Newsletter ASGI n. 3 del 19 marzo 2010
Segnalazioni normative e giurisprudenziali
IN EVIDENZA
La
Cassazione e i minori stranieri: un nuovo passo indietro verso una tutela a
seconda della nazionalità?
Con
la sentenza n. 5856/2010, depositata il 10 marzo, la Corte di cassazione torna
sul tema della tutela del minore straniero, a pochissima distanza da due
pronunce della medesima Corte di segno sostanzialmente opposto (n. 22080/2009 e
n. 823/2010).Un primo commento dell'avv. Nazzarena Zorzella dell'ASGI.
La questione riguarda l’interpretazione dell’art.
31, comma 3, del TU immigrazione d.lgs.286/98, il quale, in deroga alle
ordinarie regole per l’ingresso ed il soggiorno, consente al familiare (privo
di permesso di soggiorno) del minore straniero di ottenere dal Tribunale per i
minorenni una speciale autorizzazione all’ingresso o al soggiorno “per gravi
motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle
condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano”. Se tale
autorizzazione è accordata, la questura rilascia al genitore un permesso di
soggiorno “per assistenza minore, rinnovabile, di durata corrispondente a
quella stabilita dal Tribunale per i minorenni. Il permesso di soggiorno
consente di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in
permesso per motivi di lavoro” (art. 29, co. 6 TU immigr.).
Il
commento in allegato
La sentenza della Corte
di Cassazione, Sezione Prima Civile, sentenza 14 gennaio 2010, n. 5856
Cassazione: no alla proroga del trattenimento nel
CPT senza le garanzie del contraddittorio
Necessaria la partecipazione del difensore e
l’audizione dell’interessato anche nel procedimento giurisdizionale di
decisione sulla richiesta di proroga del trattenimento. Al via un confronto
teorico e pratico sull'incidenza della stessa sul meccanismo delle proroghe dei
trattenimenti nei C.I.E. e sulle prassi nei vari centri e negli uffici dei
giudici di pace.
La Corte di Cassazione (I^ sez. civile, sent. n.
4544 del 24 febbraio 2010, pres. Adamo, rel. Macioce) si è pronunciata per la
prima volta sul procedimento giurisdizionale di decisione sulla richiesta di
proroga del trattenimento presso un Centro di Permanenza Temporanea dello
straniero già sottoposto a tale misura per il primo segmento temporale previsto
dalla legge e ha stabilito che le garanzie del contraddittorio, consistenti
nella partecipazione necessaria del difensore e nell’audizione
dell’interessato, previste esplicitamente dall’art. 14, quarto comma del d.lgs
n. 286 del 1998 per il primo trattenimento, devono essere assicurate anche per
la decisione sulla richiesta di proroga, attraverso una lettura
costituzionalmente orientata del successivo comma quinto che pur non
reiterandole espressamente, le contiene implicitamente, poiché l’opposta
interpretazione violerebbe gli artt. 3 e 24 della Costituzione. La Corte ha,
altresì precisato che l’interpretazione si applica sia al trattenimento
pre-espulsivo (ovvero finalizzato all’attuazione del provvedimento di
espulsione) sia al trattenimento dello straniero per il tempo necessario alla
definizione del procedimento relativa alla richiesta di misure di protezione
internazionale.
Prima
proposta di riflessione a margine della sentenza Cass. I^ sez. civ. n. 4544 del
24/2/2010, a cura dell'avv. Guido Savio del Foro di Torino - socio ASGI in
allegato
Si ringrazia Salvatore Fachile per la segnalazione
CIRCOLARI AMMINISTRATIVE
INPS: Assegno di maternità anche
con la sola ricevuta della carta di soggiorno
Possibile il perfezionamento
dell'istanza con l'esibizione del titolo di soggiorno anche dopo la scadenza
dei sei mesi dalla nascita (circolare INPS n. 35/2010).
L'assegno di maternità di base
concesso dai Comuni di residenza e previsto dall'art. 74 del D.lgs. n.
151/2001, già art. 66 L. n. 488/1998 a favore delle madri cui reddito familiare
non superi il tetto previsto dall'ISE (per il 2009 era di 32.222,6 euro,
relativo ad un nucleo di tre persone) spetta anche alle cittadine di Paesi terzi
non membri dell'UE in attesa del rilascio del permesso di soggiorno CE per
lungo soggiornanti o della carta di soggiorno prevista per i familiari di
cittadini di altri Paesi membri dell'Unione europea o italiani, anche qualora
non riescano a ottenere il rilascio del suddetto documento di soggiorno entro i
sei mesi successivi alla nascita, termine previsto dalla legge per richiedere
il beneficio a pena di decadenza. Con la circolare n. 35 dd. 09.03.2010,
l'INPS ha mutato il proprio precedente orientamento restrittivo, secondo il
quale le istanze per il riconoscimento del diritto all'assegno dovevano essere
perfezionate entro il termine massimo di sei mesi successivi alla nascita con
l'esibizione della carta di soggiorno o permesso di soggiorno CE per lungo
soggiornanti. Di conseguenza, a seguito della circolare, coloro che sono
in attesa di rilascio del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti o
della carta di soggiorno per familiari di cittadini comunitari o italiani
possono presentare istanza per il riconoscimento dell'assegno di maternità e
gli uffici comunali dovranno tenere in sospeso le istanze presentate fino
all'esibizione del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti o della
carta di soggiorno fino all'esibizione del titolo (in forma elettronica o
cartacea), che potrà avvenire anche dopo la scadenza del termine di sei mesi
dalla nascita, senza pregiudicare la possibilità per le interessate di accedere
al beneficio.La circolare dell'INPS chiarisce che possono beneficiare
dell'assegno di maternità previsto anche le cittadine non comunitarie in
possesso della carta di soggiorno di familiare di cittadino dell'Unione o di
cittadino italiano o della carta di soggiorno permanente per i familiari di
cittadini dell'Unione o italiani previste dal d.lgs. n. 30/2007 (artt. 10, 17 e
23). Tali categorie di persone beneficiano infatti del principio di parità di
trattamento in tutti gli ambiti di competenza dei trattati europei, inclusa
l'assistenza sociale (art. 24)La domanda va presentata al proprio Comune di
residenza e non è richiesto alcun requisito contributivo e/o lavorativo. Nel
caso in cui la madre ha diritto ad un trattamento economico di maternità
inferiore rispetto all'assegno, viene corrisposta la differenza. Si ricorda che
la disposizione di legge che ha introdotto tale assegno di maternità (art. 66
l. 448/98 poi modificata con il d.lgs. n. 151/2001, art. 74) ha limitato
l'erogazione di detto beneficio ai soli cittadini italiani, comunitari, o
extracomunitari muniti di carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno CE per
lungo soggiornanti ai sensi del d.lgs. n. 3/2007), escludendo i cittadini di
paesi terzi non appartenenti all'Unione europea muniti di mero permesso di
soggiorno.Successive circolari hanno esteso ai rifugiati e ai titolari di
protezione sussidiaria l'accesso a tale beneficio, in ottemperanza alle norme
di diritto internazionale e comunitario che li riguardano.L'esclusione delle
cittadine di Paesi terzi non appartenenti all'Unione europea e munite di mero
permesso di soggiorno costituisce una chiara violazione delle seguenti norme di
diritto internazionale, europeo e costituzionale:
- Clausola di parità di trattamento
e di non discriminazione in materia di sicurezza sociale, incluse le
prestazioni familiari a carattere non contributivo, contenuta negli Accordi di
associazione euro mediterranei stipulati tra l'Unione europea e rispettivamente
la Repubblica di Tunisia, il Regno del Marocco e l'Algeria con riferimento ai
lavoratori di nazionalità tunisina, marocchina e algerina e i loro familiari, a
prescindere dalla nazionalità. In proposito si veda come significativo
precedente giurisprudenziale: Tribunale
di Genova, ordinanza 3 giugno 2009, Ahmed CHAWQUI c. INPS;
- Clausola di parità di trattamento
e di non discriminazione in materia di sicurezza sociale , incluse le
prestazioni di natura familiare non contributive, di cui all'Art. 3-1° della
Decisione n. 3/80 del Consiglio d'associazione dell'Accordo di associazione
CEE-Turchia del 1963, a favore dei lavoratori turchi soggiornanti in un Paese
dell'Unione europea e dei loro familiari, a prescindere dalla nazionalità;
- Clausola di parità di trattamento
in materia di prestazioni di sicurezza sociale, incluse le prestazioni
familiari a carattere non contributivo, di cui al Regolamento comunitario n.
859/2003/CE a favore dei lavoratori di paesi terzi che possano dimostrare il
loro pregresso soggiorno e attività lavorativa in un altro paese membro
dell'UE;
- Convenzione ONU di New York sui
diritti del fanciullo (artt. 26 e 27 in combinato disposto con l'art. 2:
divieto di discriminazione dei fanciulli in relazione allo status dei genitori
anche nell'ambito della protezione sociale)
- Interpretazione della clausola generale
di non discriminazione di cui all'art. 26 Patto internazionale sui diritti
civili e politici; di cui all'art. 2 c. 2 Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali - General Comment n. 20 all'art. 2.2. del
Comitato ONU per i diritti economici, sociali e culturali, 25 maggio 2009; di
cui all'art. 14 della CEDU in relazione all'art. 1 Protocollo n. 1 alla CEDU,
come affermato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, per cui una
discriminazione fondata sulla nazionalità riguardo a prestazioni assistenziali,
soprattutto se riferite a minori e alla tutela della famiglia, non risponde ai
requisiti di ragionevolezza e obiettività per essere considerata legittima. In
aggiunta, la Corte europea dei diritti dell'Uomo non sembra orientata a
riconoscere un carattere di ragionevolezza e obiettività alle differenze di
trattamento nella fruizione di prestazioni sociali di natura familiare
(promosse cioè con l'intento di difendere la vita familiare) fondate sul
diverso grado di consolidamento del soggiorno regolare dello straniero (Okpisz
c. Germany
25.10.2005; Niedzwiecki c. Germany 25.10.2005).
- Clausola di parità di trattamento
in materia di sicurezza sociale tra lavoratori nazionali e lavoratori migranti,
senza distinzione a seconda del grado di consolidamento del soggiorno di questi
ultimi nello Stato parte di cui all'art. 10 Convenzione OIL n. 143/1975;
- Ugualmente, la distinzione di trattamento tra stranieri titolari di permesso
di soggiorno CE per lungo soggiornanti e regolarmente soggiornanti con mero
permesso di soggiorno non appare sorretta dai criteri di ragionevolezza
richiamati dalla Corte Cost. (sentenza n. 432/2005) con riferimento alla
finalità della norma a tutela dei neonati collocati in nuclei familiari in
condizioni di disagio economico, finalità che dovrebbero escludere
discriminazioni all'interno della popolazione residente nel paese in
ottemperanza al carattere universalistico dei principi di protezione dei minori
e della famiglia nel nostro ordinamento costituzionale.
Circolare
INPS n. 35 dd. 09.03.2010 (assegno di maternità)
Commento a cura di Walter
Citti
I titolari di permesso di
soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo concesso da altro Stato membro
che si trasferiscono in Italia hanno diritto ad un permesso di soggiorno
ordinario
Così precisa la circolare del
Ministero dell'Interno dd. 16 febbraio 2010.
Intervenendo in risposta a numerosi
quesiti, la circolare del Ministero dell'Interno dd. 16 febbraio 2010 Nr.
400/A/2010/12.214.9 bis chiarisce che l'autorizzazione al soggiorno da
rilasciare agli stranieri che, in possesso di un permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo concesso da altro Stato membro, si trasferiscono
in Italia per un periodo superiore a tre mesi, è il semplice permesso di
soggiorno e non il permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti.
Quest'ultimo potrà essere ottenuto dallo straniero già trasferitosi in Italia
solo dopo cinque anni di soggiorno ed in presenza degli altri requisiti
previsti dall'art. 9 del d.lgs. n. 286/98.
Circolare
del Ministero dell'Interno dd. 16 febbraio 2010 Nr. 400/A/2010/12.214.9 bis
NOTIZIE, NORMATIVA E PROVVEDIMENTI LOCALI
Friuli Venezia Giulia : il Governo impugna la legge finanziaria regionale
Ingiustificatamente discriminatoria la nuova
norma che prevede l'accesso ai servizi sociali ai soli residenti da almeno
trentasei mesi in regione .
Il Consiglio dei Ministri di lunedi 1 marzo 2010 ha
impugnato la L.r. della Regione Friuli Venezia Giulia n.24/2009 recante:
Disposizioni per la formazione del bilancio pluriennale e annuale della regione
(Legge finanziaria 2010), per la previsione di due disposizioni ritenute
discriminatorie in materia di godimento di determinate prestazioni sociali, con
riguardo alla esclusione di alcune categorie di soggetti, senza adeguata
motivazione. Come auspicato recentemente dall'ASGI, che aveva
inviato un documento al Dipartimento Affari Regionali della
Presidenza del Consiglio dei Ministri e all'UNAR, il Governo ha ritenuto
d'impugnare la legge regionale di fronte alla Corte Costituzionale ai sensi
dell'art. 127 Cost. L’ ASGI chiedeva un'interpretazione
costituzionalmente orientata della nuova normativa al fine di non escludere dal
sistema integrato dei servizi sociali i cittadini italiani e di altri Paesi
membri dell'UE con meno di 36 mesi di residenza sul territorio regionale,
nonchè i cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti e residenti sul
territorio regionale.Tale previsione, afferma la nota del Governo "
di fatto, comunque esclude dal sistema regionale assistenziale intere categorie
di persone (gli extracomunitari, persone senza fissa dimora, ecc..). Tale
previsione è ingiustificatamente discriminatoria non solo nei confronti degli
extracomunitari residenti ma anche nei confronti dei comunitari (inclusi tutti
i cittadini italiani) non residenti ovvero non da trentasei mesi. Si precisa
che la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali (l. n. 328/00) nel disporre all'articolo 2, comma 1 che hanno
diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di
interventi e servizi sociali i cittadini italiani delega alle leggi regionali
la determinazione delle modalità e dei limiti di accesso (nel rispetto degli
accordi internazionali) anche per i cittadini di Stati appartenenti all'Unione
europea ed i loro familiari, nonché gli stranieri, ecc.; tale delega non si può
tradurre in una esclusione di intere categorie di persone, indiscriminata ed
ingiustificata. Così disponendo la norma regionale pone delle discriminazioni
in materia di godimento di determinate prestazioni sociali con riguardo ad
alcune categorie di cittadini che, non essendo assistite da un'adeguata
giustificazione, si pongo lesive dei principi fondamentali dell'Ordinamento
giuridico. Tale ingiustificata discriminazione determina, quindi, una
violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione dagli
articoli 2 e 3, nonché una lesione dell'articolo 38 della Costituzione che
garantisce l'assistenza sociale ad ogni cittadino sprovvisto dei mezzi
necessari per vivere e, ancora, una violazione dell'articolo 97 della
Costituzione in quanto la legge censurata non assicura il buon andamento e
l'imparzialità della Pubblica Amministrazione. ".
Fonte: Ministero
Affari regionali e Autonomie locali
GIURISPRUDENZA
ASILO E PROTEZIONE INTERNAZIONALE
TAR Lazio: il richiedente asilo ha diritto di accedere al fascicolo
personale presso la Commissione asilo
Il richiedente asilo è titolare di un interesse giuridicamente
rilevante all'accesso alla documentazione in base alla legge n. 241/90.
Il richiedente asilo ha diritto ad accedere al suo fascicolo
personale relativo alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato ai
sensi della legge n. 241/90 , in quanto è titolare di un interesse
giuridicamente rilevante e sussiste un nesso strumentale tra tale
interesse e la documentazione richiesta. Di conseguenza, sussistono i presupposi
per l'accesso documentale di cui all'art. 25 della legge n. 241/90. I limiti
all'accesso nell'ipotesi di documenti coperti da segreto di stato o contenenti
dati sensibili, di cui all'art. 24 l. 241/90, non essendo stati dedotti
dall'Amministrazione, sono dunque ininfluenti ed il silenzio-rifiuto ad
un'istanza di accesso alla documentazione deve ritenersi dunque illegittimo. Il
TAR dunque può ordinare il Ministero dell'Interno e la Commissione asilo a
consentire al ricorrente l'accesso al fascicolo personale.
Questo è il contenuto della sentenza del TAR
Lazio n. 3202 del 1 marzo 2010.
La parte di interesse della sentenza è reperibile sul sito:
http://www.deaweb.org/semplice.notizie.focus.php?id=5703
Diritto alla protezione sussidiaria in caso di violenza
generalizzata nella regione di provenienza del richiedente asilo
Sentenza del Tribunale di Trieste a seguito del ricorso di un
cittadino afgano (n. 98/09 dd. 09.03.2009)
Una sentenza del Tribunale di Trieste ha
riconosciuto il diritto al riconoscimento della protezione sussidiaria al richiedente
asilo proveniente da un Paese e segnatamente da una regione del
medesimo segnati da una tale violenza indiscriminata per cui la
vita o l'incolumità di qualsiasi residente potrebbero essere minacciate.
Nel pronunciare la sentenza con la quale ha annullato la decisione
negativa assunta dalla Commissione territoriale asilo di Gorizia, il
Tribunale di Trieste ha fatto espresso riferimento alla pronuncia della
Corte di Giustizia dell'Unione europea dd. 17.02.2009 ( causa C-465/07), relativa
all'interpretazione della nozione di "violenza indiscriminata" quale
condizione per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi
dell'art. 15 lett. c) della direttiva n. 2004/83. Secondo detta sentenza della
Corte di giustizia, sussiste il fondamento per il riconoscimento della
protezione sussidiaria "qualora il grado di violenza indiscriminata che
caratterizza il conflitto in corso (...) raggiunga un livello così elevato che
sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese in questione
o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola
presenza sul territorio di questi ultimi un rischio effettivo di subire una
minaccia grave di cui all'art. 15 lett. c) della direttiva".
Dunque, in tali casi, la nozione di violenza indiscriminata consente
in linea di principio di estendere la protezione sussidiaria a tutte le persone
provenienti da quel Paese ovvero, se nel caso, dalle regioni interessate, a
prescindere dalla loro situazione personale.
Tale ragionamento è stato seguito dal giudice di
Trieste con riferimento ad un richiedente asilo afgano sulla base dei dati
raccolti e delle informazioni acquisite dai rapporti e dagli appelli dell'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati relativi alla situazione interna
della sicurezza in numerose regioni dell'Afghanistan, inclusa quella di
provenienza dell'interessato.
Tribunale
di Trieste, sentenza n. 98/09 dd. 09.03.2009 (protezione sussidiaria
richiedente asilo afgano)
Si ringrazia
per la segnalazione l'avv. Livio Cancelliere
Tribunale di Trieste: Ha diritto allo status di rifugiato il
richiedente che subisce atti persecutori nel Paese di origine in ragione del
suo orientamento sessuale e non può invocare la protezione delle autorità
poiché lì l’omosessualità costituisce un reato
Sentenza del Tribunale di Trieste in riferimento ad un richiedente
asilo dal Benin (sentenza n. 304/2009 dd. 17.08.2009)
Accogliendo il ricorso proposto contro la decisione della
Commissione territoriale di Gorizia di rigetto dell'istanza di riconoscimento
dello status di rifugiato e di riconoscimento soltanto della protezione
sussidiaria, Il Tribunale di Trieste ha riconosciuto lo status di
rifugiato ad un cittadino del Benin che aveva lamentato di aver subito atti
persecutori nel Paese di origine per ragioni legati alla sua scelta di
intrattenere una relazione omosessuale. Sulla base dei principi relativi
all'attenuazione dell'onere probatorio affermati nella sentenza delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione n. 27310 del 2008, il giudice civile di
Trieste ha considerato sufficientemente provati gli atti di persecuzione
lamentati dal ricorrente (intimidazioni, violenza fisica, perdita del lavoro),
che in quanto collegati alla libera scelta del proprio orientamento
sessuale, ha ritenuto qualificabili alla stregua di violazione gravi di diritti
fondamentali. Il giudice di Trieste ha considerato inoltre la contraddittorietà
del fatto che al compagno del ricorrente fosse stato invece
concesso lo status di rifugiato politico dalla commissione territoriale asilo
di Milano. Ulteriormente, il giudice di Trieste ha affermato che sebbene tali
atti persecutori provenissero da privati, il ricorrente non avrebbe potuto
invocare la protezione delle autorità, in quanto in Benin il mero compimento di
atti omosessuali è punito con la reclusione da 1 a 3 anni come previsto
dall'art. 88 del c.p.. Di conseguenza, il giudice di Trieste ha ritenuto fondato
il timore del ricorrente di essere perseguitato per motivi legati alla
manifestazione di un orientamento sessuale in caso di ritorno nel Paese di
origine.
Tribunale
di Trieste, sentenza n. 304/09 dd. 17.08.09 (status di rifugiato, orientamento
sessuale)
Cap
Anamur: non
commette reato chi effettua il salvataggio in mare di migranti naufraghi e li
conduce in "luogo sicuro"
Depositate
le motivazioni della sentenza del Tribunale di Agrigento che ha assolto il
comandante e l'equipaggio della "Cap Anamur".
Il 15 febbraio scorso, il Tribunale di Agrigento ha depositato
le motivazioni della sentenza emessa il 7 ottobre dello scorso anno con
la quale, dopo cinque anni di procedimento, sono stati assolti tutti gli
imputati del caso "Cap Anamur".Il Tribunale di Agrigento aveva
pronunciato una sentenza di assoluzione con formula piena "perché il fatto
non costituisce reato" nei confronti di Elias Bierdel, del comandante
Schmidt e del suo secondo, imputati di agevolazione dell'ingresso di
clandestini dopo avere soccorso, nel giugno 2004, 37 migranti, naufraghi alla
deriva a cento miglia a sud di Lampedusa. E' stato anche disposto il
dissequestro del deposito cauzionale che era stato versato dopo il sequestro
della nave, restituita al comitato Cap Anamur e poi venduta. Il messaggio che
emerge dalle motivazioni della sentenza del Tribunale di Agrigento è che chi
effettua il salvataggio a mare non commette alcun reato ed il comandante è
l'unica persona che può individuare il "luogo sicuro", anche da un
punto di vista giuridico, per lo sbarco. Gli Stati devono, dunque,
rispettare il diritto internazionale del mare, che vieta anche i
respingimenti collettivi, ed il divieto di refoulement affermato dalla
Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati. Le stesse
motivazioni enunciano principi di diritto internazionale, come l'obbligo di
condurre i naufraghi in un "place of safety", e non nel
porto più vicino. L'ASGI rammenta che tale principi sono stati costantemente
violati dalle autorità italiane con la prassi dei respingimenti congiunti verso
la Libia attuati lo scorso anno.Dopo anni di indagini, e dopo l' audizione di
numerosi testimoni, tutte le accuse formulate dalla Procura di Agrigento nei
confronti dei responsabili della "Cap Anamur" sono risultate
destituite di ogni fondamento. E' stata respinta l' iniziale ipotesi
accusatoria della forzatura del blocco navale che era stato imposto alla Cap Anamur,
tenuta per due settimane al largo delle coste siciliane per decisione del
governo italiano, ed è stata accolta la tesi della difesa dell'esistenza di una
situazione d' urgenza e di stato di necessità, determinata a bordo
della nave da una così lunga permanenza dei naufraghi, ai quali venivano
impediti lo sbarco e la possibilità di fare valere la loro richiesta di asilo o
di protezione umanitaria. Il collegio giudicante ha respinto la ricostruzione
dei fatti proposta dall'accusa, la quale - per contestare le aggravanti
derivanti dalla ipotesi associativa- ha coinvolto nel procedimento anche
il "secondo di bordo", soggetto del tutto privo di autonoma capacità
decisionale sulla condotta della nave, rimessa esclusivamente ai poteri del
comandante. Le motivazioni adesso rese note forniscono finalmente il
chiarimento definitivo di circostanze che nei primi rapporti di polizia, talora
contraddittori, anche alla luce delle successive deposizioni rese in aula dai
massimi vertici del ministero dell'interno, tendevano ad addossare ai
responsabili della Cap Anamur sia i ritardi nelle comunicazioni che lo stato di
emergenza che si viveva a bordo della nave dopo che i ministri dell'interno di
Germania e Italia non erano riusciti a trovare una intesa sulla richiesta di
ingresso e di asilo presentata dai naufraghi.La vicenda processuale, con il
concorso di tutte le parti, ha permesso di accertare come i dinieghi frapposti
per settimane all'ingresso della Cap Anamur nelle acque territoriali fossero
destituiti di qualsiasi fondamento giuridico, derivando da "scelte
politiche" dell'allora ministro dell'interno Pisanu, concordate in un
vertice europeo con la Germania e la Gran Bretagna a Sheffield; "scelte
politiche" che sul piano interno si sono poi tradotte nel ritiro "in
autotutela" dei permessi di protezione umanitaria concessi a 21 dei
rifugiati dopo lo sbarco in Sicilia, ed ancora nella espulsione sommaria di
tutti i naufraghi, meno due, malgrado le decisioni di sospensiva provenienti da
giudici diversi ed un ricorso pendente dinanzi alla Corte Europea dei diritti
dell'Uomo.La sentenza di Agrigento costituisce una importante affermazione
dello stato di diritto di fronte al tentativo delle autorità amministrative
italiane di configurare "a posteriori" una fattispecie di responsabilità
penale, in violazione del principio di legalità e di responsabilità personale
sui quali si basa nel nostro sistema il diritto penale. Un tentativo che si è
dispiegato ancora nel corso del 2009 con la prassi dei respingimenti
collettivi, che violano il diritto interno e le Convenzioni internazionali, e
con la introduzione del reato di immigrazione clandestina, una fattispecie che
nella sua concreta attuazione viola il principio di parità di trattamento ed è
rimessa sostanzialmente alla discrezionalità delle autorità di polizia. Le
motivazioni della sentenza sul caso Cap Anamur sembrano riflettere una
diversità di approccio rispetto alla successiva sentenza dello stesso Tribunale
di Agrigento nel processo a carico dei sette pescatori tunisini che nel 2007 soccorsero
altri naufraghi alla deriva nel Canale di Sicilia. Una sentenza che, se ha
affermato l'assoluzione degli equipaggi, ha condannato i due comandanti
dei pescherecci che operarono l'intervento di salvataggio.La Corte di
Appello di Palermo, presso la quale è pendente il ricorso contro la sentenza
del tribunale di Agrigento che ha condannato i due comandanti
tunisini autori dell' intervento di salvataggio, potrà così tenere conto
delle motivazioni della sentenza sul caso Cap Anamur. La sentenza di
assoluzione del Tribunale di Agrigento costituisce pertanto una vittoria per
tutte le associazioni e i movimenti che si sono opposti in questi anni
alla politica dei respingimenti collettivi nel Canale di Sicilia operati dal
governo italiano e alle modalità di coinvolgimento in detta politica di
contenimento anche della missione FRONTEX. Si confida che presto la Corte
Europea dei diritti dell'Uomo e la Commissione Europea si pronuncino sui
ricorsi e le denunce che sono state presentate contro l'Italia lo scorso anno .
Sentenza
del Tribunale di Agrigento, sez. penale, dd. 15.02.2010 (cap Anamur), 1a. parte
Sentenza
del Tribunale di Agrigento, sez. penale, dd. 15.02.2010 (cap Anamur), 2a. parte
SOGGIORNO
TAR Lombardia: La prostituzione non può essere di per sè motivo di
diniego del permesso di soggiorno se la persona svolge anche una regolare
attività di lavoro
Tuttavia se i mezzi di sostentamento derivano esclusivamente
dall'attività di meretricio, il diniego al permesso di soggiorno è legittimo
(TAR Lombardia, sentenza n. 459/2010)
Con sentenza n. 459/2010 depositata il 25 febbraio, il TAR Lombardia
(sez. IV) ha respinto il ricorso presentato da una cittadina straniera cui era
stato negato dalla questura di Milano il rinnovo del permesso di soggiorno
perché era stata sorpresa più volte ad esercitare la prostituzione ed i redditi
di lavoro dipendente che aveva dichiarato erano insufficienti al suo
mantenimento.
Nella sentenza, il TAR afferma che "l'attività di meretricio se esercitata
da persona che è anche in possesso di uno stabile lavoro in Italia non è di per
sé motivo di diniego del permesso di soggiorno, ma se il sostentamento
dell'extracomunitario deriva in via esclusiva da detta attività, che comunque
rimane contraria al buon costume anche se non costituisce reato laddove
esercitata in certe forme, legittimamente viene negata la possibilità di
permanere sul territorio nazionale". Nel caso in specie, dalle risultanze
dei controlli effettuati, è emerso che l'interessata aveva denunziato un
rapporto di lavoro come domestica in realtà solo fittizio, e per il quale
venivano pagati i contributi previdenziali al solo fine di avere una copertura
legale per l'attività di meretricio.
TAR
Lombardia, sentenza n. 459 dd. 25.02.2010
DIRITTO ANTI-DISCRIMINATORIO
Tribunale di Brescia: Discriminatorio il bando del Comune per
l'assegnazione di premi scolastici ai soli studenti italiani
Respinto il reclamo del Comune di Chiari contro l'ordinanza di
primo grado. Le associazioni sono legittimate ad agire nelle discriminazioni
collettive.
Il collegio giudicante del Tribunale di Brescia, con ordinanza
depositata il 4 marzo 2010 (n. 1317/2010), ha respinto il reclamo proposto dal
Comune di Chiari (Brescia) contro l'ordinanza di primo grado del medesimo
tribunale datata 19 gennaio 2010 che aveva affermato la natura discriminatoria
del bando di concorso per l'assegnazione di "premi all'eccellenza
scolastica" a studenti meritevoli di cittadinanza italiana residenti
nel territorio comunale.
Il Comune di Chiari aveva presentato reclamo sostenendo innanzitutto
che le associazioni promotrici dell'azione giudiziaria anti-discriminazione,
ASGI e Fondazione Piccini per i diritti dell'Uomo, non erano
legittimate ad agire. Secondo il Comune, anche
presupponendo l'esistenza di un caso di discriminazione collettiva
fondata sulla nazionalità, non si poteva sostenere che le persone lese dalla
discriminazione non fossero direttamente ed immediatamente individuabili,
condizione questa per l'esercizio del diritto alla legittimazione ad agire da
parte di associazioni con uno specifico interesse sul tema delle
discriminazioni etnico-razziali.
Il collegio giudicante di Brescia ha respinto il reclamo, sostenendo
che per l'applicazione della norma sulla legittimazione collettiva ad agire è
sufficiente che i soggetti lesi, pur astrattamente determinabili alla luce del
contenuto della condotta discriminatoria, siano concretamente individuabili
solo con difficoltà. Nel caso in specie, essendo il concorso indirizzato agli
studenti residenti nel Comune, ma frequentanti qualsiasi istituto scolastico in
Italia , il requisito dell'oggettiva difficoltà di individuazione doveva
ritenersi sussistente.
Il reclamo del Comune di Chiari, inoltre, sosteneva
l'inapplicabilità dell'art. 43 del T.U. immigrazione, in quanto la norma si
riferirebbe soltanto a quelle ipotesi di condotte discriminatorie che incidono
sul godimento di diritti umani fondamentali, mentre il concorso rivolto a
premiare gli studenti meritevoli con un buono finalizzato all'acquisto di un
computer aveva un carattere meramente premiale ed occasionale. Il collegio
giudicante ha respinto anche questo argomento, sostenendo che sia l'art. 43 che
il d.lgs. n. 215/2003 si riferiscono a tutti i possibili atti di discriminazione
che riguardino, tra l'altro, il settore dell'istruzione. Il collegio giudicante
ha pertanto confermato l'ordinanza di primo grado, ritenendo che il requisito
della cittadinanza italiana non ha alcuna ragionevole correlabilità con le
altre condizioni di merito e di residenza previste nel bando di
concorso, alla luce del principio generale di parità di trattamento
e di divieto di discriminazione operante nell'ordinamento giuridico italiano.
Il Comune di Chiari è stato condannato al pagamento delle spese legali
del procedimento.
Tribunale
di Brescia, ordinanza dd. 04.03.2010 n. 1317/2010 (discriminazione, Comune di
Chiari)
Tribunale
di Brescia, ordinanza dd. 19.01.2010 n. 4536/09 (Comune di Chiari)
Si ringrazia l'avv. Guariso per la segnalazione
Tribunale di Milano: E’ illegittimo in quanto discriminatorio
assegnare alloggi ai soli studenti universitari di cittadinanza italiana.
Respinto il reclamo della Provincia di Sondrio
Il decreto n. 215/03 applicabile anche alle discriminazioni su base
di nazionalità perché indirettamente si tratta di discriminazioni su base
etnico-nazionale (Tribunale di Milano, ordinanza n. 96/2010 dd. 09.02.2010)
Il Tribunale di Milano ha respinto il reclamo
presentato dalla Provincia di Sondrio contro l'ordinanza del giudice di primo
grado emessa il 28 luglio 2009 con la quale si era affermata la natura
discriminatoria del requisito della cittadinanza italiana previsto dal
bando indetto dalla Provincia di Sondrio per l'assegnazione di alloggi a
Milano per studenti universitari della provincia. Il giudice di Milano
aveva accertato la natura discriminatoria della clausola di cittadinanza in
quanto contraria al principio di parità di trattamento tra cittadini e
stranieri in materia di accesso all'istruzione universitaria e diritto allo
studio di cui all'art. 39 del d.lgs. n. 286/98. Il giudice inoltre aveva
rilevato il contrasto del requisito di cittadinanza contenuto nel bando con il
divieto di comportamenti discriminatori nel settore dell'istruzione di cui
all'art. 43 comma 2 lett. c) del T.U. immigrazione. Ugualmente,
il bando era stato ritenuto in contrasto con i principi costituzionali di
eguaglianza e ragionevolezza, così come interpretati dalla Corte Cost. con la
nota sentenza n. 432/2005, in quanto non era possibile individuare una
giustificazione obiettiva e ragionevole di tale disparità di trattamento se non
nella volontà stessa di discriminare gli stranieri.
Il collegio giudicante del Tribunale di Milano ha respinto il reclamo
presentato dalla Provincia di Sondrio sia per ragioni formali, in quanto
inoltrato dopo la scadenza dei termini, sia per ragioni sostanziali,
ribadendo la validità delle motivazioni del giudice di primo grado.
In particolare, il collegio giudicante di Milano ha ritenuto che
trovasse applicazione nel caso in questione anche la normativa di cui al d.lgs.
n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea contro le discriminazioni
su base etnico-razziale (direttiva n. 2000/43), pur trattandosi di una
discriminazione su basi di cittadinanza, in quanto il criterio selettivo
della cittadinanza, applicato in assenza dei presupposti legittimanti
individuati dalla Corte Costituzionale (sent. n. 432/2005), si traduce
indirettamente in un fattore di discriminazione su base etnica e razziale, in
considerazione del fatto che gli stranieri sono di norma appartenenti a etnie
diverse da quella autoctona.
Tribunale
di Milano, ordinanza n. 96/2010 dd. 04.02.2010
Tribunale di Milano, ordinanza dd. 01.08.2009 n. 550/09 (discriminazione, provincia di Sondrio)
Discriminazioni religiose: il Garante per la protezione dei dati
personali interviene sul regolamento per le scuole dell'infanzia di Goito
(Mantova)
Il regolamento comunale prevede che la scuola per l'infanzia
comunale venga gestita da religiosi cattolici e abbia la finalità di promuovere
una visione cristiana della vita.
Il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto sul
regolamento, approvato dal Consiglio Comunale di Goito, che pone tra le
finalità della scuola dell'infanzia lo "sviluppo della personalità"
degli iscritti "in una visione cristiana della vita" e richiede ai
genitori l'accettazione del regolamento quale condizione per l'iscrizione.
Nella nota ufficiale, del 24 febbraio scorso, si legge: "L'Autorità
garante per la privacy ha deciso di chiedere al Comune di Goito informazioni
sull'iniziativa. Il regolamento approvato sembra infatti presupporre una
raccolta di dati particolarmente delicati, come appunto quelli sul credo
religioso". Sul regolamento della scuola per l'infanzia approvato dal
consiglio comunale di Goito, diversi parlamentari del PD hanno presentato alla
Camera dei Deputati nella seduta del 2 marzo 2010 un'interpellanza urgente, cui
ha risposto il Sottosegretario all'Istruzione, Guido Viceconte.
Testo
dell'interpellanza urgente dei deputati del PD e risposta del Sottosegretario
all'Istruzione, 2 marzo 2010
Il testo del Regolamento
della scuola per l'infanzia comunale di Goito
(fonte:
Olir )
DIRITTI SOCIALI
La
normale frequentazione agli studi dei figli minori del cittadino straniero non
basta ad integrare il presupposto di mero disagio del minore, necessario per
autorizzare il genitore privo di permesso di soggiorno alla sua permanenza sul
territorio italiano.
La
Prima sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini
dell'autorizzazione temporanea all'ingresso o alla permanenza del familiare
straniero di minore soggiornante in Italia ai sensi dell'art. 31, comma 3,
d.lgs. 286/98, le condizioni di gravi motivi connessi con lo sviluppo
psicofisico del minore previste dalla norma siano da escludersi
qualora se ne invochi la sussistenza meramente in relazione alle
ordinarie necessità di accompagnare l'integrazione ed il processo educativo,
formativo e scolastico del minore, non trattandosi di esigenze caratterizzate
dalla temporaneità, come invece la natura peculiare della misura richiede.
Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, sentenza 14
gennaio 2010, n. 5856
Ricongiungimento familiare :illegittimo il diniego del visto
ai sensi della nuova normativa (d. lgs 160/2008) se il nulla osta è stato
rilasciato prima del 5 novembre 2008
Lo ha confermato il decreto della Corte di Appello di Milano dell’8
gennaio 2010.
Il decreto legislativo 160 del 2008 aveva modificato
l’articolo 29 del testo Unico nel senso di prevedere, nell’individurare i
familiari verso i quali è posibile richiedere il ricongiungimento, che, nel
caso dei genitori, si debba dimostrare l’assenza di altri figli nel paese
d’origine o, nel caso di ultrassessantacinquenni, l’impossibilità degli
eventuali figli residenti nel paese di origine, di mantenere i genitori.
Secondo questi nuovi requisiti richiesti l’ambasciata
italiana aveva valutato la richiesta di rilascio del visto di ingresso per un
familiare che aveva però ottenuto il nulla osta prima dell’entrata in vigore
della procedura e che, secondo la nuova formulazione della normativa, non
rientrava tra le categorie previste.
La Corte di Appello di Milano, con il decreto dell’8 gennaio 2010
ha affermato che il rilascio del visto di ingresso, pur prevedendo la verifica
dei requisiti, è comunque un atto strettamente conseguente al rilascio del
nulla osta.
Fonte : Melting Pot
Vedere anche:
Corte d'Appello di Firenze, sezione prima civile, sentenza
del 12 giugno 2009
Tribunale di Torino -
Ordinanza del 29 maggio 2009
Tribunale di Savona, ordinanza del 4 maggio 2009, dd. del 5
maggio 2009
Stranieri e accesso all'abitazione. Inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 40 c. 6 del T.U. imm. in riferimento alle
agevolazioni all'accesso alla locazione
La sopravvenuta modifica della normativa con l'introduzione di un
requisito di anzianità di residenza rende inammissibile il ricorso. I profili
discriminatori della legge n. 133/08.
Con ordinanza n. 76/2010 depositata il 28
febbraio 2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 40,
comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), nel testo modificato dall'art. 27, comma 1, della
legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di
immigrazione e di asilo), sollevata, in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia.La
questione della legittimità costituzionale dell'art. 40 comma 6 del T.U. era
stata posta dal TAR Lombardia, con l'ordinanza n. 23/2009 del 23
febbraio 2009 che aveva ritenuto non manifestamente infondata l'eccezione di
incostituzionalità concernente il requisito del possesso del permesso di
soggiorno biennale previsto allora ai sensi dell'art. 40 c. 6 del T.U. imm. ai
fini della fruizione da parte degli stranieri dei contributi per il sostegno
all'accesso alle abitazioni in locazione, di cui all'art. 11 della legge n.
431/1998, in quanto introdurrebbe un criterio irragionevole che si
presta ad ingiuste disparità di trattamento contrarie al principio
costituzionale di uguaglianza.Con l'art. 11 della legge 9 dicembre 1998, n.
431, è stato istituito un Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in
locazione, costituito presso il Ministero dei Lavori Pubblici (oggi Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti) e la cui dotazione è determinata
annualmente dalla legge finanziaria. La finalità di tale Fondo è la sua
ripartizione ai Comuni al fine della successiva emanazione da
parte di quest'ultimi di appositi bandi per la concessione ai conduttori
di alloggi di prestazioni sociali a titolo di contribuiti integrativi per
il pagamento dei canoni di locazione. Condizioni per l'accesso a tali
contributi sono la registrazione del contratto di locazione, il possesso di
requisiti minimi di reddito annuo imponibile del nucleo familiare del
richiedente pari ad un importo non superiore a due pensioni minime INPS
rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al
14 per cento nelle regioni a statuto ordinario, ovvero non superiore a quello
determinato dalle regioni e province autonome per l'assegnazione degli alloggi
di e.r.p., rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non
inferiore al 24 per cento (D.M. 07.06.1999). La graduatoria da parte dei Comuni
viene inoltre stilata sulla base della valutazione della situazione economica e
patrimoniale del nucleo familiare attestata dalla certificazione della
situazione economica equivalente (ISEE) di cui al d.lgs. 31.3.1998 n. 109. Fino
all'entrata in vigore della legge n. 113 dd. 6 agosto 2008, a tali
prestazioni sociali per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione
avevano avuto accesso anche i cittadini extracomunitari regolarmente
soggiornanti, purchè in possesso dei requisiti fissati dall'art. 40 comma 6 del
T.U. delle leggi sull'immigrazione (dopo la riforma prevista dalla legge n.
189/2002 i titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo o di un permesso di soggiorno di durata almeno
biennale e che esercitano attività lavorativa).Il comma 13 dell'art. 11 della
legge n. 133/2008, che ha convertito, con modificazioni, il decreto-legge
n. 112/2008 (misure economico-finanziarie di stabilizzazione) prevede ora una
discriminazione "diretta" nei confronti degli immigrati stranieri,
disponendo che ai fini dell'accesso ai finanziamenti del citato Fondo
nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione venga
previsto per i soli stranieri extracomunitari il requisito del possesso
del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio
nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione. Secondo
la prassi diffusa nella quasi totalità del territorio nazionale, con l'
eccezione dell'Emilia Romagna, che non ha inteso applicare tale normativa, il
requisito di anzianità di residenza ha sostituito quello del possesso della
carta di soggiorno o del permesso di soggiorno di durata almeno biennale e del
contestuale svolgimento dell'attività lavorativa di cui all'art. 40 c. 6 del
d.lgs. n. 286/98. In linea generale, dunque l'accesso a tale fondo di sostegno
alle locazioni è stato esteso a tutti gli stranieri di paesi terzi non membri
dell'Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia a prescindere dalla
durata del titolo di soggiorno, purchè abbiano un'anzianità di residenza
almeno decennale in Italia ovvero quinquennale nella regione di attuale
residenza. Tale discriminazione "diretta", con l'introduzione di un
requisito di anzianità di residenza che è richiesto ai soli
stranieri extracomunitari e non ai cittadini italiani o a quelli dell'Unione
europea, appare palesemente in contrasto con il principio di parità di
trattamento in materia di accesso all'alloggio di cui alle normative
internazionali (Patto internazionale sui diritti economici e sociali,
Convenzione ONU per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale,
Convenzione OIL n. 97, Carta sociale europea, Convenzione di New York sui
diritti del fanciullo,..).
A tale proposito, vale la pena citare le considerazioni espresse nella
delibera
dell'HALDE, l'Alta autorità indipendente francese anti-discriminazione, n. 385
dd. 30 novembre 2009, con la quale l'organismo francese,
l'equivalente dell'UNAR italiano, ha preso posizione contro la legislazione
francese in materia di assegnazione di alloggi di emergenza (droit au logement
opposable, DALO) che prevede la limitazione di tale possibilità, in caso di
cittadini stranieri di Paesi terzi non membri dell'UE, solo a quelli titolari
del permesso di soggiorno permanente, ovvero di un permesso di soggiorno di
durata annuale, ma con un'anzianità di residenza almeno biennale sul territorio
nazionale.Trattandosi di una prestazione di natura sociale o
assistenziale avente natura di diritto soggettivo, la sua
erogazione non soggiacente ad una valutazione individualizzata e
discrezionale da parte dei comuni, l'introduzione della residenza di
lunga durata quale criterio difforme di trattamento valevole solo
per i cittadini di paesi terzi non appartenenti all'Unione europea, crea una
palese violazione del principio di diritto comunitario di parità di trattamento
in materia di prestazioni di assistenza sociale con riferimento a tutte quelle
situazioni e categorie "protette" dal medesimo. Di conseguenza
l'art. 13, comma 11 della legge n. 133/2008 viola il diritto
comunitario (ed è perciò incostituzionale per violazione degli artt. 10, comma
2, e 117, comma 1 Cost. e passibile di diretta disapplicazione per il
primato della norma comunitaria su quella interna ad essa incompatibile) con
riferimento alle seguenti categorie di cittadini di paesi terzi:
a) familiari di cittadini dell'Unione Europea o di cittadini italiani
(art. 24 direttiva 2004/38/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 30/2007;
b) titolari di permesso
di soggiorno CE per lungo soggiornanti (art. 11 direttiva 2003/109/CE, recepita
in Italia con d.lgs. n. 3/2007);
c) rifugiati e titolari della protezione sussidiaria (art. 28
direttiva 2004/83/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 251/2007).
La normativa sull'accesso degli immigrati extracee al Fondo per il
sostegno alle locazioni appare inoltre di dubbia legittimità
costituzionale anche in relazione ai principi di uguaglianza e ragionevolezza.
Se infatti la finalità del beneficio è quello di facilitare l'accesso all'alloggio
in locazione delle persone in situazioni di disagio economico che
altrimenti vi sarebbero impediti alle sole condizioni di mercato, non si
vede perché detta possibilità debba essere ragionevolmente circoscritta proprio
a danno dei cittadini stranieri, i quali non solo si trovano generalmente nelle
fasce di reddito basse, ma anche conoscono maggiori ostacoli rispetto ai
cittadini nazionale nell'accesso alla locazione anche a causa di diffusi
sentimenti di pregiudizio etnico-razziale, che spesso portano i locatari a
rifiutare la locazione o a prevedere, a parità di condizioni, un aumento dei
canoni di locazione o delle prestazioni accessorie. Il criterio distintivo
dunque non appare obiettivo e ragionevole rispetto alle stesse finalità della
normativa nella quale trova applicazione, e pertanto appare intrinsecamente
discriminatorio ed illegittimo secondo i corretti canoni interpretativi
stabiliti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 432/2005.La Corte
costituzionale ha certo stabilito che un requisito di stabile residenza può
essere ragionevolmente richiesto al cittadino straniero per godere dei diritti
sociali, ma solo con la finalità di dimostrare l'esistenza di un
collegamento significativo con la comunità nazionale.A tale riguardo, si
ricorda che la sentenza 29-30 luglio 2008, n. 306 della Corte Costituzionale ha
dichiarato incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza la
norma che prevedeva il requisito della carta di soggiorno per l'accesso dello
straniero alle prestazioni sociali d'invalidità (art. 80 comma 19 Legge n.
388/2000), ma non ha voluto intaccare l'ulteriore requisito
dell'anzianità quinquennale di soggiorno del cittadino straniero in Italia, con
l' argomentazione che la questione non gli era stata rimessa dal giudice
remittente. Tuttavia, la Corte ha voluto precisare che il legislatore può
"subordinare, non irragionevolmente, l'erogazione di determinate
prestazioni - non inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza - alla
circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno dello
Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata".
Questo, tuttavia, con l'importante precisazione che "una volta, però, che
il diritto a soggiornare alle condizioni predette non sia in discussione, non
si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti,
particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali, riconosciuti
invece ai cittadini". Appare davvero difficile pensare che un pregresso
periodo di soggiorno addirittura decennale possa essere ragionevolmente
richiesto allo straniero per dimostrare il carattere non episodico e di non
breve durata del suo progetto migratorio in Italia, mentre è del tutto evidente
che scopo dell'introduzione di un tale requisito di anzianità di residenza è
quello di circoscrivere il più possibile l'accesso degli stranieri a tale
beneficio, che invece appare indispensabile per agevolare un'adeguata
integrazione della popolazione immigrata nella società e dunque un maggiore
grado di coesione sociale complessiva, finalità queste meritevoli di tutela
tanto secondo l'ordinamento costituzionale italiano quanto quello
europeo.
Corte
Costituzionale, ordinanza n. 76/2010
commento a cura di Walter Citti
Tribunale di Genova: per l'assegno di invalidità è sufficiente il
permesso di soggiorno
L'INPS continua ad ignorare le pronuncie della Corte Costituzionale
sull'illegittimità del requisito del pds CE per lungo soggiornanti per
l'accesso alle prestazioni di invalidità.
A seguito di un ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c., con ordinanza
depositata il 5 marzo 2010, il Giudice del lavoro di Genova ha stabilito
il diritto del cittadino straniero ricorrente alla pensione di
invalidità, pur in mancanza del possesso del permesso di soggiorno CE per lungo
soggiornanti, di cui all'art. 9 del d.lgs. n. 286/98, come modificato dal
d.lgs. n. 3/2007.
In sede amministrativa, l'INPS aveva negato l'accesso alla prestazione per
mancanza del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti. Secondo il
giudice del lavoro "il quadro normativo vigente deve ormai leggersi alla
luce delle sentenze della Corte costituzionale nn. 306/2008 e 11/2009, che
hanno sancito in progressione l'illegittimità degli artt. 80, c. 19, l.388/2000
e 9, c. 1, d. lgs 286/98 (nel testo attuale), nella parte in cui escludono
l'accesso ad indennità di accompagnamento ed alla pensione d'inabilità per
gli stranieri extracomunitari privi dei requisiti di reddito stabiliti per
soggiornare sul territorio dello Stato". Il giudice del lavoro di Genova ha rilevato dunque che alla
stessa ratio che presiede a queste decisioni andava ricondotta la
valutazione del caso di specie, poiché i presupposti per l'accesso all'assegno
d'invalidità sono del tutto sovrapponibili a quelli per la pensione
d'inabilità. Di conseguenza ha ritenuto illegittimo il rifiuto opposto
dall'INPS e ha condannato l'ente previdenziale italiano a corrispondere al
ricorrente l'assegno di invalidità civile, nonchè al pagamento delle spese
del procedimento. Si ricorda, infatti, che ai sensi della giurisprudenza
costituzionale citata, il diritto alla salute è diritto fondamentale
dell'uomo, e come tale spettante a tutti, per cui non sono ammesse
differenziazioni su base di nazionalità e dunque nei confronti degli stranieri
legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato perché una tale
disparità di trattamento finirebbe per violare il divieto di
discriminazioni nel godimento dei diritti fondamentali dell'uomo quale norma
imperativa di diritto internazionale, di immediata operatività nel nostro
ordinamento per effetto dell'art. 10 c. 1 Cost.. Con l' ordinanza n.
285/2009, non citata peraltro dal giudice di Genova, la Corte costituzionale ha
ritenuto che il medesimo ragionamento debba valere per tutti gli istituti
legati alla tutela delle persone disabili (nel caso specifico l'indennità di
frequenza previsto per i minori invalidi, di cui alla legge n. 289/90), anche
tenendo in considerazione l'entrata in vigore nell'ordinamento italiano delle
disposizioni della Convenzione ONU sui diritti delle persone con invalidità,
ratificata con legge n. 18/2009.
Ordinanza
del Tribunale del lavoro di Genova del 3 marzo 2010
DIRITTI CIVILI
Ordinanza anti-accattonaggio - Il Tar Veneto accoglie il ricorso e
rinvia alla Corte costituzionale il decreto che attribuisce nuovi poteri ai
sindaci.
Con l'Ordinanza del 4 marzo 2010 n. 160, il Tar Veneto ha accolto
il ricorso presentato dall'Associazione Razzismo Stop di Padova, attraverso
l'Avv. Michele Dell'Agnese, contro l'ordinanza anti-accattonaggio emessa dal
Sindaco di Selvazzano Dentro (in Provincia di Padova) nel novembre 2009.
L'Associazione Razzismo Stop e il Progetto Melting Pot Europa si sono
fatti promotori del ricorso che l'Avvocato Michele Dell'Agnese ha presentato e
che ha visto il Tar Veneto rimettere alla Corte Costituzionale il giudizio
di legittimità dell'art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come
modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24
luglio 2008, n. 125, cioè il primo tassello del pacchetto sicurezza.L'ordinanza
del Comune di Selvazzano prevede per i trasgressori una sanzione
amministrazione pecuniaria e la sanzione accessoria della confisca
amministrativa, previo sequestro cautelare, del denaro provento della
violazione e di eventuali attrezzature impiegate nell'attività.Non appena é
entrata in vigore, l'ordinanza ha trovato subito applicazione ai danni di un
cittadino rumeno che chiedeva l'elemosina alle auto in attesa ad un semaforo di
Selvazzano Dentro.Ma tale ordinanza non sembra ancorata a situazione di carattere
contingibile ed urgente come previsto in via generale dal nostro ordinamento.E'
in virtù di questo che è stato rimesso al giudizio della Corte anche l'articolo
54 del decreto-sicurezza nella parte in cui attribuisce nuovi poteri ai
sindaci. Infatti, secondo il Tar Veneto appare dubbia la legittimità
costituzionale della fonte legislativa sulla base della quale è stata
adottata l'ordinanza impugnata nella parte in cui demanda al Sindaco in
via ordinaria "vasti ed indeterminati poteri in tema di
tutela dell'incolumità pubblica e della sicurezza urbana"
(in tali termini il punto 7 in diritto della sentenza della Corte
Costituzionale 1 luglio 2009, n. 196) autorizzati, nel rispetto dei
soli principi generali dell'ordinamento, a derogare alla legge. E
quindi, sempre secondo il Tar Veneto, appare in contrasto con la
Costituzione un potere di ordinanza che dà luogo a fonti dell'ordinamento
idonee ad innovare il diritto oggettivo (sui limiti Costituzionali che
debbono osservare le norme di legge che prevedono il potere di ordinanza, anche
se con riferimento alle ordinanze prefettizie di cui all'art. 2 del R.D. 18
giugno 1931, n. 773, cfr. Corte Costituzionale 2 luglio 1956, n. 8; id. 27
maggio 1961, n. 26; id. 4 gennaio 1977, n. 4.
Si ringrazia Nicola
Grigion per la segnalazione.
Fonte e documenti sul sito Melting Pot
GIURISPRUDENZA EUROPEA
Secondo la Corte di Strasburgo la Turchia ha
violato la libertà religiosa di un gruppo di persone appartenenti ad un ordine
Sufi. Il Commissiario CoE Hammarberg riapre la discussione sulle proposte di
interdizione del velo integrale.
La Corte europea dei diritti dell'Uomo ha ritenuto che la Turchia ha
violato l'art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell'Uomo e le libertà
fondamentali in materia di libertà religiosa nel condannare penalmente i membri
di un ordine religioso sufi per avere indossato sulla pubblica via degli
indumenti religiosi tra cui il copricapo (Turban), in violazione di norme di
legge interne.Secondo la Corte di Strasburgo la condanna penale inflitti ai
membri del gruppo religioso ha costituito un'illecita interferenza sul loro
diritto fondamentale a manifestare la propria fede religiosa in quanto il
governo turco non ha fornito evidenze convincenti che potessero far ritenere
che l'abbigliamento religiosamente connotato poteva costituire una
minaccia all'ordine pubblico. Secondo la Corte di Strasburgo, inoltre, le
restrizioni da parte degli Stati all'uso dei simboli religiosi e di abiti
religiosamente connotati da parte delle persone negli uffici e istituzioni
pubbliche possono trovare maggiore ampiezza rispetto a quelle consentite
relativamente all'uso dei medesimi simboli ed abiti sulla pubblica via in
quanto nel primo caso il principio della neutralità religiosa delle istituzioni
pubbliche può avere una precedenza sul diritto di ciascuno a manifestare
liberamente la propria fede religiosa.La sentenza della Corte di Strasburgo è
suscettibile di stimolare ulteriormente il dibattito sulle recenti proposte
di una commissione parlamentare di studio francese volte a condannare l'uso in
pubblico del velo integrale islamico (nelle forme del burqa e del niqab) anche
mediante una legge che assicuri la protezione delle donne che venissero
costrette ad indossarlo. La stessa commissione tuttavia non ha raggiunto
l'unanimità sulla proposta di un'interdizione completa del velo integrale negli
spazi pubblici. In Italia risultano finora depositate in Parlamento quattro
proposte di legge volte a regolare l'uso in pubblico del velo o di altri
indumenti religiosi atti a coprire integralmente il volto della persona. Tre di
queste proposte mirano ad un'interdizione completa dell'uso del velo integrale
in pubblico (Lega, PdL, UDC). La proposta del PD mira invece a conciliare la questione
della sicurezza pubblica con le motivazioni religiose e culturali.Anche a
seguito della sentenza della Corte di Strasburgo, il Commissario del Consiglio
d'Europa per i diritti umani, Hammarberg, ha sottolineato che eventuali
normative volte a proibire completamente l'uso del velo integrale negli spazi
pubblici potrebbero risultare controproducenti per le stesse donne islamiche,
rischiando di indurle ad un ulteriore isolamento sociale, così come potrebbero
costituire un'indebita interferenza nella loro privacy e avrebbero una dubbia
compatibilità con l'art. 9 della Convenzione europea dei diritti umani.
CEDU, sentenza dd. 23.02.2010
(procedimento n. 41135/98, Ahmet Arslan c. Turchia)
La presa di posizione
del Commissario del Consiglio d'Europea per i diritti umani, Hammarberg
ASSEMBLÉE
NATIONALE de FRANCE
Mission d'information sur la pratique du port du voile
intégral sur le territoire national, Rapport d'information fait au nom de la mission
d'information sur la pratique du port du voile intégral sur le territoire
national n° 2262 déposé le 26 janvier 2010
Corte di Giustizia europea: la direttiva n. 2003/86 deve essere
interpretata alla luce dell’obiettivo di favorire la riunificazione familiare
quale diritto umano fondamentale
Non può essere introdotto un requisito di reddito tale da escludere
il possibile ricorso a ogni forma di assistenza sociale, anche straordinaria,
così come è illegittimo un trattamento differenziato a seconda che i vincoli
familiari siano anteriori o posteriori all’ingresso del richiedente.
La sentenza della Corte di Giustizia europea dd. 4 marzo 2010 nel caso
Chakroun c. Paesi Bassi (C-578/08) introduce alcuni importanti giudizi
interpretativi delle norme della direttiva n. 2003/86 in materia di
ricongiungimento familiare.
Secondo i giudici della Corte, il criterio della disponibilità di risorse
economiche stabili, regolari e sufficienti per il mantenimento di sé e dei
propri familiari tali da escludere il ricorso al sistema di assistenza sociale
dello Stato membro, richiesto dalla direttiva n. 2003/86 ai fini della
disciplina dell'autorizzazione all'ingresso o al soggiorno per motivi di
ricongiungimento familiare, non consente ad uno Stato membro di introdurre un
livello minimo di reddito così elevato da escludere il possibile ricorso
a forme di assistenza sociale erogate dalle autorità comunali per far fronte a necessità
straordinarie o impreviste. Inoltre, la direttiva deve essere interpretata alla
luce dell'obiettivo di favorire l'istituto del ricongiungimento familiare e di
garantire il rispetto del diritto all'unità familiare quale diritto umano
fondamentale. Di conseguenza, gli Stati possono indicare una certa somma
come importo di riferimento, tenendo conto del salario minimo ovvero della
pensione minima nazionale, ma non possono imporre un importo di reddito minimo
al di sotto del quale qualsiasi ricongiungimento familiare sarebbe
automaticamente respinto, a prescindere da un esame concreto della
situazione di ciascun richiedente, poiché in tale situazione si verrebbe meno
agli obblighi di individualizzazione dell'esame delle domande di ricongiungimento
previsti dall'art. 17 della direttiva (necessità di tener conto della natura e
solidità dei vincoli familiari, come ad es. la durata dell'unione matrimoniale,
della durata del soggiorno nello Stato membro, dei legami familiari, culturali
o sociali con il Paese d'origine).
La direttiva non consente di introdurre nelle legislazioni nazionali
di trasposizione una disparità di trattamento a seconda che i
vincoli familiari si siano formati rispettivamente anteriormente o
successivamente all'arrivo del richiedente nel Paese membro.
Una differenza di trattamento è infatti prevista nella direttiva
soltanto con riferimento ai rifugiati (art. 9 c. 2) per i quali gli Stati
membri possono prevedere delle disposizioni più favorevoli allorchè i loro
vincoli familiari siano anteriori al loro ingresso nello Stato membro.
Poichè la direttiva ha la funzione di favorire la realizzazione di un
diritto umano fondamentale, essa non può essere interpretata dagli Stati membri
in maniera restrittiva, con il risultato di ampliare arbitrariamente gli
stretti margini di discrezionalità fissati dall'art. 7 n. 1
circa i requisiti di alloggio e reddito per l'esercizio del diritto.
La sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea trae origine
da una domanda pregiudiziale avanzata dal giudice olandese riguardante la
legislazione nazionale dei Paesi Bassi che prevede il requisito di un reddito
pari al 120% del salario minimo per il riconoscimento del diritto al
ricongiungimento familiare quando i vincoli familiari con il coniuge si sono
formati successivamente all'ingresso e all'inizio del soggiorno
dell'interessato in Olanda. Tale soglia di reddito è in generale prevista come
limite per l'accesso non solo agli schemi di assistenza sociale previsti dallo
Stato centrale, ma anche alle forme di assistenza sociale speciali previste
dalle amministrazioni comunali in relazioni a bisogni specifici. Inoltre la
legislazione olandese prevede un requisito di reddito inferiore rispetto
a quello citato, ai fini dell'accesso al ricongiungimento familiare qualora i
vincoli familiari si siano formati anteriormente all'inizio del soggiorno del
richiedente nei Paesi Bassi. Tale distinzione di trattamento è stata dunque
giudicata dalla Corte di Giustizia non conforme alla direttiva n. 2003/86. La sentenza
della Corte di Giustizia europea è suscettibile di avere implicazioni anche in
relazione alla normativa italiana qualora quest'ultima venga interpretata
nel senso di impedire automaticamente il rilascio del nulla-osta al
ricongiungimento per la mancanza del reddito minimo previsto dall'art. 29 del
d.lgs. n. 286/98 senza una valutazione individualizzata che tenga conto, in
un'ottica di bilanciamento, la possibilità di far prevalere elementi quali ad
es. la durata dell'unione coniugale, che possano invece compensare
scostamenti dall'importo reddituale di riferimento. Ulteriormente, vale
la pena sottolineare i richiami della Corte di giustizia alla necessità di
interpretare correttamente i margini di discrezionalità concessi dalla
direttiva agli Stati membri per disciplinare i requisiti di reddito e di
alloggio in modo da non consentire l'introduzione di criteri arbitrari contrari
agli scopi e agli obiettivi proclamati della direttiva medesima, quelli cioè di
favorire il ricongiungimento familiare quale diritto soggettivo fondamentale
protetto dal sistema europeo dei diritti umani. In tale ottica, appare
scarsamente coerente con tali obblighi comunitari la modifica apportata
dall'art. 1 c. 19 della Legge 94/2009 all'art 29 del T.U. immigrazione,
con riferimento al requisito dell' idoneità abitativa dell'alloggio del
richiedente il ricongiungimento familiare, che deve essere accertato dai
competenti uffici comunali sulla base di criteri che la legislazione nazionale
non ha inteso esattamente precisare. Com'è noto, la circolare del Ministero
dell'Interno n. 7170 dd. 18 novembre 2009 ha fatto presente che i Comuni, nel
rilasciare la certificazione relativa all'idoneità abitativa, possono fare
riferimento alla normativa contenuta nel Decreto del 5 luglio 1975 del
Ministero della Sanità, che stabilisce i requisiti igienico-sanitari principali
dei locali di abitazione e che precisa anche i requisiti minimi di superficie
degli alloggi, in relazione al numero previsto degli occupanti. Tale
istruzione ministeriale è certamente coerente con la necessità di
assicurare paramenti di idoneità abitativa uniformi su tutto il territorio
nazionale, avendo in considerazione il fatto che un'eccessiva ed arbitraria
discrezionalità lasciata agli enti locali in una materia attinente alle
condizioni di ingresso dello straniero sul territorio nazionale finirebbe per
violare gli art. 10 c. 2 Cost e 117 c. 2 lett. b) Cost per cui la materia
dell'immigrazione è sottoposta alla legislazione esclusiva dello Stato, nonché
l'art. 7 della direttiva 2003/86/CE che dispone che l'autorizzazione al
ricongiungimento familiare possa essere sottoposta dalla legislazione nazionale
"alla disponibilità di un alloggio considerato normale e che
corrisponda alle norme generali di sicurezza e di salute pubblica in
vigore nello Stato membro". Tuttavia, non sembra possa ritenersi comunque
conforme agli obblighi comunitari che tale questione attinente ai requisiti
soggettivi al ricongiungimento quale diritto soggettivo fondamentale venga
ad essere sostanzialmente "regolata"
per via amministrativa, quando la legislazione nazionale fa
invece riferimento a criteri vaghi ed indeterminati che possono lasciare spazio
ad arbitrarie interpretazioni locali.
commento a cura di Walter Citti
Decisione del Comitato europeo sui diritti sociali riguardo al
diritto dei nomadi e dei Rom all'accesso ad un'abitazione adeguata
A seguito di un ricorso dell’ERRC, il Comitato conclude che la
Francia ha violato la Carta Sociale europea. Analogo ricorso pendente contro
l’Italia.
Con una decisione del 19 ottobre 2009, ma resa pubblica il 27 febbraio
2010, il Comitato europeo dei diritti sociali ha concluso che la
Francia ha violato l'art. 31 commi 1 e 2, l'art. 16, l'art. 30, l'art. E
in collegamento con gli art. 31, 30 e 16, e l'art. 19 c. 4 della Carta
Sociale europea, non assicurando alle popolazioni nomadi e Rom misure
sufficienti per soddisfare il loro legittimo diritto ad un alloggio adeguato,
per contrastare la loro povertà ed esclusione sociale e conseguentemente anche
garantire il rispetto della vita familiare. Il Comitato del Consiglio d'Europa,
chiamato a monitorare l'applicazione degli obblighi scaturenti dall'adesione
degli Stati alla Carta sociale europea, ha ritenuto la Francia in violazione
dell'art. 31 della Carta relativo al diritto all'accesso all'abitazione,
in conseguenza di un'insufficiente implementazione della legislazione
sulla realizzazione di campi sosta. Ugualmente il Comitato ha ritenuto
insoddisfacenti gli sforzi compiuti dalle autorità francesi per venire incontro
ai bisogni alloggiativi delle popolazioni "nomadi" che desiderano adottare
uno stile di vita sedentario. Il Comitato ha infatti concluso che gli
interventi volti a tenere conto degli insediamenti di tali popolazioni nella
pianificazione urbanistica sono lasciati alla discrezionalità delle autorità
locali ed insufficienti risorse vengono investite allo scopo.
Ugualmente il Comitato ha ritenuto che i provvedimenti di sgombero attuati nei
confronti di gruppi di nomadi, in particolare quelli adottati con urgenza per
motivi di ordine, igiene e sicurezza pubblica, hanno determinato una violazione
delle norme della Carta sociale europea in relazione al loro carattere
sproporzionato e alla violenza spesso utilizzata. Secondo il Comitato, inoltre,
tali violazioni del diritto all'accesso ad un alloggio adeguato si sono
determinate perché le autorità francesi non hanno sufficientemente preso
in considerazione i bisogni specifici delle popolazioni rom e nomadi, tanto di
quelle che desiderano continuare a condurre uno stile di vita nomade, quanto di
quelle che invece sentono l'esigenza di una maggiore sedentarizzazione. Con
questo, le autorità francesi hanno dunque violato il principio di eguaglianza
sostanziale e di non discriminazione per motivi etnico-razziali, di cui
all'art. E della Carta sociale europea. La mancanza di adeguate risorse investite
per venire incontro alle specifiche esigenze abitative delle popolazioni
Rom e nomadi ha dunque determinato per il Comitato la violazione da parte della
Francia del diritto di tali popolazioni ad essere protette dalla povertà e
dall'esclusione sociale. Un ricorso analogo è stato inoltrato dal Centro on
Housing Rights and Evictions (COHRE ) contro l'Italia ed è stato
dichiarato ammissibile con decisione del comitato europeo per i diritti sociali
l'8 dicembre 2009. Nel corso dell'anno sarà dunque deciso nel merito.
Tutti i documenti riguardanti il ricorso pendente contro l'Italia
(Complaint n. 58/2009) possono essere consultati sul sito web:
http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/socialcharter/Complaints/Complaints_en.asp
European Committee of Social Rights,
Decision on the merits, European Roma Rights Center v. France, 19 October 2009
(Complaint n. 51/2008)
Revoca della cittadinanza anche se porta all'apolidia :
l'interpretazione della Corte di giustizia UE
Uno Stato membro dell’Unione europea può revocare ad un cittadino
dell’Unione la sua cittadinanza, conferita per naturalizzazione, qualora
ottenuta in maniera fraudolenta anche rendendolo apolide, se viene rispettato
il principio di proporzionalità .
La Corte di giustizia nella sentenza n. 15/2010 del 2 marzo 2010 nella
causa C-135/08 Janko Rottmann c. Freistaat Bayern ha confermato che uno Stato
membro dell’Unione europea può, nell’esercizio della propria competenza in
materia di cittadinanza, revocare ad un cittadino dell’Unione la sua
cittadinanza, conferita per naturalizzazione, qualora questi l’abbia ottenuta
in maniera fraudolenta. Ciò vale anche nel caso in cui tale revoca produca la
conseguenza che l’interessato perda la cittadinanza dell’Unione per il fatto di
non possedere più la cittadinanza di uno Stato membro. In tale ipotesi, però,
la decisione di revoca deve rispettare il principio di proporzionalità. La
Corte conferma così le competenze degli Stati membri a definire le condizioni
per l’acquisizione e la perdita della cittadinanza, pur ricordando che gli
Stati membri debbono, nell’esercizio delle loro competenze, rispettare il
diritto dell’Unione. Occorre verificare, in particolare, se la revoca della
naturalizzazione e dunque la perdita dei diritti di cui gode ogni cittadino
dell’Unione – tra i quali rientra il diritto di invocare il divieto di qualsiasi
discriminazione fondata sulla cittadinanza – siano giustificate e
proporzionate in rapporto alla gravità dell’infrazione commessa
dall’interessato, al tempo trascorso tra la decisione di naturalizzazione e la
decisione di revoca, nonché alla possibilità per l’interessato di recuperare la
propria cittadinanza di origine. Qualora la cittadinanza sia stata acquisita in
maniera fraudolenta, il diritto dell’Unione non obbliga uno Stato membro ad
astenersi dalla revoca della naturalizzazione per il solo fatto che
l’interessato non abbia recuperato la cittadinanza del suo Stato membro di
origine. Spetta tuttavia al giudice nazionale verificare se, alla luce di tutte
le circostanze pertinenti, il rispetto del principio di proporzionalità esiga
che, prima che una siffatta decisione di revoca della naturalizzazione divenga
efficace, venga accordato all’interessato un termine ragionevole affinché egli
possa tentare di recuperare la cittadinanza del suo Stato membro di origine.
Con la sua sentenza la Corte risponde ad una questione sollevata dal
Bundesverwaltungsgericht (Corte suprema amministrativa tedesca). Tale giudice
deve risolvere il caso del sig. Rottmann, cittadino austriaco per nascita, che
ha ottenuto la naturalizzazione in Germania. Il Land Baviera ha successivamente
deciso di revocare retroattivamente la naturalizzazione del sig. Rottmann, in
quanto questi avrebbe dissimulato il fatto di essere stato sottoposto ad
istruttoria penale in Austria ed aveva dunque ottenuto in modo fraudolento la
cittadinanza tedesca. Secondo il diritto austriaco, la naturalizzazione in
Germania ha avuto come effetto che il sig. Rottmann ha perso la cittadinanza
austriaca, e la revoca della sua naturalizzazione in Germania non comporta che
egli recuperi automaticamente la cittadinanza austriaca.
Commento a cura di Paolo Bonetti
Comitato europeo sui diritti sociali: Lo Stato deve garantire ai
minori stranieri irregolarmente presenti l’accesso ad adeguati centri di
accoglienza per evitare che diventino senza fissa dimora
I Paesi Bassi violano la Carta Sociale europea non garantendo
l’accoglienza ai minori stranieri richiedenti asilo e alle loro famiglie dopo
il rigetto dell’istanza.
Con la decisione dd. 20 ottobre 2009, ma resa pubblica il 2 marzo
2010, il Comitato europeo sui diritti sociali, organo del Consiglio d'Europa
chiamato a monitorare l'applicazione della Carta Sociale europea da parte
dei Paesi membri firmatari, ha parzialmente accolto il ricorso proposto
dall'organizzazione Defence
for Children International (DCI) contro la legislazione olandese che
garantisce l'accoglienza in appositi centri di detenzione amministrativa e per
un massimo di dodici settimane ai minori stranieri e alle loro famiglie
venutesi a trovare in condizioni di irregolarità a seguito del rigetto
dell'istanza di riconoscimento della protezione internazionale, solo
quando il minore ovvero i componenti della sua famiglia cooperino al loro
rientro nel Paese di origine. Il Comitato ha concluso che tale
legislazione determina la violazione degli obblighi scaturenti dall'adesione
dei Paesi Bassi alla Carta Sociale europea e, specificatamente, dell'art. 31
parte II comma 2, che obbliga gli Stati parte a prevenire e ridurre il fenomeno
dei senza fissa dimora, nonché dell'art. 17 che riguarda il diritto dei minori
e dei giovani ad una adeguata protezione sociale, legale ed economica. Il
Comitato è giunto alle sue conclusioni sostenendo che il diritto
all'accoglienza (right to shelter) è connesso strettamente al diritto alla vita
e al rispetto della dignità di ogni persona umana, a prescindere dunque dal
loro status legale o meno. Pertanto, uno Stato non può espellere dai centri di
accoglienza per richiedenti asilo le famiglie ove vi siano minori in ragione
del rigetto della loro istanza di protezione internazionale senza provvedere a
soluzioni di accoglienza alternative che assicurino il rispetto della dignità
umana. In caso contrario, lo Stato contravviene agli obblighi alla
prevenzione e alla riduzione del fenomeno dei senza fissa dimora assunti con
l'adesione alla Carta sociale europea, con particolare riguardo agli speciali
bisogni di protezione dei minori.
L'interpretazione della Corte di giustizia UE sui presupposti della
perdita dello status di rifugiato
Un cambiamento delle circostanze avente un carattere significativo
e una natura non temporanea nel paese di provenienza fa venir meno i motivi che
hanno determinato lo status di rifugiato.
La Corte di Giustizia dell'Unione europea (grande camera) nella
sentenza 2 marzo 2010 n. 16/2010 nei procedimenti riuniti C‑175/08, C‑176/08,
C‑178/08 e C‑179/08 Sahaladin Abdulla) adotta la pronuncia
pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 11, n. 1, lett. e), della
direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/83/CE, recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, letto in
combinato disposto con l’art. 2, lett. c), della medesima direttiva e dichiara
che:
1) L’art. 11, n. 1, lett. e), della direttiva deve essere interpretato nel
senso che:
– una persona perde lo status di rifugiato quando, considerato un
cambiamento delle circostanze avente un carattere significativo e una natura
non temporanea, occorso nel paese terzo interessato, vengano meno le
circostanze alla base del fondato timore della persona stessa di essere
perseguitata a causa di uno dei motivi di cui all’art. 2, lett. c), della
direttiva 2004/83, motivi per i quali essa è stata riconosciuta come rifugiata,
e non sussistano altri motivi di timore di «essere perseguitat[a]» ai sensi
dell’art. 2, lett. c), della direttiva 2004/83;
– ai fini della valutazione di un cambiamento delle circostanze, le
autorità competenti dello Stato membro devono verificare, tenuto conto della
situazione individuale del rifugiato, che il soggetto o i soggetti che offrono
protezione di cui all’art. 7, n. 1, della direttiva 2004/83 abbiano adottato
adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori, che
quindi dispongano, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che
permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che
costituiscono persecuzione e che il cittadino interessato, in caso di
cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a detta protezione;
– i soggetti che offrono protezione ex art. 7, n. 1, lett. b), della
direttiva 2004/83 possono comprendere organizzazioni internazionali che
controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, anche per
mezzo della presenza di una forza multinazionale su tale territorio.
2) Quando le circostanze in base alle quali lo status di rifugiato è stato
riconosciuto abbiano cessato di sussistere e le autorità competenti dello Stato
membro verifichino che non ricorrono altre circostanze che giustifichino il
fondato timore della persona interessata di essere perseguitata, per il
medesimo motivo di quello inizialmente rilevante o per uno degli altri motivi
elencati all’art. 2, lett. c), della direttiva 2004/83, il criterio di probabilità
per l’esame del rischio derivante da dette altre circostanze è lo stesso
criterio applicato ai fini della concessione dello status di rifugiato.
3) L’art. 4, n. 4, della direttiva, nella misura in cui fornisce indicazioni
quanto alla portata, in termini di forza probatoria, di atti o minacce
precedenti di persecuzione, può applicarsi quando le autorità competenti
considerino di revocare lo status di rifugiato ai sensi dell’art. 11, n. 1,
lett. e), della direttiva 2004/83 e l’interessato, per giustificare il
permanere di un fondato timore di persecuzione, faccia valere circostanze
diverse da quelle sulla cui base era stato riconosciuto come rifugiato.
Tuttavia, ciò potrà di regola verificarsi solamente quando il motivo di
persecuzione sia diverso da quello considerato al momento del riconoscimento
dello status di rifugiato e vi siano atti o minacce precedenti di persecuzione
i quali sono collegati al motivo di persecuzione esaminato in tale fase.
La Corte era chiamata ad esaminare un caso sollevato in Germania per
tre cittadini iracheni a cui il Bendesamt tedesco, considerata l’evoluzione
della situazione in Iraq, aveva revocato lo status di rifugiato - ribadisce che
una persona può perdere lo status di rifugiato quando le circostanze che
giustificavano il “fondato timore di essere perseguitata abbiano cessato di
sussistere” in modo significativo e non temporaneo.I giudici amministrativi
superiori tedeschi avevano ritenuto, con riguardo al cambiamento sostanziale
della situazione in Iraq, che gli interessati fossero ormai al riparo dalle
persecuzioni subite sotto il precedente regime e che non sarebbero stati
esposti a nuove minacce di persecuzione, fortemente probabili, dettate da altri
motivi. È in tale contesto che il Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa
federale), investito delle controversie, si è rivolto alla Corte di giustizia
per l’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2004 relativamente
alla perdita dello status di rifugiato.La Corte di giustizia dell'UE ricorda
innanzitutto che, per avere la qualità di rifugiato, il cittadino del paese
terzo deve, a causa delle circostanze esistenti nel suo paese di origine,
fronteggiare il timore fondato di una persecuzione nei suoi confronti per
motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un
determinato gruppo sociale. Dette circostanze sono la causa dell’impossibilità
per l’interessato, o del suo rifiuto giustificato, di avvalersi della
protezione del suo paese di origine con riferimento alla capacità di tale paese
di prevenire o di sanzionare atti di persecuzione.
Relativamente alla revoca dello status di rifugiato, la Corte dichiara che una
persona perde tale status quando, a seguito di un cambiamento delle circostanze
avente un carattere significativo e una natura non temporanea, occorso nel
paese terzo interessato, vengono meno le circostanze alla base del fondato
timore di essere perseguitata e non sussistano altri motivi di timore di essere
perseguitata. La Corte rileva che, per giungere alla conclusione che il timore
del rifugiato di essere perseguitato non è più fondato, le autorità competenti
devono verificare che il soggetto o i soggetti che offrono protezione del paese
terzo abbiano adottato adeguate misure per impedire la persecuzione. Essi devono
quindi disporre, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che permetta
di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono
persecuzione. Le autorità competenti devono altresì assicurarsi che il soggeto
interessato, in caso di cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a
detta protezione. La Corte osserva che il cambiamento delle circostanze ha «un
[carattere] significat[iv]o e una natura non temporanea» quando si possa
considerare che gli elementi alla base dei timori del rifugiato di essere
perseguitato siano stati eliminati in modo duraturo. Ciò comporta la mancanza
di fondati timori di subire atti di persecuzione che rappresentino una
«violazione grave dei diritti umani fondamentali». La Corte precisa che il soggetto
o i soggetti che offrono protezione, con riferimento ai quali si valuta
l’effettività di un cambiamento delle circostanze nel paese di origine sono lo
Stato stesso, o partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni
internazionali, che controllano lo Stato o una parte del suo territorio. A
quest’ultimo riguardo la Corte riconosce che la direttiva non osta a che la
protezione garantita da organizzazioni internazionali possa essere assicurata
anche per mezzo della presenza di una forza multinazionale sul territorio del
paese terzo. La Corte analizza poi l’ipotesi in cui le circostanze alla base
del riconoscimento dello status di rifugiato abbiano cessato di esistere e le
condizioni in cui le autorità competenti devono verificare, se del caso, se sussistano
altre circostanze che giustifichino il fondato timore dell’interessato di
essere perseguitato. Nell’ambito di siffatta analisi la Corte rileva in
particolare che, sia nella fase della concessione dello status di rifugiato
come nella fase dell’esame della questione del mantenimento del medesimo, la
valutazione verte sulla stessa questione di appurare se le circostanze
accertate rappresentino o meno una minaccia di persecuzione tale che la persona
interessata possa fondatamente temere, con riferimento alla sua situazione
individuale, di essere effettivamente oggetto di atti di persecuzione. La Corte
conclude pertanto che il criterio di probabilità da applicare nella valutazione
del rischio di persecuzione è lo stesso criterio applicato ai fini della concessione
dello status di rifugiato. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa
conformemente alla decisione della Corte, ma la decisione della Corte vincola
gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.
Commento a cura di Paolo Bonetti
Familiari di cittadini comunitari. Due importanti sentenze della
Corte di Giustizia europea
Il genitore affidatario dello studente figlio di un lavoratore
migrante gode del diritto di soggiorno a prescindere dai requisiti di reddito e
di assicurazione sanitaria
Due importanti sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea
(Causa C-310/08, Ibrahim e Causa C-480/08, Texeira) confermano i principi
interpretativi del diritto comunitario già affermati con la sentenza
Baumbast (17 settembre 2002, causa C-413/99). In questa sentenza, la
Corte aveva statuito che l'art. 12 del Regolamento comunitario n. 1612/68 riguardante
il diritto di accesso dei figli di un lavoratore
comunitario ai corsi di istruzione nello Stato membro
ospitante andava interpretato nel senso che tali figli, acquisendo la
condizione di studenti, possono godere di un diritto di soggiorno autonomo ed
indipendente, anche se il lavoratore migrante stesso non risiede o non lavora
più in tale Stato membro. Ulteriormente, la sentenza Baumbast aveva sancito che
tale diritto di soggiorno deve estendersi anche al genitore affidatario a
prescindere dai requisiti di reddito e di copertura sanitaria alla luce del
fatto che il diritto comunitario doveva essere interpretato in accordo con il
diritto fondamentale al rispetto della vita familiare di cui all'art. 8 CEDU,
nonchè per un'esigenza di ragionevolezza perché il diniego al soggiorno dei
genitori durante la frequenza scolastica dei figli priverebbe nei fatti i figli
del diritto all'istruzione loro riconosciuto di diritto. Il giudice nazionale
inglese aveva sottoposto alla Corte di Giustizia europea il quesito se detta
interpretazione dovesse essere seguita anche dopo l'entrata in vigore della
direttiva n. 2004/38 che ha abrogato gli artt. 10 e 11 del Regolamento
comunitario n. 1612/68. La Corte di Giustizia ha risposto affermativamente,
rilevando che la direttiva n. 2004/38 non ha abrogato l'art. 12 del Regolamento
n. 1612/68 che va interpretato come statuente un principio di parità di
trattamento a favore dei figli del lavoratore comunitario per
quanto concerne l'accesso all'insegnamento, ma anche come conferente un
autonomo ed indipendente diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante.
Ugualmente, secondo la Corte l'abrogazione degli artt. 10 e 11 del Regolamento
non può essere interpretata in una direzione contraria ai principi affermati
nella sentenza Baumbast, proprio perché come dimostrano i lavori preparatori,
la direttiva n. 2004/38 stessa è stata concepita in modo tale da essere
coerente con la citata sentenza e per tale ragione, è stato previsto l'art. 12
comma 3 che dispone che la partenza del cittadino dell'Unione o il suo decesso
non comportano la perdita del diritto di soggiorno dei figli e del genitore che
ne ha l'effettivo affidamento, indipendentemente dalla loro cittadinanza,
purchè essi risiedano nello Stato membro ospitante e i figli siano
iscritti in un istituto scolastico per seguirvi gli studi, finchè non li
terminano. In conclusione, i figli di un cittadino di uno
Stato membro che lavori o abbia lavorato nello Stato membro ospitante ed
il genitore che ne abbia l'affidamento, godono di un autonomo diritto di
soggiorno ai sensi dell'art. 12 del Regolamento comunitario n. 1612/68, se tali
figli seguono un corso di studi nello Stato membro, senza che siano soggetti
alla condizione che dispongano di risorse sufficiente e di un'assicurazione
sanitaria in tale Stato. In virtù del diritto di soggiorno, essi godono del
principio di parità di trattamento in materia di accesso all'assistenza sociale
e in tutti le altre materie che rientrano nell'ambito di applicazione dei
trattati europei. Nella successiva sentenza Texeira, la Corte di Giustizia
approfondisce l'argomento e chiarisce il quesito sottopostogli dal giudice
nazionale inglese se detto diritto di soggiorno del genitore affidatario possa
protrarsi oltre il compimento della maggiore età. A tale riguardo, la Corte di
Giustizia conferma il proprio consolidato orientamento che l'art. 12 del
Regolamento comunitario n. 1612/68 concernente il diritto di accesso
all'insegnamento in condizioni di parità di trattamento con i cittadini nazionali
non ammette limiti di età e si estende anche all'insegnamento superiore ed
universitario. Tuttavia, il diritto di soggiorno del genitore per i soli
effetti dell'art. 12 del Regolamento potrà sussistere solo se il figlio
continui a necessitare della presenza e delle cure del genitore per poter
proseguire e terminare i propri studi. Le citate sentenza della Corte di
Giustizia europea sono destinate a trovare una significativa applicazione nel
nostro Paese anche tenendo in considerazione che l'art. 23 del d.lgs. n.
30/2007, con il quale è stata recepita in Italia la direttiva n. 2004/38/CE, ha
esteso ai familiari di cittadini italiani il trattamento previsto per i
familiari dei cittadini comunitari, indipendentemente dalla nazionalità dei
primi. Di conseguenza si ritiene che anche nei loro confronti possano
trovare applicazione i principi interpretativi affermati dalla Corte di
Giustizia europea con le sentenza Baumbast, Ibrahim e Teixeira.
Commento a cura di Walter Citti
NOTIZIE
L'ASGI
aderisce all'appello per Avni Er
Un
appello al governo italiano e' stato promosso da diverse associazioni a
sostegno di Avni Er, giornalista turco per cui la Turchia ha chiesto
l'estradizione, da alcune settimane trattenuto nel Cie di Bari-Palese .
Vai
all’appello e alle adesioni
UNHCR
: quasi
dimezzate le richieste di asilo in Italia nel 2009
I dati sulle domande di asilo presentate in Italia nel 2009, resi noti dal
Ministero dell’Interno, evidenziano un drastico calo rispetto all’anno
precedente.
Dalle 30.492 domande presentate nel
2008 si è passati infatti a 17.603 richieste di protezione internazionale
presentate nel 2009. Mentre a livello europeo si nota una sostanziale stabilità
nel numero delle domande, in alcuni paesi europei come Francia (circa 42mila
domande) e Germania (circa 27mila) le domande di asilo sono aumentate
rispettivamente del 20 e del 25% in rapporto all’anno precedente.
In Italia tale diminuzione può essere anche attribuita alle politiche
restrittive attuate nel Canale di Sicilia da Italia e Libia, fra cui la prassi
dei respingimenti in mare. Va rilevato come una gran parte di coloro che hanno
raggiunto le coste italiane fino al mese di maggio 2009 aveva fatto domanda di
asilo. L’anno precedente il 75% di coloro arrivati via mare aveva chiesto
protezione alle autorità italiane ottenendola nel 50% dei casi circa.
“Il netto calo delle domande di asilo in Italia dimostra come i respingimenti
anziché contrastare l’immigrazione irregolare abbiano gravemente inciso sulla
fruibilità del diritto di asilo in Italia.” ha dichiarato Laurens Jolles,
Rappresentante dell’UNHCR per l’Europa merdionale.
Dal maggio 2009 gli sbarchi sono calati del 90% rispetto all’anno precedente
mentre la violenza e l’instabilità nei paesi di origine dei richiedenti asilo
continuano a mettere in fuga sempre più persone per cercare protezione in paesi
sicuri. In Somalia più di 250mila civili sono stati costretti a lasciare
Mogadiscio dal maggio 2009, quando i gruppi armati di opposizione hanno
sferrato i primi attacchi mirati a spodestare il governo di transizione appena
insediatosi. In Eritrea la leva obbligatoria a tempo indeterminato per uomini e
donne, insieme ad un deterioramento del rispetto dei diritti umani, continua ad
alimentare la fuga di molti dei suoi cittadini.
Somalia ed Eritrea sono i principali paesi di provenienza dei richiedenti asilo
ai quali le autorità italiane hanno concesso nel 2009 l’asilo o la protezione
sussidiaria (2.500 somali, 1.325 eritrei)
Fonti : http://www.unhcr.it/news/dir/26/view/752/dimezzate-le-domande-di-asilo-in-italia-nel-2009-75200.html
APPROFONDIMENTI
MATERIALI, LIBRI E DOCUMENTI
Amnesty International sollecita le autorità italiane a
porre fine agli sgomberi forzati dei Rom
Pubblicato un nuovo documento critico nei confronti del "piano
nomadi" a Roma. AI: "Si rischia di lasciare 1.000 persone senza
alcuna sistemazione".
Terzo Rapporto Anci sui minori stranieri non
accompagnati
a cura di Monia Giovannetti
Rapporto della Commissione d'indagine del Parlamento
europeo sui fatti di Rosarno
Il 14 Gennaio la Conferenza dei presidenti ha deciso di inviare un comitato
d'indagine ad hoc a Rosarno in seguito ai recenti avvenimenti riguardanti
lavoratori immigrati. Il rapporto include le riflessioni dei delegati, in
particolare riguardo all'implementazione della Direttiva sui lavoratori
stagionali e il crimine organizzato.
Relazione sul ruolo dell'UNHCR in Italia meridionale
in merito al sistema di accoglienza e di protezione per i richiedenti asilo e
le altre persone che arrivano via mare, nel contesto dei flussi migratori
irregolari misti verso l’Italia meridionale.
Il datore di lavoro può proibire ad
un’impiegata di fede islamica di indossare il velo nell’ambiente lavorativo?
Può un ente locale tramite ordinanza imporre obbligatoriamente l’esposizione di
un simbolo religioso nei suoi locali? Fino a che punto i lavoratori
appartenenti a fedi minoritarie nel paese possono rivendicare orari di lavoro
compatibili con le proprie esigenze di culto e festività religiose?
Quali sono i precetti dell’Islam e quali le richieste che i suoi fedeli pongono
alla società italiana? Quale modello di società e di relazione tra cittadini e
migranti stiamo costruendo in Italia e in Europa? Come reagire giuridicamente
alle discriminazioni per motivi religiosi?
Sono queste solo alcune delle molte domande che con sempre maggiore frequenza
emergono a fronte della trasformazione della società italiana in senso multiculturale
e multireligioso.
I saggi raccolti nel volume affrontano in maniera interdisciplinare questa
complessa sfida posta al mondo del lavoro e alla società italiana nel suo
divenire.
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di Walter Citti e Silvia Canciani – Segreteria ASGI
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