrazione sociale delle
cittadine e dei cittadini stranieri immigrati) nella parte in cui afferma la
"indisponibilità della Regione Liguria ad avere sul proprio territorio
strutture o centri in cui si svolgono funzioni preliminari di trattamento e identificazione
personale dei cittadini stranieri immigrati" .
Secondo la Corte Costituzionale, i CIE (centri di identificazione ed
espulsione) previsti dall'art. 14 del d.lgs. n. 286/98, così come modificato
dalla legge n. 125/2008, sono strutture funzionali alla disciplina che regola
il flusso migratorio dei cittadini extracomunitari nel territorio nazionale e
pertanto la loro costituzione ed individuazione attiene ad aspetti
direttamente riferibili alla competenza legislativa esclusiva statuale di cui
all'art. 117, secondo comma lettera b) della Costituzione. Di conseguenza, la
norma regionale ligure, nel negare la possibilità di istituire nel territorio
ligure i centri di identificazione ed espulsione, ha travalicato le
competenze legislative regionali.
La Corte Costituzionale ha ribadito i principi già affermati con le
precedenti sentenze n. 50/2008 e 156/2006, secondo i quali anche
nella materia dell' immigrazione le Regioni possono esercitare la propria
potestà legislativa negli ambiti, come il diritto allo studio o all'assistenza
sociale, attribuiti rispettivamente alla competenza concorrente o residuale.
Tuttavia, quando la materia riguarda aspetti che attengono alle politiche
di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale,
sussiste una competenza esclusiva dello Stato.
La Corte costituzionale fa riferimento alla precedente sentenza n.
300/2005 relativa alla legislazione regionale dell'Emilia Romagna, e precisa
che, rispetto ai centri di identificazione ed espulsione, dunque, la Regione
può prevedere ed assumersi compiti di osservazione e monitoraggio, nonchè
interventi rientranti nelle proprie competenze, quali l'assistenza in genere e
quella sanitaria, secondo modalità che prevedano il necessario e
preventivo accordo con le rispettive Prefetture, al fine di impedire indebite
intrusioni. Tuttavia, la Regione non può certo porre in essere una normativa in
contrasto con quella statale che ha istituito i CIE.
ASILO – PROTEZIONE
INTERNAZIONALE
Tribunale di Roma: Onere probatorio attenuato nei procedimenti per
il riconoscimento della protezione internazionale
Ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato lo
straniero che rende dichiarazioni credibili, congrue e sufficientemente
corroborate sulle persecuzioni subite nel paese di origine. Sentenza del
Tribunale di Roma su un richiedente asilo dal Burkina Faso
Il Tribunale di Roma, con la sentenza n.22246/09 dd.
29.10.2009, ha accolto il ricorso proposto da un richiedente asilo originario
del Burkina Faso contro il diniego al riconoscimento della protezione
internazionale deciso dalla Commissione territoriale asilo e ha proceduto al
riconoscimento dello status di rifugiato politico a suo favore.
Il Tribunale di Roma ha ritenuto che le dichiarazioni riguardo alle
persecuzioni subite nel paese di origine rese dal ricorrente, tanto in sede di
audizione dinanzi alla Commissione territoriale asilo quanto nel ricorso,
risultano dettagliate, congrue e corroborate dalla documentazione fornita. Tali
evidenze non sono state smentite dalle informazioni pervenute dal Ministero
degli Affari Esteri nel corso del procedimento di ricorso, che non hanno potuto
raccogliere notizie sulle manifestazioni alle quali il ricorrente avrebbe
partecipato nel paese di origine, secondo il resoconto di quest'ultimo. A tale
riguardo, va garantito al richiedente asilo il beneficio del dubbio in quanto
nei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale "la
prova può essere valutata con minore rigore in considerazione della obiettiva
difficoltà in cui incorre chi si sia trovato precipitosamente a fuggire dal
proprio paese per salvaguardare la propria incolumità" (principio dell'onere
della provata attenuato di cui all'art. 3 d.lgs. n. 251/2007).
Tribunale
di Roma, sentenza dell'1 ottobre 2009, n. 22246 (216.55 KB)
APOLIDIA
Apolidia: in circostanze eccezionali l’onere della prova a carico
del richiedente può essere attenuato ed è sufficiente un quadro indiziario
della mancanza di un legame di cittadinanza
Sentenza della Corte di Appello di Firenze relativa ad un ricorrente
privo di certezza delle proprie origini, identità e luogo e data di nascita
(C.A. Firenze, sez. I civ., sent. n. 1654 dd. 17.11.2009)
La Corte di Appello di Firenze, con
sentenza n. 1654 dd. 17. 11.2009, ha accolto il ricorso presentato da una
persona che si era vista negare il riconoscimento della condizione di apolide
prima a seguito di un procedimento amministrativo presso il Ministero
dell'Interno e poi a seguito di sentenza emanata dal Tribunale di Firenze
nell'ambito di un procedimento di ricognizione giudiziale.
In entrambi i casi, il diniego all'istanza di riconoscimento dello
status di apolidia era avvenuto per mancato soddisfacimento dell'onere
probatorio dell' assenza di un legame di cittadinanza con un altro Stato.
La Corte di Appello di Firenze ha accolto il ricorso dell'interessato
riconoscendo che nella particolarissime circostanze del caso, l'onere
probatorio della condizione di apolidia, ordinariamente incombente sul
richiedente, doveva attenuarsi ritenendosi sufficiente un quadro
indiziario tale ad indicare il soggetto come non collegato con alcuno Stato, in
conseguenza dell'obiettiva impossibilità di ulteriori accertamenti.
Questo in ragione della vicenda assolutamente eccezionale del
richiedente, impossibilitato ad avere certezza delle proprie origini e del
proprio stesso nome, luogo e data della nascita in quanto figlio di padre
ignoto e di madre che lo avrebbe abbandonato durante l'infanzia, senza lasciare
alcuna traccia di sé, e afflitto da progressivo sviluppo di disagio
psichico.
PERMESSO DI SOGGIORNO
Consiglio di Stato: La mera denuncia di uno straniero per un reato
ostativo all'ingresso e al soggiorno non può comportare di per sé il diniego di
rinnovo del suo permesso di soggiorno
Un giudizio di pericolosità sociale deve essere supportato da
ulteriori elementi, che vanno comunque bilanciati con il grado di inserimento
sociale e familiare (sentenza n. 1480 dd. 15.03.2010).
Consiglio
di Stato, sentenza n. 1480 dd.15.03.2010 (85.28 KB)
Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso presentato da un
cittadino straniero che si era visto negare il rinnovo del permesso di
soggiorno dalla questura di Reggio Emilia a seguito dell'arresto per il reato
di rissa e della successiva apertura di un procedimento giudiziario a suo
carico, poi peraltro conclusosi con l'assoluzione. Il provvedimento della
questura di Reggio Emilia era stato successivamente confermato dalla
sentenza del TAR Emilia Romagna, sez. di Parma n. 50/2007.
Secondo il Consiglio di Stato, invece, il provvedimento del questore
di Reggio Emilia era illegittimo in quanto una presunzione di pericolosità
sociale può ricondursi a determinate tipologie di condanna in sede penale, in
relazione a talune fattispecie di reato quale quelle citate negli artt. 380 e
381 c.p.p., per il combinato disposto degli art. 5 c. 5 e 4 c.3 del T.U.
immigrazione, ma non può essere supportata dalla mera denuncia, anche se
riferita ai medesimi reati.
Questo in linea anche con il pronunciamento della Corte Costituzionale
n. 78 dd. 18.05.2002 che ha dichiarato incostituzionale l'art. 1 comma 8 lett.
c) della legge n. 222/2002 nella parte in cui impediva l'emersione dal lavoro
irregolare dello straniero in relazione alla mera sussistenza di una denuncia
per determinati reati.
Secondo il Consiglio di Stato, dunque, è da escludersi ogni
automatismo ai fini del diniego al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno
nei confronti di uno straniero denunciato per un reato, ma in questi casi il
questore potrebbe prendere in considerazione l'eventualità di negare il
permesso di soggiorno solo dopo un attento esame di ulteriori e fondati
elementi volti a supportare il giudizio di pericolosità sociale dello
straniero, i quali comunque debbono essere comunque adeguatamente soppesati e
bilanciati con la valutazione del grado di integrazione sociale, lavorativa e
familiare dello straniero medesimo.
Nel caso in questione tale valutazione non è stata condotta
dall'Amministrazione che ha ignorato il fatto che lo straniero in questione,
pur avendo a proprio carico una denuncia pendente per il reato di rissa,
svolgeva una regolare attività lavorativa, così come aveva costituito un
nucleo familiare stabile in Italia, composto dalla moglie e da due figli.
RICONGIUNGIMENTO
FAMILIARE
1.
Cassazione: il cittadino italiano di origine marocchina non può chiedere il
ricongiungimento familiare con il minore marocchino affidatogli secondo
l’istituto di diritto islamico della Kafalah
Il minore affidato in base alla Kafalah non rientra tra i familiari
dei cittadini comunitari o italiani ai quali va garantito il diritto alla
circolazione e al soggiorno in base al d.lgs. n. 30/2007.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4868/2010 (depositata il
01.03.2010), ha respinto l'istanza di un cittadino italiano di
origini marocchina volta ad ottenere il visto per ricongiungimento familiare a
favore di un minore marocchino che gli era stato affidato secondo
l'istituto della Kafalah dai suoi genitori sulla base della decisione di un
tribunale marocchino.
La Corte di Cassazione, ribaltando il pronunciamento adottato tanto
dal giudice di primo grado (Tribunale di Spoleto, decisione del 7.6.2008),
quanto dal giudice di merito (Corte di Appello di Perugia, decreto 20.12.2008),
sostiene che l'ingresso e soggiorno dei familiari di Paesi terzi del cittadino
italiano e del cittadino comunitario residente in Italia sono regolati
esclusivamente dalle norme del d.lgs. n. 30/2007, di recepimento della
direttiva europea n. 2004/38. Pertanto, tra il novero dei familiari di cui agli
art. 2 e 3 del d.lgs. n. 30/2007, possono essere certamente ricompresi i minori
del cittadino italiano o comunitario adottati od adottanti che fanno ingresso
in Italia acquisendo lo status di minore in affidamento familiare alla stregua
delle previsioni del titolo III della legge n. 184/1983, come modificato dalla
legge n. 476/1998 di esecuzione della Convenzione dell'Aja del 19.05.1993
sull'adozione internazionale. Secondo la Cassazione , invece, non possono
ritenersi invece familiari ai sensi del d.lgs. n. 30/2007 i minori
stranieri di paesi terzi semplicemente affidati al di fuori di un procedimento
di adozione internazionale, categoria alla quale possono ritenersi assimilati i
minori oggetto dell'istituto di diritto islamico della Kafalah, secondo un indirizzo
consolidato della stessa Cassazione (sentenze n. 21395/05, 7472/2008, e
18174/2008).
Né la Cassazione ha inteso confermare la tesi del giudice di merito,
secondo cui poteva invocarsi il principio della clausola più
favorevole di cui all'art. 28 c. 2 del d.lgs. n. 286/98, per cui le
disposizioni del T.U. sull'immigrazione in materia di ricongiungimento
familiare possono trovare applicazione anche ai familiari di
cittadini italiani o comunitari se più favorevoli rispetto a quelle previste
dalla norme di recepimento delle direttive europee in materia di libera
circolazione e soggiorno dei cittadini comunitari e loro familiari. Secondo la
Corte di Appello di Perugia, infatti, poiché l'istituto di diritto islamico
della Kafalah è stato riconosciuto nell'ordinamento nazionale italiano ed
assimilato, in presenza di determinate garanzie, all'affidamento
familiare anche ai fini delle procedure di ricongiungimento familiare
secondo le norme del T.U. immigrazione (art. 29 c. 2 d.lgs. n. 286/98,
equiparazione dei minori affidati ai figli ai fini del ricongiungimento), tale
procedura ed il conseguente rilascio del visto per ricongiungimento familiare
poteva dunque essere attivata anche quando la persona cui era stato affidato il
minore (il c.d. Kafil) dal tribunale marocchino è un cittadino italiano o
dell'Unione europea e non soltanto quanto il richiedente è un cittadino extracomunitario.
La Cassazione non ha condiviso tale argomento. Secondo la Suprema
Corte, la portata applicativa della clausola del trattamento più favorevole di
cui all'art. 28 c. 2 del d.lgs. n. 286/98 deve essere intesa restrittivamente
solo con riguardo all'ambito delle procedure cioè delle modalità di ricongiungimento, non
con riferimento all'individuazione dei familiari beneficiari, che deve pertanto rimanere
circoscritta, per i cittadini italiani e comunitari, alle sole previsioni
del d.lgs. n. 30/2007.
Secondo la Cassazione, non sussiste un profilo di irragionevole
disparità di trattamento nel fatto che un cittadino di paese terzo può
avvalersi del ricongiungimento familiare con un minore affidatogli secondo
l'istituto della Kafalah, mentre ciò non può aver luogo per il cittadino italiano o
comunitario, in quanto nel secondo caso il cittadino italiano può assicurare
l'inserimento nella propria famiglia del minore in stato di abbandono mediante
il procedimento di adozione internazionale, secondo quanto previsto dalla legge
n. 184/1983 e successive modifiche.
La Cassazione ha pertanto accolto il ricorso del Ministero degli
Affari Esteri italiano e ha confermato il diniego di visto di ingresso adottato
dal Consolato italiano di Casablanca. fonte: http://it.west-info.eu/west/
Corte
di Cassazione, sentenza n. 4868 dd.01.03.2010 (375.29 KB)
2. Corte di Appello di Venezia: L’ingresso in Italia del coniuge
straniero di cittadino italiano può essere impedito solo se costituisce una
minaccia concreta ed attuale all’ ordine pubblico o alla pubblica sicurezza
Una condanna penale risalente nel tempo per reati connessi agli
stupefacenti non integra tale condizione ostativa (Corte di Appello di Venezia,
decreto 3 febbraio 2010)
Corte
di Appello di Venezia, sez. III civile, decreto 3 febbraio 2010 (21.77 KB)
La Corte di Appello di Venezia ha accolto il reclamo depositato
da un cittadino albanese, coniugato con una cittadina italiana, avverso la
decisione assunta dal Tribunale di Treviso di confermare il diniego oppostogli
dall'Ambasciata d'Italia a Tirana e dalla Prefettura di Treviso a
rilasciare rispettivamente il visto di ingresso ed il nulla osta al
ricongiungimento familiare, in quanto l'interessato risulterebbe pericoloso per
l'ordine pubblico o la sicurezza pubblica in relazione ad una sua pregressa
condanna a anni 3 e mesi sei di reclusione per detenzione di
sostanza stupefacente risalente all'anno 2003.
La Corte di Appello di Venezia, nel rovesciare il giudizio espresso dal
tribunale di primo grado, è partita dal presupposto che l'ingresso
ed il soggiorno dei familiari dei cittadini italiani è regolato dal d.lgs. n.
30/2007 sul recepimento della direttiva europea in materia di libera
circolazione ed il soggiorno dei cittadini comunitari e loro familiari, e che
ai sensi di detta normativa, e specificatamente dell'art. 20 comma 1,
condizione ostativa all'ingresso e soggiorno è unicamente la
pericolosità dello straniero per l'ordine pubblico o la sicurezza pubblica in
relazione a "comportamenti della persona che rappresentino una minaccia
concreta ed attuale". Secondo la Corte di Appello di Venezia, dunque, la
condanna dell'interessato ad una pena detentiva per anni 3 e sei mesi in
relazione ad un episodio di detenzione di sostanze stupefacenti risalente
al 2003 non integrerebbe tale condizione ostativa, rendendo illegittimi
il rifiuto opposto dall'Ambasciata italiana a Tirana di rilasciare il visto di
ingresso ed il silenzio opposto dalla Prefettura di Treviso - sportello unico
immigrazione- all'istanza volta al rilascio del nulla osta all'ingresso.
MINORI
Consiglio di Stato: Non può considerarsi minore non accompagnato il
minore straniero affidato ad un parente entro il quarto grado
Non trova applicazione in questi casi la norma sui minori stranieri
non accompagnati di cui all’art. 32 (Consiglio di Stato, sentenza n. 1478/2010)
Consiglio
di Stato, sez. VI, sentenza n. 1478 dd. 15.03.2010 (60.58 KB)
Il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza n. 1478
dd. 15 marzo 2010, ha affermato l'illegittimità del provvedimento di diniego
alla conversione del permesso di soggiorno per affidamento-minore età in
permesso di soggiorno per motivi di lavoro assunto dalla questura di
Alessandria nei confronti di un cittadino straniero al compimento della sua
maggiore età dopo che questi che era giunto minorenne in Italia ed era stato
affidato al fratello e alla cognata, cittadini stranieri regolarmente
soggiornanti.
La sentenza del Consiglio di Stato si riferisce al quadro normativo
precedente alla novella introdotta dalla legge n. 94/2009 in materia di
conversione dei permessi di soggiorno al compimento della maggiore età dei
minori stranieri non accompagnati precedentemente affidati.
Tuttavia, contiene un'importante affermazione anche ai fini
dell'interpretazione del nuovo quadro normativo. Il Consiglio di Stato afferma
infatti che la norma in materia di minori stranieri non accompagnati e
conversione del permesso di soggiorno al compimento della maggiore età non può
trovare applicazione nei casi di minori affidati a parenti entro il quarto
grado ai sensi della legge n. 184/1983 poiché in tali situazioni gli
interessati non possono considerarsi minori non accompagnati.
In altri termini, la questione è se il requisito del previo
inserimento e partecipazione per un periodo di due anni ad un progetto di
inserimento, introdotto dalla legge n. 94/2009 ai fini della conversione del
permesso di soggiorno per i minori stranieri non accompagnati al compimento
della loro maggiore età, debba trovare applicazione anche nei confronti del
minore straniero affidati ad un parente entro il quarto grado regolarmente
soggiornante in Italia ai sensi dell'art. 4 della legge n. 184/83 (affidamento
consensuale disposto dai servizi sociali su consenso dei genitori ovvero del
tutore, ovvero disposto dal tribunale per i minorenni ove manchi il consenso) ?
Si ritiene che a tale quesito debba essere data risposta
negativa. Il nuovo testo dell'art. 32 del d.lgs. n. 286/98, così come
modificato dalla legge n. 94/2009, richiede il requisito del progetto biennale
di inserimento sociale solo con riferimento agli stranieri affidati ex art. 2
l. 4.5.1983 n. 184 e non in relazione agli affidamenti ai parenti entro il
quarto grado che invece potrebbero sorgere per effetto della lettura
congiunta degli art. 4 e 9 della legge n. 184/83. In tali situazioni di affidamento
formale del minore a parenti entro il quarto grado, disposto dal servizio
sociale su consenso del tutore, ovvero su provvedimento del tribunale per
i minorenni, tali minori non possono nemmeno definirsi "minori non
accompagnati", ma dovrebbero essere iscritti sul permesso di soggiorno
dello straniero affidatario ai sensi dell'art. 31 c. 1 del d.lgs. n.
286/98 se infraquattordicenni ovvero dovrebbe essere loro rilasciato un
permesso di soggiorno per motivi di famiglia ai sensi dell'art. 31 c. 2.
Al compimento della maggiore età, dovrebbero dunque godere dell'automatico
rinnovo o conversione del permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 32 c.
1 d.lgs. n. 286/98, non rientrando la loro situazione nella fattispecie di cui
al successivi comma 1 bis e 1 ter.
E' importante, dunque, che durante la loro minore età e
successivamente all'affido formale al parente entro il quarto grado
regolarmente soggiornante, venga richiesta alla questura competente a favore
del minore la conversione del permesso di soggiorno da "minore
età" a "motivi di famiglia", se ultraquattordicenne ovvero
l'iscrizione sul permesso di soggiorno dell'affidatario. In caso di diniego da
parte della questura, può essere proposto ricorso al giudice civile del
tribunale di residenza.
LAVORO
Cassazione: Il datore di lavoro che impiega manodopera straniera
non in regola con il soggiorno ha l'obbligo di versare i contributi
previdenziali, anche se già soggetto a sanzione penale
L'obbligo contributivo è conseguenza del'obbligo retributivo che
sussiste anche se lo straniero impiegato è irregolare (Cassazione, sez. lavoro,
sent. n. 7380/2010)
In tema di prestazione lavorativa resa dal lavoratore extracomunitario
privo del permesso di soggiorno, la Suprema Corte ha statuito che
l'applicazione delle relativa sanzione penale non esonera il datore di lavoro
dall'obbligo di versare i contributi all'INPS in relazione alle retribuzioni
dovute.
Infatti, l'obbligo contributivo è una conseguenza automatica dell'obbligo retributivo
che sussiste anche quanto lo straniero impiegato è irregolarmente presente sul
territorio nazionale. Questo in virtù della lettura congiunta dell'art.
2126 del c.c. unitamente all'art. 22 del d.lgs. n. 286/98.
Il fatto che il datore di lavoro sia stato già sanzionato penalmente per
l'impiego di manodopera irregolare con la somministrazione di un'ammenda, è
ininfluente ai fini dell'obbligo al versamento dei contributi INPS in quanto il
pagamento di tali contributi è un obbligo derivante dal rapporto di lavoro.
Corte
di Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 7380 dd. 26.03.2010 (194.6 KB)
DIRITTI SOCIALI
Tribunale di Firenze: Gli stranieri regolarmente soggiornanti in
Italia ed invalidi civili possono accedere all’assegno di invalidità civile
anche se privi del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti
Nuova decisione giudiziaria favorevole agli stranieri, ma l’INPS
continua ad ignorare la giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Il giudice del lavoro di Firenze, con l'ordinanza dd. 19 marzo
2010, ha condannato l'INPS ed il Comune di Firenze al pagamento a favore di un
cittadino marocchino, invalido civile all'80% a causa di una malattia mentale,
dell'assegno di invalidità a decorrere dal primo giorno del mese successivo al
perfezionamento della domanda amministrativa. L'assegno di invalidità gli
era stato negato dall'INPS e dal Comune di Firenze per mancanza del
permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti richiesto dall'art. 80 c. 19
della dalla legge n. 388/2000.
Il giudice del lavoro di Firenze ha ritenuto giustificata
un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa alla luce delle
decisioni della Corte Costituzionale n. 306/2008 e 11/2009 che hanno dichiarato
illegittimo l'art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000 nella parte in cui esclude
che l'indennità di accompagnamento e la pensione di inabilità possano
essere attribuite agli stranieri extracomunitari soltanto perché non possiedono
i requisiti già stabiliti per la carta di soggiorno ed ora previsti per il
permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti.
Secondo il giudice di Firenze, la portata delle affermazioni svolte
dalla Corte Costituzionale nelle decisioni suddette, è suscettibile di trovare
applicazione mutatis mutandis a tutte le prestazioni di natura assistenziale che
costituiscono diritti soggettivi alla luce della legislazione vigente e che,
avendo collegamento con la disabilità, attengono alla tutela del diritto
fondamentale alla salute ovvero, essendo subordinate al mancato raggiungimento di
una soglia di reddito, rendono irragionevole il requisito della carta di
soggiorno, che non può essere concessa a chi si colloca al di sotto di una
soglia reddituale.
Di conseguenza, sebbene le due decisioni della Corte Costituzionale
citate attengano ad istituti diversi da quelli oggetto del presente ricorso, le
medesime considerazioni possono essere fatte valere direttamente dal giudice di
primo grado anche per l'assegno di invalidità, rendendo non necessaria una
remissione della questione al giudice di legittimità delle leggi.
Alle medesime conclusioni era giunto recentemente anche il giudice del lavoro di
Genova con l'ordinanza dd. 5 marzo 2010, con la quale l'INPS era stato pure
condannato al pagamento delle spese processuali.
Tribunale
di Firenze, ordinanza dd. 19 marzo 2010 (causa n. 3076/2009 R.G.)
DIRITTI CIVILI
Tribunale di Lamezia Terme: Il minore con doppia cittadinanza ha
diritto al doppio cognome
Il cognome materno può essere aggiunto a quello paterno se lo prevede
anche l’ordinamento giuridico dell'altro genitore. La trasmissione del solo
cognome paterno è in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento
italiano e comunitario (Tribunale di Lamezia Terme, decreto 25.01.2010).
Tribunale
di Lamezia Terme, decreto dd.25.01.2010 (40.38 KB)
Il tribunale di Lamezia Terme ha pronunciato un
significativo decreto in relazione al caso di una bambina nata dall'unione di
un cittadino italiano ed una cittadina brasiliana, ove entrambi i
genitori volevano attribuire al nascituro anche il cognome materno accanto a
quello paterno, secondo le regole vigenti nell'ordinamento brasiliano.
L'ufficiale di stato civile non aveva corrisposto ai voleri della coppia,
registrando l'atto di nascita con la sola attribuzione del cognome paterno,
secondo quanto disposto dagli artt. 237, 262, 299 c.c. e gli art. 33 e 34
del D.P.R. n. 396/2000.
A seguito del ricorso depositato entro il trentesimo giorno dalla
notifica del provvedimento ai sensi dell'art. 98 comma 3 del D.P.R. n.
396/2000, il tribunale di Lamezia Terme ha dato ragione ai genitori e ha
ordinato all'ufficiale di stato civile di disporre la registrazione dell'atto
di nascita della bambina con il doppio cognome, quello materno venendo
anteposto a quello paterno. Secondo il tribunale di Lamezia Terme, in casi come
quello venuto in giudizio, il diritto del minore al doppio cognome può
ricavarsi dai principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale italiano e
comunitario.
Riguardo ai primi, il collegio giudicante di Lamezia Terme ricorda che
la stessa Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 61 del 16.02.2006,
ebbe a sostenere che l'attribuzione al minore del solo cognome paterno sarebbe
"il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale
affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una
tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell'ordinamento e
con il valore costituzionale dell'uguaglianza tra uomo e donna".
Sebbene il giudice delle leggi abbia dichiarato alla fine inammissibile
la questione di legittimità costituzionale perché in caso contrario la Corte
avrebbe indebitamente invaso le prerogative del legislatore, il tribunale di
Lamezia Terme ricorda che i medesimi principi sottolineati dalla Corte Costituzionale
e radicati nell'eguaglianza tra i coniugi e nella salvaguardia del diritto
all'identità e alla personalità del minore, vengono pure affermati
nell'ordinamento giuridico europeo e nel sistema internazionale dei diritti
dell'Uomo. Per quanto riguarda l'ordinamento europeo, il decreto del
tribunale di Lamezia Terme ricorda la giurisprudenza della Corte di
Giustizia europea che afferma che i principi della cittadinanza europea e
della libera circolazione di cui agli art. 20 e 21 del TFUE, vietano di
imporre in materia di attribuzione del cognome, contro la volontà
dell'interessato, avente la cittadinanza di due diversi Paesi
dell'Unione, una normativa interna a rettifica dell'altra normativa
nazionale perché altrimenti si determinerebbe una discriminazione su basi di
nazionalità (Causa C. 148/02, Garcia Avello). Ugualmente la giurisprudenza
comunitaria "non permette alle autorità di uno Stato membro, in
applicazione del diritto nazionale, di negare ad un proprio cittadino (nato e/o
residente altrove) il diritto di riconoscere il cognome di un figlio così
come è stato determinato e registrato in un altro Stato membro, in cui
tale figlio è nato e risiede sin dalla nascita" (Corte di Giustizia,
sentenza dd. 14.10.2008). Sebbene la giurisprudenza comunitaria non sia
immediatamente applicabile con riferimento alle situazioni puramente interne e
non protette dal diritto comunitario, i medesimi principi ed
argomentazioni possono essere adottati mutatis mutandis
nell'interpretazione dei principi costituzionali di uguaglianza e di non
discriminazione.
Per quanto riguarda il sistema internazionale dei diritti umani, il
collegio giudicante di Lamezia Terme fa riferimento alla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell'Uomo che in alcune pronunce ha affermato il
principio della piena uguaglianza tra genitori e della conseguente eliminazione
di ogni discriminazione basata sul sesso nell'attribuzione del cognome dei
figli (sentenze 16.02.2005 Unal Teseli c. Turchia; 24.10.1994, Stjerna c.
Finlandia; 24.01.1994, Burghartz c. Svizzera). Ugualmente, la Convenzione di
New York sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle
donne, ratificata con L. 132/1985, impegna gli Stati contraenti ad
adottare tutte le misure per eliminare le discriminazioni nei confronti della
donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti
familiari e, in particolare, ad assicurare "gli stessi diritti personali
al marito ed alla moglie, compresa la scelta del cognome".
Infine, la legittimità della richiesta volta all'attribuzione ai
figli del doppio cognome in nuclei familiari misti troverebbe fondamento nella
tutela del diritto all'identità e alla personalità, almeno in quelle situazioni
ove, secondo l'ordinamento dell'altro paese di cittadinanza, come il Brasile e,
più in generale i paesi latino americani, il minore avrebbe diritto
al mantenimento del cognome materno accanto a quello paterno, per cui, se così
non fosse, il minore potrebbe utilizzare il doppio cognome nello Stato
estero, mentre sarebbe costretto ad ometterlo nello Stato italiano. A
tale riguardo, l'omogeneizzazione del cognome del minore in entrambi gli
ordinamenti giuridici di appartenenza risulterebbe più rispondente
agli interessi del minore medesimo in quanto maggiormente funzionale allo
sviluppo equilibrato della sua personalità sociale, come riconosciuto anche da
recente giurisprudenza (Trib. Di Napoli, decreto 18.03.2008).
La stessa Corte di Cassazione ha infatti recentemente affermato, con
riferimento alle situazioni di riconoscimento paterno della filiazione
successivo a quello materno, che la decisione spettante al giudice riguardo al
cognome del figlio, ai sensi dell'art. 262 c. 3 c.c., deve essere adottata in
funzione dell'esclusivo interesse del minore medesimo ad un equilibrato
sviluppo della sua personalità sociale, evitandosi ogni automatica sostituzione
del cognome materno con quello paterno, ma prevedendosi pure la possibilità
della sua aggiunta (Cassazione, sez. I, sentenza 29 maggio 2009, n. 12670)
.
Per un approfondimento sull'argomento si segnalano i commenti di
Sabrina Peron, avvocato civilista di Milano, sulla pagine web: http://www.personaedanno.it/CMS/Data/articoli/017820.aspx
Sulla questione del rapporto tra diritto alla personalità e
all'identità e normativa interna in materia di attribuzione del cognome, si
ricorda inoltre che l'ASGI ha preso posizione contro la prassi del
Ministero dell'Interno di correggere il cognome originario in base alla regole
vigenti in Italia (attribuzione del cognome paterno) nei provvedimenti di
acquisto della cittadinanza italiana. L'ASGI ha inviato una lettera al
Dipartimento per le Libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'Interno
dopo le segnalazioni giunte da diversi neo cittadini italiani. La casistica
segnalata è rilevante in quanto diversi ordinamenti stranieri differiscono
rispetto a quello italiano riguardo alle modalità di attribuzione del cognome
al momento della nascita ovvero per matrimonio. Si pensi ai paesi
latinoamericani di tradizionale coloniale spagnola o portoghese che prevedono
l'attribuzione al minore sia del primo cognome paterno sia del primo cognome
materno, ovvero ai paesi di tradizione islamica, come nel caso dell'Egitto, ove
la parte costituente il cognome è formata dal nome del padre, del nonno e del
bisnonno, con l'eliminazione dell'ultimo nome a seguito di progressione della
discendenza, ovvero all'ordinamento della Bulgaria o della ex Repubblica
Yugoslava di Macedonia che attribuiscono alla figlia il cognome paterno, ma
declinato. Secondo l'ASGI, la prassi del Ministero dell'Interno di rettificare
d'ufficio il cognome originario degli interessati, anche qualora essi
mantengano la cittadinanza di origine e a prescindere dalla loro volontà, non
appare conforme ai principi costituzionali relativi al diritto al nome e alla
personalità, così come alle norme di diritto internazionale (Convenzione di
Monaco del 1980) e comunitario, come riconosciuto più volte dalla
giurisprudenza di merito. La stessa Raccomandazione generale n. 30
dd. 1 ottobre 2004 del Comitato ONU per l'eliminazione di ogni forma di
discriminazione razziale raccomanda agli Stati contraenti la Convenzione ONU di
"prendere i necessari provvedimenti per prevenire le pratiche che negano
ai non cittadini l'identità culturale, quali ad esempio le previsioni di
diritto o di fatto che richiedano ai non cittadini di cambiare il proprio nome
per ottenere la cittadinanza" (paragrafo n. 37).
Il testo della lettera dell'ASGI sull'argomento è reperibile alla
pagina web:
http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=86&l=it
GIURISPRUDENZA EUROPEA
1. Corte di Strasburgo: Nuova condanna per
l'Italia per l'espulsione di un cittadino tunisino a rischio di tortura nel
Paese di origine
Violato dall'Italia l'art. 3 della Convenzione
europea dei diritti dell'Uomo che stabilisce che nessuno può essere sottoposto
a tortura (Sentenza Trabelsi c. Italia, 13 aprile 2010).
La Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) ha
condannato oggi l'Italia per l'espulsione di Mourad Trabelsi, l'ex imam di
Cremona, in Tunisia, suo Paese natale. Secondo i giudici di Strasburgo le
autorità italiane, rinviando Trabelsi in Tunisia, hanno violato l'articolo 3
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo che stabilisce che nessuno può
essere sottoposto a tortura o maltrattamenti
Le autorità italiane e quelle tunisine, secondo la
Corte, non sono state in grado di dimostrare che da quando l'uomo è detenuto
nelle carceri della Tunisia non abbia subito maltrattamenti. I giudici della
Cedu sottolineano che nè la firma di trattati internazionali da parte della
Tunisia, nè le leggi di questo Paese sono sufficienti a far ritenere che non
esista un rischio concreto che Trabelsi, condannato per l'appartenenza in tempo
di pace a un'organizzazione terroristica, non sia sottoposto a maltrattamenti.
Inoltre, la Corte sottolinea che le affermazioni fatte dalle autorità tunisine
sullo stato di salute di Trabelsi non sono corroborate da prove mediche e non
dimostrano quindi che l'uomo non ha subito trattamenti contrari a quanto
previsto dall'articolo 3 della convenzione. I giudici di Strasburgo hanno
stabilito che l'Italia, che ha espulso Trabelsi nonostante la Corte le avesse
imposto di non farlo, dovrà corrispondere all'uomo 15mila euro per danni morali
e 6mila per le spese sostenute.
Il
comunicato stampa della Corte europea di Strasburgo (in lingua francese)
CEDU,
sentenza TRABELSI c. ITALIE, 13.04.2010 (137.59 KB)
2. CEDU: Non può essere espulso il cittadino
iraniano a rischio di tortura nel suo paese di origine
Il rischio di subire tortura a seguito di
deportazione sussiste quando l’interessato può dimostrare di aver già subito
atti di tortura in precedenza e ha lasciato il paese illegalmente, così
esponendosi all’attenzione delle autorità in caso di rientro (CEDU, sentenza 9
marzo 2010, R. C. – Svezia).
CEDU,
sentenza dd. 09.03.2010, causa R.C. c. Svezia (n. 41827/07) (129.07 KB)
Con la sentenza datata 9 marzo 2010, la Corte di
Strasburgo ha concluso che la deportazione nel paese di origine di un
cittadino iraniano, richiedente asilo respinto, da parte delle autorità svedese
risulterebbe in violazione dell'art. 3 della CEDU che vietando i trattamenti
inumani e degradanti e la tortura, vieta pure le espulsioni degli stranieri
verso paesi ove potrebbero subire tali trattamenti od essere oggetto di
tortura.
Secondo la Corte di Strasburgo, il cittadino
iraniano avrebbe dimostrato, sebbene con il beneficio del dubbio concesso nei
procedimenti inerenti al riconoscimento del diritto d'asilo, di essere stato in
passato già sottoposto a tortura da parte delle autorità del suo paese a
seguito di arresto per la sua partecipazione a dimostrazioni e
manifestazioni popolari anti-governative nel 2001. Ugualmente, è stato
appurato nel corso del procedimento di asilo che l'interessato aveva lasciato
illegalmente l'Iran. Nel corso del procedimento, la Corte ha avuto modo di
constatare, sulla base di informazioni provenienti da fonti indipendenti,
che i cittadini iraniani che fanno rientro nel paese di origine in
circostanze ove non possono dimostrare di aver lasciato il paese legalmente, sono
soggetti a particolari verifiche e controlli da parte delle autorità di
polizia e di sicurezza iraniane. Pertanto, la Corte di Strasburgo ha
concluso che in caso di deportazione in Iran, l'interessato non
passerebbe inosservato alle autorità di polizia e di sicurezza iraniane, le
quali dunque, potrebbero venire a conoscenza del suo passato
coinvolgimento in attività anti-governative, con la conseguenza che egli
potrebbe correre un rischio fondato di essere nuovamente sottoposto a tortura o
trattamenti inumani o degradanti. Pertanto, la sua deportazione risulterebbe in
violazione dell'art. 3 della CEDU.
3. Corte di Giustizia dell’UE: In linea di
principio non è conforme al diritto comunitario fissare una quota per le
immatricolazioni universitarie di studenti non residenti per i corsi di laurea
nelle discipline sanitarie
Tale limitazione può essere compatibile con il
diritto UE solo se lo Stato è in grado di giustificarla in base ad obiettive
ragioni di tutela degli standard sanitari pubblici (CGUE, sentenza 13 aprile
2010, causa C- 73/08)
Corte
di Giustizia dell'Unione europea, sentenza dd. 13.04.2010, causa C- 73/08
(73.33 KB)
A seguito di un'azione pregiudiziale sottoposta
dal giudice costituzionale belga, la Corte di Giustizia dell'UE è stata
chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto comunitario, e
specificatamente con i principi di libera circolazione e di non discriminazione
su basi di nazionalità, di una normativa della Comunità francese del Belgio che
ha imposto una quota massima del 30% di immatricolazioni di studenti non
residenti in Belgio nei corsi universitari per le discipline sanitarie. Il
governo regionale belga ha motivato tale normativa con il crescente afflusso di
studenti dalla vicina Francia, in ragione delle limitazioni previste
dall'ordinamento francese alle immatricolazioni universitarie (numero chiuso).
La Corte di Giustizia ha confermato la sua
consolidata giurisprudenza, secondo la quale il principio di non
discriminazione tra cittadini dell'UE di cui all'art. 18 del Trattato sul
funzionamento dell'UE, vieta non soltanto le discriminazioni dirette, ma anche
quelle indirette o dissimulate ed un requisito di residenza, sebbene neutro ed
applicabile a tutti, può bene fondare una discriminazione dissimulata in quanto
tende ad incidere maggiormente sui cittadini di altri Stati membri che su
quelli nazionali. Nel caso in questione, dunque, è evidente che una quota
massima di immatricolazione di studenti non residenti fonda una disparità
di trattamento tra gli studenti residenti e quelli non residenti, risultando
nei fatti in uno svantaggio per i cittadini di altri Stati membri.
In linea di principio, una disparità di trattamento
indiretta basata sulla nazionalità è vietata dal diritto comunitario, a meno
che lo Stato che la ponga in essere sia in grado di provare che essa
persegue uno scopo legittimo e sia necessaria al raggiungimento di
quest'ultimo .
Pertanto, la Corte di Giustizia ha rinviato tale
valutazione al giudice nazionale, meglio in grado di valutare ed interpretare
il diritto nazionale, ma ha fornito al medesimo dei criteri interpretativi al
fine che tale valutazione sia pienamente compatibile con l'interpretazione comunitaria
del divieto di discriminazioni indirette ingiustificate. In sostanza, tale
misura può ritenersi compatibile con il diritto europeo solo il governo
regionale belga saprà dimostrare in maniera fondata e obiettiva che tale misura
restrittiva e potenzialmente discriminatoria ha lo scopo di tutelare gli
standard qualitativi della pubblica sanità per la comunità di lingua francese
in Belgio e non sono possibili altre misure alternative, ma tali da non
incidere sul principio di libera circolazione, per raggiungere il medesimo
scopo. Concretamente, dunque, il governo belga dovrà provare che un alto
numero di immatricolazioni di non residenti determina oggettivamente un
abbassamento della qualità dell'offerta formativa, così come incide sull'adeguata
disponibilità futura di operatori sanitari per la comunità francese in Belgio.
Ugualmente, il governo belga dovrà dimostrare che altre misure non sono
realisticamente perseguibili, quali la possibilità di incentivare la permanenza
in Belgio per l'esercizio della professione dei cittadini di altri Stati membri
che vi hanno terminato gli studi. In assenza del pieno assolvimento di
tale onere probatorio in capo alle autorità che hanno posto in essere la misura
restrittiva, quest'ultima risulterebbe in violazione dei principi di non
discriminazione e di libera circolazione, principi fondamentali
dell'ordinamento dell'Unione europea.
Il
comunicato stampa della Corte di Giustizia europea (in lingua inglese)
Il
comunicato stampa della Corte di Giustizia europea (in lingua francese)
APPROFONDIMENTI
1. Schede Pratiche sul
Diritto dell'immigrazione - I diritti connessi alla cittadinanza
dell'Unione Europea
Scheda pratica a cura di Giulia Perin, avvocato
del Foro di Padova
2. Sportello Unico
Immigrazione : on line il Massimario della Giurisprudenza
Una
raccolta in sintesi degli indirizzi giurisprudenziali più recenti in relazione
alle materie di interesse dello Sportello Unico al fine di salvaguardare i
principi di legittimità, uniformità ed economicità, nella conduzione
dell'attività istituzionale.
3. Manuale europeo
sull'integrazione - terza edizione
Rassegna di buone pratiche ed insegnamenti tratti
dall'esperienza acquisita da responsabili politici e operatori del settore in
tutta Europa.
4. L’esecuzione delle sentenze della CEDU: terzo
rapporto annuale del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
La Cancelleria della Corte Europea dei
Diritti dell'Uomo ha pubblicato le note di informazione n. 126 e 127 contenenti
i riassunti dei ricorsi di maggiore interesse dei mesi di gennaio e febbraio
2010 .
Nota
informativa sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo,
gennaio 2010, n.126
5. Il Rapporto - | Risultati e Raccomandazioni
| Analisi comparativa e raccomandazioni per legislazione e prassi
sull'applicazione delle disposizioni chiave previste dalla Direttiva Procedure
in alcuni Stati Membri
A
cura dell’UNHCR
6.
Asylum levels and
trends in idustrialised countries, 2009
Rapporto
dell'UNHCR sui livelli e le tendenze delle richieste di asilo presentate nel
corso del 2009 nei paesi industrializzati
7. The Dublin II Trap - Transfers of asylum
seekers to Greece
A cura di Amnesty International
7.
Violenza
sessuale e migrazione
Rapporto sulla realtà nascosta delle
donne migranti fermate in Marocco sulla rotta per l'Europa – Medici Senza
Frontiere
6. Stop
agli sgomberi forzati dei rom in Europa –
Resoconto
di Amnesty International
PUBBLICAZIONI
F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente
motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, II edizione, riveduta
ed ampliata, Milano, Giuffrè, 2010,
pp. XV - 497 Euro 52,00, ISBN 8814153280.
I massicci flussi immigratori degli
ultimi decenni hanno portato in Italia ed in altri Stati europei individui e
famiglie provenienti da luoghi e culture diverse.
L’immigrato, nel Paese d’arrivo,
trova regole di condotta e, in particolare, norme penali, diverse da quelle
presenti nel suo Paese d’origine, e tale diversità è dovuta, almeno in alcuni
casi, alla diversità di cultura. Tale diversità potrebbe, quindi, indurlo a
commettere un fatto previsto come reato nel Paese d’arrivo, ma che risulta,
invece, conforme, o per lo meno tollerato, nella sua cultura d’origine.
Come deve reagire il diritto penale
a siffatti reati culturalmente motivati? Deve conferire un qualche rilievo alla
‘motivazione culturale’ che ha spinto l’autore alla loro commissione, ad
esempio attraverso le c.d. cultural defenses di cui parla la dottrina
statunitense? E tale riconoscimento necessita di una previsione legislativa
speciale, o a tal fine sono sufficienti gli strumenti normativi ordinari?
Si tratta di interrogativi centrali
per il diritto penale delle società multiculturali occidentali, ai quali questo
libro – anche sulla scorta di un’approfondita analisi della
giurisprudenza italiana e straniera intervenuta sull’argomento – tenta di
fornire una risposta, capace di conciliare il rispetto della diversità
culturale con il rispetto della uniformità e della credibilità del sistema
penale.
Indice del
volume (pdf)
leggi l'introduzione [PFD 69 KB]
Fabio Basile è professore associato di Diritto penale, presso l'Università
degli Studi di Milano Statale
Newsletter a
cura di Silvia Canciani e Walter Citti
della segreteria organizzativa dell’A.S.G.I. - Associazione per gli
studi giuridici sull’immigrazione
ASGI-
Segreteria Organizzativa - Udine - tel/fax +39.0432.507115 - cell.
3470091756 - e-mail, info@asgi.it
Ufficio
Formazione - Trieste - via Fabio Severo - 34100 - 040/368463 walter.citti@asgi.it
Sede legale
– Torino – via Gerdil 7 – tel/fax +39.0114369158 –
e-mail, segreteria@asgi.it
www.asgi.it
CON IL CONTRIBUTO DELLA COMPAGNIA DI SAN PAOLO