03 dicembre 2010

“Lontano lontano oltre Milano oltre i gasometri oltre i manometri oltre i chilometri e i binari del tram”   Paolo Conte
SULLA TORRE DEGLI IMMIGRATI
l'Unità, 03-12-2010
Luigi Manconi
Cara Susanna Camusso, tra tanti arrampicatori sui tetti (Antonello Venditti ben due volte, su quello della facoltà di Architettura di Roma), non c’è stato uno che abbia deciso di salire sul terrazzino della ex Carlo Erba di via Imbonati, a Milano. In quello spazio ristretto, da ormai 28 giorni, si trovano cinque stranieri. La loro azione, appena successiva a quella intrapresa a Brescia, ha il medesimo obiettivo: il rilascio del permesso di soggiorno per quanti non hanno ottenuto la regolarizzazione a seguito di comportamenti illegali dei propri datori di lavoro. A ciò si aggiungono altre richieste, tutte ragionevoli (dal prolungamento del permesso di soggiorno per chi avesse perso il lavoro al riconoscimento della cittadinanza per chi nasce o cresce in Italia), ma è quella prima indicata la più urgente. Sullo sfondo, c’è una realtà di abusi e truffe, di discriminazioni e di sperequazioni, di speranze deluse e di aspettative frustrate. La vicenda di Brescia e quella di via Imbonati mostrano come la “sanatoria” del settembre del 2009, oltre a essere di dubbia costituzionalità (discrimina in base al tipo di attività lavorativa svolta), ha consentito che su individui, già costretti a una vita marginale e a condizioni di acuta disparità, gravassero meccanismi di pressione e ricatto ai limiti dell’estorsione. L’esito è stato che migliaia di stranieri hanno versato, di tasca propria, cinquecento euro più altro denaro destinato ad agevolare le pratiche, mai giunte a buon fine, in gran parte dei casi. Per una volta, il danno e la beffa, sono stati perfettamente contestuali, per molti versi prevedibili, spesso pianificati. Si è trattato, insomma, di una vera e propria sopercheria ai danni di chi si trovava in una condizione di estrema debolezza, nelle zone in ombra del mercato del lavoro, privo di potere contrattuale e di garanzie legali. Quelli che sono saliti sulla gru di Brescia e quelli che si trovano tutt’ora sulla torre della ex Carlo Erba sono le vittime ultime di un atto di prepotenza statuale, che produce e riproduce discriminazione per via istituzionale. I sindacati e, in particolare, la Camera del lavoro di Milano seguono la vicenda che si manifesta drammaticamente in quegli uomini inerpicati a una trentina di metri dal suolo ma che riguarda migliaia di persone. Di lavoratori. Tutti devono contribuire a che si trovi una soluzione intelligente, capace di disinnescare un meccanismo che rischia di portare tanti - che si battono per conquistare legalità e visibilità - in una condizione di irregolarità e di occultamento nelle pieghe più oscure del mercato del lavoro e della vita urbana.
Cara Susanna Camusso, mi auguro con tutto il cuore che i sindacati sappiano trovare una soluzione, innanzitutto per una ragione di diritto. Ma non solo. Tra gli iscritti alla Cgil sono 380 mila i lavoratori stranieri e moltissimi altri aderiscono a diverse organizzazioni sindacali. Questo conferma inequivocabilmente che quella dell’immigrazione non è più – se mai lo è stata – una questione di “buoni sentimenti” e nemmeno di solidarietà. È un pezzo, piuttosto, della questione sociale complessiva: e della questione sociale complessiva al tempo della nuova Grande Crisi. Per quest’ultimo motivo, sarebbe un grave errore ritenere che i cinque stranieri sulla torre siano un elemento periferico e residuale, da trattare con sufficienza quasi fossero altrettanti “casi umani”. Si tratta, invece, del “fattore umano” di una contraddizione profonda che registra il mercato del lavoro in presenza di grandi trasformazioni nazionali e sovranazionali. Guai, perciò, a pensare che “ben altri” siano i veri problemi. No, non è così: quei lavoratori sono, per un verso, i destinatari finali di un provvedimento di legge discriminatorio e irrazionale (e autolesionistico); e, per altro verso, costituiscono la conferma dei processi di mutamento del senso comune e della mentalità condivisa nel nostro paese. Il loro isolamento, l’imbarazzo che creano, la distanza incalcolabile tra loro e la città, sono altrettanti segnali di un radicale cambiamento in atto nella percezione collettiva della natura e del senso del legame sociale. Un numero crescente di italiani ritiene che, per sopravvivere alle intemperie (economiche e sociali) sia necessario, o comunque inevitabile, escludere, selezionare, discriminare. Non sono razzisti, quegli italiani che la pensano così. Sono spaventati. Anche per questo motivo, sarebbe utile un gesto, un messaggio, un’azione. Che so? Ritroviamoci sotto quella torre della ex Carlo Erba (attenzione: ho detto sotto, che c’ho un’età).



Dal 5 novembre sulla ciminiera dell'ex «Carlo erba». da cinque erano rimasti in due
Via Imbonati, protesta finita Scendono gli ultimi due immigrati
Il 32enne marocchino cede per una colica renale, il compagno lo segue. De Corato: ora sia espulso
Corriere Della Sera, 03-12-2010
MILANO - E' finita la protesta sulla ciminiera dell’ex «Carlo Erba» di via Imbonati a Milano: colpito da una colica renale e in condizioni di gravissima disidratazione, il 32enne marocchino Abdelrajat è sceso si giovedì pomeriggio dalla piattaforma su cui si trovava per protesta dal 5 novembre scorso. L'uomo è stato raggiunto da un medico inviato dalla polizia e un paramedico del 118, e all'inizio ha rifiutato le cure: al centro delle sue preoccupazioni, il timore di essere espulso una volta sceso, essendo irregolare sul territorio italiano. «La sua pratica è già stata chiusa - ha spiegato un rappresentante del Comitato Immigrati da sotto la torre - e lui ha paura di finire al Cie dopo essere stato portato all’ospedale». Sono poi intervenuti i vigili del fuoco con un'autoscala: spiegando che un medico aveva convinto lo straniero a farsi ricoverare. L'uomo è sceso tra gli applausi dei presenti. Appena sceso con l’autoscala dei vigili del fuoco, il 32enne è stato caricato su una barella e fatto salire in ambulanza che lo ha trasportato all’ospedale Niguarda. Con lui sulla torre era rimasto Marcelo Galati, l'italo argentino 40enne che ha guidato la protesta in queste settimane. Avendo la doppia cittadinanza, l'uomo non rischia di essere espulso: è quindi rimasto sulla torre più a lungo, per smantellare la tenda sotto la quale lui e i compagni si riparavano e trasportare a terra con una gru vestiti, materassi e effetti personali. Dopo 27 giorni passati all’addiaccio, coperti solo da un telone e al riparo nei sacchi a pelo, gli immigrati hanno concluso così la protesta contro «la sanatoria truffa del 2009» sull’alta torre di mattoni rossi della storica ditta farmaceutica.
UNO DOPO L'ALTRO - Da cinque che erano all'inizio, gli immigrati erano rimasti in due: dopo dieci giorni due manifestanti erano scesi dalla torre ed erano riusciti a far perdere le proprie tracce, e sabato scorso un 23enne egiziano era stato soccorso e trasportato in ospedale dopo un malore causato dal freddo. Il personale medico e le altre persone che hanno curato e dimesso il ragazzo hanno rischiato una denuncia per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
PAURA DELL'ESPULSIONE - Temono per il futuro di Abdelrajat i simpatizzanti, una cinquantina di persone, tra immigrati e militanti delle associazioni antirazziste, in presidio sotto la torre. Sembra infatti che nessuna istituzione abbia dato garanzie sul futuro in Italia del marocchino, che l’anno scorso aveva presentato domanda di emersione a Brescia. E proprio come a Brescia per il caso degli immigrati sulla gru, è facile prevedere che si apra adesso una nuova battaglia delle associazioni a tutela di chi si è reso responsabile della clamorosa protesta.
DE CORATO: ORA SIA ESPULSO - E appunto a favore dell'espulsione si esprime il vicesindaco di Milano e assessore alla Sicurezza, Riccardo De Corato. «Finalmente è finito il tira e molla. Ed è finito il sequestro del quartiere dove mi auguro si sbaracchi presto tutto l’ambaradan lasciato sul posto. Ora vediamo se la Questura riuscirà a identificare ed espellere il manifestante clandestino sceso dalla torre insieme all’italo-argentino che in qualche modo dovrà rendere conto dell’operato». «Pensare che un quarto soggetto - aggiunge - possa di nuovo volatilizzarsi dopo l’ennesimo ricovero in ospedale per malori sarebbe un’amara barzelletta. Per più di un mese un quartiere è rimasto sotto scacco, costretto a subire cortei, girotondi, baccano fino a tarda notte. E non vorremmo che finisse tutto a tarallucci e vino. Un esito che qualche altro immigrato o, chissà, qualche studente potrebbe male interpretare». «Sono pronto a presentare in sede parlamentare - conclude De Corato - un’interrogazione al ministro dell’Interno per chiedere che vengano accertate le responsabilità».



Dalla torre al Cie di via Corelli Rischio espulsione per l'immigrato

Corriere Della Sera, 03-12-2010
Alessandra Coppola
Il 32enne marocchino Abder portato in ospedale e poi al centro di identificazione. Ha una bambina in Marocco
MILANO - Alla fine ha dovuto cedere anche il marocchino Abder, 32 anni. Piegato dai calcoli ai reni, due giorni senza urinare, il dolore forte alla schiena, al freddo lassù sulla Torre di via Imbonati era impossibile restare ancora, dopo 4 settimane di accampamento. Subito dopo è sceso anche l'italo-argentino, Marcelo, tra gli applausi dei compagni del presidio: «Viva la resistenza!». Finisce così alle 6 del pomeriggio la protesta che avevano cominciato in cinque, a 40 metri d'altezza, sulla ciminiera dell'ex Carlo Erba, srotolando lo striscione «Sanatoria per tutti». L'avevano detto subito medico e infermiere del 118 chiamati dalla polizia e issati sul ballatoio dai pompieri in tarda mattinata: «Per noi sta male, deve andare in ospedale». Abder non voleva. Una moglie e una figlia che non ha mai conosciuto in Marocco, continuava a ripetere: «Non posso tornare a casa come un fallito».
RISCHIO ESPULSIONE - Da Brescia, dove lavorava, avevano fatto sapere che la sua domanda di sanatoria è stata respinta (ma non sarebbe ancora arrivato il documento che lo attesta). Se così fosse, il ragazzo sarebbe irregolare, quindi a rischio espulsione. È anche per i casi come il suo che i sindacati stanno trattando: immigrati (impiegati soprattutto nell'edilizia) per i quali i datori di lavoro hanno fatto richiesta di regolarizzazione spacciandoli per colf o badanti (unica categoria ammessa alla sanatoria), salvo poi sparire al momento in cui, convocati dalla prefettura, si sarebbero dovuti presentare a firmare il contratto.
PORTATO IN VIA CORELLI - Ieri pomeriggio Abder era stato ricoverato al Niguarda. Dimesso in serata, però, è stato portato in Questura e poi al Cie di via Corelli. Anche Marcelo, dopo 26 notti al gelo, è finito per qualche ora in ospedale: «Sto bene, adesso arriva il conte Dracula - scherzava - per il prelievo. La prima cosa che farò appena esco: una doccia. E poi voglio riabbracciare mio figlio, Diego, che non vedo da un mese: ha compiuto un anno mentre ero sulla torre e gli ho potuto fare gli auguri al cellulare». In realtà, anche per lui non è esclusa la possibilità che gli venga contestato il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Invoca la linea dura il vicesindaco Riccardo De Corato: «La polizia dovrebbe identificare ed espellere il clandestino sceso dalla torre insieme con l'italo-argentino, che in qualche modo dovrà rendere conto dell'operato. Pensare che una quarta persona possa di nuovo volatilizzarsi, dopo l'ennesimo ricovero in ospedale, sarebbe un'amara barzelletta». «Marcelo è regolare - ribattono gli avvocati del Naga - e così anche Abder finché non viene formalmente respinta la sua richiesta di sanatoria». Intanto il presidio sotto la Torre resta, la manifestazione fissata per domani non viene revocata e rimane pure l'intenzione di «incontrare il capo dello Stato il 7, alla prima della Scala, quando saremo fuori a protestare».



Immigrati giù dalla torre vinti da freddo e malori clandestino in via Corelli, tensione alla Questura

Sceso per un malore il marocchino è stato trasportato a Niguarda per accertamenti
Ma dall'ospedale è scattato il trasferimento in attesa di una possibile espulsione
la Repubblica, 03-12-2010
TIZIANA DE GIORGIO
Quando Marcelo era ormai a pochi metri da terra, dalla piazza si è sollevato un lungo applauso. Quasi una liberazione. Perché durante la prima discesa, quella di Abdelrajat, nessuno, dalla folla, aveva fiatato: stava male, il marocchino. Raggomitolato su se stesso, nel montacarichi dei pompieri che lo portava verso l'ambulanza. Per lui il ricovero al Niguarda è durato pochissimo: già poco dopo le 22, dopo una tappa in questura per le formalità, è stato rinchiuso nel Cie di via Corelli. Davanti alla sede della polizia in via Fatebenfratelli una quarantina di attivisti ha cercato di impedire la partenza dell'auto verso il centro di detenzione: risultato, tensione e una breve "carica di alleggerimento".
È finita la protesta sulla torre di via Imbonati, dopo 28 giorni al freddo, sospesi a 40 metri di altezza. I due immigrati hanno lasciato la cima: il 32enne marocchino ha avuto un malore (l'egiziano Mahmoud aveva lasciato la protesta una settimana fa per un principio di congelamento), e medici del 118 che l'hanno visitato non se la sono sentiti di lasciarlo lassù: poco prima delle quattro, dopo due tentativi di soccorso, sono riusciti a convincerlo a lasciare la ex Carlo Erba, nonostante ora sia a rischio espulsione.
Le trattative erano iniziate due giorni fa: il marocchino e l'italo-argentino avevano posto una sola condizione: "Nessuna espulsione per Abdelrajat", il solo in condizione di clandestino. Ieri mattina, però, la risposta negativa da parte della digos: dagli accertamenti risultava una richiesta di permesso di soggiorno respinta dalla questura di Brescia.
"È stato truffato dal suo datore di lavoro - spiegano dal Comitato immigrati - che gli ha chiesto soldi ma non si è mai presentato alle convocazioni della questura". Nessuna garanzia, quindi. Da qui, il no dei due stranieri: "Rimaniamo quassù", avevano fatto sapere ieri mattina. Ma le condizioni di salute di Abdelrajat, verso l'ora di pranzo, sono precipitate. Tanto che la polizia ha deciso di inviare una squadra di soccorsi sulla cima per visitarlo. Niente da fare: il giovane non si è lasciato nemmeno avvicinare, per paura che lo portassero via.
Nel pomeriggio, una nuova squadra di soccorsi ha raggiunto la torre: la volta decisiva. Abdelrajat ha ceduto, stremato dal dolore ai reni. Alle 16.50, dopo essere stato imbragato e coperto, ha toccato terra ed è stato portato al pronto soccorso del Niguarda. Il turno di Marcelo è arrivato quasi un'ora dopo. Prima, l'italo argentino ha lasciato scivolare per 40 metri, il cestino con cui solitamente arrivavano sulla cima della torre i viveri. Era pieno di coperte, tendoni impermeabili, valige.
Quando il montacarichi si è fermato, c'era la moglie, incinta del secondo figlio, ad aspettarlo. Anche lui è stato portato a Niguarda per accertamenti. Poco dopo, i vigili del fuoco e la questura hanno tagliato le scale che portavano sulla cima della ciminiera. "Ora spero che le fughe beffa siano finite", ha commentato il vicesindaco Riccardo De Corato, riferendosi ad Abdelrajat.



BARRIERE ALL'ENTRATA
Italiano per stranieri, la trappola del test

gliAltri, 03-12-2010
Laura Eduati
Quando Irina cominciò a venire saltuariamente a casa mia, tre anni or sono, non conosceva una parola di italiano. Dovevo mimare tutto: per "pulire il pavimento" prendevo lo spazzolone e fingevo di passarlo con energia; per chiedere "puoi venire mercoledì?" sfogliavo il calendario e le indicavo il giorno. Le telefonate erano una tragedia. Spesso mi passava il marito, che traduceva dall'ucraino.
Dopo qualche settimana volevo sapere se stesse bene in Italia e Irina mi guardava perplessa: allora facevo un sorriso e dicevo "contenta", poi facevo un' espressione depressa e dicevo "triste". E Irina: «Sì, contenta». Mi sentivo alquanto scema.
Mesi dopo, come per rispondere alla domanda con ritardo, mi disse: «Qui con mio marito è una luna di miele» e incespicando sulle parole mi spiegava: senza figli, senza suocera in casa, soltanto loro due a Roma lavorando sei giorni a settimana come avessero vent'anni e una vita davanti. Nel settembre del 2009 avevamo fatto richiesta di regolarizzazione con la sanatoria per colf e badanti, ma a novembre doveva ancora ricevere il suo primo permesso di soggiorno e le avevo promesso che avrei chiamato la Questura per capire come mai la procedura tardasse ben quattordici mesi. Doveva forse salire sulla gru? La sera stessa mi chiamò per dirmi che aveva controllato sul web e che i documenti erano pronti: finalmente può tornare in Ucraina e conoscere la seconda nipotina. Non è più una
migrante illegale e può viaggiare senza timore. Tra cinque anni, se vorrà, Irina potrà chiedere la carta di soggiorno e con questa vivere serenamente senza il rinnovo continuo del permesso. Per farlo dovrà necessariamente sostenere un esame di italiano perché questo dispone il pacchetto sicurezza emanato nell'estate del 2009 e che entra parzialmente in vigore giovedì con il debutto del test di lingua per gli stranieri che ormai risiedono da almeno cinque anni in Italia. Con la carta di soggiorno è impossibile tornare nella clandestinità qualora si perda il lavoro, come invece accade col semplice permesso di soggiorno, ed è dunque un obiettivo ambito anche se già subordinato a diversi requisiti: un reddito minimo, anche se famigliare, e un alloggio idoneo per legge - idoneità che però non viene richiesta ai cittadini italiani.
Che i migranti imparino l'ita-liano è cosa buona e giusta. È un antidoto essenziale contro lo sfruttamento, e anche per le emergenze come una visita al pronto soccorso. Molti medici spesso somministrano farmaci alla cieca sperando che il paziente non sia allergico: spesso non c'è il tempo di chiamare un interprete. Peraltro l'interprete non è sempre reperibile. Tuttavia con il pacchetto sicurezza l'esame di lingua non diventa un diritto bensì un obbligo. Se il migrante non supererà il test, non potrà ricevere la carta di soggiorno. A gestire il nuovo inghippo burocratico saranno le Prefetture, e l'iscrizione agli esami avverrà soltanto in forma telematica attraverso il sito del Viminale: entro sessanta giorni, così promette il ministero, al migrante verranno comunicati il giorno, l'ora e il luogo dell'esame che potrà essere svolto al computer oppure per iscritto. Il livello di conoscenza richiesta è quella che i parametri europei chiamano A2 e cioè elementare: uso di frasi semplici per soddisfare bisogni concreti, capacità di presentare se stesso e spiegare dove si abita, descrivere la propria famiglia, comprendere un interlocutore che parla lentamente. Il tutto nelle quattro abilità comunicative fondamentali: ascoltare e capire, parlare, leggere, scrivere. Insomma, se Irina dovesse affrontare  oggi  l'esame,  con ogni probabilità lo passerebbe con successo: ormai comprende perfettamente i pizzini che le lascio sul tavolo in cucina, e mi risponde facendo pochissimi errori di ortografia. Secondo alcune fonti del Viminale, ma questo non è ancora chiaro, a condurre le prove saranno gli insegnanti che lavorano nei centri territoriali permanenti (Ctp), ovvero le strutture pubbliche per la formazione degli adulti dove solitamente si organizzano corsi di italiano per stranieri. Peraltro se il migrante ha già ottenuto un certificato di frequenza presso i Ctp o presso altre strutture come la scuola Dante Alighieri, può tranquillamente evitare il test.
Il primo problema è che se gli enti di riferimento sono davvero i centri territoriali permanenti, come è logico che sia, allora qualcuno dovrebbe ricordare a Roberto Maroni che la sua collega Maria Stella Gelmini nella legge riforma sull'università non soltanto ha tagliato un'altissima percentuale di fondi ai Ctp, ma ha anche previsto che dal 2012 queste scuole smettano di organizzare classi di italiano per stranieri.
Il punto, però, è un altro. E lo sottolineano le varie associazioni che si occupano dei diritti dei migranti: imporre un test di italiano sarà un modo raffinato per escludere migliaia di stranieri dalla carta di soggiorno. Innanzitutto l'iscrizione via web: non tutti i migranti hanno accesso a internet, anche se la difficoltà può essere ovviata ricorrendo agli sportelli dei sindacati e delle associazioni.
E poi, come puntualizza Ejaz Ahmed, giornalista pakistano membro della Consulta per l'islam italiano presso il Viminale, «moltissimi migranti vivono lontani dai centri urbani, impiegati in mestieri agricoli e pastorali, e dunque non hanno la possibilità di imparare autonomamente la lingua o di frequentare un corso per stranieri». Sono soprattutto loro, secondo Ahmed, a venire esclusi dalla possibilità di ottenere la carta di soggiorno. Un'altra categoria a rischio sono le donne delle comunità musulmane, moltissime delle quali casalinghe e quindi lontane da ogni contatto con la realtà italiana: se da un lato potrebbe essere l'occasione per iscriversi alle classi di italiano, dall'altro potrebbe succedere che le famiglie rinuncino al documento di soggiorno permanente (e dunque ad una serie di diritti come la previdenza sociale) per evitare che le donne vadano a scuola. Peraltro il test, specifica il Viminale, è anche scritto. E non occorre avere insegnato una lingua per comprendere che il livello di conoscenza può limitarsi soltanto all'orale: esistono migranti che imparano qualche frase di italiano ma non saprebbero leggere o scrivere una frase, e questo succede quando l'alfabeto dell'idioma di origine è completamente differente da quello latino (cirillico, arabo, cinese, e così via). Ed esistono migranti completamente analfabeti, come alcuni rom, che nel censimento ordinato da Maroni hanno firmato con una croce. Ecco perché il test di italiano non aiuterà l'integrazione, ma l'esclusione. Pericolo che sarebbe evitato se l'insegnamento della lingua fosse garantito a tutti, con corsi aperti in ogni città, fino ai centri meno abitati, a prescindere dall'ottenimento di un documento di soggiorno.


"Mi fanno vomitare ". Anche la Lega prende le distanze
la Repubblica, 03-12-2010
FILIPPO TOSATTO
PADOVA — Ha affidato a Facebook il suo pensiero sui rom: «Mi fanno proprio vomitare. Vorrei prendere a calci tutti quelli che si fingono storpi e poi camminano normalmente. Se li vuoi cambiare, bisogna togliere i bambini appena nati alle famiglie zingare». Frasi shock quelle di Vittorio Aliprandi, consigliere comunale di Padova eletto in una lista civica vicina al Pdl, che commenta così una mozione del Pd—approvata dall'assemblea—favorevole a destinare risorse ai campi nomadi cittadini. L'esponente del centrodestra, già parlamentare leghista, non è nuovo a queste sortite. Tempo fa dichiarò di «non sapere scegliere tra un frocio e un fascista» e ora, pur definendo le sue battute una «goliardata provocatoria», ammette di avercela coi rom: «Ho avuto la casa devastata da ragazzini nomadi che mi hanno rubato pure l'orologio regalato per la laurea. È evidente che un certo fastidio nei loro confronti lo provo». Ancora: «Spiegate voi a mio figlio — incalza dalla bacheca di Facebook — che i rom che frequentavano la sua classe, serviti e riveriti con pulmino che li andava a prendere, venivano pure promossi. È gente che non si vuole integrare, se lo fanno è per fregarti. Fuori!». Mentre la Lega prende le distanze («Affermazioni personali e inaccettabili»), dal centrosi-nistra arrivano reazioni durissi-
me. «C'è un limite anche alla bassezza umana ma è evidente che il consigliere Aliprandi ha dimostrato di ignorare completamente questo concetto — attacca il segretario del Partito democratico, Piero Ruzzante—le sue farneticanti affermazioni sul popolo e sui bambini rom, del tutto simili a quelle di un nazista, lo rendono indegno di sedere nei banchi di un consiglio comunale di una città dalle tradizioni civili e tolleranti come Padova».
«Niente sconti o indulgenze, l'unica strada sono le dimissioni immediate» fa eco il coordinatore dell'Idv Antonino Pipitone. «Ecco di che pasta è fatto il Pdl — dice Alessandro Zan, assessore della Sinistra e presidente veneto di Arcigay—prendersela con gli ultimi della catena serve a distogliere l'attenzione della maggioranza silenziosa che ha creduto di trovarsi di fronte a un partito riformatore e liberista e ora scopre di vivere con meno reddito, meno lavoro, più discriminazione e soprattutto tanto odio». Chiude il sindaco pd Flavio Zanonato: «Sono parole agghiaccianti che non risolvono nulla e hanno come unico effetto quello di imbarbarire la nostra società. In nessun caso un rappresentante eletto dovrebbe violare con le parole o con i fatti i valori contenuti nella Carta dei diritti dell'uomo e nella nostra Costituzione».



Mazara, peschereccio sequestrato dai libici

Avvenire, 03-12-2010
LAURA MALANDRINO
RAGUSA - Si è fermata l'altro ieri sera, con la forza, la battuta di pesca del peschereccio "Daniela L." del compartimento marittimo di Mazara del Vallo salpato dal porto mazarese il 21 novembre scorso, il giorno dopo la festa per i 18 anni della figlia del capitano Pino Perniciaro. Bloccato dalla autorità libiche con il pretesto di controlli il peschereggio con tutto il suo equipaggio a bordo (sei marittimi: tre tunisini e tre mazaresi), invece, è stato sequestrato per violazione delle acque territoriali. L'ennesimo sequestro di un peschereccio trapanese nel Canale di Sicilia ad opera delle autorità libiche e un atto di violenza contro la marineria siciliana anche se al momento del fermo non è stato sparato alcun colpo d'arma da fuoco. «Ho parlato con il capitano Pino Perniciaro e mi ha detto che l'equipaggio stabene. Al momento del fermo è sta-to detto agli uomini dell'equipaggio che si trattava solo di controlli e non sono stati colpi - ha raccontato Cosimo Lo Nigro, armatore del peschereccio sequestrato -. I libici hanno controllato i documenti della barca e l'hanno condotta con l'equipaggio al porto di Bengasi, ma non si sono pronunciati. Ho subito contattato l'ambasciata italiana a Tripoli ma nessuno dei funzionari ancora sapeva del sequestro». Le famiglie rimangono in attesa di notizie. Avendo appreso del sequestro del peschereccio il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero ha diffuso una nota alla stampa nella quale esprime profondo disappunto per l'accaduto, la profonda vicinanza della Chiesa locale all'equipaggio e alle famiglie e chiede un intervento più deciso da parte dell'esecutivo.
«Non c'è pace nel Mediterraneo, chiamato dagli antichi mare nostrum - ha detto il presule - cioè a pieno titolo mare di tutti coloro che ne abitano le sponde. Ancora una volta gli operosi e pacifici marittimi di Mazara del Vallo devono subire la violenza di un sequestro che non ha alcuna giustificazione».
L'ambasciatore italiano a Tripoli ha compiuto "un passo ad alto livello presso il ministero degli Esteri libico" esprimendo l'auspicio che la vicenda del peschereccio di Mazara del Vallo Daniela L. "possa concludersi al più presto positivamente", hanno fatto sapere nel pomeriggio di ieri fonti della Farnesina, confermando che il peschereccio è al momento "fermo presso il porto civile di Bengasi per accertamenti presso le autorità libiche ". A quanto si apprende, l'ambasciata italiana si è anche mossa con il comando generale della Guardia Costiera libica e la Farnesina ha attivato l'antenna consola¬re di Bengasi per prestare assistenza ai membri dell'equipaggio.
Dopo il sequestro sono divampate le polemiche sugli accordi Italia-Libia che non sembrano sortire grandi risultati visto che periodicamente pescherecci italiani vengono sequestrati o addirittura mitraglaiti come nel caso del "Luna rossa" sfuggito al sequestro nel febbraio scorso. Il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei, ha affermato: «Berlusco-ni farebbe meglio a pensarci bene prima di parlare dell'accordo con la Libia come un successo». Mentre il capogruppo in commissione esteri del-l'Italia dei Valori, Stefano Pedica, ha detto: «Ieri mitragliati, oggi sequestrati: questi i risultati del trattato di amicizia Italia-Libia costato alle nostre casse ben cinque miliardi di euro. Adesso Frattini riferisca in aula». «Quello delle acque territoriali libiche sta diventando, giorno dopo giorno, un problema enorme per la nostra marineria», ha affermato il deputato pdl e sindaco di Mazara Nicola Cristaldi.


«Basta soldi alla maratona
Vincono sempre gli africani»
Il consigliere leghista padovano Giovannoni: destiniamo invece i soldi agli alluvionati
Davide D'Attino
Corriere del Veneto 03 dicembre 2010
PADOVA - «Basta soldi pubblici alla Maratona di Sant’Antonio perché a vincere sono sempre atleti africani o comunque extracomunitari in mutande». Nuova uscita choc di un esponente della Lega Nord padovana. Dopo i «rom da prendere a calci», firmata dall’ex deputato Vittorio Massimo Aliprandi, è la volta del consigliere provinciale Pietro Giovannoni che, giovedì sera, durante l’assemblea a Palazzo Santo Stefano, per la fase progettuale della 12esima edizione della Maratona di Sant’Antonio, in programma il 17 aprile 2011, ha proposto un netto taglio all’impegno finanziario degli enti pubblici. Ha proposto di «destinare altrove i fondi che, ogni anno, la Provincia trasferisce agli organizzatori della Maratona del Santo. Meglio darli ai tanti padovani colpiti dalla crisi economica o a quelli vittime dell’alluvione».



TRAPANI
Peschereccio italiano sequestrato dalla Libia
Corriere Della Sera, 03-12-2010
Sequestrato dalle autorità libiche il «Daniela L.» della flotta di Mazara del Vallo (Tp). Il peschereccio dell'armatore Cosimo Lo Nigro avrebbe sconfinato nei mari della Libia. A causa degli strumenti in avaria non è stato ancora possibile rilevare l'esatta posizione del peschereccio.



Bocciati in ospitalità

L'espresso, 03-12-2010
ALBERTO D'ARGENZIO
Un tribunale tedesco blocca il trasferimento in Italia di un rifugiato politico somalo. "Non vengono fornite garanzie sufficienti dal punto di vista umanitario, economico e sanitario"
Un'ordinanza tedesca che per l'Italia ha il sapore amaro della condanna. Il 9 novembre il giudice del Tar di Darmstadt, capitale dell'Assia, ha bloccato il rinvio in Italia di un richiedente asilo somalo di 28 anni, Y. E. M., perché, si legge nella sentenza, «emergono dubbi fondati sulla capacità della Repubblica italiana di offrire sufficienti garanzie» a chi chiede protezione internazionale. Il regolamento di Dublino prevede che un richiedente asilo, indipendentemente da dove presenti la domanda, venga inviato nel primo Stato europeo in cui ha messo piede e che lì mandi avanti le pratiche, giovandosi però di uno standard di assistenza e protezione che dovrebbe essere uniforme in tutti i paesi Ue. Ma non sempre è così. In Grecia e a Malta le condizioni sono disastrose, ma anche l'Italia mostra ora lacune evidenti, come rileva il giudice tedesco nella sua ordinanza, «in particolare in riferimento alla situazione umanitaria e soprattutto economica, sanitaria e abitativa». « La situazione per i richiedenti asilo in Italia è peggiorata in maniera inaccettabile», incalza Stephan Hocks, avvocato difensore del somalo. Y. E. M., che ha subito violenze nel suo Paese fino a perdere un occhio, e decide, come molti compatrioti, di scappare dal caos che ha divorato la Somalia. Risale l'Africa e dalla Libia, nell'aprile 2009, si imbarca alla volta di Lampedusa. Il calvario però non finisce. Il somalo viene spostato in un campo per i rifugiati, quindi, una volta ricevuto il permesso di soggiorno, va a Roma dove trova assistenza per qualche giorno in una chiesa. Ma dura poco e il giovane, non trovando una sistemazione decente parte per la Finlandia, da cui viene rinviato in Italia, secondo gli accordi di Dublino, a maggio scorso. Pochi giorni vissuti per strada lo convincono a cercare in Germania l'assistenza che dovrebbe ricevere da noi. Ma anche qui scatte Dublino e la mannaia del rinvio. "Siamo intervenuti bloccando la procedura perchè in Italia non si rispettano gli standard europei", dice ancora Hocks. II suo collega Dominik Bender è stato a Roma e Torino e assieme a dei ricercatori ha preparato un dossier sulla situazione dei richiedenti asilo. Il suo è un giudizio duro: «Mancano gli alloggi e senza residenza non si riceve il codice fiscale e la tessera sanitaria: non si può lavorare e non si ha l'assistenza medica. L'integrazione in Italia per i richiedenti asilo è un miraggio, non hanno accesso ai servizi garantiti dalle convenzioni internazionali e dalle norme Ue. Non hanno diritti e se ce li hanno, nessuno glieli spiega». Un'analisi confermata da Christopher Hein, direttore del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati: «A Roma ci sono 800 richiedenti asilo in lista di attesa per trovare una sistemazione. Queste persone sono costrette a stare per strada. E parlo solo di Roma». «La decisione del Tar tedesco era attesa», insiste Hein, «già da Germania, Regno Unito, Svezia e Danimarca ci avevano chiesto di valutare se c'erano elementi per bloccare i rinvii». «Nei campi per rifugiati tedeschi», spiegano ancora gli avvocati, «abbiamo raccolto 200 storie, tutte uguali: i richiedenti asilo arrivati a Lampedusa venivano chiusi nei centri per rifugiati nel Meridione per 5-6 mesi e poi, una volta avuto il permesso di soggiorno, invitati ad andare a Roma, Torino e Milano. Ma una volta lì, non trovano strutture, lavoro». Nel 2008 era emergenza, con 31 mila domande di asilo, ma per il 2010, "grazie" all'accordo Italia-Libia scenderanno a 8-9 mila. Non è più esodo, ma per chi arriva i servizi non si vedono lo stesso. Il caso di Y. E. M. potrebbe ora fare scuola. «Non è stato facile per il giudice tedesco», riconoscono gli avvocati, «affrontare questo caso, c'è di mezzo un grande Paese come l'Italia, ma ha visto il nostro materiale e ha avuto coraggio nel dare la sua sentenza. Dall'Italia, invece, sono arrivate solo risposte superficiali". "Ora", conclude Bendere, "speriamo che grazie a questa sentenza l'Ufficio federale per l'immigrazione blocchi i rinvii verso la l'Italia, come già fatto per la Grecia". Una retrocessione.



Integrati? Macché Gli islamici si fanno il partito

il Giornale, 03-12-2010
Livio Caputo
Già nel nome che Abdel Hamid Shaari, direttore del molto chiacchierato Centro islamico di viale Jenner, ha scelto per la lista con cui si è presentato ieri a candidato sindaco - «Milano nuova» - c'è qualcosa di inquietante. L'architetto di origine libica, cittadino italiano da molti anni e perciò titolare di tutti i diritti (...)
(...) politici, pensa evidentemente a quel 2055 in cui, secondo una attendibile proiezione basata sugli attuali flussi migratori, nella nostra città gli abitanti di origine straniera supereranno gli italiani.
Sembra un giorno ancora lontano, un problema per i nostri nipoti; ma il fatto che Shaari ritenga utile che la minoranza di immigrati abilitati a votare faccia blocco fin da ora ed entri nell'agone politico la dice lunga su quel che potrà succedere se e quando -come chiedono a gran voce Fini e la sinistra - tutti i 210mila attualmente iscritti all'anagrafe, più i nuovi che arrivano ogni giorno, potranno partecipare alle elezioni amministrative: lungi dall'integrarsi e dall'entrare a far parte delle strutture politiche esistenti come prevedono le anime belle, lungi dal diventare milanesi a tutti gli effetti, si pro-pongono di diventare una specie di enclave con i propri referenti, che badino principalmente ai loro interessi.
La discesa in campo di una lista civica che ha come candidato sindaco un musulmano e cerca di trovare un minimo comune denominatore tra le esigenze delle principali comunità straniere presenti costituisce dunque uno spartiacque nella vita politica della città. Anche se nelle liste dei candidati di «Milano nuova» al Consiglio comunale ci sarà qualche italiano (certamente di sinistra, o magari vicino alla Curia) a fare da foglia di fico, l'unico scopo di Shaari è quello diraccogliere abbastanza voti per funzionare da gruppo di pressione. Nel presentare la sua candidatura, ha precisato che, al primo turno, non intende apparentarsi né con la destra, né con la sinistra, e che deciderà da che parte schierarsi solo per l'eventuale ballottaggio. Dal suo punto di vista si tratta di una tattica intelligente, perché solo in questo modo potrà far pesare davvero le sue rivendicazioni. Ma da che parte stia lo ha fatto capire chiaramente quando, dopo avere parlato di solidarietà e multiculturalità, ha detto di «volere rilanciare i valori di accoglienza, legalità e giustizia che sono propri delle tradizioni di Milano ma che da vent'anni sono stati traditi»: dal momento che la città è governata dal centrodestra da 18, non è difficile indovinare chi, secondo il signor Shaari, siano i cattivi.
Un'altra assicurazione che lascia perplessi è che «Milano nuova» sarà una lista laica e non islamica e che non intende inserire nel programma la costruzione di una moschea «per non mettere troppa carne al fuoco». Aspirando a riunire sotto le sue bandiere tutte le comunità straniere, non poteva fare altrimenti, e tra i suoi candidati figureranno senz'altro uomini e donne delle più varie etnie. Ma, come più eminente rappresentante della comunità islamica, è difficile immaginare che non privilegi gli interessi e le esigenze dei suoi correligionari, e la scelta per la presentazione della candidatura del Teatro Ciak, dove da due anni si celebra il Ramadan, è di per sé un indizio eloquente. Comunque, Shaari non può non sapere quanto sarà arduo mettere d'accordo filippini e sudamericani cattolici, romeni e ucraini ortodossi, marocchini, egiziani, senegalesi, eritrei, tunisini e somali musulmani, cingalesi buddisti e albanesi (più o meno) atei, e che perciò dovrà appoggiarsi su un «nucleo duro».
Molti milanesi «politicamente corretti» considerano probabilmente la discesa in campo di Shaari un fatto positivo. Noi non siamo di questo parere; e ne traiamo spunto per augurarci ancora una volta che non si arrivi a un ballottaggio che gli darebbe subito un grosso potere contrattuale.




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