TRIESTE - Come criminali comuni, magnaccia o
spacciatori di droga. Gli immigrati che hanno fatto domanda di
sanatoria ma in passato non hanno rispettato un decreto di
espulsione vanno rispediti a casa.Non ovunque, ma così, come gira
agli uffici stranieri delle questure. Qua e là, alla chetichella,
partendo dalla provincia, che nessuno mangi la foglia in anticipo.
Uno sì e l'altro no, in modo che tutti restino col fiato sospeso.
Funziona così la sanatoria Maroni: inflessibile in alcune province,
a maglie larghe altrove. Una dicotomia interpretativa che colora la
carta d'Italia come le chiazze del morbillo.
Durezza a Trieste, Rimini, Perugia. Clemenza a Milano, Venezia,
Bologna e in altre province. Incertezza ovunque, di conseguenza. La
voce si è sparsa e gli immigrati si scoprono a bagnomaria, con un
contratto regolare in mano ma senza sapere ancora se saranno
espulsi o no. In gran parte africani, gli stessi che la mafia ha
preso a fucilate a Rosarno. I più visibili, quelli espulsi più di
frequente, dunque più ricattabili e di conseguenza a costo più
basso sul mercato del lavoro. L'incertezza del diritto in Italia la
vedi sulla pelle degli stranieri.
La storia si gioca negli ultimi sette mesi, da quando parte la
sanatoria Maroni. A monte, la contraddizione insita nella
precedente legge Bossi-Fini, che all'articolo 14 individua nella
mancata ottemperanza all'espulsione l'unico reato veniale del
codice per il quale è previsto l'arresto obbligatorio. Come dire:
non hai fatto niente, ma ti ficco dentro lo stesso. Di fronte a
questa incertezza del diritto, molte organizzazioni vogliono
vederci chiaro. I condannati per mancata obbedienza al decreto di
espulsione possono fare domanda, sì o no?
La Confartigianato di Rimini per esempio, città che in seguito
vedrà espulsioni, pone il quesito al Viminale. Ottiene
circostanziata risposta ufficiale via mail in 48 ore: la richiesta
si può fare. Data: 23 settembre 2009. Anche il buon senso dice che
non può essere altrimenti. Che cosa si deve sanare se non una
precedente illegalità? Che senso avrebbe impedire la legalizzazione
di coloro che sono stati illegali? Insomma: lasciate che le
pecorelle vengano a noi con fiducia.
Tutto sembra mettersi bene. Il ministero raccomanda alle
prefetture, che devono istruire le domande, di lavorare con
larghezza. Ovunque si instaura un clima di efficienza ecumenica.
Traduttori, mediatori culturali, rispetto. L'Italia sembra
improvvisamente un altro Paese. Ma attenzione: la raccomandazione
del Viminale non avviene per iscritto ma con telefonate dirette a
ogni prefetto d'Italia. L'elettore medio non deve sapere che questo
governo tratta gli immigrati come persone.
Ma i prefetti non si formalizzano e la macchina s'avvia. Scatta
l'emersione. Decine di migliaia di stranieri escono dalle
catacombe, trovano datori di lavoro per un contratto, spesso
minimale ma sufficiente. Pagano l'Inps e le varie tasse di
regolarizzazione. Firmano montagne di carte. Fanno lo stesso i
cittadini italiani che li hanno assunti. Ma l'ultima parola spetta
alla questura, che deve controllare la fedina degli
stranieri.
E qui il clima cambia di colpo. Alcune questure convocano gli
immigrati, comunicano il respingimento della domanda e,
contestualmente, il decreto di espulsione. Il pollo è lì, si è
autoconsegnato con i documenti in mano, e viene caricato su un
aereo. La sua colpa è appunto quella individuata dalla Bossi-Fini:
avere ignorato la condanna all'espulsione. Il tutto gli viene
spiegato senza preavviso prefettizio e senza dar tempo al
malcapitato di consultare un legale. Via subito. Il caso di
Trieste.
La voce gira, e gli immigrati si organizzano, cercano patrocinio
legale. Alcuni consegnano i passaporti ai loro datori di lavoro,
non si sa mai. Tutti fiutano il trappolone, temono che la larghezza
iniziale sia stata propedeutica alla chiusura successiva. E intanto
partono nuove domande al Viminale. Il giornale di Trieste, per
esempio, segnala la cosa al ministro, il quale risponde, ma con un
appunto anonimo, cioè senza firma, compilato dalla stessa
questura.
C'è scritto: la condanna per mancata obbedienza all'espulsione è da
considerarsi reato grave, tant'è vero che comporta arresto
obbligatorio. La cacciata dall'Italia è dunque legittima. L'esatto
contrario di quanto sostenuto ufficialmente il 23 settembre. Ora
nemmeno al ministero ci capiscono più niente. Gli uffici cui fanno
capo le prefettura ignorano quanto pensano e fanno al piano di
sopra gli uffici delle questure. Il marasma è tale che le stesse
questure chiedono istruzioni, vedi Pavia e Alessandria. E il
ministro risponde con appunti senza firma perché non può sostenere
un nonsenso e contraddirsi.
"Noi applichiamo la legge" dichiara il questore di Trieste, il
quale peraltro aggiunge subito dopo che il reato in questione "può
rientrare" tra quelli ostativi alla concessione della sanatoria.
"Può rientrare", si badi bene: non "rientra". Dunque
quell'interpretazione è, per sua stessa ammissione, facoltativa. Ed
è quanto avviene, per l'appunto, in giro per l'Italia. Chi vuol
mostrare i muscoli col ministro espelle; gli altri no. E le
prefetture, laddove subalterne alle questure, si adeguano
all'anarchia interpretativa. Sulla quale sarebbe ora che il
ministro si pronunciasse in prima persona, in nome dello stato di
diritto.