Newsletter
periodica d’informazione
(aggiornata
alla data del 22 novembre 2010)
Immigrazione: correggere i difetti della regolarizzazione
Sommario
o
Dipartimento Politiche
Migratorie – Appuntamenti pag. 2
o
Attualità –
Carta di soggiorno: prenota online il test di italiano pag. 2
o
Editoriale: correggere
i difetti di una sanatoria settoriale pag. 2
o
Parlamento: Il PD
presenta una pdl per una nuova regolarizzazione pag. 4
o
Società – CNE: Dall’Est Europa molti laureati
pag. 5
o
Rifugiati: la Libia
respinge la richiesta ONU sulla presenza dell’UNHCR pag. 6
o
Richiedenti asilo:
Roma, i fantasmi dell’ambasciata somala pag. 7
o
Lettere: Razzismo sul
bus pag. 8
o Foreign
Press: Immigration in Germany, Multikulturell Wir? pag. 10
A
cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento
Politiche Migratorie
Rassegna
ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL
Tel.
064753292- 4744753- Fax: 064744751
n.
296
Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti
Roma, Martedì 23/11/2010, ore 11.00 - Largo Chigi
UNAR: riunione cabina di regia delle parti sociali su lotta
alle discriminazioni sul lavoro
(Giuseppe Casucci)
Roma, venerdì 26 e sabato 27 novembre 2010, Palazzo Valentini
Assemblea di Nessun Luogo è Lontano: “Immigrazione: disarmo
ideologico e patti di cittadinanza”
(Giuseppe Casucci, Angela Scalzo)
Giovedì, 2 dicembre 2010, ore 16, Via del Velabro
Comitato Direttivo del Cir
(Giuseppe Casucci)
Cagliari, Giovedì 2 dicembre 2010, ore 10
Convegno UIL e Ital su immigrazione
(Guglielmo Loy)
Fiuggi, Lunedì 13 dicembre 2010, ore 15.00
Corso formazione UILA su immigrazione
(Guglielmo Loy)
Fiuggi, Martedì 14 dicembre, ore 10.00
Corso formazione UILA su immigrazione
(Giuseppe Casucci)
Salerno, giovedì 16 dicembre 2010, ore 15.00
Convegno UIL su immigrazione
(Guglielmo Loy)
Attualità
Dal 9 dicembre gli stranieri richiedenti dovranno fare
domanda sul sito del Ministero dell'Interno. Le
prefetture gestiranno il procedimento e invieranno i risultati alle questure
Roma,
22 novembre 2010 - Il dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del
ministero dell'Interno ha messo a punto la procedura informatica che dal 9
dicembre consentirà la gestione delle domande per la partecipazione al test di
conoscenza della lingua italiana che dovranno sostenere gli stranieri che
intendono richiedere il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo
periodo. Da quella data infatti, in contemporanea con l'entrata in vigore del
decreto 4 giugno 2010 che disciplina le modalità di effettuazione del test, il
cittadino straniero interessato dovrà inoltrare per via telematica alla
prefettura della provincia dove ha il domicilio la domanda di svolgimento del
test, collegandosi al sito e compilando il modulo di domanda. Le
modalità di inoltro delle domande, di gestione del procedimento e uso
dell'applicativo nonché di svolgimento del test di italiano sono indicate dal
dipartimento nella circolare della direzione centrale per le
politiche dell'immigrazione e dell'asilo n. 7589 del 16 novembre 2010. Questo
in sintesi il procedimento: l'istanza presentata on line
viene acquisita dal sistema e trasferita alla prefettura competente. Se la
domanda risulta regolare, la prefettura convoca il richiedente entro 60 giorni
dall'istanza, sempre per via telematica, indicando giorno, ora e luogo del
test. In caso di irregolarità o mancanza di requisiti il sistema genera
automaticamente e invia al richiedente una comunicazione con l'indicazione dei
requisiti mancanti per consentire la rettifica delle informazioni. Il
richiedente che compila e inoltra la domanda ha a disposizione un servizio di
assistenza (help-desk) che può contattare
tramite un indirizzo e-mail indicato. Il risultato del test,
consultabile da parte del richiedente su www.testitaliano.interno.it,
viene inserito nel sistema a cura della prefettura competente, che lo mette a
disposizione attraverso web service alla questura per le verifiche finalizzate
al rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo.
>> Il testo della circolare n. 7589 del 16/11/2010
Editoriale
Immigrazione: correggere i difetti di una sanatoria settoriale
Di Giuseppe Casucci
A Brescia e Milano (ma la cosa
vale per altre località) immigrati cui è stata respinta la domanda di emersione
del settembre 2009 e che sono a rischio di espulsione, hanno ricorso a forme
estreme di protesta. Le immagini della gru e della torre su cui si sono
rifugiati esseri umani disperati, sono emblematiche del modo improvvisato e
pasticciato con cui in Italia si affronta il problema dell’immigrazione. Vediamo
i fatti: il 3 agosto 2009 viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge
102, con la quale si da’ il via all’emersione dal lavoro irregolare di quasi
300 mila colf e badanti. La normativa si è resa necessaria in quanto l’8 agosto
stava per entrare in vigore la legge 94 che - introducendo il reato di
immigrazione clandestina - avrebbe colpito in forma retroattiva anche chi era
già in Italia, mettendo fuori legge gli immigrati irregolari. Una parte della maggioranza non avrebbe
voluto nemmeno la regolarizzazione del lavoro domestico, ma l’enorme necessità
di colf e soprattutto badanti in questo paese che invecchia, hanno finito per
avere la meglio sulle convenienze politiche spicciole. Purtroppo, però, nel
nostro Paese ci sono almeno altri 600 mila lavoratori non “domestici” che sono
rimasti fuori da quella che era di fatto una sanatoria settoriale. Per
ritornare alla legge 102, il dispositivo
sospendeva eventuali
procedimenti penali ed amministrativi in corso per datori di lavoro e
lavoratori extra UE che aderivano alla “procedura di emersione”. L’accettazione
della stessa doveva estinguere detti procedimenti. E’ ben noto che tantissime
delle domande presentate erano di fatto fittizie, in quanto si trattava di
richieste avanzate quasi sempre da famiglie a favore di lavoratori non
domestici che vedevano nella regolarizzazione l’ultimo escamotage per uscire
dalla trappola della clandestinità. Molti di questi finti “domestici”, non solo
hanno versato all’INPS i 500 euro richiesti (in nessun caso rimborsabili), ma
spesso hanno pagato a suon di migliaia di euro finti datori di lavoro che si
prestavano al gioco, non certo per umana solidarietà. Illusi da questo
meccanismo, migliaia di lavoratori stranieri (anche precedentemente colpiti da
decreto di espulsione) si sono messi alla ricerca di un datore di lavoro
disponibile a fare la richiesta di emersione. La beffa, però, è arrivata molti
mesi dopo con il respingimento della loro richiesta: o perché il lavoratore
straniero era stato oggetto di una doppia espulsione o, soprattutto, perché molti presunti
datori di lavoro non si presentavano a confermare l’assunzione. Moltissime
questure, di fronte a situazioni personali a dir poco complicate si sono viste
costrette a negare la regolarizzazione, oppure hanno consultato il Ministero
dell’Interno per sapere cosa fare. In effetti il dispositivo stesso non era
chiaro. Nella legge 102/2009, infatti, si dice solo che è escluso dalla procedura di
emersione chi ricade nell’ambito dell’art.12 del T.U. sull’immigrazione (scafisti
e colpevoli di tratta), non si rifiutano esplicitamente gli immigrati con
doppia espulsione. Da parte sindacale, a settembre 2009, sono anche
state avanzate al sito del Ministero dell’Interno richieste di chiarimenti su
chi era escluso dalla “dichiarazione di emersione”, ricevendo conferma che solo
chi era colpevole di tratta o traffico illegale di migranti aveva la strada
sbarrata. Poi, a marzo 2010, la
circolare Manganelli decreta
l’esclusione dalla regolarizzazione degli immigrati che abbiano subito la
doppia espulsione (che prevede di per sé possibili condanne a pene superiori ai tre anni di
reclusione). A settembre 2010, infine, il Consiglio di Stato ha sentenziato definitivamente a favore della
circolare. Noi non vogliamo entrare nel merito di decisioni prese dalla
magistratura, anche se consideriamo il pacchetto sicurezza un insieme di norme
fortemente discriminatorie nei confronti dei cittadini stranieri. Ci
chiediamo però se sia equo e utile cambiare le regole del gioco, a gioco
iniziato. Non discutiamo naturalmente la necessità di rispettare la legge
e siamo anche convinti che forme disperate di protesta – come quelle
viste a Brescia e Milano – sono sbagliate in sé anche se comprensibili;
attirano le speculazioni politiche da varie parti e, nel complesso, non aiutano
a difendere i diritti di migliaia di lavoratori stranieri condannati alla
clandestinità perpetua ed all’assenza di diritti dal pacchetto sicurezza. Come
UIL abbiamo fin dall’inizio espresso un giudizio critico sul reato di clandestinità
ed abbiamo esplicitamente chiesto al Governo di estendere la regolarizzazione a
tutti quei cittadini stranieri che lavorano onestamente. Siamo anche convinti
che la lotta al lavoro nero non si fa colpendo le vittime e che vada combattuto
alla radice il meccanismo che richiama in Italia lavoro nero “etnico” a buon
mercato, a danno dei lavoratori italiani e dei migranti regolari. Purtroppo non
sono pochi gli stranieri che rischiano l’archiviazione della loro pratica di
emersione soprattutto perché, in genere, i datori di lavoro di comodo dopo aver
intascato indebitamente i soldi degli immigrati, hanno la inurbana abitudine di
sparire.
Facciamo allora una esplicita
richiesta alle Pubbliche Autorità:
a) di
estendere la regolarizzazione a tutti i settori produttivi, anche in forma
individuale, sulla base di chi possa provare di avere un lavoro ed un datore di
lavoro onesti;
b) di
obbligare i datori di lavoro o le famiglie che non si sono presentate in
questura a farlo: in caso non vogliano assumere l’immigrato, a questo deve
essere concesso di diritto un permesso di sei mesi per ricerca di nuova
occupazione.
Per quanto riguarda i casi di
doppia espulsione, se essi sono anteriori all’entrata in vigore del pacchetto
sicurezza non c’è modo di evitare l’allontanamento di chi ne è colpito. Se
invece la doppia espulsione è
conseguente all’introduzione del reato di clandestinità, noi chiediamo sia la
magistratura a dire se l’allontanamento è inevitabile, o se sia possibile un
atto umanitario, anche sulla base del radicamento sociale e la condotta del
singolo migrante. Chiediamo dunque all’Esecutivo di trovare soluzioni eque e
ragionevoli, anche per togliere gli alibi a chi specula – anche
politicamente – sulla pelle della disperazione.
Parlamento
Il Pd
presenta una proposta di legge per una nuova regolarizzazione.
Dopo le proteste estreme di Brescia e Milano, il Pd presenta
un testo "per l’emersione dal lavoro irregolare dei lavoratori impiegati
in settori fondamentali per la crescita economica”
Roma, 16
novembre 2010 - “Dobbiamo fornire ai cittadini italiani e immigrati che vivono
e lavorano nel nostro Paese gli strumenti per farlo in modo regolare”. Così
Livia Turco, responsabile Politiche sociali e immigrazione del Pd ha annunciato
ieri di aver depositato una proposta di legge per una regolarizzazione. Facendo
riferimento ai gesti estremi di protesta degli immigrati sulle gru di Brescia e
Milano, la Turco ha dichiarato che “il Pd ha depositato una proposta di legge
per favorire l’emersione dal lavoro irregolare dei lavoratori impiegati in
settori fondamentali per la crescita economica dell’Italia”. “Una proposta di
legge – ha spiegato la Turco – che vuole fare tesoro
dell’esperienza positiva del provvedimento adottato nel 2009, che ha permesso
la regolarizzazione di centinaia di migliaia di lavoratori impegnati
nell’assistenza alle famiglie. I settori produttivi maggiormente interessati
dal processo di emersione saranno scelti di volta in volta dal Ministero del
lavoro di concerto con quello dell’interno, al fine di evitare provvedimenti
inutili o sanatorie generalizzate. Il provvedimento di legge che ho presentato
– sottolinea – si avvale anche dell’art. 18 della legge
Turco-Napolitano, che prevede il riconoscimento del permesso di soggiorno
umanitario per chi denuncia lo sfruttamento”.
(Red.)
Società
Immigrazione
CNR: da Est Europeo molti i
laureati che vengono in Italia
(AGI) - Roma, 15 nov. - In Italia il flusso migratorio
costituito da laureati provenienti dai paesi dell'Est europeo e' rilevante, ma
la percentuale di quanti svolgono professioni intellettuali e' molto bassa: un
caso di 'spreco di cervelli' ('brain waste'). L'Istituto di ricerche sulla
popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche
(Irpps-Cnr), che svolge da tempo studi sulle 'skilled migrations', presenta una recente 'Indagine
sull'inserimento lavorativo delle immigrazioni qualificate provenienti dai
Paesi dell'Est europeo', pubblicata su 'Studi emigrazione', il prossimo martedì
16 novembre presso la sede centrale del Cnr (piazzale Aldo Moro 7, Roma - ore
16.00) durante una tavola rotonda su 'Le migrazioni qualificate dall'Europa
dell'Est verso l'Italia'. Lo studio dell'Irpps-Cnr si e' articolato in un'indagine
telefonica sulla percezione della popolazione italiana riguardo agli immigrati
qualificati, effettuata su un campione di 1.500 adulti ripartiti
proporzionalmente per genere, classi d'età e aree geografiche. "Il 30%
degli intervistati considera positivo il ruolo svolto dagli immigrati per
alcuni settori della nostra economia e il 26% circa lo ritiene tale anche per
la nostra cultura, mentre il 23,7% dichiara che genera insicurezza e il 15,4
teme che aumenti la disoccupazione", spiega la curatrice dell'indagine,
Maria Carolina Brandi. "Solo il 9,8% ritiene che l'immigrazione
costituisca un 'grave problema' mentre molti la ritengono eccessiva,
specialmente le persone meno istruite (il 47%). Inoltre il 13,5%, soprattutto
tra i più anziani, teme che tale presenza dai paesi dell'Est aumenti la
criminalità. Peraltro, e' diffusa (62%) l'opinione che su questo tema giornali
e televisioni riportano una realtà falsata e appena il 16% crede ai mass media,
specialmente tra i laureati ed i giovani". In questo quadro,
l'atteggiamento degli italiani verso gli immigrati ad alta qualificazione e'
molto più favorevole rispetto a quello sull'immigrazione in generale.
"Anche se il 54% degli italiani non sa quanti siano i laureati dell'Est
Europa", prosegue la ricercatrice dell'Irpps-Cnr, "la quasi totalità
(93,1%) ritiene che debbano essere pagati quanto gli italiani e l'87% pensa che
un laureato esteuropeo debba potere esercitare la propria professione in ogni
paese dell'Ue. Tuttavia il 68,2% ritiene giusto che un laureato di qualsiasi
paese accetti lavori inferiori ai suoi titoli e più della metà disapprova norme
per incentivarne l'ingresso: da notare che tra i laureati e tra i giovani la
quota cala sensibilmente nel primo caso ma aumenta nel secondo, evidentemente
per la preoccupazione della possibile 'concorrenza' sul mercato del lavoro
qualificato". L'Irpps-Cnr ha inoltre svolto, in collaborazione con il
Dipartimento di Sociologia dell'Università di Torino e l'Ires Piemonte,
un'indagine mediante un questionario rimasto on line sul sito dell'Istituto
durante tutto il 2009, cui hanno risposto 547 immigrati dell'Europa Orientale
ad alta qualificazione. Il 30,4% degli uomini ed il 33,8% delle donne e'
impiegato in un lavoro operaio, assimilato o di bassa qualificazione, nonostante
non l'avesse mai svolto nel paese di origine. "Lo studio conferma",
conclude Brandi, "come il mercato del lavoro qualificato italiano sia
molto meno ampio di quello della maggioranza dei paesi Ocse, tanto che anche
gli stessi laureati italiani scelgono la migrazione, mentre sono disponibili
posti non qualificati per i quali la manodopera nazionale e' insufficiente.
Tuttavia, una volta che l'immigrato laureato occupa per necessità questa fascia
del mercato del lavoro, non viene più riconosciuto come appartenente
all'emigrazione di e'lite a cui, pure, larga parte degli italiani concede
fiducia, finché non riesce a collocarsi in
una posizione che lo renda
riconoscibile come 'intellettuale' e quindi accettato". (AGI)
15 novembre
2010
La Libia respinge le raccomandazioni Onu di adottare una
legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla presenza dell’Unhcr
Braccio di ferro tra Tripoli e Ginevra nell'ambito dell’esame
periodico universale della situazione dei diritti umani.
La Libia
torna a respingere le raccomandazioni Onu di adottare una legislazione
sull’asilo e di firmare un’intesa sulla presenza dell’Alto commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nel Paese. Tripoli ha anche respinto la
raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle
donne davanti alla legge e nei fatti. Le raccomandazioni su asilo e Unhcr erano
state formulate all’Onu da Paesi quali gli Stati Uniti ed il Canada nell’ambito
dell’Esame periodico universale della situazione dei diritti umani in Libia,
martedì scorso a Ginevra.
La Libia – nelle sue risposte alle 97 raccomandazioni formulate dai Paesi
membri dell’Onu nel corso dell’esame – ha invece respinto la
raccomandazione di aderire al Protocollo del 1967 della Convezione dell’Onu
sullo status dei rifugiati. In tutto, la Libia ha accettato 66 raccomandazioni
(quasi tutte firmate da Paesi amici) e ne ha respinte 25 (formulate in primo
luogo da Paesi occidentali). Tra le richieste bocciate, quella di garantire
l’uguaglianza delle donne davanti alla legge e nei fatti, presentata da
Israele. L’esame periodico universale è il nuovo meccanismo di controllo
istituito con il Consiglio dei diritti umani dell’Onu per valutare la
situazione dei diritti umani in tutti i 192 Paesi membri delle Nazioni Unite
ogni quattro anni. Durante l’esame, i Paesi membri formulano osservazioni e
raccomandazione allo Stato sotto scrutinio. L’8 giugno scorso la Libia aveva
annunciato la chiusura dell’ufficio dell’Unhcr a Tripoli, successivamente la
presenza dell’Unhcr è stata accettata ma solo per occuparsi dei casi pregressi.
Proprio la scorsa settimana, la Camera dei Deputati aveva approvato una mozione sul trattato italo-libico
che impegna il Governo italiano “a sollecitare con forza le autorità di Tripoli
affinché ratifichino la Convenzione Onu sui rifugiati e riaprano l’ufficio
dell'Unhcr a Tripoli quale premessa per continuare le politiche dei
respingimenti dei migranti in Libia”. (Red.)
Giurisprudenza
Cittadinanza
italiana per matrimonio. Le nuove regole e la 'disciplina transitoria'
di Emmanuela Bertucci
(www.immigrazione.aduc.it )
Novembre 2010 - L'introduzione del
pacchetto sicurezza (l. 94 del 2009) e' intervenuto sulla disciplina della
cittadinanza italiana a seguito di matrimonio (art. 5 della legge n. 91 del
1992), modificandone i requisiti in senso decisamente piu' restrittivo. La
cittadinanza italiana puo' ora essere richiesta se lo straniero risiede
legalmente in Italia da due anni dopo il matrimonio (un anno in presenza di
figli) – anziche' sei mesi come era previsto nella precedente normativa;
al momento dell'adozione del decreto di cittadinanza non deve essere
intervenuta separazione legale dei coniugi, o
scioglimento/annullamento/cessazione degli effetti civili del matrimonio
– mentre nella formulazione precedente non era indicato il “momento” del
controllo, potendosi dunque presupporre (verifica in giurisprudenza) che tale
momento fosse quello della presentazione dell'istanza. Altre novita' di
minor rilievo riguardano l'impossibilita' di autocertificare il possesso
dei requisiti richiesti (dunque devono essere esibiti tutti i certificati
relativi al matrimonio, residenza legale, casellario giudiziale, carichi
pendenti, stato di famiglia, ecc.ecc.) e il costo della domanda, di euro
200,00. La nuova legge dispone, secondo i principi generali del nostro
ordinamento, per il futuro. Di conseguenza tutte le domande di cittadinanza per
matrimonio presentate successivamente al 8 agosto 2009 (giorno di entrata in
vigore del pacchetto sicurezza) dovranno necessariamente soddisfare i nuovi
requisiti. Ben piu' problematico e', invece, il regime delle domande che al
momento dell'entrata in vigore della nuova legge erano ancora pendenti. Il tema
e' stato affrontato da una circolare del Ministero dell'Interno del 6 agosto
2009, che stabilisce – a nostro avviso illegittimamente – la
disciplina da applicare in questi casi:
- alle domande per le quali l'otto agosto 2009 erano gia' trascorsi due anni
dalla presentazione dell'istanza si applichera' la precedente normativa;
- alle domande per le quali l'otto agosto 2009 non era ancora decorso il
termine di due anni, si applichera' la normativa nuova.
Secondo la circolare in quest'ultimo caso non si sarebbe formato un
“diritto soggettivo pieno” del richiedente, e dunque questi dovra' dimostrare
di aver maturato due anni di residenza legale in Italia. Una previsione a
nostro avviso censurabile sotto diversi profili. In primo luogo poiche'
“decide” quali situazioni concretano un diritto soggettivo e quali no, ambito
anche questo di esclusiva competenza del potere legislativo. In secondo luogo
perche' si sostituisce al legislatore, illegittimamente decidendo che la nuova
norma ha effetti retroattivi che la stessa legge non prevede. Gli effetti
paradossali di questa illegittimita' stanno ora iniziando ad emergere:
diverse persone stanno ricevendo dinieghi di cittadinanza perche' al momento della
presentazione dell'istanza (avvenuta nel 2007 o nel 2008) non erano in possesso
di requisiti stabiliti da una legge promulgata nel 2009, che chiaramente
all'epoca non potevano conoscere.
Assurdo poi il fatto che molte persone si siano trovate, e si trovino, a
dover provare di avere diversi requisiti in diversi momenti storici e in
diverse fasi del procedimento amministrativo:
- sei mesi di residenza al momento della presentazione della domanda;
- due anni di residenza l'otto agosto 2009;
- la permanenza del vincolo coniugale alla data di emanazione del decreto. Chi
al momento della presentazione della domanda aveva tutti i requisiti per
ottenere la cittadinanza ora dovra' dimostrare di averne altri, senza nessuna
garanzia che tali requisiti non cambino ancora prima della fine del
procedimento, generando una situazione paradossale che potrebbe durare
all'infinito.
Il Ministero dell'Interno si e' illegittimamente sostituito al legislatore, decidendo
quali sono gli effetti di una norma nel tempo nonche' quali situazioni
costituiscono un diritto soggettivo e quali no. Una circolare che ha
chiaramente lo scopo di “rimandare” nel tempo i provvedimenti con cui si
dichiara la cittadinanza italiana dei richiedenti e di “battere cassa”
chiedendo a tutti coloro i quali hanno presentato la domanda dopo il 10 agosto
2007 il pagamento dei 200,00 euro previsti della legge. Un provvedimento a
danno dei (futuri) cittadini, che ci auguriamo i giudici civili chiamati a
decidere su queste vicende disapplicheranno.
Richiedenti asilo
Roma,
novembre 2010 - Accoglienza, diritti, dignità, l’inchiesta di Fabrizio Ricci
per Rassegna.it "scopre", o meglio, conferma, quanto la condizione
dei richiedenti asilo e rifugiati in Italia sia un nodo scoperto. Nessuna
accoglienza, nessuna possibilità, per chi fugge da guerre e, pur avendo
riconosciuto uno status giuridico equiparabile a quello di cittadino, affronta
materialmente una realtà al confine della clandestinità sociale.
Via
dei Villini è una zona per ricchi. Lo dice il nome d’altronde, non c’è da
stupirsi. Per arrivarci devi passare davanti a Porta Pia, fare inversione a U e
poi infilarti in questa strada piena di verde e di palazzi in stile vittoriano,
per lo più ambasciate o sedi diplomatiche. Ci sono tante bandiere di Paesi
stranieri alle finestre e c’è un silenzio profondo, come non ne trovi
facilmente a Roma.
Quando
siamo arrivati, pensavamo di aver sbagliato indirizzo, ma Mohamed sul sedile
posteriore si è tolto la cintura. Eravamo dove dovevamo essere: in via dei
Villini numero 9, davanti alla sede dell’ambasciata somala a Roma. O almeno,
davanti a quello che ne resta. Abbiamo conosciuto e intervistato Mohamed a
Perugia, circa due mesi fa, grazie ad un’iniziativa di Libera. Lui è un
rifugiato politico, perché la Somalia è un Paese da cui un ragazzo deve
scappare se non vuole accettare la regola “uccidi o sarai ucciso”. Mohamed è un
infermiere e durante la sua fuga verso l’Europa è stato 5 mesi in una prigione
in Libia. Se gli chiedi com’era, risponde: “Ci trattavano come animali”. Poi,
qualche giorno fa, Mohamed è venuto a trovarci insieme ad Hasan, anche lui
fuggito dalla follia del suo Paese. Ci hanno spiegato che a Roma ci sono tanti
somali come loro, rifugiati politici, che però vivono in condizioni disumane.
Ci hanno raccontato di un posto, che un tempo era l’ambasciata del loro Paese. Con
Carlo Ruggiero siamo venuti a Roma per testimoniare in un video questa
situazione, che ci hanno descritto così drammatica e assurda. Quasi subito però
capiamo che le cose non andranno come avevamo previsto. Dall’ambasciata escono
alcuni ragazzi. Sono tutti giovani, la maggior parte indossa un abito
tradizionale somalo, una sorta di pareo che copre le gambe fino alle caviglie.
Ai piedi invece hanno tutti dei sandali infradito, oppure scarpe di gomma, di
quelle che si usano in spiaggia, anche se siamo in ottobre inoltrato. Sono
persone che Mohamed e Hasan conoscono e con le quali hanno preso accordi per
realizzare il video documentario all’interno dell’ambasciata. Però, dopo i
primi abbracci e i salamelecum, la discussione, naturalmente in somalo,
prosegue troppo a lungo. Ci sono dei problemi. Il fatto è che tutti temono che
le immagini registrate all’interno dell’ambasciata possano arrivare in Somalia.
E che parenti dei ragazzi che vivono nell’edificio abbandonato a Roma possano
vedere le condizioni in cui versano i propri figli, scappati dalla guerra in
cerca di un vita decente.
Dunque
non possiamo entrare, ma dopo una rapida mediazione troviamo una soluzione che
sembra accettabile: le riprese all’interno le farà un ragazzo somalo, Awes, che
vive a Roma e che conosce bene gli “ospiti” dell’ambasciata. Mohamed e Hasan andranno
dentro con lui, mentre noi aspetteremo fuori, davanti al grande cancello nero
accanto al quale campeggia ancora la targa con il nome dell’ambasciatore che ha
occupato per ultimo l’edificio nel lontano 1991.
I tre
amici somali entrano e con loro entra la nostra telecamera. Dopo pochi minuti
cominciamo a sentire delle voci sempre più forti che vengono dall’interno. Sono
voci arrabbiate che presto si trasformano in vere e proprie grida. Tre ragazzi
si affacciano da uno dei balconi della palazzina. Anche loro alzano la voce e
indicano verso il basso. Noi non capiamo quello che si dicono, ma è chiaro che
stanno litigando per via della telecamera. Poi, passato meno di un quarto
d’ora, il cancello si riapre e i ragazzi escono a passo spedito. “Su, andiamo, dobbiamo
andarcene”, ci dicono con concitazione. Noi vorremmo fare come dicono, ma non
facciamo in tempo a salire in macchina. Dal cancello infatti escono almeno
altri 10 ragazzi, tutti “ospiti” dell’ambasciata, che rapidamente ci
circondano. Indicano la telecamera e continuano a gridare contro i loro
connazionali che hanno fatto le riprese. Non vogliono che ce ne andiamo con le
immagini, un po’ per paura che possano arrivare in Somalia, un po’ perché
qualcuno pensa che possiamo lucrarci sopra. Oltre a questo è evidente che
alcuni di loro sono davvero esasperati, “non ci stanno più con la testa, sono
impazziti”, ci diranno poi i nostri amici. La situazione comunque è molto tesa
e il fatto di non capire quello che si stanno dicendo non aiuta a mantenere la
calma. La discussione prosegue per un po’ e noi siamo spettatori inerti di un
film che non possiamo capire. Poi, però uno dei somali usciti dall’ambasciata
ci si rivolge in inglese: “You can go now”, adesso potete andare. E lo dice in
un modo che è più che altro un consiglio. Allora noi facciamo per salire in
macchina. La più vicina è quella di Carlo. L’altra la recupereremo quando la
situazione si sarà calmata. Ma una volta saliti a bordo, i due ragazzi più
agitati del gruppo si piazzano davanti e ci fanno segno di fermarci. C’è ancora
un momento di confusione, di nuovo non capiamo cosa dobbiamo fare. Intanto,
qualcuno colpisce il tetto dell’auto con la mano. Poi, Hasan con l’aiuto di
altri ragazzi riesce ad allontanare i due connazionali più arrabbiati. Così
possiamo partire ed allontanarci, mentre alle nostre spalle la discussione
continua. Appena fermiamo la macchina poche centinaia di metri più avanti e
accendiamo la videocamera per vedere le immagini riprese all’interno
dell’ambasciata ci appare immediatamente chiaro quanto sia drammatica la
situazione di queste persone e quanto sia comprensibile la loro rabbia e la
loro sfiducia verso noi italiani. Là dentro, in via dei Villini 9, proprio di
fronte all’Ambasciata ungherese, vivono decine e decine (qualcuno ci ha detto
addirittura centinaia) di somali, tutti rifugiati politici o comunque titolari
di permessi per protezione umanitaria. Le immagini catturate all’interno
dell’ambasciata sono raccapriccianti. Quello che i nostri amici sono riusciti a
riprendere in pochi minuti (solo una parte dell’edificio e nemmeno quella in
condizioni peggiori, a quanto ci dicono) dà la misura dell’assoluta gravità
della situazione da un punto di vista igienico, sanitario e soprattutto umano. Nell’ultima
parte del video girato da Awes si vede qualche altro particolare, come la targa
dorata posta all’ingresso dell’edificio dove si legge ancora “Ambasciata
Repubblica Democratica Somalia”. Ma soprattutto si cominciano a sentire le voci
che si alzano, di chi protesta perché non vuole quella telecamera “in casa”.
Quello che succede dopo lo abbiamo già detto. Ma le immagini da sole non
bastano a comprendere appieno l’assurdità di questa situazione. E se molti
degli abitanti dell’ambasciata non sopportano telecamere e giornalisti tra i
piedi, altri al contrario vogliono raccontare, vogliono descrivere la loro
situazione di rifugiati politici (questo occorre tenerlo sempre in mente)
completamente abbandonati a se stessi.
Lettere
Razzismo sul
bus
Fano,
16 Novembre 2010 - Prima di tutto mi presento: sono Jacopo Patrignani, un
ragazzo di Pesaro che frequenta il liceo classico Nolfi a Fano e
che quindi è costretto ogni giorno ad usufruire del servizio bus
“Adriabus” per spostarsi tra le due città. Mi capita spesso di assistere a
scene di velato razzismo: ogni tanto volano sfottò, i controllori quando
multano i rom se ne escono sempre con battute simpaticissime sui mille motivi
per cui «non dovrebbero prendere i bus ma sgranchirsi le gambe e fare due passi
che è gratis». I posti vicino agli extra-comunitari sono sempre gli
ultimi ad essere occupati e a volte la gente preferisce rimanere in piedi.
Venerdì 12 novembre sulla linea 99 Fano – Pesaro delle 14 però si è
veramente varcato ogni limite di civiltà: un ragazzo rumeno ha provato a fare
la classica furbata, è volato a fare il biglietto appena ha visto il
controllore che saliva sull’autobus. Di norma l’autista passa tranquillamente
sopra a queste piccolezze ma con lui no, per lui il personale “Adriabus” aveva
in serbo un comportamento assolutamente speciale! Il controllore avvisato
dall’autista dell’infrazione del giovane dell’est gli si è avventato addosso
ponendoli una serie di domande: «Cosa sei rumeno? Ucraino? Moldavo? Eh, cosa
sei? Dammi i documenti! Dammi i soldi della multa, subito!». E mentre diceva
così questo egregio signor controllore cominciò a tastargli il giubbotto alla
ricerca del portafoglio e dei documenti trattandolo come il peggiore dei
delinquenti. Il ragazzo, spaventato, ha subito saldato il prezzo della
multa con una banconota da cinquanta euro ma per questo “straordinario” uomo
italiano non era abbastanza: aveva pagato la multa, era stato insultato ma la
punizione era troppo esigua! Questo “rumeno” doveva capirlo in un modo o
nell’altro che non si trovava più nel suo paese “incivile”! Così il controllore
ha preso il ragazzo e l’ha portato fuori dal bus, lasciandolo a Fosso Sejore, a
metà strada, seppur avesse già pagato 50 euro e quindi aveva pieno diritto a
concludere il tragitto. La persona seduta vicina di questo ragazzo, un uomo
orientale, li ha rincorsi, è andato dal controllore e gli ha detto: «Lei non
può permettersi di trattare una persona così solo perché è diversa da lei!». E
sapete il nostro “egregio concittadino” come gli ha risposto? «Stai zitto e
ringrazia che non ho fatto la multa anche a te!». Come se essere orientale sia
una “infrazione” sufficiente per essere multato, anche se possiedi il
biglietto. Uscito dal bus mi sono messo a parlare con questo signore che ha la
pelle olivastra ma vive in Italia da 24 anni e l’ho sollecitato ad andare a
denunciare il fatto all’azienda. «Non mi ascolterebbero mai». Queste sono state
le sue parole. Come possiamo quindi definirci “moderni” quando ancora c’è gente
che “non ascolteremmo mai” solo perché ha la pelle più scura della nostra? Come
possiamo avere la presunzione di descrivere la nostra società come “civile” se
ancora ci sono persone che vengono maltrattate sull’autobus solo perché sono
dell’Est? Come possiamo sdegnarci di fronte alle “Leggi Razziali” quando oggi,
70 anni dopo, valutiamo gli uomini per la nazione scritta nel loro passaporto? Io
penso che è nostro dovere, meglio, è nostro diritto tutelare queste persone
rigettate e ghettizzate che l’ignoranza e disinformazione dipinge come
parassiti della società. Non chiudiamoci tra le nostre certezze di cartapesta:
non sono i confini a determinare il valore di un individuo ma l’azione della
società sull’individuo stesso; se continuiamo a raffigurarli come dei
malfattori arrabbiati, prima o poi si infurieranno veramente. Dinnanzi a
situazioni come quella di venerdì spesso ci capita di abbassare la testa e dire
“è tutto inutile” ed è allora che ci si spegne e tutto si blocca nel male. Io
invece ragiono in maniera diversa: non è inutile ma necessario! Un nostro
intervento è necessario! E’ per questo che ho chiamato l’Adriabus per
denunciare il fatto, è per questo che ho detto alla società di trasporti che se
non scatteranno sanzioni nei confronti dei loro dipendenti xenofobi io smetterò
di servirmi del loro servizio! Ogni persona che crede nella democrazia e che va
oltre i pregiudizi dovrebbe boicottare l’Adriabus in caso di mancata sanzione:
l’omertà non paga!
Foreign Press
Multikulturell? Wir?
Nov
11th 2010 | BREMEN
HOW well does Halime Cengiz fit into Germany? A
“typical guest worker’s child”, she wears a hijab and spends much time at the
Mevlana mosque in Gröpelingen, a Bremen neighbourhood with many immigrants. She
has a German passport but “would never say I’m German” (or Turkish). She calls
herself “a Bremer with Turkish roots”. Yet she also speaks flawless German.
Neither her marriage nor her veil was forced on her. Part of her mosque work is
with churches, lowering barriers between Muslims and Christians. She urges
parents to send their children to kindergarten to improve their German. The
parents fret about their children becoming “too German”, but Mrs Cengiz allays
such fears. She may be a model migrant after all. Good immigrants and bad, how
many and of what kind are all worrying Germany just now. A book claiming that
Muslim immigrants and the underclass were bringing about Germany’s downfall by
breeding too fast had a print run of over a million by the end of September
(and cost its author, Thilo Sarrazin, his job on the Bundesbank board). Seeing
its success, politicians abandoned political correctness. Further immigration
from Turkey or Arabia is no longer welcome, said Horst Seehofer, Bavaria’s
premier and head of the Christian Social Union (CSU), the Bavarian arm of
Angela Merkel’s Christian Democratic Union. The CSU asked that immigrants
embrace the Leitkultur (dominant culture). Even Mrs Merkel joined in.
Multiculturalism—the idea that immigrants can recreate their culture in
Germany—has “utterly failed,” she said last month. New polls confirm
Germans’ hostility towards immigrants, especially Muslims. Awkwardly, Germany
is bashing foreigners just when it needs them. The workforce is shrinking and
growth is raising demand for skilled labour. Skills shortages cost the economy
€15 billion ($21 billion) last year, says Rainer Brüderle, the liberal economy
minister. He wants to import qualified workers on a Canadian-style points
system. Mr Seehofer is dubious. On November 3rd Mrs Merkel held an “integration
summit” to talk about immigrants already in Germany. Next week the government
will discuss immigration again. Even Germans who disagree with Mr Sarrazin
praise him for drawing attention to a problem. Actually he may be making the
situation worse. Some 15m people in Germany have a “migration background” (ie,
immigrants or their offspring), second only to America. Some 4m are ethnic
Germans from the former communist block. But many others came as guest workers
in the 1950s and 1960s, especially from Turkey. On indicators of social and
economic health, these migrants lag. In Bremen, where more than half the young
children are from migrant stock, they are less likely to go to kindergarten
than native Germans. Just 8% of foreign teenagers are in vocational training,
compared with 37% of Germans. In a city struggling to recover from a slump in
shipbuilding, 16.4% of migrants were unemployed in 2008, against 7.5% of native
Germans. More than 40% live below the poverty line, three times the rate for
non-migrants. It is no surprise that joining the German mainstream is hard for
children of manual labourers who were once expected to return home. In big
cities they crowd together and go to schools from which native German children
have fled, making it harder to integrate, says Stefan Luft, a scholar at the
University of Bremen. Turks are especially prone to living in a parallel world
because there are so many of them. For too many immigrants the dole is an
acceptable alternative to work. Islam can be an additional barrier, but only
for Muslims who choose to make it one. One study estimated that 10-12% of
Muslims have radical Islamist leanings, and a quarter of Muslim teenagers are
hostile to Christians and Jews or to democracy.
Germany awoke to such problems a decade or more before
Mr Sarrazin’s screed appeared. In 2000 it opened a pathway to citizenship.
Since 2005 immigrants can be required to take “integration courses,” including
600 hours of instruction in German. Spouses from poorer countries must now
acquire a smattering of German before arrival. That demand angered Turks, but
it has been “vital”, says Erhard Heintze, Bremen’s integration commissioner.
Children are routinely tested for language competence (in Bremen at 4½).
By some measures, indeed, Germany is in good shape.
The unemployment gap between foreigners and natives is narrower than elsewhere.
The social polarisation that Mr Luft identifies “is not nearly as bad as in
France”. The federal government has now drafted a law, long overdue, to
recognise foreign credentials. Some 300,000 underemployed immigrants could then
return to the professions for which they were trained. Rather than importing
imams from Turkey and elsewhere the government wants them to be trained at
German universities, which will impart modern values alongside religion. The
debate provoked by Mr Sarrazin has unleashed a blast of cultural warfare. The
third of Germans who think the country is overrun with foreigners feel
vindicated, though there is no net immigration. The majority that want the
practice of Islam curtailed invoke scholarly support. The Sarrazinites are
raising the bar for judging integration a success. It would be nice if
immigrants developed a sentimental attachment to the Fatherland and its Leitkultur,
but is it necessary? “Speaking the language and having contacts with Germans is
more important than feeling German,” says Ruud Koopmans of the Social Science
Research Centre in Berlin. In Bremen the ugly turn in the debate makes it
harder to achieve even scaled-back integration. Co-operation with migrants has
been “massively damaged,” says Mr Heintze. Mrs Cengiz says “many families are
seriously thinking about going back to Turkey.” Germany’s president, Christian
Wulff, tried to undo the damage by saying that Islam “belongs to Germany”. But
he is outshouted. Bremen, a city-state, wants a climate in which such
pronouncements are too obvious to be worth making. In its schools migrants are
the norm, not “a small group with special needs,” says Yasemin Karakasoglu of
the University of Bremen. At the city’s request she is designing a new
curriculum for training teachers, which may use a child’s mother tongue when
necessary and also look for new ways to educate Muslim pupils about Germany’s
crimes against Jews. Germans’ idea of what it is to be German will have to
change too, she thinks. Bremers may be ready for this. Most Germans, it seems,
are not.