Newsletter
periodica d’informazione
(aggiornata
alla data del 08 Settembre 2010)
L’europa
ostile agli stranieri?
Da un
sondaggio del Financial Times su vari Paesi UE (tra cui l’Italia), in raffronto
con gli USA, traspira la preoccupazione per il futuro e la convinzione che:
<gli stranieri abbassano la qualità della vita>. Gli inglesi i più ostili
verso gli immigrati.
Sommario
o
Dipartimento Politiche
Migratorie – Appuntamenti pag. 2
o
Prima pagina- Europa
ostile verso gli stranieri pag. 2
o
Prima pagina – Rom,
corteo contro espulsioni pag. 2
o
Circolari, tirocini e
visto per studenti in soggiorno breve pag. 3
o
Attualità –
Milano: un abitante su sei è straniero pag. 4
o
Attualità – Rom
e Sinti: il visibile e l’invisibile
pag. 5
o
L’intervista –
Flussi. Forlani: “ecco cosa deve cambiare” pag. 6
o
Giurisprudenza –
Coniugi extra comunitari di cittadini comunitari pag. 8
o Financial
Times – Britons lead on hostility to migrants pag. 9
o Foreign
Press – The Economist: illegal immigration in Greece pag.10
A
cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento
Politiche Migratorie
Rassegna
ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL
Tel.
064753292- 4744753- Fax: 064744751
n.
287
Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti
Roma, 7 settembre 2010, ore 15.00, Casa Valdese
Convegno FCEI:”State and Civil Co-operation Initiatives in Combating
Trafficking in Human Beings for Labour Exploitation”
(Giuseppe Casucci)
Roma, 9 settembre 2010, ore
11.00, Ministero Pari Opportunità
Costituzione cabina di regia
tra UNAR e parti sociali, in
materia di lotta alle discriminazioni sul lavoro e nella società
(Guglielmo Loy, Giuseppe
Casucci)
Roma 05 ottobre 2010, ore
14.00 Palazzo Valentini
Convegno su Rom e Sinti:
“Tempo per un riconoscimento legislativo linguistico e culturale”
(Giuseppe Casucci, Angela
Scalzo)
Roma, 08 ottobre 2010, Casa
Internazionale delle donne
Workshop Fondazione
Brodolini: “Rapporto Italiano sulla Lotta alle Discriminazioni”
(Guglielmo Loy)
In prima pagina
Martedí 07 settembre 2010 - Un
sondaggio d’opinione condotto tra i cittadini dei maggiori paesi europei rivela
un alto livello di ostilità nei confronti degli immigrati. L’indagine,
condotta dall’agenzia Harris per conto del Financial Times, afferma per che
un’ampia fetta di persone i migranti abbiano abbassato la qualità della vita,
con conseguenze negative sull’economia, sui servizi pubblici e sul mercato del
lavoro. L’indagine, condotta in Italia, Spagna, Francia, Germania, Regno Unito
e Stati Uniti (presi come termine di confronto) afferma che per il 64% dei
britannici l’immigrazione ha peggiorato il paese, una percentuale superiore a
quella di Spagna, Italia (entrambe attorno al 60%), Usa (50%),
Germania (44%) e Francia (40%).
Molto alte
anche le percentuali di quanti dicono che l’immigrazione ha peggiorato i
servizi, con i britannici che per oltre i due terzi affermano che il servizio
sanitario nazionale e quello scolastico patiscono l’alto numero di immigrati.
Negli altri paesi si sono registrate percentuali inferiori ma ugualmente
elevate. Sono invece gli spagnoli quelli che si sentono più danneggiati dagli
immigrati nella ricerca di un lavoro: per il 67%, l’immigrazione ha reso più
difficile trovare un lavoro, in un paese dove si registra un tasso i
disoccupazione del 20%. Per il 34% degli spagnoli inoltre, l’immigrazione si è
tradotta anche in una diminuzione dei salari. Per molti degli intervistati,
l’immigrazione ha anche un impatto negativo sull’economia in generale, con i
britannici e spagnoli a guidare la classifica con il 52% di risposte
affermative, seguiti dai i francesi al 48%, dagli statunitensi al 44%, da gli
italiani al 42% e dai tedeschi al 32%.
Ma il
rapporto rivela anche che questa ostilità nei confronti degli immigrati non
viene giustificata da un’effettiva crescita della pressione migratoria, ma
piuttosto dalla retorica della classe dirigente. Prendendo l’esempio della
Germania emerge che l’ostilità nei confronti degli immigrati sia elevata
nonostante un calo nel numero di immigrati che raggiungono il paese e un
aumento in quelli che lo lasciano a causa della crisi economica e delle
difficoltà a trovare un lavoro.
ROMA
(4 settembre) - «Stop alla xenofobia, no al Pogrom», «Non aspettiamo la Shoah
per intervenire», «No alla politica di respingimento contro un popolo». Con
questi striscioni un gruppo di qualche centinaio di persone è scesa in piazza a
Roma, contro la politica dei respingimenti attuata dal governo francese.
Al presidio in piazza Campo de' Fiori, a due passi da piazza
Farnese dove ha sede l'ambasciata francese, partecipano anche alcuni rom dei
campi abusivi della capitale. La protesta si è svolta in contemporanea con
altre manifestazioni in altre città d'Europa e in particolare con quella di
Parigi. Oltre a uomini, donne e bambini rom e sinti, hanno partecipato anche
esponenti di Sinistra ecologia e libertà e della Cgil. Assente, il delegato del
sindaco ai rapporti con la comunità rom, Nayo Adzovic, che non ha aderito alla
manifestazione. L'iniziativa promossa dal Coordinamento nazionale
anti-discriminazione, è anche una denuncia contro il Piano rom della capitale.
«La società civile deve rispondere agli attacchi contro i rom.
Siamo qui anche per dire no ai campi rom: bisogna fermare questo genocidio
culturale che non è degno di un Paese civile», ha detto Santino Spinelli,
rappresentante del Coordinamento.
Alemanno: «Manifestazione ideologica». La
manifestazione contro il razzismo organizzata nella capitale «mi sembra molto
ideologica e poco sostanziale». Così il sindaco Gianni Alemanno parlando della
questione rom durante il viaggio a Parigi con l'Unitalsi. Il sindaco ha voluto
sottolineare come il coordinamento rom di Roma si sia «dissociato dalla
manifestazione» odierna a piazza Campo de' Fiori, conferma, secondo il primo
cittadino, del carattere «ideologico» della stessa. Per Alemanno «integrazione
e legalità viaggiano sulla stessa strada».
Secondo il sindaco di Roma serve una politica europea comune, con
risorse adeguate e regole precise uguali per tutti i Paesi membri, in modo tale
da attuare «una politica vera di sicurezza e integrazione» e non incorrere nel
rischio di una «politica dello scaricabarile» nell'affrontare la questione rom.
50 mila in corteo a Parigi. C'erano molti politici, artisti ed
intellettuali nei 50 mila (12 mila stando alle cifre della polizia) nel corteo
che è partito da place de la Republique a Parigi per manifestare contro il
presidente Nicolas Sarkozy e la sua decisione di espellere nomadi e Rom. Fra di
loro anche il sindaco socialista della capitale, Bertrand Delanoe e le famiglie
Rom di Choisy-le-Roi, periferia di Parigi, il cui accampamento è stato raso al
suolo il 12 agosto. Analoghe manifestazioni di protesta contro le espulsioni
dei rom e la xenofobia si sono svolte nel pomeriggio in 130 città della
Francia.
Circolari
Il decreto 6 luglio 2010 è stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 203 del 31-8-2010 )
Corsi di formazione
professionale e tirocini formativi: 10mila ingressi per imparare una
professione
Fissato il
tetto per i visti. Le domande vanno fatte ai consolati nei paesi di
provenienza, ma saranno accettati solo corsi e tirocini accreditati
Roma -
1 settembre 2010 - Diecimila cittadini stranieri potranno entrare
quest’anno in Italia per imparare un mestiere, tra corsi di formazione
professionali e per tirocini di formazione e orientamento. Il tetto
massimo ai visti di ingresso è stato fissato da un piccolo decreto flussi pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale l’ultimo
giorno di agosto. Cinquemila ingressi riguarderanno chi partecipa a corsi
di formazione, organizzati da enti accreditati, che possono durare al massimo 2
anni e devono prevedere il rilascio di una qualifica o comunque di una
certificazione sulle competenze acquisite. Cinquemila ingressi anche per i
tirocini, che devono invece svolgersi secondo un progetto approvato dalle
autorità competenti (variano da Regione a Regione). Il cittadino straniero deve
presentare al consolato, insieme alla richiesta del visto, la documentazione
relativa al corso o al tirocinio che farà in Italia. Chi arriva utilizzando
questo canale ha diritto a un permesso per studio che potrà essere convertito
in un permesso per lavoro solo da chi, alla fine del corso o del tirocinio,
troverà un datore di lavoro pronto ad assumerlo, e comunque nei limiti delle
quote per le conversioni fissate dal governo.
Scarica il testo del decreto:
Studenti, niente visto per i soggiorni brevi
Ingressi semplificati per i cittadini di una trentina di Paesi.
Una volta qui, bisogna dichiarare la propria presenza
Roma
– 2 settembre 2010 – I cittadini di una trentina di Paesi
extracomunitari possono arrivare in Italia per soggiorni fino a novanta giorni
senza visto di ingresso. Finora, questa possibilità riguardava solo viaggi per
missioni, turismo e affari, da ieri anche quelli per motivi di studio. Una
piccola novità, certo non una rivoluzione, annunciata qualche giorno fa dal ministero dell’interno.
Questo
l’elenco dei Paesi i cui cittadini non hanno bisogno del visto: Andorra;
Argentina; Australia; Bolivia; Brasile; Brunei; Canada; Cile; Corea del Sud;
Costa Rica; Croazia; Ecuador; El Salvador; Giappone; Guatemala; Honduras;
Israele; Malesia; Messico; Monaco; Nicaragua; Nuova Zelanda; Panama; Paraguay;
San Marino; Santa Sede; Singapore; Stati Uniti; Svizzera; Uruguay; Venezuela. Chi arriva in
Italia per soggiorni fino a novanta giorni non deve chiedere il permesso di
soggiorno, deve però informare la Polizia. Se arriva direttamente in Italia da
un paese extraue, basta che si faccia timbrare il passaporto alla frontiera, se
invece arriva qui passando da un altro paese dell’area Schengen, deve
presentare alla Polizia una dichiarazione di presenza entro otto giorni dal suo
arrivo. Per chi alloggia in alberghi, campeggi o altre strutture turistiche, la
dichiarazione viene fatta direttamente dal titolare della struttura. EP
Milano,
1° settembre 2010 - Un abitante su sei a Milano è straniero: trent' anni fa
erano uno su 100. Gli immigrati hanno raggiunto il 16 per cento della
popolazione, mentre la media nazionale è del 6,5. Dall'inizio dell'anno la
popolazione italiana a Milano è calata di circa 2mila unità, passando da un
milione 107mila 189 a in milione 105mila 310, mentre gli stranieri sono
aumentati di quasi 9mila presenze, passando da 199mila 372 a 208mila 021 (nel
1980 erano 21mila). E' questa la fotografia scattata dal servizio Statistica
del Comune. Fra gli stranieri, riferisce il vicesindaco Riccardo De Corato,
prevalgono i filippini (32mila), seguiti dagli egiziani (27mila) e dai cinesi
(18mila). In frenata la crescita dei romeni (+5 per cento nei primi sette
mesi dell'anno), in costante aumento quella degli ucraini
(+10)."L'identità futura della città è dunque segnata da numeri galoppanti
e ciò rende necessario insistere sul rispetto delle leggi italiane e sui valori
fondanti dell'Occidente come precondizioni all'integrazione - afferma De
Corato, che ha diffuso i dati - Inoltre massimo rigore per chi vive clandestinamente,
per chi attua comportamenti che sono una minaccia alla sicurezza pubblica e
dello Stato o lesivi della dignità della donna". Quindi, aggiunge De
Corato "l'accoglienza indistinta per tutti è una chimera". "Non
è più tempo di sloganistica", ammonisce don Virginio Colmegna, presidente
della Fondazione Casa della Carità, sempre a contatto con i temi
dell'integrazione. "Stiamo parlando di un fenomeno che non può più essere
trattato sotto la scia dell'emergenza o della sicurezza, ma richiede interventi
strutturali, culturali - ha aggiunto - Altrimenti si finisce con il tenere ai
margini una larga fetta di popolazione". Inoltre, ha ricordato
don Colmegna, molti stranieri sono figli di immigrati, quindi stranieri di
seconda generazione. "E questo deve far riflettere sui problemi che si
pongono nelle scuole, poi sui posti di lavoro. Soprattutto i più giovani devono
essere aiutati". "Non vogliamo che Milano diventi un territorio di
conquista" ha detto il presidente del Consiglio regionale della Lombardia,
il leghista Davide Boni. Che riferendosi poi alle recenti dichiarazioni di
Gheddafi ha aggiunto: "Per questo motivo che gli appelli di qualcuno a
islamizzare il nostro Paese assumono contorni sinistri che vanno nella
direzione contraria a quella che vede un'integrazione pacifica".
Di Lorenzo Monasta,
La questione
dei Rom e dei Sinti nel nostro Paese è tra quelle che suscitano maggiori
scontri dentro e fuori di noi. Il loro modo di vivere, di chiedere, la loro
sopportazione di situazioni che per noi sarebbero insopportabili... ciò che
vediamo o crediamo di vedere e sapere su di loro ci crea un certo fastidio. Vi
è un sottile conflitto, a volte non tanto sottile, che porta a vedere gli
zingari come liberi, figli del vento o come ladri e sfruttatori di bambini. Ma
fermiamoci un attimo: di quale immaginario “loro” stiamo parlando? Questa è la
prima domanda da porsi. Prendiamo carta e penna e scriviamo cinque aggettivi
che per noi descrivano gli zingari, o i nomadi, o i Rom e i Sinti. Possiamo
proprio cominciare con: “Gli zingari sono:” ed elencare gli aggettivi. Poi
sostituiamo il termine che abbiamo usato (zingari, nomadi, o rom e sinti,
secondo la terminologia da noi usata) con un altro. Possiamo usare il termine
“italiani”, “negri”, “ebrei” o “indiani d’America”: questo perché questi
termini ci possono aiutare a mettere i piedi per terra. Del razzismo contro
ebrei e negri si è finora molto discusso e gli italiani, beh, siamo noi. Gli
indiani d’America li conosciamo dai film western e, più o meno, sappiamo che
non erano, né sono, selvaggi ubriaconi come volevano farci credere. Se ci
rendiamo conto, cambiando soggetto, che quegli aggettivi sono pesanti, vuol
dire che si sta sbagliando. Non perdiamo tempo a giustificare il fatto che con
un soggetto va bene e con un altro no. Questo ragionamento varrà anche se gli
aggettivi sono positivi. Una volta un signore importante, che voleva cacciare
gli zingari dalla “sua” città, disse: “Io non sono razzista: penso, per esempio,
che i cingalesi siano puliti e grandi lavoratori.” Questa affermazione è
anch’essa razzista. Due settimane fa discutevamo con alcune persone importanti
che parlavano correntemente di “nomadi”. L’intera impalcatura dei loro discorsi
ruotava sul carattere nomadico di queste popolazioni che fa in modo che “loro”
non possano avere un lavoro stabile, mandare i bambini a scuola, avere una vita
degna. Nessuna di queste persone si è mai resa conto che coloro di cui
parlavano, almeno tre gruppi distinti di rom e sinti, non erano nomadi o non lo
erano più da molto tempo. Perché allora continuare a chiamarli “nomadi”? La
questione del nomadismo è centrale nella costruzione del pregiudizio. I nazisti
sostenevano, tra le altre cose, che gli zingari avessero il gene dell’istinto
al nomadismo (Wandertrieb) e per questa ragione erano da considerare asociali e
quindi andavano sterminati. Il nomadismo, dalla nascita degli stati nazione è
sempre stato visto come pericoloso come lo è stata la mancanza del legame tra
“razza” e terra per gli ebrei, che non farebbero quindi gli interessi della
nazione in cui vivono ma quelli della loro “lobby”. Il fatto che gruppi di rom
e sinti siano o meno nomadi non è molto rilevante, ma lo diventa se svela che
il pregiudizio è basato su qualcosa che è falso. È certamente difficile essere
nomadi nella società italiana moderna, e per questa stessa ragione molti di
coloro che praticavano in passato il nomadismo ora sono sedentari. Non bisogna
poi confondere il nomadismo con la necessità di spostamento o le migrazioni. Se
migliaia di rom sono scappati dall’ex Jugoslavia a causa delle guerre dei
Balcani, questo non significa che siano nomadi. Se in questi anni molti rom
giungono in Italia dalla Romania non significa che siano nomadi. Questi due flussi
migratori sono e sono stati causati da grandi conflitti etnici: la prova di
questo è che i flussi migratori di rom provenienti dall’ex Jugoslavia si sono
oramai praticamente arrestati.
In Italia ci
sono comunità Rom da secoli, mescolate con la popolazione autoctona. Ma anche
“autoctono” significa nato nel luogo in cui si risiede. Se parliamo di
individui, anche questi rom sono autoctoni e se parliamo di popoli dovremmo
discutere cosa significhi la nascita di un popolo per stabilire se noi stessi
siamo autoctoni. Queste persone sono italiane e sono rom, e non vi è nulla di
strano in questo. Anche i sinti sono giunti in Italia da secoli e vale lo
stesso discorso. Non distinguereste queste persone incontrandole per strada, né
sapendo come si chiamano di nome o cognome. Se alcune famiglie vogliono vivere
su ruote, in una comunità, cosa c’è di male? Perché ci viene subito da
chiederci che lavoro fanno, se pagano le tasse e se mandano i loro figli a
scuola? In molte regioni italiane vi sono leggi che sanciscono il diritto per
rom e sinti che lo vogliano di vivere in aree attrezzate con i loro mezzi
mobili. Questo diritto è in grandissima parte violato dalle amministrazioni
locali che non si curano di farlo rispettare. Spesso questo diritto negato è
usato per accusare rom e sinti di essere irregolari sul “nostro” territorio. In
una città del nord, un gruppo di sinti italiani “autoctoni” tre anni fa è stato
sgomberato da un luogo in cui anni prima la stessa amministrazione gli aveva
suggerito di andare. Furono sgomberati perché non avevano i permessi in regola
per sostare in quel luogo. Era
vero, ma non vi era altro luogo nella loro città dove potessero sostare
regolarmente. Cosa avrebbero dovuto fare?
Andare via dalla loro città? Per andare dove? Le autorità scolastiche chiesero
più volte di non mandare via le famiglie di bambini che frequentavano la scuola
fin dalla materna. Di cosa abbiamo paura? Di solito si ha paura di cose che non
si conoscono, e questa mancanza di conoscenza ci porta a diventare
auto-referenziali e quindi ad auto-alimentare le proprie paure. E facendo
questo alteriamo i nostri rapporti con le persone: se mi viene presentata una
persona, non mi viene da pensare se lavora, se paga le tasse o le bollette o se
sfrutta i suoi bambini. Le persone si conoscono dapprima in modo superficiale e
nel tempo il rapporto si approfondisce permettendo anche qualche giudizio che
dovrà comunque essere ben giustificato. Noi invece spesso giudichiamo rom e
sinti per quello che vediamo da lontano. Ci chiediamo perché una madre
elemosini con il proprio bambino senza chiederci dove vada la sera, negando che
staremmo meglio non vedendo e non sapendo. Non ci chiediamo quanti siano i Rom
e i Sinti che non chiedono l’elemosina. Pensiamo che tutte le donne portino
fazzoletti sulla testa e gonne lunghe e di essere bravi per questo ad
individuarle. Senza sapere di chi stiamo parlando, ci chiediamo perché non
vogliano integrarsi senza renderci conto che da questa stessa domanda si
comprende come siamo ciechi davanti a ciò che è minimamente diverso da noi. In
una società aperta, ci si integra facilmente, appena si entra in una rete
sociale e si conoscono le poche necessarie regole di convivenza. Nella mia
città io, che sono nato e ho vissuto molto all’estero, ho fatto fatica ad integrarmi,
e sono italiano, bianco e istruito. Ma ho imparato una cosa preziosa: che in
ogni parte del mondo si incontrano persone che possono farti sentire come a
casa, che nei gesti, negli occhi e nelle parole esprimono qualcosa di familiare
e di intimo. In una società chiusa nel pregiudizio, è facile sentirsi tagliati
fuori, come individui e come gruppo “diverso”. Quando ci si sente “fuori”,
spesso le regole che ogni società produce per la convivenza e la sopravvivenza,
diventano valide solo per il “dentro”. Porsi in ginocchio a chiedere degli
spiccioli può diventare una sfida e il fastidio arrecato diventa la
dimostrazione della forza del proprio spirito di sopravvivenza. Ma queste non
sono giustificazioni: sono spunti di riflessione. I Rom e i Sinti non chiedono
l’elemosina. Fare l’elemosina è un comportamento individuale: l’attribuzione di
comportamenti individuali a gruppi etnici si chiama razzismo.
Davanti a
tutto questo può non risultare rilevante sapere che Rom e Sinti giungono in
origine dall’India, che da lì i flussi migratori sono partiti più di mille anni
fa, che parlano una lingua di derivazione sanscrita, che dai prestiti
linguistici si sono potuti ricostruire i vari flussi e percorsi migratori, che
in Italia sono giunti nell’arco di 500 anni dall’Africa, dalla Grecia e dal
Nord Europa.
Quando saremo
liberi dalle lenti del pregiudizio e vedremo le persone come sono, uomini e
donne con i loro pregi e difetti, solo allora potremo cominciare ad indagare
sulle altrui culture, con il piede felpato del rispetto.
Lorenzo
Monasta
L’intervista
Flussi. Forlani: "Ecco cosa deve cambiare"
Intervista al neo direttore dell’Immigrazione del ministero del
Lavoro.
Roma –
30 agosto 2010 - Migliorare la programmazione dei flussi di ingresso, con quote
che corrispondano finalmente alle esigenze reali di imprese e famiglie, e
creare un sistema efficace di incontro tra domanda e offerta di lavoro, in
Italia o direttamente nei Paesi di origine.Sono gli obiettivi più urgenti della
direzione immigrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali,
guidata da qualche mese da Natale Forlani. “Gli ingredienti per raggiungerli ci
sono già tutti, anche senza modifiche normative, ora bisogna metterli insieme e
farli funzionare“ assicura il neodirettore a Stranieriinitalia.it.
Come
migliorare la programmazione dei flussi?
“Intanto abbiamo dati certi, demografici: da qui al 2020 l’Italia perderà 4
milioni di persone in età lavorativa, che non potranno essere compensati tutti
dai disoccupati italiani, per un problema di scarsa mobilità sociale e
territoriale. Poi bisogna mettere a punto una macchina di rilevazione dei
fabbisogni reali numerici e qualitativi, anche gestendo al meglio le
comunicazioni obbligatorie, che tra le altre cose ci informano con precisione
sui lavoratori che perdono il posto”.
Di
stranieri che hanno perso il posto per la crisi economica ce ne sono tanti
“È vero, e proprio questi lavoratori andrebbero reinseriti in maniera
privilegiata, prima di ricorrere a nuovi ingressi dall’estero. Altrimenti
rischiamo di disperdere un capitale umano e professionale e di alimentare il
sommerso, allargando la platea di persone risposte a lavorare per meno soldi e
con meno diritti, anche a scapito dei regolari”.
È il
ragionamento che finora ha bloccato un nuovo decreto flussi?
“Al momento non servono quote di ingresso generiche, i prossimi flussi
riguarderanno lavoratori qualificati, prima c’è da riassorbire la
disoccupazione di ritorno degli stranieri che sono già in Italia. Intanto
dobbiamo anche stringere accordi con altri Paesi di origine, considerando che i
flussi verso l’Italia stanno cambiando, diminuiscono quelli europei e
aumentano, ad esempio, quelli dall’Asia.
Intanto
però ci sono anche centinaia di migliaia di irregolari tagliati fuori dall’ultima
sanatoria, che riguardava solo i domestici
“Limitare la regolarizzazione ai domestici è stata una scelta politica della
quale prendo atto. Ora noi dobbiamo cercare di monitorare la situazione di chi
ha perso il lavoro e di chiudere in fretta le pratiche dell’ultima
regolarizzazione, superando le criticità che ancora ci sono in alcune
province”.
Oggi chi
ha perso il lavoro ha solo sei mesi per trovarne un altro, poi perde anche il
permesso di soggiorno. Non è una regola troppo rigida?
“In realtà la legge parla di un permessi di ‘almeno’ sei mesi per cercare
lavoro, e su questo si potrebbe intervenire, ma solo a fronte di un quadro
preciso del fenomeno e a determinate condizioni. Mi sembra giusto, ad esempio,
evitare che diventi irregolare chi ha perso il posto ed è coinvolto nelle
politiche attive del lavoro (come interventi di formazione, riqualificazione e
orientamento n.d.r.). Ma non va messo in discussione il principio generale che
può rimanere qui solo chi ha un reddito sufficiente al suo sostentamento”.
Chi può
far incontrare domanda e offerta di lavoro e dedicarsi al reinserimento dei
disoccupati?
“Regioni, provincie, sindacati e associazioni di categoria
attraverso gli enti bilaterali, agenzie per il lavoro, insomma operatori
pubblici e privati autorizzati a questo tipo di interventi. Gli operatori ci
sono, bisogna metterli in rete in maniera efficace. I dati ci dicono che gli
immigrati trovano ancora il posto prevalentemente tramite il passaparola, e
questa può diventare l’anticamera per sommerso e sfruttamento, solo il 30% si
rivolge ai servizi per il lavoro”.
E nel
lavoro domestico? Difficile che una famiglia cerchi una colf attraverso
un’agenzia per il lavoro
“Il lavoro domestico ha una sua specificità, che meriterebbe un discorso
più ampio e soluzioni specifiche. Di certo oggi le cause principali del
sommerso in questo settore sono la complessità della gestione del rapporto e
gli alti costi per le famiglie. Serve allora una rete di servizi, dove per
esempio i patronati potrebbero facilitare l’incontro tra domanda e offerta e
affiancare lavoratori e datori nel rapporto di lavoro, e poi si dovrebbe
intervenire sulla detraibilità delle spese”.
Il “Piano
per l’integrazione” del governo punta molto sulla formazione nei Paesi
d’origine. Non era già prevista dalla Bossi-Fini? Cosa non ha funzionato
finora?
“Considerati investimenti e risultati gli esiti sono stati inadeguati. Qui
servirebbe un intervento normativo, permettendo di operare anche all’estero ai
soggetti autorizzati dalla legge Biagi a far incontrare domanda e offerta. Ma
sopratutto bisogna cambiare l’impostazione della formazione nei Paesi di
origine”.
Come?
“Finora il ragionamento è stato: formo lavoratori all’estero e li inserisco
nelle liste di lavoratori disponibili aspettando che qualche impresa li chiami.
Così non va: le imprese dicano quali posti di lavoro sono disponibili e quindi
si formeranno persone che possono rispondere a quel fabbisogno specifico, che
hanno imparato anche un po’ di italiano e di educazione civica e che, terminata
la formazione, hanno già un posto di lavoro garantito. Diversamente, si
sprecano solo risorse e gli unici a beneficiarne sono i formatori”.
E dopo la
formazione che si fa, si aspetta il decreto flussi per farli arrivare in
Italia?
“Il Piano per l’Integrazione propone di far entrare questi lavoratori
formati all’estero al di fuori delle quote, ma anche farli arrivare attraverso
le quote, con la normativa attuale, non è difficile”.
Considerati
i tempi di risposta degli Sportelli Unici alle domane di famiglie e imprese non
sarà una passeggiata. Quanto può aspettare un’impresa che ha bisogno di
lavoratori?
“I tempi lunghi oggi sono ancora un problema, serve un potenziamento
dell’attività amministrativa. Gli Sportelli Unici, però, non possono essere
caricati di tutte le incombenze del controllo delle domande. Dovrebbero essere
solo un terminale, supportato da una rete di attori come associazioni di
categoria, agenzie del lavoro e centri per l’impiego. Altrimenti il carico di
lavoro diventa ingestibile”.
Elvio Pasca
Giurisprudenza
Coniugi extracomunitari di cittadini comunitari. Cassazione
disapplica di fatto la normativa europea
Articolo di Claudia Moretti
Roma, 2 settembre 2010 - Con
un brutto e contorto ragionamento, la Corte di Cassazione (n.17346 del 23
luglio scorso) disapplica di fatto la direttiva europea che ha disciplinato il
soggiorno dei cittadini comunitari e dei loro congiunti, privilegiando le norme
meno favorevoli contenute nel testo unico sull'immigrazione.
Il caso e' quello di un cittadino extracomunitario coniugato con una nostra
connazionale, il quale non ha ottenuto la carta di soggiorno prevista dalla
legge n. 30/2007, ossia la legge che recepisce la direttiva 2004/38/CE su
citata, in quanto non avrebbe dimostrato il requisito della convivenza. Occorre preliminarmente chiarire che ne' la norma
europea, ne' quella italiana di recepimento, prevedono la necessaria convivenza
del coniuge del cittadino comunitario, anche se il partner e' extracomunitario.
Ciò evidentemente e' in linea con l'evoluzione dei tempi: la
co-residenza non e' essenziale nel legame di coppia tanto meno nel matrimonio.
E' evidente che gli europei non si sono auto-imposti detta limitazione ed e'
questa la ragione dell'assenza del requisito per ottenere il titolo di
soggiorno in questione.
Gli europei, appunto. Ma non gli Italiani. Da noi c'e'
una norma che mira a disincentivare i matrimoni di comodo e che impone, per la
concessione del permesso di soggiorno per coesione familiare (ossia un
ricongiungimento fatto direttamente sul nostro territorio) al coniuge di
cittadino italiano, anche il requisito della convivenza (art. 19 t.u.
Immigrazione).
Detta norma e' temporalmente precedente alla normativa europea e gerarchicamente
inferiore al diritto comunitario. Non v'e' dubbio, dunque, che secondo i
pluriennali e consolidati metodi di raccordo fra leggi discordanti, la
direttiva debba prevalere. La Corte di
Cassazione non ci sta! La norma italiana deve esser salvata. Per far ciò
stravolge alcuni principi assodati sulle fonti del diritto e crea una disparità
evidente fra europei di serie A ed europei di serie B (gli italiani).
L'artificio utilizzato e' questo: si stabilisce che la norma europea si applica
solo dopo che uno ha ottenuto la carta di soggiorno che
essa prevede, prima di allora non si possono invocare diritti nascenti dalla
direttiva o dalla legge che la attua. In
parole tecniche, la concessione della carta diventa “costitutiva” dei diritti previsti dalla legge 30 e non “dichiarativa”
dei diritti che derivano dal
fatto di essere il coniuge di un cittadino europeo. Dunque, se ancora non si e'
ottenuto il titolo europeo per stare col coniuge italiano, il cittadino
extracomunitario dovrà necessariamente convivere con esso, altrimenti non potrà
restare in Italia. Si tratta di un escamotage, neppure troppo
raffinato, per far prevalere il diritto italiano su quello europeo. Ma
ciò è illegittimo, e lo e' per le
stesse previsioni contenute nella direttiva, previsioni omesse e neppure citate
nella sentenza.
In primo luogo, infatti, e' principio consolidato, nella legge italiana in
materia di immigrazione, che a fronte di disposizioni piu' favorevoli per i
cittadini europei (e per i loro congiunti), queste ultime debbano prevalere
sulle piu' sfavorevoli.
La stessa norma la si ritrova pari pari nella direttiva europea, laddove
all'art. 37 ci si preoccupa di far comunque spazio a disposizioni nazionali
piu' favorevoli:
Articolo 37
Disposizioni
nazionali più favorevoli
Le disposizioni della presente direttiva non pregiudicano le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative di diritto interno che siano più
favorevoli ai beneficiari della presente direttiva. In
secondo luogo, la direttiva non disciplina in modo “formalistico” come vorrebbe
la Corte. Tutt'altro. La direttiva attribuisce alle coppie sposate (o unite
civilmente in altro modo), le garanzie e le modalita' di poter circolare
liberamente in Europa. Disciplina il loro ingresso favorendolo, lasciandolo per
i primi tre mesi senza formalita' e assicurandosi che non siano previste norme
capestro per rendere la vita piu' difficile. Il legislatore europeo, infatti,
non si attacca certo al dato formale della avvenuta domanda dell'istante e
conseguente risposta amministrativa nazionale, per negare diritti che
costituiscono la ragion d'essere della direttiva stessa. E' l'amministrazione
che “riconosce” situazioni e diritti conseguenti ad esse. Non viceversa!Si
legga allora cosa prevede all'Articolo 10 - Rilascio della carta di
soggiorno
1. Il diritto di soggiorno dei familiari del cittadino dell'Unione non
aventi la cittadinanza di uno Stato membro è comprovato dal rilascio di un
documento denominato «carta di soggiorno di familiare di un cittadino
dell'Unione», che deve avvenire non oltre i sei mesi successivi alla
presentazione della domanda. Una ricevuta della domanda di una carta di
soggiorno è rilasciata immediatamente. L'uso della
locuzione “il diritto e' comprovato” e non il “diritto e' ottenuto” o
“attribuito”, come vorrebbe la Corte di Cassazione, ne e' la prova testuale. Il
diritto pre-esiste alla sua formalizzazione.
Ma questa e' l'Europa, appunto, non l'Italia.
Foreign Press
By James Blitz
in London, Financial Times
Published: September 6 2010 - More than six out of 10
Britons believe immigration to the UK is spoiling the quality of life,
suggesting that the British are more hostile to immigrants than people in
France, Germany, Spain or Italy, according to a new poll. As a number of
European governments continue to face fierce political disputes over the issue,
a Harris poll for the Financial Times indicates that Britain is the state in
western Europe where antipathy to immigrants is greatest, closely followed by
Spain. The survey, conducted towards the end of last month, shows some 64 per
cent of Britons believe the current level of immigration is making their
country “a worse place to live”. The UK also scored the highest figure of any
country in the survey when respondents were asked whether immigration had an
adverse effect on state education and health systems. Some 63 per cent of
Britons thought immigration levels made the National Health Service worse while
66 per cent said it made the state education system worse. The poll comes in
the wake of remarks by immigration minister Damian Green, who said the UK
needed to look harder at who was qualifying for visas after research showed
more than a fifth of foreign students were still in the country after five
years. In his first major speech since the coalition took office, Mr Green said
on Monday levels of net migration, which rose by a fifth last year to 196,000,
must be brought down and “all routes into the UK” must be studied to ensure
that only the “brightest and best” people came to study or work. The FT survey
reveals that Spaniards are the other national group particularly exercised by
immigration, with concerns focused on employment. Spain’s jobless rate is 20 per cent. Six in 10 Spaniards said immigration
was making their country a worse place to live. Some 67 per cent of Spanish
respondents thought immigration to their country was making it harder to find a
job, a figure well above those of other states. Some 32 per cent of Spaniards
thought they were being paid less as a result of the number of immigrants
entering the job market – again a figure considerably higher than in
other states.
In France, President Nicolas Sarkozy’s government has
been divided over the tough line he has taken towards the Roma population, which is being forcibly removed from the country.
The poll shows that some 48 per cent of French respondents believe immigration
has a negative impact on the economy, against 26 per cent who say it is
positive. Germany came last of any of the states when respondents were asked
whether immigration was bad for the economy. Just 32 per cent of German
respondents took this view, against 52 per cent who felt the same in the UK.
Immigration experts argue that fears are often based
on false perceptions rather than facts. Although 40 per cent of Germans say
immigration is making the country a worse place to live, Turkish emigration to
Germany has declined dramatically since 2000. Other states have seen an outflow
of ethnic minorities as the financial crisis has hit western economies.
Greece struggles to deal with a European
problem
Aug 19th 2010 | Athens- GUARDING their
nation’s frontiers has traditionally been an honourable task for Greeks. These
days they are almost begging for foreign assistance. Greece’s borders have
become the gateway of choice for the vast majority of people hoping to enter
the European Union illegally, and the country is finding it difficult to cope.
Of the 106,200 people detected trying to cross illegally into the European
Union in 2009, almost three-quarters were stopped in Greece (see chart). Early
data for 2010 suggest that, although absolute numbers are falling, Greece’s
burden has risen further, to about 80% of the EU total, up from 50% three years
ago. Compounding the problem is a rule that says undocumented immigrants found
anywhere in the EU must be returned to their country of entry—usually
Greece. Detention centres for irregular immigrants in Greece are small and
understaffed, and there are too few of them. Cash-strapped authorities
encourage detainees to move on to Athens before their claims have been
processed. And on top of the flow of tens of thousands arriving every year is a
stock of an estimated 300,000 illegal immigrants already in the country. The
€80m ($103m) the government spends each year on tackling the problem is far
from adequate, but with austerity in the air more cash is unlikely to be found.
So Brussels is sending in the cavalry. Frontex, a Warsaw-based agency created
in 2004 to manage the EU’s external borders, will open a pilot office in the
Greek port of Piraeus in October. Earlier this month its executive director,
Ilkka Laitinen, went to Athens to finalise the plan with Greece’s home-affairs
minister, Michalis Chrisochoidis. There was much talk of “milestones” and
“adding value”. But there were hints of frustration behind the smiles. Mr
Chrisochoidis welcomed the symbolism of the move but says in practical terms it
will be “a drop in the ocean”. As for Frontex, squeezed by budgetary and
personnel constraints, Mr Laitinen politely describes its job as “a challenge”.
The agency’s annual budget is €88m; that is roughly half the amount the EU
devotes to subsidising rice production. Greece has found itself on the sharp
end of Europe’s illegal-immigration problem largely because its “competitors”
have found ways of stemming the flow. Until 2007 most of the influx was shared
between Greece, Italy and Spain. But bilateral deals, such as Italy’s with
Libya and Spain’s with Senegal and Mauritania, have largely closed down the
western and central Mediterranean routes into the EU. Greek attempts to
negotiate a similar agreement with Turkey have stalled. Recent data show an
overall decline in illegal immigration into the EU. That might bring temporary
respite. But as Europe’s pummelled economies continue their recovery and labour
demand picks up, the figures are likely to start rising again. And although
Greece’s own economic problems make it a less attractive destination for
would-be entrants, most of them plan to move on to the wealthier parts of the
continent once inside the EU. The opening of the odd border-security office
aside, Greece looks likely to remain on the front line of the EU’s
illegal-immigration problem for some time.