28 ottobre 2010

LA LEGGE DI MARONI
il manifesto, 28-10-2010
Angelo Mastrandrea
Non c'era nessun Ivan il terribile, ieri nello stadio di Catania. A dirla tutta, non si giocava nemmeno una partita di calcio. C'erano invece 128 immigrati appena sbarcati, e tutto ciò che accadeva si svolgeva a porte chiuse. Come nei peggiori rovesci delle democrazie, come se la consuetudine di escludere i giornalisti non bastasse a cancellare quanto stava accadendo dalle cronache, questa volta non era consentito l'ingresso nemmeno all'Unhcr, l'Agenzia dell'Onu per i rifugiati. Come se, oltre agli spettatori, fosse tenuto fuori anche l'arbitro. Era accaduto in Libia qualche mese
orsono e il mondo aveva giustamente condannato. Si è ripetuto ieri in Italia, ed è bene non tacere.
La maggior parte dei migranti avevano dichiarato all'arrivo di essere palestinesi, prima di essere sequestrati dalle nostre autorità. Improbabile, visto che dalla prigione Palestina oggi è praticamente impossibile fuggire. Ma il punto non è questo. Semmai si tratta di capire cosa si nasconda dietro quelle porte chiuse: la paura che la tolleranza zero fosse messa in discussione da qualche doverosa richiesta di asilo politico che avrebbe allungato i tempi dell'espulsione e dall'impossibilità di mandar via quei 48 che non avevano ancora raggiunto la maggiore età, l'esigenza di dimostrare che gli immigrati non sbarcano più sulle nostre coste come quando al potere c'era qualcun altro, non ultimo un malcelato fastidio per le regole della democrazia.
Al termine di una giornata che nessuno potrà raccontare con dovizia di particolari, in 68 sono stati messi su un aereo e spediti in Egitto. Non è un caso ma l'esecuzione di una volontà politica, se è vero che meno di un mese fa la stessa sorte, e negli stessi tempi, è toccata a un altro pugno di «palestinesi» sorprendentemente sbarcati sulle coste laziali. Non sapremo mai quanti fra loro fossero davvero aspiranti profughi e quali storie si portassero dietro, solo gli attivisti di Fortress Europe pazientemente cercheranno di associare un volto e un nome a quei numeri. Sappiamo invece chi è l'artefice di tutto ciò. Si chiama Roberto Maroni, fa il ministro dell'Interno e nel tempo libero suona l'organo Hammond in una band della sua città. Se oggi l'Italia è un paese aperto a tanti Ivan il terribile che nemmeno parlano serbo e chiuso al mondo è soprattutto colpa sua e del governo che rappresenta. Non sarebbe il caso di rimpatriarlo a Varese?



La via per l'integrazione: casa e più servizi sociali

Zanfrini: nel terziario e nell'assistenza la sfida è la legalità Ma per stranieri e italiani servano anche politiche abitative
Avvenire, 28-10-2010
DIEGO MOTTA
MILANO - Tanti, integrati e attivi. Ma non ancora cittadini. Il paradosso italiano evocato dal dossier Caritas Migrantes presentato martedì è quello di un Paese che gli immigrati stanno cambiando senza riuscire ad essere completamente accettati. «Siamo il secondo Stato europeo dietro alla Germania per numero di presenze e questo è senz'altro un dato rilevante - osserva Laura Zanfrini, docente di sociologia delle migrazioni e delle relazioni interetniche della Cattolica-. Non conta tanto il valore assoluto, quei 5 milioni di cui si parla, quanto il fatto che sia noi che i tedeschi ci caratterizziamo per il basso numero di naturalizzazioni». Poche migliaia all'anno, che avvengono per lo più grazie ai matrimoni misti. Così il numero di chi è in lista d'attesa per diventare italiano cresce, mentre un Paese come la Francia, che pure ha un numero rilevante di stranieri, presenta un valore assoluto, in termini di presenze, più basso proprio a seguito dei risultati ottenuti con le politiche di cittadinanza. «Non si tratta di farne un tema da contrapposizione ideologica: prima dei tempi e degli aspetti tecnici, serve un discorso di educazione complessiva, che sin qui è mancato».
Un passaggio a vuoto che non ha precluso però l'inserimento dei nuovi arrivati nel mercato del lavoro. «Il contributo dell' 11% sul Pil è assai significativo - continua Zanfrini - e si spiega col fatto che gli stranieri sono in gran parte concentrati nelle fasce d'età lavorativa: c'è un forte tasso di attività e partecipazione al mercato occupazionale. E le donne immigrate sono più attive delle donne italiane». Prepariamoci nei prossimi 15 anni a valutare l'impatto di questa forza lavoro sulle nostre casse previdenziali, ma per ora i pensionati che arrivano dall'estero restano poche decine di migliaia. «I settori d'attività sono sempre gli stessi, a partire dall'edilizia e dal terziario a bassa qualifica». Romeni e albanesi d'Italia fanno i muratori, i cinesi scelgono ancora la ristorazione e il tessile, nordafricani e sudamericani si occupano di piccoli trasporti, attività di magazzino e pulizie. Alle donne si chiede soprattutto assistenza domestica: colf e badanti sono lavori che non hanno affatto risentito della crisi economica. «Promuovere la regolarità e il rispetto delle norme nei rapporti di lavoro è una priorità» evidenzia Zanfrini, che a riguardo dei 400mila imprenditori immigrati, invita a «distinguere il fatto che l'impresa sia costituita legalmente dal fatto che non tutto il lavoro che si fa poi è regolare». Il sommerso nel lavoro autonomo testimonia che siamo davanti a un fenomeno, per dirla in termini sociologici, di «imprenditoria debole, che si colloca in quelle fasi del ciclo di lavoro a più basso valore redditizio». Così, se i lavoratori dipendenti stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare più, chi ha aperto la partita Iva lavora spesso in subappalto e rischia di finire nel confine labile che separa legalità e illegalità. Ma il lavoro non è l'unico parametro su cui si giocherà la possibilità di una "buona integrazione". «Afare la differenza sarà la qualità della spesa sociale: gli enti locali in particolare dovranno saper offrire servizi all'altezza, a partire dagli asili nido, e individuare politiche abitative degne di questo nome».
Dare una casa e stabilire dei percorsi di inserimento per i figli stranieri peserà, a patto di non creare equivoci. «Gli italiani sono sempre più preoccupati quando vedono un immigrato che li scavalca nelle liste d'attesa comunali per un al-
loggio popolare o per l'asilo» fa notare Zanfrini. Il disagio è effettivo ma è stato sin qui usato, purtroppo, come pretesto per garantirsi facili consensi. «Ma se vogliamo evitare una guerra tra poveri, in futuro occorrerà agire diversamente».



«L'integrazione? Rispettare, non assimilare»

Avvenire, 28-10-2010
LAURA BADARACCHI
Né steccati rigidi, né compresenza acritica: far convivere culture diverse in uno stesso Paese, senza minarne il profilo identitario, è una questione complessa e «una realtà mobile» da non liquidare a suon di invettive o proclami. Lo enuncia il filosofo francese Patrick Savidan, docente all'Università di Poitiers e presidente dell'Osservatorio sulle diseguaglianze, autore del volume. Il multiculturalismo, tradotto dal Mulino e da oggi in libreria per la collana "Universale Paperbacks"
(pagine 128, euro 11,00).
L'autore non fornisce ricette applicabili in ogni contesto storico-sociale quali principi universalistici. Anzi, pur riconoscendo l'esistenza nei millenni della diversità etno-culturale, ne delineale criticità attualissime, soprattutto nei Paesi destinatari di massicci movimenti migratori. «Il multiculturalismo si impegna ad adattare la diversità, anziché
sopprimerla o limitarla», afferma Savidan. Ma come questo ambiguo e tortuoso processo - guardato da molti con diffidenza - divenga realtà è tutt'altro che chiarito: infatti, si chiede lo studioso, «come identificare i gruppi minoritari ai
quali accordare i diritti, le esenzioni, le prerogative che sollecitano? Si può potenzialmente giungere a una disgregazione sociale e alla critica dei diritti di alcune categorie della popolazione». Si può arrivare, però, a contrapporre «un arcipelago di gruppi distinti» a falde di etnocentrismo nazionalistico. Non si tratta di elucubrazioni astratte: basti pensare all'ampio dibattito suscitato dalle recenti considerazioni del cancelliere tedesco Angela Merkel, convinta che «l'approccio multiculturale e l'idea di vivere fianco a fianco in serenità» abbiano «fallito completamente». E Papa Benedetto XVI, nel suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, ha chiarito che «gli Stati hanno il diritto di regolare i flussi migratori e di difendere le proprie frontiere, sempre assicurando il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. Gli immigrati, inoltre, hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l'identità nazionale». In campo politico e sociale, dunque, rischi e «dilemmi morali» non mancano, come ricorda Savidan, sottolineando che in questioni di questa complessità vanno evitate le derive paternalistiche che talvolta si fanno largo negli Stati ospitanti. Valutando caso per caso e in un contesto specifico - al bando ogni pericolosa generalizzazione -, l'autore porta qualche esempio specifico: in terra francese «la formulazione data dal principio repubblicano di laicità, durante la controversia sullo hijab, ha avuto senza dubbio degli effetti di esclusione, in quanto ha sanzionato una logica di rifiuto del riconoscimento. La prospettiva perfezionista, che consiste
nell'affermare che il divieto del velo contribuirà all'emancipazione delle donne musulmane, finisce per accreditare l'idea che le donne sono prigioniere di questa cultura, concepita come un blocco monolitico». Ovviamente -precisa il filosofo - la questione non si pone negli stessi termini in Turchia, ma le radicalizzazioni si fossilizzano su problemi minori, privandosi così «di uno strumento credibile» per criticare fatti gravi «da un punto di vista delle libertà individuali», come le violenze domestiche e le mutilazioni genitali. Se una «neutralità pubblica» basata sulla tolleranza viene ritenuta utopica su questo e altri argomenti, bisogna ricorrere ad «adattamenti» riconosciuti da minoranze e maggioranze, sancendo il «carattere interdipendente e aperto delle culture». Una strada in salita: per evitare che le singole identità «non si irrigidiscano nelle loro posizioni», infatti, il Paese liberale a sua volta non dovrebbe comportarsi «come un dogmatico agente di identità. Una difficoltà che gli Stati democratici non sono ancora riusciti a superare». In questo senso, suonano come un monito per le nostre società ad andare oltre l'idea «ghettizzante» del multiculturalismo le parole di Benedetto XVI nel discorso diffuso martedì scorso: «La fraternità umana è l'esperienza, a volte sorprendente, di una relazione che accomuna, di un legame profondo con l'altro, differente da me, basato sul semplice fatto di essere uomini».



Il lavoro nero? Non e più un affare da clandestini

Scovati 4mila  irregolari in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia La metà è straniera, ma conpermesso di soggiorno. Spesso comprato
Avvenire, 28-10-2010
FRANCESCO RICCARDI
MILANO - Il lavoro nero? Riguarda solo marginalmente i clandestini, che ormai sono una quota residuale fra i lavoratori irregolari. Una metà o quasi è costituita pur sempre da italiani. L'altra è fatta da neocomunitari come polacchi, romeni, bulgari e da extracomunitari in possesso di un permesso di soggiorno per lavoro temporaneo. Ma impiegati "in nero" in un'occupazione diversa da quella per la quale hanno ottenuto (o comprato) il documento.
Nella palude del sommerso sono queste le nuove tendenze che emergono dalla lettura dei dati, aggiornati ad agosto, del Piano straordinario di vigilanza in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, varato dal governo all'inizio dell'anno dopo i fatti di Rosarno. In sei mesi sono state ispezionate 10.417 tra aziende agricole e cantieri, sono state individuate irregolarità nel 45% delle imprese primarie e nel 61% di quelle edili. Sono stati scovati 2.005 lavoratori completamente in nero in agricoltura, pari al 64% di quelli in posizione irregolare e 2.444 in edilizia, corrispondente al 56% (vedi grafico in alto). Per effetto delle nuove norme che prevedono la sospensione dell'attività quando i lavoratori irregolari superino il 20% della manodopera impiegata, sono state chiuse 94 aziende agricole e 823 cantieri. Il 75% di questi ultimi ha poi riaperto sanando le irregolarità.
«Possiamo dire che il presidio del territorio ha prodotto risultati concreti, non solo portando alla luce e sanzionando le irregolarità, ma fungendo da deterrente per le attività in nero in queste regioni», commenta Paolo Pennesi, direttore generale dell'Attività ispettiva del ministero del Lavoro. Le difficoltà certo non mancano: quando polizia o carabinieri non possono accompagnare gli ispettori nei campi è molto più diffìcile scovare i lavoratori in nero. O sottrarsi a minacce e aggressioni. Come è accaduto a due ispettori nella Locride, finiti all'ospedale per le percosse ricevute, la loro auto distrutta. «Abbiamo comunque verificato una flessione del fenomeno grazie al dispiegarsi dei controlli. E anche laddove permane è meno sfacciato, più circoscritto e nascosto», aggiunge Pennesi. L'esame delle cifre parziali suddivise per regioni mettono in evidenza, in particolare per la Calabria, la quota residuale di lavoratori extracomunitari fra quelli impiegati in nero. Ad esempio: in agricoltura in Calabria da marzo a maggio su 1.261 lavoratori controllati solo 43 erano extracomunitari, di cui 2 privi di permesso di soggiorno. Tra di loro quelli totalmente in nero erano 269. Cifre un po' più alte in Campania: su 2.982 lavoratori controllati, gli extracomunitari erano 351, di cui 38 privi del permesso di soggiorno. E su questi quasi tremila dipendenti esaminati, quelli in nero erano 429.
Ma come si conciliano questi dati con la presenza di migliaia di nordafricani stipati in baracche, di nuovo anche a Rosarno? «In realtà bisogna anzitutto distinguere tra extracomunitario e neocomunitario -risponde il direttore generale del ministero -. Già a febbraio, quand'ero a Rosarno, ho notato come la manodopera africana fosse stata sostituita in gran parte da polacchi, bulgari e romeni che, diciamo, "danno meno nell'occhio" e che possono soggiornare regolarmente in Italia. Inoltre, anche nel caso degli extracomunitari, in particolare nordafricani, ormai la stragrande maggioranza di loro è in possesso di un permesso di soggiorno, anche se poi viene impiegata "in nero"». Ma come è possibile? «Il meccanismo è quello di un mercato parallelo dei permessi. Si parte dal fatto che le richieste di manodopera per i vari decreti flussi sono gonfiate e spesso truffaldine - spiega Pennesi -. Faccio un esempio: a Crotone  c'erano richieste per 3.800 quote di immigrati, delle quali genuine non più di 200, visto che quelle respinte non hanno presentato neppure ricorso. Addirittura abbiamo scovato un agricoltore proprietario di appena 2 ettari di terra, che aveva fatto richiesta per 400 braccianti. È chiaro che poi questi permessi vengono venduti e gli stranieri vanno a lavorare "in nero" presso altri datori di lavoro, alimentando così un sistema economico perverso». E che l'agricoltura, in particolare in alcune zone del Mezzogiorno, sia ormai il regno dell'irregolarità multietnica lo conferma anche un altro dato del ministero. A fronte dei 2mila lavoratori in nero scovati, sono state individuate ben 11.106 «posizioni lavorative fittizie». Quelle che servono - agli italiani e alle italiane - per truffare l'Inps, lucrando su sussidi di disoccupazione agricola e indennità di maternità. Senza aver mai colto un'arancia o coltivato una zucchina.



Monsignor Marchetto e quella "spina nel cuore" chiamata immigrazione

il Sole, 28-10-2010
Stefano Natoli
Risorsa o minaccia? Il dibattito sull'immigrazione è più che mai aperto, in Italia come nel resto del mondo. Un dibattito sempre più acceso, ma spesso animato da ideologie, preconcetti, superficialità: gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, ne fanno abbassare i salari, fanno aumentare la criminalità. Luoghi comuni duri a morire ed estremamente pericolosi che in alcuni momenti si trasformano in propaganda xenofoba che alimenta l'odio, ostacola la convivenza multietnica e multiculturale e nasconde una verità inconfutabile: l'immigrazione rappresenta una ricchezza, e non solo a livello spirituale.
I quasi 5 milioni di immigrati regolari - 7% della popolazione italiana secondo l'ultimo rapporto Caritas/Fondazione Migrantes - creano infatti il 6% del Pil e con i loro contributi pensionistici danno un po' d'ossigeno al deficit previdenziale. Senza dimenticare l'apporto fondamentale che arriva all'economia da quell'esercito di 900mila colf, baby-sitter, badanti, infermiere straniere. Altro che minaccia, altro che messa in discussione dell'identità nazionale: l'immigrazione è una vera manna dal cielo. Contrastarla, dunque, oltre che poco cristiano è anche antieconomico. Certo, è un fenomeno che va attentamente regolato per evitare confusioni e ingiustificati allarmismi, come ha ricordato recentemente anche papa Benedetto XVI nel messaggio per la 97esima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che sarà celebrata domenica 16 gennaio 2011: «La Chiesa – ha detto il pontefice - riconosce ad ogni uomo il diritto a emigrare, così come agli Stati il diritto di regolare i flussi migratori e di difendere le proprie frontiere, sempre assicurando il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana». L'immigrazione va insomma trattata in un'ottica di inclusione e non di divisione, per accogliere e non per respingere.
Questo il monito che arriva da Chiesa e migranti: la mia battaglia per una sola famiglia umana, il libro intervista - appena mandato in libreria dall'Editrice La Scuola - in cui l'arcivescovo Agostino Marchetto presenta la sua visione del fenomeno migratorio nella fedeltà al vangelo e ai diritti dell'uomo. L' arcivescovo - che dal suo ufficio di segretario del Pontificio consiglio dei migranti è stato per quasi 10 anni la "voce" scomoda della Santa Sede sempre in prima fila in difesa di immigrati, zingari, clandestini in fuga da guerre, fame e malattie - affronta via via molti temi che toccano la nostra vita e quella di milioni di immigrati ben sollecitato dalle domande del giornalista Marco Roncalli.
L'intervista passa in rassegna questioni cruciali, come le frontiere, la sicurezza, il lavoro, la casa, la salute, i ricongiungimenti familiari, la scuola, la cittadinanza, il dialogo interreligioso e le relazioni con l'Islam, i respingimenti. Questioni che dettano sempre più l'agenda politica per l'Europa e creano il consenso elettorale.
Il volume offre l'occasione per ripercorrere l'intensa esperienza di chi ha seguito da vicino il dipanarsi di questa fitta trama di argomenti – l'arcivescovo è stato un nunzio con oltre 30 anni di carriera in Africa, America Latina e Paesi dell' Est - per tracciare un bilancio generale, offrire dati sicuri, indicare chiavi di lettura e prospettive, ma anche per condividere interrogativi diffusi sul senso di un'accoglienza vanificata dall'incapacità di dare pane e dignità.
A lettura finita emerge chiaro un grido d'allarme per le tante forme di integrazione mancata e per quei Centri di prima accoglienza che non risolvono il problema, ma continuano semplicemente a rinviarlo e continuano a costituire per quanti hanno a cuore le sorti dell'umanità una vera "spina nel cuore".
(Agostino Marchetto, Chiesa e migranti. La mia battaglia per una sola famiglia umana. Intervista di Marco Roncalli. Editrice La Scuola, pp. 160, euro 9,50)



Immigrati/ Cei: Troppa intolleranza, conflitto e violenza

Orientamenti pastorali. Serve un'educazione all'accoglienza
Virgilio, 28-10-2010
Roma, 28 ott. (Apcom) - Il fenomeno dell'immigrazione "fa emergere opportunità e problemi di integrazione, nella scuola come nel mondo del lavoro e nella società. Per la Chiesa e per il Paese si tratta senza dubbio di una delle più grandi sfide educative": lo afferma la Conferenza episcopale italiana nel documento decennale per la pastorale (gli 'orientamenti pastorali').
"All'accoglienza deve seguire la capacità di gestire la compresenza di culture, credenze ed espressioni religiose diverse", scrivono i vescovi nel documento dedicato al tema dell'educazione. "Purtroppo si registrano forme di intolleranza e di conflitto, che talora sfociano anche in manifestazioni violente. L'opera educativa deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione. Particolare attenzione va riservata al numero crescente di minori, nati in Italia, figli di stranieri".
"L'acquisizione di uno spirito critico e l'apertura al dialogo, accompagnati da una maggiore consapevolezza e testimonianza della propria identità storica, culturale e religiosa, contribuiscono a far crescere personalità solide, allo stesso tempo disponibili all'accoglienza e capaci di favorire processi di integrazione. La comunità cristiana educa a riconoscere in ogni straniero una persona dotata di dignità inviolabile, portatrice di una propria spiritualità e di un'umanità fatta di sogni, speranze e progetti. Molti di coloro che giungono da lontano sono fratelli nella stessa fede: come tali la Chiesa li accoglie, condividendo con loro anche l'annuncio e la testimonianza del Vangelo. L'approccio educativo al fenomeno dell'immigrazione può essere la chiave che spalanca la porta a un futuro ricco di risorse e spiritualmente fecondo".



C'è un'altra Rosarno: affitti e contratti in regola

Avvenire, 28-10-2010
ANTONIO MARIA MIRA
ROSARNO -Una piccola casa, due appartamentini, stanze a tre letti, sala da pranzo, cucina e bagno. Tutto ordinato e pulito. Così vivono 12 immigrati africani. E come loro altri 40. Tutti regolari. Pagano 50 euro al mese e i proprietari forniscono anche la luce e l'acqua. Garantisce la parrocchia. Benvenuti nell'altra Calabria, quella bella e accogliente. Siamo a Drosi, frazione di Rizziconi, grosso centro al confine con Rosarno. Nove mesi fa anche qui c'era un ghetto terribile, la "collina di Rizziconi", 500 immigrati in una baraccopoli su un terreno confiscato alla 'ndrangheta e mai utilizzato. Oggi Drosi è un esempio di intelligente integrazione. Protagonista la parrocchia di San Martino e i suoi animatori Caritas. «Continuiamo a donare il nostro mezzo mantello - dice sorridendo il parroco, don Nino Larocca-. Non siamo eroi, siamo semplicemente cristiani». Non solo parole. A partire da dati certi. «Non si sa mai quanti siano davvero gli immigrati. E allora il monitoraggio lo facciamo noi - spiega uno degli animatori, Francesco Gailuccio, per tutti "Ciccio" -. Oggi nel nostro territorio ci sono 180 africani e 80 rumeni». Conoscere per operare al meglio. Da anni la parrocchia aiuta gli immigrati: alimenti, vestiti, assistenza sanitaria. Un giorno a settimana funziona la mensa ma, spiega don Nino, «preferiamo distribuire viveri, perché siano loro a cucinare». Questo è proprio il senso della scelta parrocchiale. Dopo i fatti di Rosarno, parte il progetto degli appartamenti, che ospitano 50 immigrati, alcuni reduci di quel ghetto. «Ci siamo proposti come garanti nei confronti dei proprietari - dice ancora don Nino -.
E come se li prendessimo noi, in affitto». Sono otto gli appartamenti, tutti arredati, ma si spera di aumentarli. In ognuno un piccolo gruppo. Una ricetta semplice, da esportare negli altri comuni. «Dare una casa - aggiunge don Nino - vuol dire garantire un tetto ma anche renderli autonomi. Per questo vogliamo che paghino l'affitto. Così li educhiamo alla responsabilità. Questa è la vera integrazione». E gli immigrati sono più che soddisfatti. Ibrahim, 27 anni, è arrivato dopo lo sgombero della "collina", mentre Mamadou, 38, era qui da prima. Sono rifugiati col permesso di soggiorno. Oggi non lavorano, ma le scorse settimane hanno avuto contratti regolari. «È giusto essere in regola, anche noi vogliamo rispettare la legge. Ma non si dovrebbe aspettare tanto per avere il permesso di soggiorno, anche più di sei mesi». Ci fanno vedere l'appartamento. Tutto in ordine, pulito. «Siamo molto contenti. Stiamo bene qui a Drosi, non abbiamo paura. C'è gente buona e gente cattiva, come tra noi immigrati». Altri, meno fortunati, continuano a vivere nelle campagne ma la parrocchia non li abbandona. L'importante è «avere gente disposta a sporcarsi le mani», sottolinea il parroco. Come i 30 animatori della Caritas. La gente di Drosi è veramente pronta all'accoglienza. «Quando a Rosarno c'era la caccia al nero qui la nostra gente li ha difesi». E gran parte degli immigrati lavora con contratti regolari. Proprio davanti al centro della Caritas, un gruppo di lavoratori sta raccogliendo crisantemi. Italiane, romeni e africani. Il giovane titolare dell'impresa, Ettore Straputicari, spiega: «Già l'anno scorso per la raccolta delle clementine ho assunto in regola 20 immigrati, fornendo anche vitto e alloggio». Certo non è facile. Lui quest'anno le clementine le ha vendute a 20 centesimi al chilo, quelle che nei negozi compriamo a 2 euro. Altri sarebbero tentati di risparmiare sul salario degli immigrati. Ettore no. «Io scelgo la strada della legalità e per fortuna anche altri imprenditori». Una scelta di famiglia. Caterina, sua mamma, quando gente di Rosarno è venuta in questa zona per "punire" gli immigrati, si è messa in mezzo alla strada per difenderli: «E ora picchiate me!».



La mente era la responsabile di un Caf
Permessi di soggiorno venduti a 7mila euro giro d'affari milionario
Dnews, 28-10-2010
Valerio Alberasi
Roma - Disposti a tutto per un permesso di soggiorno e una nuova vita in Italia, una speranza che costava dai cinquemila ai settemila euro. Erano queste le tariffe chieste agli immigrati da un'organizzazione gestita dalla dirigente di un centro assistenza fiscale (Caf) nella zona di via Gregorio VII: il gruppo era in grado di produrre false certificazioni e fare ottenere ai "clienti" il permesso di soggiorno sfruttando la sanatoria sui collaboratori domestici. Uno dei sistemi usati per aggirare la legge, infatti, prevedeva che gli immigrati presentassero la richiesta di regolarizzazione sostenendo di avere trovato lavoro come badanti in famiglie pagate per dichiarare il falso. Il sistema funzionava bene e faceva guadagnare molto, almeno quattro milioni di euro in due anni secondo i carabinieri che hanno compiuto le indagini. Ieri mattina 13 persone sono finite in carcere, cinque ai domiciliari e per altre quattro è scattato l'obbligo di presentazione in caserma. Per tutti l'accusa è di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione  clandestina, alla produzione di documenti falsi, alla truffa ai danni dello Stato e alla contraffazione di documenti necessari alla regolarizzazione di extracomunitari. Tra gli arrestati ci sono, tra gli altri, un medico, la titolare di un'agenzia di servizi e pratiche, e un consulente del lavoro: erano loro i principali collaboratori della responsabile del Caf e del marito. Le indagini partirono sei mesi fa quando un dipendente dello sportello unico dell'ufficio immigrazione  riscontrò alcune anomalie in alcune pratiche: presentavano procure speciali firmate dallo stesso notaio. I carabinieri individuarono così un migliaio di pratiche sospette: fino a oggi, duecento di queste sono state dichiarate contraffatte. A rivolgersi all'organizzazione erano principalmente immigrati egiziani e cinesi: altri tre stranieri invece facevano da procacciatori di clienti. Cinque italiani poi si occupavano di trovare i datori di lavoro disposti a dichiarare il falso: per loro c'era una ricompensa di 500 euro. Un altro sistema utilizzato dal sodalizio era quello di presentare procure speciali con documenti falsi, clonati o appartenuti a persone decedute. Le indagini vanno avanti per accertare la validità delle altre pratiche non ancora controllate. 



Un reato i matrimoni forzati  Germania, al via la nuova legge

l'Unità, 28-10-2010
LAURA LUCCHINI
I matrimoni forzati vanno fermati. Ne è convinto l'esecutivo della cancelliera Merkel che ieri ha dato il via libera al progetto di legge. Per la prima volta saranno reato le nozze combinate, punibili con 5 anni di reclusione.
BERLINO-Dopo settimane di aspre discussioni sull'immigrazione e il «multiculturalismo fallito» in Germania, il consiglio dei ministri ha raggiunto ieri un accordo su un progetto di legge che introduce per la prima volta il reato di «matrimonio forzato», perseguibile penalmente. Per l'opposizione è una «legge di facciata», che nasconde una preoccupante deriva xenofoba. Presto in Germania le donne che sono state obbligate a un matrimonio non desiderato, dal futuro sposo o dalla famiglia potranno rivolgersi ai tribunali tedeschi. La legge presentata ieri stabilisce che il «matrimonio forzato» è perseguibile con una pena di cinque anni di reclusione.
La ministra di giustizia Sabine Leutheusser-Schnarrenberger si è detta soddisfatta della misura perché significa una «presa di posizione chiara» che dovrebbe funzionare come «deterrente». Fino ad ora per casi di questo tipo si ricorreva al reato di coazione, con un massimo di cinque mesi di condanna. Secondo Max Stadler, segretario di Stato parlamentare nel Ministero della giustizia, presto anche il mero tentativo sarà condannato.
Nonostante gli esperti sottolineino che il matrimonio forzato non ha nulla a che vedere con la religione, la legge si dirige in particolare alla minoranza musulmana, all'interno della quale questa pratica è più frequente in Germania che in altre minoranze. La misura rientra in una legge più ampia, che tocca molti aspetti dell'integrazione e si pone lo scopo di controllare in modo più efficace i ricongiungimenti famigliari: d'ora in avanti un immigrato dovrà dimostrare di essere sposato da più di tre anni prima di poter portare l'intera famiglia. Allo stesso tempo le autorità si impegnano a controllare severamente che gli immigrati extracomunitari frequentino i corsi pubblici di lingua e integrazione (attivi già da tempo in tutto il Paese).
La legge nasce in un momento particolare. Dopo settimane di dibattito riguardo alla scarsa integrazione dei musulmani in Germania il governo ha deciso di cambiare strategia e parole. Angela Merkel ha dichiarato «fallito» il modello multiculturale, che secondo lei, e secondo la ministra d'educazione Annette Schavan che le fa eco, avrebbe creato «società parallele inaccettabili». La nuova linea ha un imperativo chiaro: «l'integrazione e la selezione dei nuovi cittadini» secondo un sistema simile a quello australiano o canadese.
LE POLEMICHE
Dietro quello che la maggioranza di governo definisce come «un ap-proccio più realistico all'immigrazione"  si nascondono, secondo l'opposizione, pericolose derive xenofobe che stanno prendendo piede in tutt'Europa. I verdi hanno parlato di una legge «poco credibile» perché prevede un maggiore controllo per i corsi di lingua e di integrazione, quando altrove sono stati tagliati i fondi per questi corsi. Intanto, anche i demografi hanno qualcosa da dire: dopo lustri di aumento costante della popolazione in Germania da alcuni anni la popolazione diminuisce. «Se questa tendenza rimarrà costante», assicurava ieri il demografo Reiner Klingholz in un incontro con la stampa estera, «nel 2050 in Germania ci saranno 40 milioni di persone in meno». Nessuna politica della famiglia, per quanto efficace, può fermare questo fenomeno. Il Paese ha quindi bisogno di 200.000 immigrati annuali per bilanciarsi e per rimanere competitivo con Francia e Gran Bretagna, dove, al contrario, la natalità è più alta e la popolazione cresce.


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