19 ottobre 2010

Gli immigrati non si integrano Se n'è accorta anche la Merkel
Libero, 19-10-2010
GENNARO MALGIERI

Il multiculturalismo ha "fallito del tutto". L'ammissione di Angela Merkel è esplosa con il fragore di una bomba nel bel mezzo di un'Europa dormiente, cullatasi per anni nella certezza che l'integrazione senza confini potesse apportare benefici alla convivenza tra popoli e culture.
L'insofferenza e le ricorrenti crisi di rigetto, laddove le regole degli Stati nazionali europei vengono travolti dall'accettazione di usi e costumi che non collimano con quelli dei Paesi ospitanti, stanno producendo effetti contrari a quelli sperati. Una sottile intolleranza si fa strada un po' ovunque mettendo a repentaglio l'ordine civile. Perciò la cancelliera tedesca insorge, così come in Francia, in Olanda, in Danimarca, in Svezia, in Norvegia i suoi colleghi si dimostrano preoccupati di fronte ad un fenomeno che non più possibile sottovalutare.
Perfino la tollerante Gran Bretagna è in allarme: Carneron, ma anche i laburisti, ammettono la necessità di ricorrere a severi ed immediati "aggiustamenti" riguardo alle politiche di accoglienza, avvedendosi che il pericolo xenofobo potrebbe tracimare da un momento all'altro.
In effetti soltanto adesso si scopre che la tendenza multiculturale ha tracciato la via di un anarchismo sociale di fronte al quale le nazioni corrono rischi che non possono essere arginati con il solito "buonismo".
IL RISCHIO RAZZISMO
Lo stravolgimento delle regole, l'accettazione di comportamenti e stili di vita spesso in contrasto le leggi dei Paesi d'accoglienza, l'affollamento di poveri che fronteggiano altri poveri nelle periferie più disastrate d'Europa, stanno innescando reazioni che politicamente assumono le forme di movimenti organizzati d'impronta razzista destinati, per il successo elettorale che riscuotono, a determinare gli assetti politico-parlamentari e a condizionare la vita dei governi.
Non si dovrebbe arrivare a tanto, naturalmente. Ma se si rifiuta il realismo per seguire deviazioni ideologiche fondate su un certo terzomondismo, la prospettiva che si apre davanti all'Europa non è quella di un'integrazione "morbida", ma di un conflitto aperto tra culture, religioni, fedi, pretese sociali che minano le basi dell'identità continentale.
Sia ben chiaro: la mescolanza è sempre esistita, e nessuno può provare che non sia stata un bene. Ma l'anarchismo è un lusso che nessuno, soprattutto nel tempo della globalizzazione politica e culturale, può permettersi. Ecco perché si fa strada la consapevolezza che un "filtro" è indispensabile per governare i processi di aggre-gazione.
Insomma, non tutto ciò che bussa alla porta dell'Europa può essere acriticamente accettato, soprattutto quando si è certi che forti identità, perlopiù arroganti, intendono sistemarsi nei nostri confini senza avere il benché minimo riguardo alla nostra cultura, alle nostre tradizioni, alle nostre leggi. Dall'abbigliamento delle donne alle predicazioni (non sempre innocue) nelle moschee, i problemi sono rilevanti. E di fronte ad essi non si può far finta che tutto va bene.
L'ESEMPIO FRANCESE
Sarkozy, per fare un esempio, che durante la campagna elettorale soleva dire agli immigrati: «La Francia o la sia ama o si va via», ha di recente reso a "le Monde" alcune dichiarazioni che hanno fatto discutere. Tra l'altro ha ricordato che ai nuovi arrivati il suo Paese chiede «di rispettare i valori, le leggi, le tradizioni» e di «far proprio questo patrimonio». La via norvegese all'immigrazione si riassume nello slogan che campeggia sui cartelloni nelle strade di Oslo: "Non quantità, ma qualità". E in Gran Bretagna, dove il passato coloniale ha contribuito a costruire il presente, c'è molta attenzione alle degenerazioni che  potrebbero  derivare dall'assimilazione: qualche anno fa i sobborghi londinesi vennero messi a ferro e fuoco da scontri razziali che fecero temere per la tenuta stessa della democrazia inglese.
Il vuoto identitario, comunque, è l'alleato migliore di tutti i fanatici che impunemente ritengono di fare dell'Europa una terra di conquista. È questo il motivo per cui si chiede agli intellettuali ed alle classi politiche di ripensare il rapporto con l'altro, con lo "straniero" la cui identità nessuno mette ovviamente in discussione a patto che non si con-trapponga a quella del Paese che lo accoglie. Fino ad oggi. Fino a quando i governanti non hanno aperto gli occhi su una congiura non dichiarata, tutt'altro che aperta: l'ospitalità democratica a chi alla democrazia non ci crede per niente.
Probabilmente la Merkel ha visto ad Alexanderplatz o nelle birrerie nei pressi della Porta di Brandeburgo bivaccare giovanotti che irridono i tedeschi. Di certo Sarkozy ha notato i "nuo-vi" francesi nelle banlieu diventate impenetrabili ai vecchi francesi. E forse Cameron non si avventurerebbe nelle periferie dove non s'incontra neppure un britannico. L'Europa comincia ad aver paura del multiculturalismo. Paradossalmente fino a ieri intendeva esportare la democrazia; oggi si accorge che i nemici della stessa li ha in casa.



IDEE M U LTICU LTU RALIS M0
Sugli immigrati l'Europa perde il filo
il Sole, 19-10-2010
Leonardo Martinelli
Le destre xenofobe avanzano e Angela Merkel lancia l'allarme: il «multikulti» è finito
Angela Merkel dubbiosa sulle reali possibilità di una società multiculturale? Il dibattito, in realtà, riguarda tutti in Europa, accompagnato dai sorprendenti successi dell'estrema destra. Come reagire? Ognuno, per ora, va avanti per la propria strada.
Francia, dalla volontà di assimilazione al pugno duro di Sarkozy. Assimilare: era la priorità di Parigi nell'era del colonialismo. È rimasto il progetto di una società che, ai tempi dell'immigrazione, ha scelto la carta dell'apertura, anche dal punto di vista normativo (relativamente facile ottenere la nazionalità, già a partire dai cinque anni di residenza). Negli ultimi tempi Sarkozy ha reso più dura la lotta contro l'immigrazione clandestina e più difficile la regolarizzazione. La tendenza si è accentuata, con una vasta operazione anti Rom e una nuova legge sull'immigrazione, la quinta in sei anni, ora al rush finale in parlamento. Prevede la revoca della nazionalità per chi abbia commesso gravi reati contro le forze dell'ordine. E rende più difficile l'accesso al permesso di soggiorno da parte dei clandestini (la permanenza massima nei centri sarà portata da 32 a 45 giorni). Intanto, è passata anche la norma che proibisce l'utilizzo del burqa nei luoghi pubblici. Una misura discussa, ma appoggiata dalla maggioranza dei francesi.
Germania, il tramonto del «multikulti». Angela Merkel l'ha detto chiaro e tondo: «Il nostro modello multiculturale ha totalmente fallito». Sì, la speranza di dare vita a una società dove più comunità coabitano, ma nel rispetto delle loro differenze. L'idea iniziò a imporsi in Germania negli anni Ottanta, su impulso dei verdi. Ha portato, fra le altre cose, a una legge sulla nazionalità (del 7 maggio 1999) che ha dato la possibilità ai figli degli immigrati nati in Germania di essere naturalizzati. Al di là delle parole della Merkel, l'estrema destra non ha vissuto quil'esplosione registrata in contesti simili, vedi Olanda o Svezia Il governo sta studiando misure per imporre corsi d'integrazione agli immigrati o per combattere fenomeni come i matrimoni forzati, in uso in alcune comunità. Al tempo stesso, prepara una legge per facilitare il riconoscimento dei diplomi ottenuti nei paesi d'origine dagli immigrati già residenti.
Regno Unito, più restrizioni, ma moderatamente. Il cambio della guardia, con l'arrivo al potere del conservatore David Cameron nel maggio scorso, ha portato qualche modifica in questo ambito. In giugno il governo ha introdotto una quota (assai criticata) per l'immigrazione in arrivo dai paesi esterni all'Unione Europea. Alcuni parlamentari della destra hanno chiesto per il Regno Unito una legge simile a quella francese sul divieto del burqa nei luoghi pubblici. Ma a tal riguardo esiste una forte opposizione generale: da parte di Cameron, dei politici (di tutti gli orientamenti) e dell'opinione pubblica Per la naturalizzazione, al di là di alcuni limiti imposti nel tempo, il Regno Unito resta uno degli stati più generosi d'Europa: quasi tutti gli stranieri che vi nascono possono poi ottenere la nazionalità. Apertura sì, ma non l'approccio dell'assimilazione in stile francese. A Londra si è preferito sempre un modello «multietnico», più pragmatico e prudente, con il riconoscimento delle diverse comunità. Che però, negli ultimi anni, è al centro di un dibatti¬to critico all'interno della società
Spagna, quando la crisi economica rende tutto più difficile. Come non ricordare la megaregolarizzazione di 70omila clandestini nel 2005 da parte di Madrid? Allora la Spagna, soprattutto nell'agricoltura, aveva bisogno degli stranieri. Con la crisi, il governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero ha cambiato strategia. L'ultima legge sull'immigrazione (la quarta), in vigore dal 13 dicembre 2009, ha reso più severe le norme. La permanenza massima nei centri di permanenza temporanea è passata da 40 a 60 giorni. Più difficoltoso è diventato il ricongiungimento famigliare, ristretto solo ai figli minorenni e al coniuge dell'immigrato (possibilità limitate, invece, per i genitori). Nei giorni scorsi, l'esecutivo ha annunciato che rinnoverà il permesso di soggiorno agli immigrati (in regola) disoccupati, almeno per un determinato periodo di tempo, non ancora precisato.
Olanda, sempre più diffidenza. In passato uno dei paesi più aperti agli immigrati; da tempo ha cambiato il suo approccio, prima ancora che il  9 giugno il partito antislamico Pw di Geert Wilders diventasse la terza formazio¬ne politica (il cui sostegno è necessario per il governo liberal-democristiano).Unanorma-tiva, già applicata dal 2006, impone al nuovo arrivato la conoscenza della lingua e della società locali (con test realizzati dai consolati nei paesi d'origine). Pochi giorni fa il governo ha annunciato che intende introdurre il divieto del burqa. E cercare di ridurre del 50% l'attuale flusso immigratorio, restringendo soprattutto 0 ricongiungimento famigliare.
Svezia, nuovi venti d'estrema destra. Fi¬nora un modello d'integrazione a livello europeo, quello svedese comincia a scricchiolare. La buona performance dei Democratici di Svezia (partito antiimmigf azione) alle elezioni legislative del 19 settembre potrebbe portare a sostanziali cambiamenti: il governo di destra di Fredrik Reinfeldt non ha più la maggioranza assoluta in parlamento. Per il momento le normative restano le stesse: nazionalità concessa dopo cinque anni di residenza, abbastanza facilmente. E grande liberalità nel campo del diritto d'asilo: la Svezia è uno dei rari paesi Ue dove le richieste accettate sono più numerose di quelle rigettate. Ma la popolazione appare stanca. In un'inchiesta dell'università di Goteborg del 1993, il 36% degli svedesi riteneva che il paese avesse accolto troppi stranieri. L'anno scorso, in una ricerca simile dello stesso ateneo, si è saliti al 52 per cento.



Fini: «Il multiculturalismo senza regole è anarchia»

Avvenire, 19-10-2010
«Il multiculturalismo inteso come possibilità per lo straniero di non imparare la lingua del Paese che lo ospita, di non rispettare le regole di quel Paese, di non inserirsi in un modo graduale e ordinato, è un fallimento. Non è multiculturalismo ma anarchia». Così ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, dopo aver incontrato a Rabat il presidente della Camera dei rappresentanti del Marocco, Abdelwahad Radi. Con il suo omologo, Fini ha parlato anche di immigrazione, commentando le affermazioni del cancelliere tedesca Angela Merkel, secondo cui il multiculturalismo sarebbe finito. «Il dibattito in corso in buona parte dell'Europa - ha spiegato il presidente della Camera - è la conferma della necessità di una integrazione che comporti parità di diritti ma anche obbligo di rispettare dei doveri. L'Italia, che non ha un passato di potenza coloniale, potrebbe essere il luogo in cui viene messa a punto una strategia di integrazione dello straniero, che non sconti gli errori di un multiculturalismo eccessivo».



Il multiculturalismo che ha fallito

Le parole del cancelliere tedesco: "Ci siamo raccontati frottole"
Il Foglio, 19-10-2010
Non dimentichiamoci che siamo il paese che all'inizio degli anni Sessanta ha fatto venire i Gastarbeiter in Germania e ora vivono da noi", ha detto Angela Merkel parlando sabato a Postdam a un incontro della Cdu: "Per un certo periodo ci siamo raccontati frottole, ci siamo detti che non sarebbero rimasti per sempre, prima o poi sarebbero tornati ai loro paesi. Ma la realtà è un'altra. Ed è chiaro che l'idea di allora 'adesso ci proviamo un po' nel multiculti, viviamo così uno accanto all'altro e siamo tutti felici e contenti', è stata un'idea sbagliata, quel punto di partenza, quell'ipotesi è completamente naufragata". (...) "Non è ammissibile che tra di loro ci sia il doppio di ragazzi che ha abbandonato la scuola anzi tempo. E' questo che ci crea i problemi sociali del futuro. Per questo l'integrazione è così importante. Per questo è fondamentale che i giovani, quelli che vogliono essere parte della nostra società, non si limitino a rispettare le nostre leggi, non basta che si attengano alla nostra costituzione, devono in primo luogo imparare la nostra lingua (...) Il presupposto dell'integrazione è che si conosca la lingua. Questo non deve però far sorgere il sospetto che chiunque non sappia immediatamente il tedesco, che non sia cresciuto avendo il tedesco come sua madrelingua non sia il ben-
venuto da noi. Questo non farebbe che nuocere al nostro paese". E ancora: "Gli immigrati non vanno solo sostenuti, bisogna anche pretendere da loro", (...) "Certo le omissioni di trenta quarant'anni non si possono recuperare così velocemente".
Riallacciandosi al discorso del capo della stato Christian Wulff tenuto il 3 ottobre in occasione delle celebrazioni per i vent'anni dalla riunificazione, nel quale Wulff aveva affermato che l'islam fa parte della Germania, Merkel ha sottolineato: "Lui ha detto che anche l'islam fa parte della Germania e così è, l'islam fa parte della Germania. Lo testimonia non solo il calciatore Ózil... Chi ignora che qui ben 2,500 imam guidano le funzioni religiose nelle moschee non fa altro che raccontarsi bugie". (...) "Quello che bisogna fare ora, cari amici, è chiedersi come comportarsi. Ed è in questo senso che il tema dell'integrazione diventa un tema centrale. Tra i giovani del nostro paese continuerà infatti a crescere e non a diminuire il numero di ragazzi con un background straniero (...) A Francoforte due bambini su tre sotto i cinque anni sono figli di immigrati", (...) "Le nostre radici sono cristiano-giudaiche... noi ci sentiamo parte della concezione cristiana dell'uomo e chi non rispetta questo nostro sentire si trova nel posto sbagliato".



Realpolitik non sempre è populismo

il Sole, 19-10-2010
Enrico Brivio
Ricordate quest'estate i dribbling in germanica maglia bianca del guizzante Mesut Òzil, turco nato a Gelsenkirchen? Fu eretto a simbolo di una nuova nazionale tedesca multiculturale che contava anche Jerome Boateng e Sami Khedira, nati in Germania rispettivamente da padre ghanese e tunisino, Lukas Podolski e MiroslavKlose, originari dalla Polonia, e ben altri sei oriundi.
Allora si celebrò, con un po' di inevitabile faciloneria mediatica, la nuova Deutschland multietnica, che comunque si andò a infrangere in semifinale contro una Spagna dal sangue squisitamente iberico. Allo stesso modo, sembra eccedere in questi giorni chi parla di inversione a 180 ° gradi di Angela Merkel nel suo riferimento al fallimento del modello multiculturale. Per il semplice motivo che la cancelliera non è mai stata fervente paladina di un approccio «multikulti», di cui in Germania sono stati portatori semmai verdi e socialdemocratici. Certo la componente più cristiano-popolare della Cdu ha nell'accoglienza degli immigrati uno dei propri valori. Ed è chiaro l'intento della Merkel di coprirsi il fianco destro, dopo le critiche di essersi spostata troppo "a sinistra" e la nascita del partito berlinese Freiheit, che ambisce a ripetere i successi dello xenofobo olandese Geert Wilders erodendo consensi alla Cdu.
Rivendicare però la necessità che gli immigrati facciano uno sforzo per integrarsi nella società di accoglienza e per apprenderne la lingua, come ha affermato la Merkel, significa porre legittime condizioni. Molto lontane dal sussulto populista di Nicolas Sarkozy, quando invoca l'espulsione dei Rom anche se di nazionalità rumena e quindi europea, in spregio alla normativa comunitaria. È bene distinguere il tentativo tedesco di mettersi in sintonia con gli umori della gente, dalla spregiudicatezza francese nel cavalcare l'istinto d'intolleranza che certe difficili convivenze possono provocare.



Il vecchio continente segue gli input del Carroccio ed è sempre più critico verso il modello multiculturale

la Padania, 19-10-2010
PAOLO BASSI
Che l'Europa si stia svegliando? La domanda è tutt'altro che retorica. Una risposta troppo affermativa potrebbe infrangersi sul muro della disillusione, ma senza peccare di ottimismo, sembra davvero che il vecchio continente stia acquisendo una nuova consapevolezza circa le problematiche connesse all'immigrazione. Una presa di coscienza che viene da lontano e che ha senza dubbio nella Lega Nord una delle sue avanguardie. Il movimento di Umberto Bossi è stato fra i primi a sollevare dubbi, perplessità e allarmi sullo scontro di civiltà in atto nella culla dell'Occidente. A questa voce se ne sono aggiunte altre, fra le quali non si possono non ricordare i compianti Pim Fortuyn e Jòrg Haider, che nei rispettivi Paesi, hanno catalizzato intorno alle medesime osservazioni fior di consensi. L'intellighenzia e i cul-  
tori del politicamente corretto, salirono sulle barricate derubricando quelle vittorie elettorali a mera reazione di "pancia" delle fasce più marginali della popolazione. A exploit isolati, nati sulla scorta di una preoccupazione più percepita che reale. Padania, Olanda e Austria, hanno cercato di farci credere, "sono realtà troppo piccole" per poter essere davvero un indicatore di una tendenza continentale. Si sbagliavano. E parecchio. A stretto giro di posta anche i "soci di maggioranza" della Ue hanno rotto gli indugi. Il governo "new labour" di Tony Blair ha dato una notevole stretta alle frontiere puntando su un tipo di immigrazione "selezionata" in base alle reali necessità del mercato del lavoro (iniziativa poi ripresa e ampliata dal successivo Esecutivo conservatore guidato da David Cameron). Più a Sud, un altro socialista, Luis Rodriguez Zapatero, ha incrementa to i sistemi di controllo dei confini, non facendosi scrupoli di alcun tipo nell'arrivare a costruire barriere fisiche, ossia muri con torrette di controllo e filo spinato, per combattere l'afflusso di clandestini. Gran Bretagna e Spagna non sono "staterelli" di secondaria importanza, ma anche in questo caso la stampa "buonista" ha circoscritto la questione raccontando che si trattava di decisioni motivate da fattori contingenti e non da un vero e proprio cambiamento di rotta nei confronti del modello muticulturale applicato fino a quel momento.
Poi però all'Eliseo è salito un tale Nicolas Sarkozy, figlio di immigrati con le idee molto chiare sui limiti da imporre alla trasformazione "plurale" della Francia. Come già aveva dimostrato quando era stato ministro dell'Interno, il leader dell'Ump (Unione per un movimento popolare) da presidente della Repubblica si è fatto artefice di provvedimenti molto determinati, come quello che ha portato ad un considerevole aumento di espulsioni di rom (anche comunitari) dal territorio francese e la legge (primo caso in Europa) che vieta l'uso del burqa, il velo integrale islamico, nei luoghi pubblici.
Il "caso tedesco", invece, è cronaca di questi giorni. A dir poco dirompenti le dichiarazioni della cancelliera Angela Merkel, che parlando di fronte ad una assemblea di giovani del suo partito, la Cdu-Csu, ha dichiarato che il modello di una Germania multiculturale,  nella quale coabitano armoniosamente culture differenti,  è «completa-mente fallito». Il Paese,  secondo l'erede di Helmut Kohl, «ha bisogno degli immigrati come manopodera ma essi devono integrarsi e adottare la cultura e i valori tedeschi». E, pur ribadendo che la Germania resta un paese aperto al mondo, ha ripetuto: «Non abbiamo bisogno di un'immigrazione che pesi sul nostro sistema sociale. Noi - ha ribadito - ci sentiamo legati ai valori cristiani. Chi non lo accetta, non è nel suo posto qui».
A ciò dobbiamo aggiungere altri fatti di rilievo, come l'ingresso, per la prima volta, di un partito anti-immigrazione nel Parlamento svedese o l'ottimo successo (il 15% dei consensi) incassato alle ultime elezioni del partito del popolo Danese,  anch'esso assai critico verso il melting pot. Tutta l'Europa dunque, dalla Scandinavia al Mediterraneo, sembra davvero aver cambiato passo sulla questione immigrazione. Più indietro appaiono invece le istituzioni Uè. Ma forse, così come è successo per gli Stati, forse si tratta solo di una questione di tempo.



INTEGRAZIONE? L'ITALIA INDICHI UN NUOVO MODELLO ALL'EUROPA

Secolo, 19-10-2010
Francesco Signoretta
Il Marocco, la sua vocazione europea, il ruolo strate-gico di questo Paese nell'ambito dei rapporti con il mondo arabo. Gianfranco Fini, in visita ufficiale a Rabat, incontra il presidente della Camera dei rappresentanti, Abdelwahad Radi, vede il primo ministro, Abbas El Fassi, e si intrattiene con il presidente della Camera dei consiglieri (l'equivalente del Senato) del Marocco, Cheikh Biadillah. E con loro parla di multiculturalismo come risorsa, ma anche della vocazione europea di questo paese, che lo rende strategico per l'Italia e l'Unione europea nell'ambito del rapporto con tutta l'area del mondo arabo-musulmano. Il suo atteggiamento moderato nel Maghreb ne fa il partner obbligato nell'ambito degli obiettivi condivisi della creazione di un'area di sicurezza e prosperità nel Mediterraneo, della lotta al terrorismo internazionale e del constrasto ai fenomeni connessi all'immigrazione clandestina.
L'Italia, dopo Francia e Spagna, è il terzo partner com-merciale del Marocco. E la comunità marocchina nel no¬stro Paese, con oltre 300mila persone, rappresenta una delle realtà più numerose e meglio integrate, con «il mag¬gior numero di lavoratori autonomi». Con loro, come con gli altri immigrati, il nostro Paese intende confrontarsi e connvivere. E il «multiculturalismo», gli chiedono i cronisti, è finito, come recentemente affermato da Angela Merkel, oppure è un valore a cui fare ancora riferimento negli anni che verranno? «Se inteso come possibilità per lo straniero di non imparare la lingua del Paese che lo ospita, di non rispettare le regole dì qual Paese, di non inserirsi in un modo graduale e ordinato, non c'è dubbio - risponde il presidente della Camera - che siamo al fallimento. Perché non è multiculturalismo ma anarchia». Se, invece, è inteso come «conferma della necessità di un'integrazione che comporti parità di diritti, ma anche obbligo di rispettare i doveri», allora è più vivo che mai. Ed è una risorsa per tutti. Il dibattito in corso in buona parte dell'Europa è, secondo il presidente Fini, «estremamente ragionevole» ed è incentrato su questi aspetti del problema. In Francia, ad esempio, argomenta la terza carica dello Stato, «si pongono il dubbio sulla riuscita dell'assimilazionismo, cioè della cancellazione dell'identità di coloro che si trasferiscono a Parigi, e in Germania o nei paesi del Nord Europa ci si pone il problema dì un multiculturalismo non rispettoso della tradizione nazionale del luogo che. accoglie lo straniero». Sistemi di integrazione che mostrano chiaramente la corda. C'è bisogno di altro e l'Italia può dare un contributo. «Non avendo un passato di potenza coloniale - dice Fini - l'Italia potrebbe essere il luogo in cui viene messa a punto una strategia d'integrazione che non sconti gli errori di un multiculturalismo eccessivo».
Nel dibattito sulle «virtù e sui limiti del multiculturalismo» la sintesi, secondo Fini, è tutta impregnata della necessità di «un'integrazione che comporti il rispetto dell'identità dello straniero, ma lo obblighi anche ai neces¬sari doveri». Un discrimine che ha fatto fallire il tentativo «assimilazionistico» francese e, nello stesso tempo, ha reso impraticabile il «multiculturalismo» alla tedesca: nel primo caso si pretende di cancellare «le identità degli immigrati», nel secondo si superano «le tradizioni nazionali» del Paese ospitante. Non può funzionare. Europei e popoli mediterranei dialogano se i primi hanno ben presente che una società prospera non può crescere ed evolversi chiudendosi a ogni rapporto con l'esterno. La patria di oggi, non è più la terra dei padri, il focolaio di un tempo. Al centro c'è sempre l'appartenenza, ma essa -ha detto recentemente Gianfranco Fini intervenendo al ciclo di letture su "Cittadini e migranti" presso la sede dell'Università di Pisa - più che per discendenza etnica si conquista con l'accettazione dei valori.



INTEGRAZIONE DIFFICILE
Immigrazione in Germania legge contro le nozze forzate

La Stampa, 19-10-2010
BERLINO- Dopo il discorso di Angela Merkel sulla fallimento della società multiculturale in Germania, che ha suscitato reazioni e aperto il dibattito in tutta Europa, ieri Berlino ha annunciato un giro di vite sul¬le nozze forzata tra i immigrati, molto diffuse soprattutto tra i musulmani.
Il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, ha annunciato provvedimenti contro gli immigrati che si rifiutano di integrarsi: il 27 ottobre il consiglio dei ministri si occuperà tra l'altro dell'introduzione del reato di matrimonio forzato nell'ordinamento tedesco e dell'inasprimento delle sanzioni per chi non partecipa ai corsi di integrazione.
L'altra faccia della medaglia è però la drammatica carenza di lavoratori immigrati, che costa ogni anno 15 miliardi di euro all'economia tedesca. Lo ha denunciato sempre ieri il ministro dell'Economia, Rainer Bruederle (Pdp), secondo il quale è stato questo il costo pagato dal Paese nel 2009 per la drammatica mancanza di manodopera e professionisti che Germania, in calo demografico da almeno un decennio (la popolazione è passata da 82,5 a 81,5 milioni), non è più in grado di fornire. Mancano 36 mila ingegneri e 66 mila specialisti di informatica e il ministro della Ricerca scientifica,
Annette Schavan (Cdu) si appresta a presentare un disegno di legge per favorire il rapido riconoscimento dei titoli di studio ottenuti dai migranti nei loro Paesi di origine. Secondo le stime governative, sarebbero almeno 300 mila gli stranieri che potrebbero entrare nel mercato del lavoro tedesco una volta riconosciuti i loro titoli accademici.     



Gli stranieri e la violenza Da autori e da vittime

il Riformista, 19-10-2010
CARLA COLLICELLI
Rivolte nei centri di prima accoglienza e blocco del-l'aeroporto di Cagliari, spari contro pescherecci nel mare Mediterraneo, e un'infermiera rumena morta a Roma per il pugno di un ragazzo. Anche questo autunno non ci risparmia lo strazio dei tanti episodi di violenza che hanno a che fare con gli immigrati, che si collocano sullo sfondo di un aumento generalizzato dell'aggressività e della vio-lenza - dagli stadi, agli stupri, ai delitti passionali -, ma che risul¬tano particolarmente frequenti: sia i reati di vario tipo che hanno come autori individui stranieri, come il delitto Reggiani, l'aggressione notturna ai turisti olandesi, o i tanti morti a causa della guida in stato di ebbrezza, che fanno sì che quasi il 50% degli arrestati e il 37% dei detenuti in Italia siano stranieri; sia quelli che li coinvolgono come vittime, dal 4% degli alunni stranieri che subiscono aggressioni fisiche nelle scuole italiane, alle migliaia di morti nei naufragi delle carrette della speranza, agli incendi delle baracche dei clandestini, all'aumento degli infortuni sul lavoro, che per più del 16% riguardano lavoratori stranieri.
Eppure si tratta ormai di cinque milioni di persone che vivono nelle nostre città in media da sette anni, hanno titoli di studio paragonabili a quelli della popolazione italiana, contribuiscono per il 4% al gettito contributivo dell'lnps e per il 9% al Pil del paese, e costituiscono più del 6% degli alunni delle nostre scuole, più dell' 11% dei nuovi nati ogni anno sul territorio italiano, e più del 70%) degli assistenti familiari che accudiscono i bambini e i malati nelle nostre famiglie.
Perché allora tanto astio e tante tinte fosche nella cronaca che li riguarda?
In parte si tratta certamente del frutto di una rappresentazione eccessivamente enfatica e ridondante, che tende a sfruttare in termini mediatici l'effetto attrattivo di stereotipi vecchi e nuovi, che identificano il male con i diversi e i poveri. Un secondo ordine di motivazioni va individuato nel fatto che chi è straniero ha ovunque e da sempre più occasioni di infrangere la legge e minori possibilità di difendersi, anche perché conosce poco o per niente le leggi e la lingua del paese e non gode, come la maggior parte degli autoctoni, dei benefici di tutela degli imputati. E ciò spiega la alta presenza di stranieri nelle carceri e tra gli arrestati e i denunciati. Ma quando gli stranieri sono le vittime di discriminazioni gravi e di aggressioni di vario tipo, non si può non pensare a un terzo ordine di fattori, che ha a che vedere con le reazioni scomposte di una società impaurita e spaesata di fronte a quella che viene percepita come una minaccia. E ciò si collega alle opinioni di quella fetta di italiani, che considera gli immigrati extracomunitari un problema di ordine pubblico, perché responsabili dell'aumento della criminalità (il 29,7% di un recente campione Censis), o come una minaccia, in quanto portatori di fedi, valori e tradizioni incompatibili con la nostra cultura (10,8%).
Sembrano ripresentarsi sulla scena oggi quel surriscaldamento sociale e quella conflittualità, che pensavamo di avere ormai superato, dopo le fasi critiche degli anni Ottanta e Novanta, quando un paese impreparato si era trovato ad affrontare flussi di immigrati sempre più consistenti ed eterogenei. E le cause delle nuove forme di intolleranza e di violenza vanno probabilmente cercate negli effetti dalla crisi economica e sociale in termini di indebolimento della coesione sociale e di diffusione dell'egoismo. La globalizzazione dell'economia e del lavoro, i suoi risvolti di disoccupazione, lo stallo ormai consolidato della mobilità sociale, l'indebolimento identitàrio hanno senza dubbio un legame con i fenomeni di rabbia aggressiva nei confronti di chi rap-presenta nei nostri luoghi di vita la diversità e la concorrenza rispetto alle scarse risorse disponibili. E mentre nel passato gli im-migrati andavano a collocarsi in un mercato del lavoro decisamente più strutturato, oggi un contesto lavorativo fluido e flessibile rende più difficili le possibilità di crescita professionale e sociale per tutti, il che si traduce nella moltiplicazione delle situazioni di insicurezza e marginalità. Al di là quindi dei tanti segmenti di immigrazione tutelati dai presidi naturali di regolazione sociale, diffusi in Italia a livello di società civile e di terzo settore, occorre attivare politiche forti di integrazione per quell'area oscura di immigrazione senza presidio sociale, soggetta a sfruttamenti e rischi di ogni genere, su cui finiscono spesso per scaricarsi le tensioni sociali collettive.



COM'È STRANO SENTIRSI ISLAMICI A MILANO...

Secolo, 19-10-2010
Omar Camiletti
Dai musulmani europei fragili risposte all'offensiva dell'intolleranza. C'è chi evita l'impegno politico,chi è in crisi d'identità, chi si arrabbia
Il populismo che sta affermandosi in diversi Paesi europei ha come comune denominatore il rigetto dell'Islam. Ma il mondo musulmano non sembra attrezzato a dare risposte culturali e politiche al fenomeno
In tutte le società europee la questione dei rapporti con i musulmani ha ormai una vasta letteratura, che dopo gli at¬tentati del 11 settembre in America ma sopratutto quelli del 7 luglio a Londra e quelli del 11 marzo a Madrid sembravano essersi avviati verso orizzonti più ottimisti. Ultimamente però la situazione sta prendendo una nuova piega: in molti paesi si vanno affermando partiti che fanno fortuna parlando alla "pancia" dell'elettorato. Questo neopopulismo non è la stesso dappertutto, cambia in base alle tradizioni popolari dei singoli paesi, ma c'è un tema nuovo che "federa" la maggior parte di queste formazioni politiche europee: il rigetto dell'islam. Nella capitale austriaca, il FPÓ ha conquistato il 27% dei voti alle elezioni provinciali, ritrovando il successo conquistato da Jòrg Haider nel 1996 con lo slogan "sicurezza per le donne libere", ovviamente escludendo quelle che portano il velo. Lo stesso ottimo risultato è stato ottenuto dai i populisti svedesi lo scorso 19 settembre.
Il segnale d'avvio di questo trend risale al 2009, con il referendum svizzero contro i minareti, ma è stato Geert Wilders nei Paesi Bassi il primo ad avere messo il rifiuto dell'Islam al centro di un programma politico, facendo da detonatore all'esplosione di islamofobia. Negli Usa sono i tea party a interpretare la tendenza, tanto che l'altro giorno, in un tempestoso dibattito sulla Fox News, canale televisivo molto vicino ai po¬pulisti americani, un conduttore che tentava di sovrapporre tutti i musulmani al terrorismo dell'11 settembre ha talmente indignato Whoopi Goldberg che l'attrice ha preferito abbandonare lo studio. In Germania il dibattito su questi temi si era acceso dopo la pubblicazione del saggio La Germania si disfa di Thilo Sarrazin, nel quale l'ex senatore socialdemocratico ed ex membro del direttorio della Bundesbank ha sostenuto che gli immigrati, a cominciare dagli arabi e dai turchi, stanno portando il Paese all'«abbrutimento». La classe politica ha condannato questa tesi, ma i sondaggi rivelano che la maggioranza dei tedeschi sembra d'accordo con Sarrazin. Un'indagine i cui risultati sono stati resi noti qualche giorno fa ha evidenziato che più del 50 per cento tollera poco i musulmani, oltre il 35 per cento ritiene che la Germania sia "sommersa" dagli stranieri. Tanto da far affermare lapidariamente alla cancelliera tedesca Angela Merkel: «Il modello multiculturale in Germania è fallito», aggiungendola Germania non ha manodopera qualificata e non può fare a meno degli immigrati, ma questi si devono integrare e devono adottare la lingua e la cultura tedesca». La Merkel, pur ribadendo che la Germania rimane un Paese aperto (qualche tempo fa aveva dichiarato che le moschee facevano parte del paesaggio tedesco) ha dettato una linea nuova: «Non abbiamo bisogno - ha detto - di un'immigrazione che sia un problema per il nostro sistema sociale».
In questo contesto, esiste una strategia comunicativa e/o politica dei musulmani? La risposta sembra saldamente di segno negativo. Molti opinion leader musulmani o imam hanno una conoscenza superficiale della cultura e della storia dei paesi europei, o addirittura sostengono che i musulmani dovrebbero stare lontano dalla cultura occidentale. Ma ci sono anche le eccezioni come Ajmal Masroor, che di recente ha ripor¬tato la sua testimonianza di vita nell'Europa del Nord su Emel, rivista britannica islamica. Ajmal, nato in Bangladesh nel 1971, emi¬grò con la sua famiglia in Gran Bretagna quando era ancora neonato. A19 anni suo padre cercò di costringerlo a un matrimo¬nio in Bangladesh, ma lui sfidò il padre, af-fermando che i matrimoni forzati non era-no accettabili nell'Islam. Si è sposato poi con Henrietta Szovati (una ungherese che si convertì all'Islam) e ora hanno due figli. É un imam, membro del Consiglio musulma¬no della Gran Bretagna, ma anche un com¬mentatore su questioni sociali, politiche e religiose noto in vari canali televisivi nel Regno Unito. Attualmente presenta i suoi programmi su Islam Channel, ma conosce bene molte altre realtà. Il suo tour europeo è legato a un'esperienza di mediazione culturale rivolta ai musulmani fra i 18 e i 30 anni, che lo ha portato in diverse capitali. «In Belgio - racconta - i giovani musulmani per la maggior parte sono del tutto disimpegnati dai processi politici del Paese. E il conflitto fra cultura e religione li ha spesso allontanati dall'Islam». Ajmal Masroor racconta che uno dei giovani leaders gli confessò: «la confusione più grande sta nel non sapere se siamo dei musulmani marocchini che vivono in Belgio o se siamo dei musulmani belgi con radici marocchine». Ajmal racconta di contraddizioni analoghe in Olanda: «Feci colazione a Rotterdam con un gruppo di anziani di origine turca che sembravano amabilmente conciliare il lavoro, la vita occidentale con la imperturbabile tranquillità turca. Poi parti per l'Aja per incontrare dei giovani musulmani: rimasi sbalordito nell'ascoltare, in una moschea in pieno centro della capitale, il sermone che precede la preghiera in malese!». Ajmal racconta che all'uscita non potè fare a meno di esclamare: «per amore di Dio ma perche non fate il sermone in olandese?». I suoi ospiti erano imbarazzati e non sapevano cosa dire. Erano ansiosi di parlare soprattutto di politica, delle affermazioni di Wilders che paragonava il Corano al Mein Kampf e voleva tassa¬re le donne che indossavano il velo. Poi Masroor si spostò in Germania, in una piccola città vicino a Dusseldorf. I suoi contatti gli avevano preso appuntamento con l'uomo che gestiva la locale moschea, alle dipendenze di un ente governativo turco il quale assolutamente non permetteva che i "suoi" musulmani fossero coinvolti in attività politiche. L'uomo fu ben contento quando prese che il programma per giovani mediatori non aveva nulla a che fare con la politica. Ma, incontrando musulmani provenienti dal Ghana, Gambia e da altri paesi africani, Masroor scoprì che non c'era alcun interesse verso la sua proposta. La successiva tappa fu Parigi: «alla Gare du Nord vidi persone di tutte le razze e vestiti in tutte le fogge, ma nessuno offriva un sorriso o un saluto agli altri. Quando Ajmal incontrò i giovani musulmani francesi per discutere del programma sui mediatori si finì ovviamente a parlare della messa al bando del burqa. La stragrande maggioranza delle musulmane francesi non indossa il burqa, però i giovani ne fanno una questione di principio. Masroor ricorda una ragazza che gli disse: «nessuno interferisce quando la donna è ri-dotta ad oggetto, questo doppio standard dimostra il razzismo dello stato francese». «La mia replica - conclude Ajmal - fu semplice: questa è anche la vostra patria, non dovreste rassegnarvi e accettare l'intolleranza, dovete in maniere adatte farvi valere».



Si chiama Millet la pretesa dei musulmani di conservare le proprie leggi

Il Foglio, 19-10-2010
Maurizio Stefanini
Roma. Si parla di rischio sharia, ma forse il vero problema è, più precisamente, quello del Millet. Di che si tratta? "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". E' un articolo della Costituzione italiana, che ben riassume un principio che sta alla base di tutta la cultura giuridica e istituzionale dell'occidente moderno: tutti coloro che vivono in uno stesso territorio sono sottoposti alla stessa legge. Certo, il decentramento implica apparenti eccezioni al principio generale: negli Stati Uniti, ad esempio, il cittadino di determinati stati può essere condannato a morte per reati che in un altro stato comporterebbero pene inferiori; in Italia il cittadino della provincia di Bolzano è sottoposto all'obbligo di conoscere anche il tedesco oltre all'italiano per poter essere assunto in un po¬sto pubblico. Ma il principio territoriale resta sempre comunque. Un cittadino di Bolzano che si trasferisca a Roma; non dovrà più dimostrare di conoscere il tedesco per essere ammesso a un concorso pub blico; il cittadino di uno stato americano in cui vige la pena di morte, non verrà sottoposto a iniezione letale compiendo in un altro stato un reato che, nel suo luogo natale, sarebbe passibile di tale pena.
Il Millet consiste invece nella negazione del principio di territorialità, Due vicini di pianerottolo sono sottoposti a due leggi diverse perché sono di religioni diverse: il cattolico non può divorziare: ma il musulmano può essere poligamo. Il turco Millet, dall'arabo Milla, è tradotto come "nazione", ma significa letteralmente "Verbo", e indica nel diritto islamico un "gruppo di persone che accetta un verbo particolare o un libro rivelato". Una nazione coincidente con una fede, come diceva Maometto. Nell'impero ottomano le Millet stavano in posizione diseguale: la Millet musulmana era quella di serie A, il cui capo era il sultano. Le altre Millet, da quella ortodossa a quella armena a quella ebraica, erano invece in posizione di vassallaggio. Ad esempio il patriarca di Costantinopoli era considerato una sorta di "sovrano" per tutti gli ortodossi: ma un sovrano vassallo del sultano, e i membri del suo Millet dovevano ad esempio per questo pagare delle tasse aggiuntive. Questo status di dhimmi, "protetti", è ancora quello cui sono sottoposti i non islamici in gran parte del mondo musulmano: cittadini di serie B, anche se con qualche privilegio marginale (ad esempio: i cristiani in Iran possono consumare alcol).
La "dhimmitudine", però, non è l'aspetto essenziale del sistema del Millet. In Libano, ad esempio, il sistema funziona in situazione di formale parità fra le varie comunità religiose. E anche in India dai tempi dell'impero Moghul sopravvive uno status speciale per musulmani e cristiani che non impedisce ai membri di queste minoranze di scalare anche le cariche più importanti.
Oggi la richiesta di gran parte degli immigrati islamici in Europa è, appunto, non un'impossibile introduzione della sharia per tutti, ma il Millet; le leggi sulla famiglia, la proprietà e le sanzioni penali vota¬te dalla maggioranza "cristiana" continuino pure a essere applicate per questa maggioranza; ma i musulmani abbiano il diritto di amministrarsi secondo le regole proprie, e con propri tribunali. Qui sorge, tra l'altro anche, un grave problema di intercomprensione sulla reciprocità. Se ci sono moschee a Roma, perché non ci possono essere chiese alla Mecca? Se nel mondo islamico un cristiano può bere alcol e mangiare carne di maiale, perché in occidente un musulmano non può essere poligamo e far portare a sua moglie il velo?
Le leggi che nelle Americhe o nell'Oceania tutelano le popolazioni indigene, la Common Law anglosassone o la "politica dei pilastri" belga o olandese, sono state a volte viste come versioni occidentali del Millet. In realtà, è vero che ad esempio le legislazioni indigenista colombiana o australiana permettono punizioni corporali che sono vietate per altri cittadini: ma anche lì queste deroghe al principio generale hanno solo base territoriale, ad esempio nelle riserve. Mentre cattolici e protestanti in Olanda o fiamminghi e valloni in Belgio, organizzavano sì scuole, ospedali, e perfino campionati di calcio dilettantistici separati. Ma i tribunali rimanevano sempre quelli dello stato. Però, è proprio forzando queste eccezioni apparenti che nell'Europa di oggi si possono aprire pericolosi varchi per il Millet.



IMMIGRAZIONE: LE PROPOSTE E GLI ANATEMI

l'Unità, 19-10-2010
Alessandro Maran
VICEPRESIDENTE GRUPPO PD ALLA CAMERA
Sulla questione immigrazione è facile cadere in giudizi emotivi o anche ideologici. Allora cerchiamo di fare un po' di chiarezza. Se è vero che - stando al verbale della commissione che ha accettato il testo sull'immigrazione da me firmato insieme a diversi esponenti del Pd - «i documenti presentati non configurano linee alternative» e la proposta di introdurre un sistema di ammissione a punti «è contenuta nel documento generale», perché la «proposta di Veltroni» sarebbe «di destra» come ha scritto sull'Unità qualcuno? Inoltre, il modello di cui si discute, è stato introdotto in Inghilterra dal Labour Party. I socialisti inglesi (o quelli danesi) non si occupano degli ultimi, dei poveri, degli emarginati?
Nessun italiano dubita che il centrosinistra stia dalla parte dei migranti (siamo tutti d'accordo che i migranti regolari debbano accedere ai diritti sociali e politici: casa, scuola, formazione, sanità, voto locale, cittadinanza); buona parte degli italiani ritiene invece che non riusciamo a comprendere le loro pre¬occupazioni sull'immigrazione (se minaccerà i loro salari, le loro prospettive di lavoro, la loro sicurezza o metterà sotto pressione i servizi e l'edilizia pubblica), al punto che l'inquietudine pubblica circa l'immigrazione influenza ormai la fiducia nel sistema politico e nelle istituzioni.
La gente ha bisogno di sapere che l'immigrazione è controllata, che le regole sono ferme e giuste, che c'è sostegno per le comunità alle prese con il cambiamento. Dunque (a meno che non si dica che devono poter entrare tutti) il punto è: «come si sceglie?» E come si affanna a ripetere Massimo Livi Bacci, non deve essere solo l'esistenza di un posto di lavoro che determina l'ammissione dell'immigrato ma anche la qualità del capitale umano, la capacità di far parte della società e di contribuire alla sua crescita e la volontà d'inclusione. Proprio perché l'immigrazio¬ne non è un fatto temporaneo, ma un trapianto duraturo. Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Breta¬gna e Danimarca hanno adottato strategie di questo tipo. E l'ammissibilità è legata a una valutazione del¬le caratteristiche degli immigrati, in funzione del loro contributo allo sviluppo e alla coesione. La selettività, tuttavia, è basata su criteri noti e controllabili, al contrario delle politiche attuali, implicitamente selettive, opache e arbitrarie. Allo stesso tempo lo Stato accoglie generosamente chi ha bisogno di soccorso umanitario, sostiene le politiche di aiuto allo
sviluppo (da noi, a differenza degli inglesi, ridotte al lumicino) e mette in grado l'immigrazione di acquisire pieni diritti sociali, politici e di cittadinanza. Dall'equilibrio di questi elementi può scaturire una nuova politica migratoria funzionale alla crescita della nostra società. Discutiamone senza anatemi.



IL MATRIMONIO MAL METICCIATO

La crescita esponenziale (ma non casuale) delle coppie miste in Italia. Il melting pot non regge
Il Foglio, 19-10-2010
Roberto Volpi
Ufficialmente il numero dei residenti stranieri in Italia si attesta a 3,9 milioni alla fine del 2008. Ma, siccome il saldo del movimento migratorio con l'estero è stato di 360 mila unità nel 2009, e si stima che sarà di altre 320-330 mila unità nel 2010, ecco che alla fine di quest'anno la popolazione immigrata oltrepasserà i quattro milioni e mezzo di residenti. Ai quali sono da aggiungersi un numero imprecisato e imprecisabile di immigrati clandestini (un milione?). Tanti, pochi? Per rispondere alla domanda non basta dire che alla fine di quest'anno la sola popolazione immigrata residente rappresenterà tra il sette e l'otto per cento della popolazione italiana, Bisogna anche aggiungere che ancora nel gennaio 2003 arrivava a poco più di un milione e mezzo di unità e che da allora è cresciuta al ritmo di quasi 350 mila unità all'anno. Il peso della popolazione straniera nella popolazione italiana è au¬mentato di tre volte nel giro di otto anni. Il fenomeno migratorio è insomma letteralmente esploso in Italia in uno strettissimo giro di tempo.
L'altra questione che occorre sottolineare è che l'immigrazione non si riverbera soltanto, e positivamente, sul lavoro e la produzione o, in modo invece negativo, sulla criminalità, specie quando si tratti di immigrazione irregolare - come pure sembra a leggere giornali e ascoltare dibattiti. C'è un altro versante sul quale l'immigrazione gioca un ruolo decisivo, e meraviglia che non se ne parli mai, che - anzi - sia stato fino a oggi praticamente dimenticato: quello del "mischiarsi delle popolazioni" e, per conseguenza, del processo che porterà a un meticciato sempre più "avvertibile" della popolazione italiana e più in generale della popolazione degli stati occidentali, segnatamente dell'Europa. Per la verità non meraviglia affatto che non si tocchi neppure di sfuggita un tale argomento. Mai si è data, infatti, questione più spinosa e politicamente scorretta di questa, al limite, quasi, della sgradevolezza. Senza contare, poi. che per essere il problema dell'immigrazione esploso in Italia da non più di un decennio i suoi effetti sotto questo aspetto sembrano ancora particolarmente immaturi. Ma non è molto realistico pensare che lo resteranno ancora a lungo. Ancor meno realistico è pensare che lo resteranno per sempre.
I movimenti migratori sono molte cose e tra queste, com'è ovvio, anche la materia prima dei processi di meticciato. A sua volta il meticciato avanza attraverso la formazione di coppie miste formate da un cittadino straniero e da un cittadino non stra¬niero. Ma esso è tanto più profondo, come ben si capisce, quanto più i componenti delle coppie miste appartengono ad aree geografiche del mondo distanti per quanto riguarda i tipi umani; e sono le donne "locali" a mettersi in coppia con uomini di altri paesi, per il semplice fatto che la fecondità è della donna, è lei che mette al mondo i figli. Più in generale, un processo di progressiva "contrazione" della popola zione per così dire autoctona si avrà, comunque, anche con la formazione, nel nostro caso in Italia, di coppie formate da cittadini entrambi stranieri.
La storia dell'umanità è una storia di incroci tra gruppi umani, ovvero di processi che hanno portato a popolazioni che sono di fatto meticcie; si pensi anche soltanto alle popolazioni del centro e del sud America, "rimodellate" completamente a partire dalla violenza della conquista spagnola e portoghese. Altre volte non c'è stato
posto perché questi processi di meticciato agissero in profondita, giacché la distruzione di popolazioni autoctone è stata troppo vasta in relazione alla loro esiguità e alla loro stessa irriducibile "alterità". Ma il meticciato procede anche senza conquiste armi in pugno, invasioni e distruzioni, com'è stato ed è in virtù dei movimenti migratori che incessantemente hanno costretto masse umane a spostarsi da un pun¬to all'altro del nostro pianeta. Dunque del meticciato tutto si può dire meno che si tratti di un fenomeno d'oggi. E, meno ancora, di un fenomeno negativo. Biologicamente parlando, anzi, gli incroci tra tipi umani dissimili tendono a rafforzare, complessivamente traguardati, l'umanità e non a indebolirla. La storia umana è in fondo una storia di meticciamento continuo.
Ma per parlare del meticciato ch'è in atto oggi, e che nasce dal ventre dei flussi migratori, occorre approfondire meglio la conoscenza della tipologia delle coppie. In proposito torniamo allora all'Italia dove, alla fine del 2008, potevamo registrare questa situazione: che di 1.000 matrimoni celebrati 850 sono stati tra sposi entrambi italiani, 74 tra uno sposo italiano e una sposa straniera, 26 tra uno sposo straniero e una sposa italiana e 50 tra sposi entrambi stra¬nieri. In percentuale, 15 matrimoni su 100 sono stati con almeno uno sposo straniero e 10 su 100 sono stati i matrimoni propriamente misti. Proporzioni a oggi già superate, data la velocità con cui avanzano.
Nel corso del 2008 la popolazione residente straniera era il 6-6,5 per cento della popolazione italiana, ma ha dato luogo al 15 per cento dei matrimoni con almeno uno sposo straniero. Sotto il profilo della formazione delle coppie matrimoniate non esclusivamente italiane, insomma, il processo è molto più deciso di quello, pur in sé deciso, dell'immigrazione. E ciò per due motivi. Il primo attiene alla possibilità per la popolazione straniera di formare coppie miste in misura molto più ampia di quanto non possa essere per la popolazione italiana, in quanto gli italiani essendo la schiacciante maggioranza della popolazione non potrebbero, anche volendo, evitare di sposarsi tra di loro, diversamente dagli stranieri, ciascuno dei quali ha tutta la possibilità di sposarsi con un italiano. Inoltre, la struttura per età della popolazione immigrata è decisamente più giovanile di quella italiana e particolarmente "addensata" proprio nella fascia di età di 2040 anni, dalla quale proviene la stragrande maggioranza dei matrimoni celebrati in Italia,
Dunque la formazione di coppie con almeno uno sposo straniero viaggia a ben altra velocità, più del doppio, di quanto non progredisca il peso della popolazione immigrata nella popolazione italiana. In parole povere ciò sta a significare che il processo di meticciato è più esteso, e dunque veloce, di quanto non sia quello migratorio in senso stretto. In questo processo contano soprattutto i matrimoni misti e contano ancor più quelli tra donne italiane e uomini immigrati. Nel triennio 2006-2008, su un totale di 742.965 matrimoni 54.032 (il 7,4 per cento) sono stati tra uno sposo italiano e una sposa straniera e soltanto 17.196 (il 2,3 per cento) tra uno sposo straniero e una sposa italiana. Ma, attenzione, è proprio quest'ultima componente ad aumentare, Era il 2 per cento nel 2006, il 2,3 per cento nel 2007 e il 2,6 per cento nel 2008, passando nel frattempo da meno di cinquemila a 6.308 matrimoni. Una crescita costante, mentre invece segnano il passo, ultimamente, i matrimoni tra uno sposo italiano e una sposa straniera.
Ma le cose più interessanti si scoprono quando si passa a verificare di quali nazionalità sono le spose e gli sposi stranieri nelle due tipologie di coppie miste. Tra le prime dieci nazionalità delle donne straniere sposate dagli italiani figurano ben sei paesi dell'est Europa (nell'ordine: Ro-mania, che occupa la prima posizione della graduatoria, Ucraina, Polonia, Russia, Moldova, Albania), tre paesi sudamericani (Brasile, Perù ed Ecuador) e un paese africano (Marocco). Nelle prime dieci nazionalità degli uomini stranieri sposati dalle donne italiane figurano quattro paesi africani (Marocco, primo posto assoluto, Tunisia, Egitto, Senegal), tre paesi dell'Europa occidentale (Regno Unito, Germania, Francia), e ancora Brasile, Albania e, decimi, gli Stati Uniti. Due classifiche alquanto diverse. Nella formazione delle coppie miste gli uomini italiani guardano a est, le donne italiane all'Africa, grosso modo. E questa differenza per così dire di grana grossa indirizza la nostra attenzione sulle coppie miste nelle quali uno dei due sposi viene da un paese di religione islamica. perché sono tutti islamici i paesi africani a più forte immigrazione in Italia. I numeri dei matrimoni con almeno uno sposo straniero nel 2008 sono davvero rivelatori: i quattro paesi africani di religione islamica (Marocco, Tunisia, Egitto e Senegal) rappresentano il 16,6 per cento degli immigrati, ma mentre sono estremamente sottorap¬presentati tanto nei matrimoni con sposi entrambi stranieri che in quelli con lo sposo italiano e la sposa straniera, con per-centuali che si aggirano attorno al 5 per cento, risultano estremamente sovrarap-presentati nei matrimoni con lo sposo straniero e la sposa italiana, dei quali costituiscono addirittura il 40,4 per cento.
Dai paesi islamici africani arriva in Italia un'immigrazione che è per il 62 per cento maschile, mentre nel complesso dell'immigrazione questa percentuale tocca a malapena il 50 per cento. Ma è evidentissimo, in questa immigrazione, lo squilibrio nella componente dei matrimoni misti dove lo sposo straniero che sposa un'italiana è giustappunto un immigrato da questi paesi. Gli immigrati di questi paesi hanno un quoziente di nuzialità più basso di quello del complesso della popolazione immigrata, insomma si sposano meno, ma hanno in compenso una, chiamiamola così, "propensione" a sposare un'italiana che è ben tredici volte più grande di quanto non sia nel complesso della popolazione immigrata. I musulmani, ed è questa la conclusione di tutto il discorso, sembrerebbero individuare proprio nella formazione delle coppie miste con una sposa italiana uno strumento di penetrazione oltre che, o piuttosto che, di integrazione. Il processo di metieciato non è da essi subito, quanto piuttosto orientato. I numeri, certo, sono ancora piccoli. Ma la tendenza è chiarissima, ed è all'aumento.
Mi rendo conto di prestare il fianco, con la conclusione di cui sopra, a un bel po' di critiche. Una per tutte: perché mai se sono i maschi di religione islamica a sposarsi con donne italiane il fenomeno deve avere implicazioni potenzialmente negative alle quali non si accenna neppure se sono invece i maschi italiani a sposare donne straniere? Non è un tale discorso offensivo tanto per i maschi musulmani immigrati che per le donne italiane? Con tutto il dovuto rispetto per una obiezione di questo tipo, rimango della mia opinione e ciò non perché siano troppi i matrimoni tra un'italiana e uno straniero proveniente dagli stati islamici africani (crescono, è vero, ma sono ancora un numero piuttosto limitato), ma perché sono straordinariamente tanti in relazione alle altre tipologie di matrimoni. E un divario di questo tipo non può prodursi in modo accidentale. Non che sia il risultato di un preciso disegno a tavolino, di una sorta di complotto, per carità. Niente di tutto questo. E' piuttosto nella loro mentalità, nel dna culturale dei musulmani di tendere a occupare terreno e conquistare spazi e possibilità nell'occidente in quanto musulmani. Cosicché, data anche la posizione di estrema inferiorità delle donne nel mondo islamico, la penetrazione attraverso il matrimonio misto poggia sulle spalle dei maschi. Tutto qui. C'è pure una controprova, di quel che dico. Un po' sottile, forse, ma per niente inconsistente. E riguarda il rito dei matrimoni misti.
Sempre nel 2008, settantadue matrimoni su cento tra sposi italiani si sono celebrati con rito religioso. Percentuale che scende drasticamente dal 72 per cento al 15 per cento in entrambe le tipologie di matrimoni misti. Un tonfo difficilmente comprensibile, considerato che nei matrimoni misti uno sposo, sia esso maschio o femmina, è pur sempre italiano. Una parte, non maggioritaria, di questa enorme differenza è spiegata dal fatto che nei matrimoni misti sono più alte le proporzioni di secondi ma¬trimoni, che non possono essere celebrati in chiesa quando si tratti di divorziati (com'è in grande maggioranza). Infatti la proporzione dei secondi matrimoni è del 12 per cento nei matrimoni tra sposi entrambi italiani, del 37 per cento in quelli con sposo italiano e sposa straniera e del 19 per cento in quelli con sposo straniero e sposa italiana - e com'è facile vedere queste differenze sono sì consistenti ma alquanto inferiori a quella che si verifica nel rito religioso dei matrimoni. Ora, com'è altrettanto facile vedere, c'è una forte differenza nei secondi matrimoni anche tra le coppie miste delle due specie. Nelle coppie formate da uno sposo straniero e una sposa italiana la proporzione di secondi matrimoni è contenuta quasi quanto quella dei secondi matrimoni tra sposi italiani, mentre nelle coppie in cui lo sposo è italiano e la sposa straniera la proporzione dei secondi matrimoni è molto più alta. Come conseguenza, dovrebbe verificarsi un ricorso al matrimonio religioso proporzionalmente superiore quando lo sposo è straniero e la sposa italiana. E invece non si riscontra al riguardo alcuna differenza tra le due tipologie di matrimoni misti. Cosicché da questi dati si possono ricavare due conclusioni diffìcilmente oppugnatoli. La prima: nei matrimoni misti il rito religioso si riduce ai minimi termini (poco più di un matrimonio su sette) anche per la maggiore proporzione di seconde nozze rispetto ai matrimoni tra italiani, ma ancor prima per la diversità di fedi religiose tra i coniugi e più generalmente per un minor senso di tradizione e di religiosità insito in queste unioni, oltre che per una ancora non pienamente metabolizzata considerazione di "parità" di queste unioni rispetto a quelle tra sposi italiani. La seconda: nei matrimoni misti con lo sposo straniero e la sposa italiana la proporzione delle celebrazioni con rito religioso eguaglia, nonostante la decisamente più bassa proporzio¬ne di secondi matrimoni (e dunque la più ampia possibilità di ricorrere al rito religioso), quella con lo sposo italiano e la spo¬sa straniera. Ciò succede perché ai fattori appena elencati se ne aggiunge evidentemente un altro, che non può che consistere nella maggior forza contraente, chiamiamola così, dello sposo straniero rispetto alla sposa italiana. Una maggior forza che a sua volta richiama i dati che abbiamo visto sulla elevatissima proporzione dì sposi provenienti da paesi musulmani africani in questa tipologia di matrimoni.
Nel mondo moderno, la crescente formazione di coppie miste, propedeutica al meticciato, è un processo che attiene e atterrà chissà per quanto altro tempo ancora pra-ticamente alle sole società occidentali. Il punto è che l'occidente è a sua volta da tempo in corso di meticciamento da parte dei gruppi umani più disparati. Non è così chiaro fin dove potrà arrivare a spingersi un tale processo, se sarà comunque positi¬vo o non avrà anche implicazioni negative o quantomeno critiche. Anche se la retorica del melting pot ha fatto aggio su tutto il resto, è improbabile che non finiscano per imporsi riflessioni un po' più accurate sul fenomeno, e linee di azione politica più accorte. Del resto, sembra che già ci si stia avviando in molti paesi proprio in questa direzione. Ciò che esce anche dai dati analitici italiani lascia infatti intravvedere prospettive (di lungo periodo, ripeto) non prive di asperità e problemi. L'occidente sembra oggi, complessivamente, meno convinto di ieri di poter tutto inglobare e in qualche modo sistematizzare all'interno dei suoi canoni, delle sue regole.



Nei campi in nero la metà degli stranieri

Allarme di Caritas Gruppo Abele: nelle campagne del Sud quasi lOOmila immigrati abusivi
Avvenire, 19-10-2010
PAOLO LAMBRUSCHI
TORINO - Lavoratori stranieri reclutati nelle aree più derelitte del globo e portati con l'inganno nelle nostre campagne al Sud o in cantieri subappaltati al Nord, a sgobbare in nero per due euro all'ora fino a quindici ore al giorno. Come schiavi. Uno sfruttamento sommerso che non risparmia neppure il lavoro domestico, in questo caso diffuso in maniera uniforme lungo tutta la Penisola.
Sono per lo più uomini giovani, tra i 20 e i 40 anni, vittime di tratta, perché hanno pagato due o tremila euro in patria per uno pseudo contratto di lavoro che consentirebbe di sfamare moglie e figli a casa. Ma che, appena varcati i confini del Belpaese, si trasforma in schiavitù contemporanea bella e buona. Zero tutele, condizioni abitative e igieniche inumane, rischi per la salute, salari in nero e da fame, intimidazioni, ricatti, violenze. Le vittime sono anche costrette a versare tangenti, di norma il 60% della già bassa paga, ai "caporali", gli intermediari perno della truffa, di norma connazionali in combutta coi datori italiani e spesso con cartelli mafiosi.
A dieci mesi dai fatti di Rosarno, il Gruppo Abele, insieme a Caritas Italiana, Acli Colf, Associazione Papa Giovanni e altre realtà del privato sociale, in collaborazione con sindacati e associazioni datoriali, ha scelto di dedicare a Torino la Giornata europea contro la tratta agli esseri umani alle vittime del lavoro nero. Sono l'altra faccia dimenticata del traffico di braccia e corpi, accanto a quella ben più evidente a scopo sessuale. Vi sono anche poche denunce, nonostante la legislazione italiana ed europea la puniscano duramente. Ma una vittima magari irregolare, se denuncia perde l'unica fonte di sostentamento. E non ha molte garanzie di tutela perché l'applicazione della legge resta arbitraria. A luglio, poi, ha chiuso per mancanza di fondi il numero ant-tratta del ministero delle Pari opportunità, unico canale di denuncia accessibile. Insomma c'è un problema di coscienza culturale e politica. Per il responsabile immigrazione della Caritas nazionale, Oliviero Forti, il fenomeno in Italia non è quantificabile, anche se a livello globale l'Organizzazione internazionale del lavoro stima 12 milioni di persone sfruttate in maniera grave o gravissima sul luogo di lavoro. Ma gli allarmi mandati dalle antenne diocesane puntate sui migranti dicono che nelle campagne del Mezzogiorno, dove i braccianti immigrati che lavorano in nero sarebbero tra gli 80 e i lOOmila (ovvero circa la metà del totale degli stranieri presenti nel settore agricolo), ci sono ancora troppe    situazioni   come quella di Rosarno. «Certo -afferma Forti -  abbiamo buone norme anti-tratta, ma sono applicate soprattutto alle forme di sfruttamento sessuale».
I dati raccolti nell'ultimo anno dallo sportello giuridico del Gruppo Abele tracciano un identikit geografico dei nuovi schiavi. Provengono dall'Est, da Moldavia, Romania e Ucraina (attivi nel lavoro domestico e in cantieri soprattutto al Centro e al Nord), dal Maghreb (muratori al Centro e al sud) come dall'Africa subsahariana, dall'America Latina e dalla Cina. «La vita delle persone non si vende e non si compra - ammonisce don Luigi Ciotti, presidente dell'associazione torinese - una società non può dirsi civile se vengono tollerate simili situazioni lesive del diritto alla vita e della dignità umana. Carità e giustizia non sono divisibili».
BADANTI
«Lo sfruttamento c'è ma è ingiusto accanirsi contro le famiglie»
Lo sfruttamento delle badanti è uno dei più difficili da definire. «Perché -spiega Raffaella Maioni, responsabile nazionale di Adi Colf, 7mila associate e 80mila contratti curati quest'anno - c'è il problema di non accanirsi contro le famiglie, su cui grava già una spesa di almeno 10-15mila euro all'anno». Situazioni spesso indefinibili anche per via della normativa. Bastano 31 ore di contratto alla settimana per un non autosufficiente e 24 per un autosufficiente (costo, circa 1.200 euro con i contributi) per avere il permesso di soggiorno. Nelle ore lavorate in più in casa si annidano nero, sommerso (che convengono anche al lavoratore sul breve periodo) e sfruttamento. Come se ne esce? «Coinvolgendo di più luoghi di mediazione, senza scaricare sulle famiglie l'ansia di trovare la badante. E con la creazione di un fondo pubblico che integri le spese delle famiglie. Così daremmo spazio anche alle italiane». Ma le badanti quante sono? «Più di un milione, hanno 45-50 anni e sono europee orientali o latino americane».
il dossier
Il fenomeno della tratta è in continua crescita. Le vittime pagano dai 2 ai 3mila euro per uno pseudo contratto che si rivela un imbroglio: ad attenderli c'è solo il sommerso. Assoldati come stagionali al Sud e manovali al Nord, devono versare il 60% dello stipendio agli intermediari
VITA DA SCHIAVI PER 25 EURO AL GIORNO
Il lavoro nero rostri sommerso in piccoli territori del sud come In diocesi di Acerenza, in Basilicata. Dove gli immigrati regolari sono I 1.500 su nemmeno 600mila abitanti, e affiancano la forza lavoro nelle campagne. «Mentre in casa ai vecchi pensano le donne dell Est -spiega nella sua relazione Luciana Follino della Caritas diocesana - che hanno trovato sbocchi lavorativi nell'assistenza familiare. Ma a condizioni precarie». La prova? Le poche regolarizzazioni con la sanatoria 2009. dovute al no dei datori. «Spesso le badanti .-prosegue Fortino - devono presidiare gli appartamenti 24 ore al giorno compresi i fine settimana, senza contratto e sottopagate». Nei campi approdano gli stagionali per raccogliere pomodori, vendemmiare e raccogliere olive. Sono divisi in Africa "bianca" (Maghreb) e "nera" (Subsahariana'), origine che determina anche differenze di salario.Vivono in campagna, senz'acqua e a rischio di ammalarsi. Hanno in media tra i 19 e i 40 anni, prendono 25 euro al giorno il 60% dei quali finisce in tasca al caporale-, il trafficante di uomini, che li tiene in ostaggio. Infatti finora la questura di Potenza ha rilasciato solo 16 permessi per sfruttamento lavorativo. (P.Lam.)
Fang, prima cinese a sconfiggere l'omertà Denunciò le intimidazioni nei laboratori
TORINO - Fang ha fatto una piccola breccia nel grande muro dell'omertà che circonda il lavoro nero cinese in Italia. Lei è una dei primi lavoratori-schiavi irregolari cinesi che ha denunciato lo sfruttamento in uno dei laboratori clandestini di Reggio Emilia.
«Potevo fermarmi - è la sua testimonianza sulle condizioni di lavoro riportata da un operatore - solo per mangiare o andare in bagno. Niente pause o avrei rischiato di non essere pagata a mandata via. Non potevo uscire dal capannone, altrimenti i padroni minacciavano di rispedirmi in Cina, dove sarei stata arrestata per immigrazione illegale. Le porte del capannone venivano chiuse a chiave. Per scappare quando sono arrivati i carabinieri mi hanno fatto saltare dal primo piano. Non riuscivo più a muovere le gambe, allora mi hanno caricato in auto e mi hanno lasciata in strada». Secondo la cooperativa Lotta contro l'emarginazione, che accoglie le vittime del lavoro nero in Lombardia, dopo quella di Fang risultano altre denunce di cinesi anche tra Milano e Monza. A Reggio Emilia gli 83 casi di tratta per sfruttamento lavorativo accolti da gennaio a settembre 2010 dal progetto comunale Rosemary superano nettamente i 55 di sfruttamento sessuale. «Sono ancora pochi - spiega l'avvocato Lorenzo Trucco dell'Asgi, associazione di avvocati esperti in questioni migratorie - i casi in cui la protezione umanitaria spettante allo straniero che denuncia il racket, prevista dall'articolo 18 del testo unico sull'immigrazione, è stata applicata a vittime di sfruttamento lavorativo. Perché questo è più difficile da dimostrare». E se la questura non è favorevole, chi denuncia e non è in regola rischia, anche se vittima di tratta, l'espulsione. Così a Napoli vi sono 400 nigeriani indebitati con il racket per venire in Italia, Come le ragazze. Chiedono l'elemosina o fanno lavori saltuari per ripagare il debito, l'alternativa è battere il marciapiedi o spacciare. Di ribellarsi non se ne parla, hanno anche paura del voodoo.
L'unica speranza è la direttiva europea 52 del 2009 che introduce sanzioni contro i datori che impiegano immigrati irregolari e offre nuove possibilità di regolarizzazione ai lavoratori. Ma ci vuole una precisa volontà politica.



Gli Indifferenti

Alemanno denuncia l'omissione di soccorso per l'infermiera romena. Raccoglie ciò che ha seminato
Il Foglio, 19-10-2010
Luigi Manconi
Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, non se ne fa (e non ce ne fa) mancare una. L’ultima è stata la minaccia di denunciare per “omissione di soccorso” i passanti che non si sarebbero fermati ad aiutare Maricica Hahaianu  l’infermiera romena colpita a morte da Alessio Burtone nella metropolitana di Roma. Alemanno è solo l’epigono più modesto di una sgangherata ondata di ipocrisia sollevata da quell’omicidio.
Le sue parole, tuttavia, meritano attenzione: a pronunciarle è stata, infatti, la medesima persona che appena ieri parlava di Trattamento sanitario obbligatorio (!) per i “vagabondi”; e che solo due anni fa, proponeva  un’ordinanza  contro il “rovistaggio nei cassonetti” da parte di quanti vi cercano avanzi di cibo. Se vagabondi e rovistatori vengono presentati come minacce sociali e come individui da sanzionare (attenzione: non perché commettono reati, ma in ragione della loro condizione esistenziale) perché mai il cittadino non dovrebbe averne paura? E perché quello stesso cittadino, scorto per terra qualcuno di cui ignora lo stato dovrebbe chinarsi a soccorrerlo? Insomma, tutto quell’indecente chiacchiericcio sulla “indifferenza” mi è sembrato semplicemente immorale. Prima si crea indifferenza per via istituzionale e, poi, ci si straccia le vesti al suo manifestarsi. Analogamente, molti hanno evidenziato come al giovane romano, responsabile della morte dell’infermiera, fossero stati concessi gli arresti domiciliari. Forse perché la vittima è una straniera e l’omicida è un italiano? Questa domanda è, suggestiva quanto perversa. Intanto perché, quando è sopravvenuta la morte della Hahaianu, per Burtone è stata subito chiesta la reclusione in carcere a seguito del nuovo capo d’imputazione (omicidio preterintenzionale); e, poi, perché tra quanti hanno evidenziato il trattamento troppo mite nei confronti di Burtone, nessuno ha protestato né ora né all’epoca per il trattamento, troppo severo, inflitto a Doina Matei, la donna romena responsabile della morte di Vanessa Russo, sempre nella metropolitana di Roma (29 aprile 2007). La Matei è stata condannata a sedici anni (confermati dalla Cassazione nel gennaio 2010): e si tratta di una condanna particolarmente severa per un omicidio preterintenzionale avvenuto in circostanze controverse. Il clima che  accompagnò quel fatto ebbe un ruolo determinante (ricordo il titolo di un quotidiano “ragazza rumena uccide italiana”): gli “imprenditori politici della paura” cercarono di innescare un conflitto razziale laddove si era consumata, in tutta evidenza, una infelicissima tragedia urbana. Una vicenda dove il caso avrebbe potuto invertire specularmente le parti, collocando la vittima al posto dell’assassina. E infatti pochi appresero, all’epoca, che Vanessa Russo veniva da una storia di tossicodipendenza e si trovava in terapia metadonica. Questo dato biografico ce la rendeva ancora più cara: anche lei, come Doina, aveva conosciuto l’asprezza e il dolore del vivere. E invece proprio quel particolare (la tossicodipendenza) suscitò all’epoca, per esempio in Alessandra Mussolini, una reazione sconsiderata: “adesso vogliono infamare la vittima per scagionare l’assassina”. Quasi che la condizione attuale o trascorsa di tossicodipendenza fosse un tratto diffamatorio o penalizzante. E, in effetti, è quella la lettura della tossicomania che tende oggi a prevalere. Più in generale sembra affermarsi l’idea preliberale che condizioni esistenziali e modi d’essere (immigrato irregolare, vagabondo, nomade, alcolista…) debbano essere classificati come fattispecie penale. Le grandi categorie dello stato di diritto, come quella di offensività (capacità di produrre danno a terzi e a beni giuridicamente protetti), vengono abbandonate a favore di una concezione pan-penalistica della vita sociale. In altre parole, perché non considerare reato il rovistaggio nei cassonetti? E se così fosse, chi mai si chinerebbe, come un buon sammaritano, sul corpo abbandonato per terra di un “rovistatore”?  Ma le storie incrociate di Maricica Hahaianu, Alessio Burtone, Doina Matei e Vanessa Russo ci dicono molto altro. E rappresentano una sorta di parabola sapienziale (non so se religiosa o laica). Essa permette infatti di leggere, in quelle figure di vittime-carnefici, la grande questione del Male e — per rimanere alla nostra portata — il problema sociale della violenza e della responsabilità, del crimine e della colpa, secondo un canone che è crudamente fattuale e, insieme, intensamente profetico. Quelle storie ci dicono inequivocabilmente che la ripartizione netta del mondo, e di conseguenza dell'organizzazione sociale, tra "buoni" e "cattivi" non è semplicemente difficile (o meglio, impossibile): corrisponde, né più né meno, che a un inganno ideologico (o religioso o culturale o antropologico). La realtà è un’altra. Uomini e donne sono un impasto misterioso e inestricabile di virtù e vizi, di pulsioni aggressive e sentimenti pacifici, di volontà di potenza e di disponibilità alla cooperazione, di grettezza e di oblatività (e molte altre coppie di termini potrebbero essere evocate). Forse partire da qui è più utile che deprecare virtuosamente la “indifferenza”.



Lettera aperta al Pd sull'immigrazione

Europa, 19-10-2010
Un documento del Pd sull'immigrazione dovrebbe iniziare elencando le virtù e i vantaggi sociali, non i pericoli e le minacce dell'immigrazione. Le quote sono inadeguate. Le proposte del centrosinistra non possono "scimmiottare" quelle della destra
di Guido Melis, Luigi Manconi, Gianclaudio Bressa, Paolo Corsini, Lino Duilio, Eugenio Mazzarella
Le parole non sono neutre. L'ordine col quale sono impiegate, il contesto nel quale sono inserite, il senso generale del loro stare insieme non è mai puramente casuale e decide, anche oltre le intenzioni di chi le usa, il senso percepito delle cose dette, che può anche essere quello non voluto. Speriamo che qualcosa del genere sia accaduto agli estensori del documento-mozione intitolato "Comunità più forti, frontiere più sicure, più accoglienza per chi ha bisogno di aiuto umanitario, una politica selettiva funzionale alla crescita della società". Lo leggiamo perplessi, e non lo condividiamo. E non apprezziamo che abbia costituito la base di un voto quasi unanime dell'Assemblea nazionale e che venga riecheggiato all'interno del documento del forum Immigrazione.
Cominciamo col dire che già l'attacco della mozione ("Comprendiamo le preoccupazioni della gente sull'immigrazione") è equivoco e in definitiva sbagliato. Si gioca in difesa, puntando allo zero a zero.
Un documento del Pd sull'immigrazione dovrebbe iniziare (per fortuna la risoluzione finale del Forum lo fa) elencando le virtù e i vantaggi sociali, non i pericoli e le minacce dell'immigrazione. Dovrebbe dire subito che: a) in un Paese come il nostro, caratterizzato da un drammatico fermo demografico, c'è necessità oggettiva di risorse umane giovani, sia per alimentare il mercato del lavoro, sia per garantire le pensioni a quella società di vecchi che stiamo diventando; b) nel mondo della globalizzazione l'immigrazione, cioè la mobilità degli individui e dei gruppi, è un dato ineliminabile, ed è un'illusione della destra pensare di poterla bloccare erigendo muraglie di norme e politiche di respingimento; c) già oggi interi settori dell'economia italiana vivono grazie al lavoro degli immigrati, lavoro che non è sottratto agli italiani (come documenta per esempio uno studio recente della Banca d'Italia: della Banca d'Italia, non della Caritas).
Detto questo si sarebbe dovuto affermare con altrettanta chiarezza che l'immigrazione, fenomeno ricco di potenzialità, deve essere governata.
Ma come fare?
Anche qui sbaglia, a nostro avviso, chi ritiene che si possa adottare anche in Italia la soluzione Canada (o Gran Bretagna, o Danimarca) delle quote, prefigurando l'ingresso sulla base di una domanda programmata del mercato del lavoro, alla quale far corrispondere autoritativamente l'offerta di lavoro proveniente dall'estero.
Ora, a parte che questa soluzione vale per gli extra-comunitari ma non è applicabile ai comunitari (salvo mettere in discussione tutto l'impianto della costruzione europea), siamo sicuri che questa ricetta – alla luce dell'esperienza italiana, lunga almeno dodici anni – sia tuttora applicabile al nostro paese? O, piuttosto, non sia una – tra le altre e non la principale – delle politiche da adottare?d'altra parte, in quei paesi dove già la si adotta, la soluzione delle quote si basa sul fatto che il mercato del lavoro vuole selezionare lavoratori istruiti e specializzati, da inserire in settori di punta a livelli retributivi medio-alti che presumibilmente sono pronti ad accoglierli. Il mercato del lavoro italiano invece oggi attinge agli stranieri chiedendo esattamente il contrario: manodopera generica da inserire in settori bassi del sistema economico a seconda delle emergenze produttive del giorno per giorno. Così accade nel Nord-Est (dove il lavoro straniero è particolarmente prezioso nella piccola industria), così nel Sud (in agricoltura, ad esempio), così in tutto il territorio nazionale indistintamente (operai edili, badanti, colf, camerieri ecc.). Dunque attivare oggi un meccanismo per quote rischierebbe di tagliar fuori tutta l'immigrazione di prima generazione, con efficacia pressoché nulla e gravi conseguenze sull'attuale offerta di lavoro. Farebbe male, non bene all'economia del Paese.
Ma a parte l'errore di strabismo che la proposta delle quote rappresenta, il tema ha una portata più generale. E consiste nel domandarsi se possa essere questo l'approccio di una grande forza progressista al tema cruciale dell'immigrazione. Le politiche di sicurezza sono, è vero, la grande bandiera delle destre europee, ma non è detto che per questo noi dobbiamo inseguirle sul loro terreno, cercando di scimmiottarne atteggiamenti e soluzioni pratiche con l'effetto di apparire comunque una seconda scelta rispetto a quelle collaudate politiche, tutte giocate sulla paura del nuovo e dell'estraneo.
Il centrosinistra dovrebbe viceversa avere una "sua" politica dell'immigrazione, visibile, coerente coi suoi principi, alternativa a quella della destra. Questa politica del centrosinistra dovrebbe innanzitutto valorizzare l'immigrazione, puntando a realizzare sui territori politiche di "alleanza" sociale e culturale, che coinvolgano le comunità straniere in Italia, le inducano a partecipare ai processi comuni di integrazione e disinneschino gli inevitabili conflitti che la loro presenza suscita (del resto è successo così anche a noi italiani, in tutti i paesi dove siamo stati a nostra volta immigrati; e anche questa memoria non dovrebbe essere cancellata ma semmai coltivata "pedagogicamente"). Occorrerebbero proposte intelligenti e concrete di integrazione: cittadinanza subito ai nativi e prima possibile a chi la vuole; voto alle elezioni amministrative; appositi piani di sviluppo urbani locali; più servizi, più scuola, più assistenza e una burocrazia "umana".
Bisognerebbe individuare soluzioni pratiche – convincenti e indirizzate alla convivenza e allo scambio - rispetto a un conflitto che è fisiologico, ma non mollare mai sul tema dei diritti degli immigrati e al tempo stesso neppure su quello dei loro doveri (il dovere, innanzitutto, di integrarsi al meglio, rispettando le tradizioni dei paesi dove chiedono di inserirsi). Tutto ciò viene definito "buonismo" dai cattivisti di destra e di sinistra. Ma anche su questo va fatta chiarezza, perché c'è una sfera di diritti, sanciti dalla nostra Costituzione e dai principi dell'Europa democratica, che non può mai essere discussa. Ma, dato per concesso che dobbiamo distinguerci da atteggiamenti puramente "sentimentali", si ragioni allora numeri alla mano sui bisogni dell'economia e sulla necessità che in Italia si trasferiscano consistenti flussi di lavoratori immigrati.
Non crediamo, francamente, che il sistema dell'ammissione a punti (e poi, chi li dovrebbe attribuire e togliere questi punti? Il prefetto? Il Ministero? Il sindaco leghista sul territorio?) rappresenti una soluzione adeguata del problema. Faremmo meglio a lasciarla da parte: almeno fino a quando una amministrazione efficiente ed equa non sia in grado di garantire, senza sperequazioni e abusi, l'applicazione saggia e razionale di una simile procedura. Nel frattempo, faremmo meglio a lavorare di più nell'immigrazione. E a essere noi stessi. Se faremo così, le parole per dirlo non ci mancheranno.
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