Newsletter
periodica d’informazione
(aggiornata
alla data del 15 Settembre 2010)
Ritorno ai
banchi di una scuola sempre più multietnica
700 mila studenti stranieri. Alla prima elementare sono già
l’11%, ma raddoppieranno in 4 anni
Sommario
o
Dipartimento Politiche
Migratorie – Appuntamenti pag. 2
o
Prima pagina- Scuola:
una classe di soli immigrati pag. 2
o
Prima pagina – Un
esercito di baby immigrati bussa alle porte delle elementari pag. 3
o
Rom e Sinti - “Da
Francia discriminazione vergognosa” pag. 4
o
Società –
Immigrazione: pochi rimpatri volontari pag. 5
o
Attualità – Rom
e Sinti: il visibile e l’invisibile
pag. 5
o
Attualità – Le
case ai rom di Triboniano pag. 6
o
Attualità – I
cinesi di Prato che dettano legge sul marchio made in Italy pag. 7
o Foreign
Press – New York Times: “Chinese remake the ‘made in Italy’ fashion
label” pag. 8
A
cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento
Politiche Migratorie
Rassegna
ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL
Tel.
064753292- 4744753- Fax: 064744751
n.
288
Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti
Cremona 1° Ottobre 2010, ore
10.00, sede UIL Viale Trento e Trieste
Convegno Uil e Ital sulla
mediazione culturale
(Guglielmo Loy)
Roma 05 ottobre 2010, ore 14.00
Palazzo Valentini
Convegno su Rom e Sinti:
“Tempo per un riconoscimento legislativo linguistico e culturale”
(Giuseppe Casucci, Angela Scalzo)
Roma, 08 ottobre 2010, Casa
Internazionale delle donne
Workshop Fondazione
Brodolini: “Rapporto Italiano sulla Lotta alle Discriminazioni”
(Guglielmo Loy)
Roma, 13 ottobre 2010, ore 11.00,
via Nazionale, 60
Incontri con controparti
datoriali in materia di immigrazione: incontro con Confesercenti
(Guglielmo Loy, Giuseppe Casucci)
Roma, 14 ottobre 2010, ore 11.30
Via G. Belli
Incontri con controparti
datoriali in materia di immigrazione: incontro con la Confcommercio
(Guglielmo Loy, Giuseppe Casucci)
Roma, 14 ottobre 2010, ore 15.30
Via Mariano Fortuny, 20
Incontri con controparti
datoriali in materia di immigrazione: incontro con la Conf. Italiana
agricoltori
(Guglielmo Loy, Giuseppe Casucci)
In prima pagina
di SARA GRATTOGGI
(http://roma.repubblica.it) Roma, 12
settembre 2010 - Presidi, insegnanti e genitori lo avevano predetto già lo
scorso gennaio. Il tetto del 30 per cento per gli alunni stranieri nelle prime
classi, introdotto dal ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini, sarebbe
stato impossibile da rispettare, soprattutto nei quartieri multietnici delle
grandi città. È successo così che moltissime scuole abbiano chiesto una deroga
agli uffici scolastici regionali. Determinando, nei fatti, una situazione
analoga a quella degli anni scorsi per quanto riguarda la composizione delle
classi. È il caso dell´istituto comprensivo Laparelli di Roma, nato
dall´accorpamento dell´ex scuola elementare Pisacane (già al centro delle
polemiche proprio per l´elevata concentrazione di studenti immigrati, pari
all´ottanta per cento) e della media Pavoni, che domani riprenderà le lezioni
con una classe formata solo da bimbi stranieri. Nella prima B della scuola
elementare, infatti, tutti i 19 alunni saranno di origine non italiana, con una
prevalenza di bambini cinesi e bengalesi. «L´unico italiano iscritto ha chiesto
il nulla osta per il trasferimento - dichiara la preside Flora Longhi - Ma
contiamo di invertire il trend e siamo fiduciosi: ci sono stranieri che si
trasferiscono e lasciano la scuola per tornare nei propri paesi d´origine,
anche se altri immigrati arrivano dal nord Italia». Gina Neri, mamma del
bambino che si è ritirato, tiene però a specificare i motivi della propria
scelta, che nulla hanno a che fare con la composizione multietnica delle
classi. «Avevamo scelto la Pisacane perché ci piaceva l´offerta formativa e
prima dell´iscrizione avevamo parlato a lungo con l´ex preside - racconta Neri
- Ad agosto abbiamo scoperto che la dirigente sarebbe cambiata e siccome non
abbiamo avuto modo di conoscere bene la nuova, pur non dubitando della sua
bravura, abbiamo preferito iscrivere nostro figlio alla Di Donato». E, cioè, in
un´altra famosissima scuola multietnica della Capitale. Su 39 studenti di prima
elementare del Laparelli, solo due a questo punto saranno italiani. Ma i
genitori non temono il melting-pot. «Sarà una ricchezza per mia figlia - spiega
Maddalena Grechi, mamma di una bambina iscritta in prima - e poi quelli che
chiamano "stranieri" nei fatti sono italiani come lei: hanno fatto la
stessa scuola materna, parlano la nostra lingua perfettamente e apprendono
molto più in fretta». Ma il Laparelli non è l´unico istituto romano ad aver
ottenuto una deroga al tetto del 30 per cento. Anche il Daniele Manin e il
Publio Vibo Mariano, per esempio, sforeranno la "quota Gelmini". La
situazione non cambia a Milano, dove ben 48 istituti della provincia
supereranno la percentuale prevista dal ministero. Tra loro, anche le famose
elementari Radice di via Paravia, che nel 2009 non avevano nessun bimbo
italiano iscritto in prima e quest´anno, invece, ne conteranno solo due su
ventuno: appena il 10 per cento.
di MARIA NOVELLA DE LUCA, La
Repubblica , 11 settembre 2010
Nell'anno
scolastico che sta per cominciare saranno circa l'11% di tutti gli iscritti
alla prima elementare. Ma già nel 2015, secondo una stima della Fondazione
Giovanni Agnelli, il loro numero salirà al 17%. Ossia centomila bambini,
immigrati di seconda generazione, che approderanno tutti insieme sui banchi
della scuola primaria. Romeni, albanesi, cinesi, maghrebini, filippini,
indiani, nati qui, nel nostro paese, nuovi italiani tra gli italiani, spesso
ben integrati e bilingui, eppure ancora stranieri, perché senza cittadinanza e
dunque con i diritti a metà. Bimbi e ragazzi made in Italy, con la pelle nera,
gli occhi a mandorla, europei, asiatici, africani, simili e diversi insieme,
figli di quel mini baby-boom dovuto all'immigrazione "residente" che
negli ultimi anni ha fatto risalire il nostro avaro tasso demografico. C'è un
nuovo mondo che bussa alle porte della scuola italiana, la fotografia del Paese
che verrà, multietnico sì ma non ancora multiculturale, come sottolineano da
tempo storici, demografi, insegnanti. Per i bambini immigrati infatti il
percorso di studi sembra già "segnato" e accidentato sul nascere.
Racconta Paolo Mazzoli, dirigente scolastico romano: "Le iscrizioni di
quest'anno confermano che il numero degli alunni immigrati è in continua
crescita, ma in modo disomogeneo tra i quartieri delle città, creando un
impatto che la scuola spesso non riesce a gestire, sia per mancanza di risorse,
ma anche per la mancanza di preparazione dei docenti, oggi a mio parere in
profonda crisi di fronte a questa nuova sfida". Eppure un cambiamento
radicale è alle porte, come dimostra la ricerca della Fondazione Agnelli curata
da Stefano Molina dal titolo "I figli dell'immigrazione nella scuola
italiana". Dove a fronte di flussi migratori in calo, si dimostra che la
quota di alunni stranieri è invece "ancora destinata a crescere almeno per
un decennio". E se quest'anno su 590mila bambini italiani iscritti alla
prima elementare 65mila saranno stranieri (di cui 45.700 nati nel nostro paese)
il grande salto si avrà nel 2015/2016. Tra quattro anni infatti mentre il
numero di baby studenti italiani resterà quasi identico, gli stranieri per cui
si apriranno le porte della scuola primaria saranno 100.500. Un numero
raddoppiato in pochissimi anni. "Questi dati ci dimostrano che la gran
parte dei bambini stranieri che si iscrive nelle nostre scuole - dice Andrea
Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli - è in realtà nata in Italia. Si
tende invece a parlare in modo indifferenziato di immigrati, soffermandosi
soltanto sul problema linguistico, quando la gran parte di questi bambini
l'italiano lo parla benissimo e magari con l'accento della città in cui vive.
Il vero problema è la loro integrazione scolastica. In un certo senso è come
essere tornati alla scuola degli anni Cinquanta, dove la differenza la facevano
la classe e il ceto sociale. Questi ragazzi - aggiunge Gavosto - sono e si
sentono italiani. E hanno diritto alla cittadinanza. A Torino il 30% dei
bambini sotto i 5 anni ormai è costituito da stranieri nati qui: come possiamo
non ritenerli italiani?". In un libro uscito di recente e dal titolo
"La qualità della scuola interculturale" (Erickson) Milena Santerini,
ordinario di Pedagogia Generale all'università Cattolica di Milano, racconta
l'esperienza (virtuosa) di un gruppo di nove scuole ad alta percentuale di
immigrati nel capoluogo lombardo. Spiega Santerini: "Nel mio viaggio
all'interno di queste scuole primarie ho visto che davvero l'integrazione è
possibile, ma servono fondi, strutture, e soprattutto un'idea di inclusione
forte. In Italia sono stati fatti grandi sforzi, ma oggi è come se si stesse
tornando indietro: basta vedere il tentativo di creare scuole soltanto di
stranieri, una vera e propria strategia di segregazione. Il futuro passa
attraverso la concessione della cittadinanza ai bimbi nati qui, e al
coinvolgimento delle famiglie immigrate nel percorso di studio dei figli".
In realtà, come sottolinea Anna Granata, psicologa e ricercatrice di Pedagogia,
"noi spesso immaginiamo i bambini e gli adolescenti immigrati divisi tra
due mondi, in realtà si muovono benissimo tra due culture". "Molti di
loro raccontano di aver scoperto di essere "stranieri" crescendo,
perché mentre la scuola elementare include, le superiori separano.
Così come la
cittadinanza. È quando realizza di non avere i documenti in regola o di non
poter partecipare alla gita di classe all'estero che un giovane, fino a ieri
identico ai suoi coetanei italiani, capisce di essere un po' meno italiano, e
magari un cittadino di serie B". Di minori e di minori immigrati, lo
scrittore Fabio Geda nella sua attività di educatore si è occupato a lungo.
Fino a raccontare nel libro "Nel mare ci sono i coccodrilli", la
storia vera, anzi l'odissea di un adolescente, Enaiatollah Akbari, fuggito
bambino dall'Afghanistan dei talebani e approdato in Italia su un canotto di
disperati. "Oggi Enaiatollah ha 21 anni, e ha deciso che vuole fare
l'avvocato. E se la sua è una storia simbolo, di giovani immigrati con questa
determinazione ne ho incontrati a decine. E spesso
gli insegnanti raccontano - dice Geda - che sono proprio i bambini stranieri i
più attenti e disciplinati in classe, pur arrivando da famiglie dove non si
parla l'italiano, ma dove l'istruzione è considerata il salto verso un futuro
migliore. Oggi però ci troviamo di fronte ad una scuola che non riesce a
contenere nessun tipo di diversità, né la sfida multietnica, ma nemmeno
l'handicap o il disagio sociale...".
Bruxelles,
14 set. (Adnkronos) - La discriminazione contro i Rom da parte della Francia,
contro cui la Commissione europea avvierà una procedura di infrazione, ''è una vergogna''. A denunciarlo è stata la vice presidente della Commissione
europea responsabile per la Giustizia e i diritti fondamentali, Viviane Reding. Nell'esprimere il "suo profondo
disappunto per l'aperta contraddizione tra le assicurazioni politiche date da due
ministri francesi e circolare amministrativa del governo" di Parigi, in
cui vengono esplicitamente citati i Rom come obiettivo dei provvedimenti di
espulsione, la Reding ha sottolineato come questa "non sia un reato minore
in una situazione di tale importanza".
"La mia pazienza sta
finendo - ha tuonato la Reding - quando è troppo è troppo,
nessun Paese piccolo o grande che sia può avere un trattamento speciale quando
sono in gioco i diritti fondamentali". "Dopo 11 anni di esperienza
nella Commissione - ha aggiunto - vado oltre: questa è una vergogna. La
discriminazione sulla base dell'origine etnica o della razza non ha posto in
Europa. E' incompatibile con i valori sui quali è fondata l'Ue".
La Reding ha fatto sapere che
"raccomanderà al presidente della Commissione europea Jose Manuel Durao
Barroso di prendere una decisione rapidamente, entro due
settimane", sulla procedura d'infrazione per
"l'applicazione discriminatoria della direttiva sulla libertà di movimento
e per la mancata trasposizione delle garanzie sostanziali e procedurali in base
alla direttiva". Ovviamente, ha sottolineato la vice presidente della
Commissione, "darò alle autorità francesi il diritto di presentare
commenti sui nuovi sviluppi nei prossimi giorni".
Dal canto suo la Francia si è detta “stupefatta” per l'annuncio
dell'apertura di una procedura d'infrazione da parte della Commissione.
''Abbiamo appreso con stupore - ha dichiarato il portavoce del ministero degli
Esteri di Parigi Bernard Valero - le affermazioni di Viviane Reding. Non
riteniamo che questo genere di dichiarazioni miglioreranno il destino e la
situazione dei rom, che sono al cuore delle nostre preoccupazioni''. ''Non è il
momento di controversie - ha aggiunto il portavoce - né per dichiarazioni di
questo tipo. E' il momento di lavorare a favore della popolazione rom''.
Intanto di ''reazione
troppo tardiva'' da parte della Ue parla il leader dell'Alleanza
progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) al Parlamento europeo,
Martin Schulz ricordando che la settimana scorsa a Streasburgo la Reding
''aveva difeso fortemente il governo francese, quando per la grande maggioranza
dei deputati al Parlamento europeo quello che lei adesso sta riconoscendo era
molto chiaro''. Pur accogliendo positivamente ''il cambio di posizione'' da
parte della Reding, il leader di S&D sottolinea tuttavia che ''molte
questioni restano aperte su come la Commissione ha gestito questo caso''.
Roma, 13
settembre 2010 - In un anno sono tornati in patria in 228. Meno di uno al
giorno. Altri venti hanno lasciato l'Italia nelle ultime settimane e quaranta
lo faranno nelle prossime. Sono cittadini extracomunitari (soprattutto
marocchini), la maggior parte ha tra 20 e 40 anni ed è titolare di una qualche
forma di protezione internazionale. Per ogni singolo "ritorno" sono
stati spesi, in media, circa 5.800 euro. È il bilancio, su scala nazionale, dei
migranti che hanno fatto ricorso nell'ultimo anno al rimpatrio volontario
assistito (Rva). Stranieri che, una volta arrivati in Italia, hanno deciso poi
di chiudere la loro esperienza nel nostro paese facendosi aiutare nel processo
di ritorno dal punto di vista logistico ed economico. A gestire l'iter è
soprattutto l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Che, sotto
la responsabilità del ministero del l'Interno, si occupa di seguire lo
straniero in questo percorso dalla prima (l'approccio in Italia) al l'ultima
fase (reintegrazione nel paese d'origine).
Una modalità che non ha nulla a che fare con i rimpatri obbligatori. Anche se
la parola, rimpatrio, compare nel nome del Fondo europeo che finanzia questo
tipo di attività (6,7 milioni di euro quest'anno per l'Italia, quasi il doppio
nel 2011). «Noi però preferiamo chiamarlo ritorno – precisa Carla
Olivieri, responsabile del progetto Nirva, la rete che sta mettendo insieme le
organizzazioni che promuovono questa possibilità –. Qui lavoriamo con
migranti che decidono in piena autonomia di tornare a casa».
All'immgrato che decide di riorganizzare la vita nel suo paese, l'Oim
garantisce una serie di cose: «Il biglietto dell'aereo pagato, 400 euro in
contanti al momento della partenza e fino a tremila euro di finanziamento per
aprire un'attività nel paese d'origine».
Nella prima fase del progetto – ribattezzato Partir – la Campania è
stata la regione da dove sono ripartiti più migranti (93). Con una
particolarità: quasi tutti (92) vivevano nel campo di San Nicola Varco
(Salerno). «Si trattava di marocchini ridotti in stato di semi-schiavitù
– ricorda Flavio di Giacomo dell'Organizzazione internazionale per le
migrazioni –. Persone che avevano pagato 8mila euro dietro la promessa di
lavoro in Italia, entrate con visto regolare, ma che poi non erano mai state
assunte». La crisi economica, che secondo l'Ocse sta colpendo di più i
lavoratori stranieri, a sentire Di Giacomo non ha influito sulla domanda di
rimpatrio nemmeno quest'anno. «Nel 2010 prevediamo di reinserire nei loro paesi
altre duecento persone – dice –. Cifre in linea con gli anni precedenti».
La questione è un'altra: i numeri complessivi. «I rimpatri volontari sono
obiettivamente pochi –, continua di Giacomo – e la spiegazione è
semplice: in Italia possono fare ricorso a questo strumento soltanto gli
extracomunitari che risiedono qui legalmente». L'introduzione del reato di
clandestinità la scorsa estate obbliga quelli irregolari a passare attraverso
altre tappe prima di arrivare al definitivo allontanamento. «Continuiamo a
chiedere al governo di cancellare questa distinzione, tra regolari e non. Del
resto è la stessa Unione europea che lo impone con una direttiva del 2008».
Quella direttiva (si veda Il Sole 24 Ore del Lunedì del 30 agosto) che l'Italia
deve recepire entro il 24 dicembre .
«Più della metà delle richieste di Rva arriva da stranieri irregolari –
continua Di Giacomo –. Ma noi siamo costretti a non aiutarli. Ogni caso
che riceviamo, infatti, viene esaminato dal Viminale che, legge alla mano, di
fronte a un cittadino senza permesso di soggiorno è obbligato a denunciare per
clandestinità proprio quello straniero che chiede di tornare a casa». Il tutto
con costi economici (e sociali) rilevanti. Secondo Christopher Hein, direttore
del Consiglio italiano per i rifugiati, «il rimpatrio forzato costa fino a
cinque volte di più rispetto a quello volontario». Su questo tasto preme anche
Di Giacomo: «Attraverso il ritorno volontario si evitano le spese di
mantenimento dello straniero nel Cie, gli alti costi di viaggio, l'impiego
della scorta per consegnare l'irregolare alle autorità del suo paese. Chi
decide di farlo volontariamente, poi, ha la possibilità di riprogettare la sua
vita perché c'è qualcuno a dargli una mano».
Numeri ridotti
IL
BILANCIO 228
Numero totale dei rimpatri assistiti effettuati da giugno 2009 a marzo 2010
dall'Oim: 177 persone e 18 nuclei familiari
LE DESTINAZIONI 71
Sono 71 i marocchini che hanno fatto ricorso a questa modalità di rientro.
Seguiti da nigeriani (18), sudanesi (13) e iracheni (11)
TRA 20 E 40 ANNI 134
Il gruppo più numeroso ha un'età tra 20 e 40 anni. Seguito da 67 cittadini
stranieri con più di quarant'anni e 27 con meno di venti
DALLA CAMPANIA 93
Il numero dei migranti tornati in patria lasciando la Campania. Di questi 92
arrivano dai campi di San Nicola Varco (Salerno).
Milano,
13 settembre 2010 - «Stiamo eseguendo il progetto approvato dal Viminale e
predisposto dal Comune». Il prefetto e commissario straordinario per
l’emergenza rom Gian Valerio Lombardi sgombra il campo dagli equivoci e dal
rimpallo di responsabilità di questi giorni sul piano per la chiusura dei campi
rom. Più precisamente l’assegnazione di 25 case Aler ai nomadi sgomberati dal
campo di via Triboniano ha suscitato più di una polemica tra gli esponenti della
Lega, in primis il ministro dell’Interno Roberto Maroni al presidente del
consiglio regionale Davide Boni, e del Pdl, dopo l’attacco lanciato nei giorni
scorsi dall’assessore azzurro (ex An) Romano La Russa. Nel mirino gli alloggi
ai rom - «una beffa» nei confronti delle 18mila famiglie milanesi che da tempo
aspettano una casa - ai due estremi Viminale e Comune. Nessuno che voglia
assumersi la responsabilità del piano.
Due giorni fa, infatti, era stato lo stesso Maroni a prendere le distanze dal
programma di assegnazione degli alloggi, chiarendo per bocca di Boni che «Il
Viminale ha finanziato il piano per la chiusura dei campi. Il Comune ha fatto
una scelta autonoma, differenziando gli interventi e prevedendo anche
l’accoglienza negli alloggi, ma non sono queste le indicazioni del ministero.
Se il sindaco lo vuole fare chiarisca e che è una scelta autonoma, se questo
fraintendimento dovesse continuare, Maroni mi ha fatto sapere che potrebbe
esserci anche il rischio di un non finanziamento». Il commissario
straordinario, però, ribadendo la corresponsabilità del progetto, ha assicurato
che il finanziamento, del valore di 13 milioni di euro di cui 4 destinati
all’assegnazione delle case, non è in discussione.
Nessun fraintendimento, minaccia sventata: Lombardi ha spiegato che nel piano
di chiusura dei campi, che dovrebbe chiudersi in tempi brevi e a ottobre per il
Triboniano, «si inseriscono anche le forme di sostegno per l’accompagnamento
abitativo di alcune famiglie che dovranno lasciare gli accampamenti». Su 250
nomadi che vivono in Triboniano circa un centinaio saranno seguiti
nell’assegnazione di alloggi Aler, alcuni torneranno nei loro paesi, altri
verranno aiutati a prendere case in affitto. «Non c’è nulla di nuovo - ha
ribadito Lombardi - stiamo eseguendo progetti resi pubblici, approvati da me
come commissario e predisposti dal Comune che prevedono il superamento dei
campi nomadi. Per questo noi cerchiamo soluzioni che facilitino il percorso e
rendano più gestibile il futuro, visto che un allontanamento tout court sarebbe
possibile ma potrebbe creare problemi successivi. Ciò che facciamo è rispettoso
delle leggi - ha ribadito - e non ci sono né preferenze né percorsi facilitati
per nessuno».
I
cinesi rifanno il marchio della moda "Made in Italy": hanno
trasformato Prato in una capitale manifatturiera di fascia bassa, indebolendo
la capacità dell'Italia di commercializzare i propri prodotti esclusivamente
come capi d'alta gamma. E' quanto scrive il New York Times, in un reportage sul
caso Prato pubblicato oggi in prima pagina e in apertura del suo sito web.
L'ampio servizio di Rachel Donadio punta i riflettori su un fenomeno che
alimenta risentimento nella cittadina toscana e ha visto di recente un aumento
dei controlli della polizia nelle imprese degli immigrati cinesi.
Prato «ospita
oggi la più grande concentrazione di cinesi in Europa – alcuni sono
legali, molti di più non lo sono», scrive il Nyt. I lavoratori cinesi «lavorano
giorno e notte in 3.200 imprese fabbricando vestiti, scarpe e accessori di
fascia bassa, spesso con materiali importati dalla Cina, per venderli a metà
prezzo a dettaglianti di fascia bassa nel mondo intero». Ciò è stato favorito
dal fatto che in Italia ci sono «istituzioni deboli e alta tolleranza per chi
infrange le regole», osserva il quotidiano statunitense. Così i cinesi hanno
offuscato la distinzione tra "Made in China" e "Made in
Italy". Ma quello che più irrita gli italiani è che i cinesi «li battono
al loro stesso gioco, l'evasione fiscale e i modi brillanti per navigare
attraverso la complessa burocrazia italiana, e hanno creato un nuovo fiorente
settore, anche se in gran parte sommerso, mentre molte aziende pratesi non ce
la fanno». E' l'ascesa del "pronto moda". I cinesi di Prato mandano
in Cina, secondo la Banca d'Italia, 1,5 milioni di dollari al giorno, in gran
parte proveniente dal settore del tessile e dell'abbigliamento. Utili di quelle
dimensioni – si legge - non compaiono nelle dichiarazioni fiscali.
Secondo alcuni funzionari locali, i cinesi preferiscono rimpatriare gli utili
invece di investirli in loco. Le autorità – continua il quotidiano -
dicono anche che la criminalità organizzata cinese e probabilmente italiana è
in aumento, non solo per quanto riguarda le importazioni tessili illegali, ma
anche il traffico di persone, le scommesse e il riciclaggio. «Il resto
dell'Italia guarda con attenzione» quello che succede a Prato, nota il Nyt.
Le tensioni sono aumentate: questa primavera le autorità hanno intensificato le
incursioni nei laboratori che usano manodopera illegale, in giugno sono state
controllate 100 aziende e arrestate 24 persone. Il distretto di Prato sarà
sull'agenda del Primo Ministro cinese Wen Jiabao, quando visiterà Roma in
ottobre. Nel settore dell'abbigliamento, il numero di imprese italiane
registrate a Prato si è dimezzato dal 2001 ora sono poco meno di 3.000. Duecento
in meno di quelle di proprietà di cinesi. Prato, che un tempo era un importante
produttore ed esportatore di tessuti, ora rappresenta il 27% delle importazioni
tessili italiane dalla Cina. Su una popolazione totale di 187mila persone,
Prato conta 11.500 immigrati cinesi legali, ma secondo le stime la città ha
altri 25mila immigrati clandestini, in maggioranza cinesi. Il cuore del
"pronto moda" è nell'area industriale di Macrolotto, piena di
grossisti cinesi. Rivenditori al dettaglio provenienti da tutta Europa
riempiono i furgoni di abbigliamento "Made in Italy" per rivenderlo
nel loro paese con un forte margine di guadagno. «Comprano in quantità
relativamente piccole approfittando delle frontiere fluide dell'Unione europea
e la maggioranza di loro evita di pagare dazi d'importazione». Tra le imprese
che lavorano a Prato il Nyt cita la Luma, fondata nel 1998, che produce
"on demand": il titolare, Li Zhang said, afferma di avere esportato
vestiti in 30 paesi, compresi Cina, Messico, Venezuela, Giordania e Libano. Ha
venduto I suoi prodotti a Piazza Italia e a grossisti che hanno poi venduto a Zara,
Mango, Top Shop e Guess. Nel 2009, per la prima volta nel dopoguerra Prato ha
eletto un sindaco di destra, Roberto Cenni. La sua campagna, nota il quotidiano,
si è basata sulle paure dell'invasione cinese. Il sindaco ha intensificato i
raid verso le imprese cinesi. Nella prima metà di
quest'anno, le autorità hanno fatto blitz in 154 imprese di proprietà cinese.
Vari funzionari dell'ufficio immigrazione della polizia di Prato
sono stato arrestati con l'accusa di avere preso tangenti in cambio di permessi
di soggiorno. Secondo Andrea Frattani, assessore al welfare della precedente
amministrazione di centrosinistra, a Prato si sta assistendo a una "precisa
strategia" del governo cinese di creare un punto d'appoggio economico in
Europa. Alla domanda se sia così, l'ambasciatore cinese in Italia, Ding Wei, ha
risposto di avere inviato dei consulenti a indagare e che la questione di Prato
non dovrebbe avere impatto sulla cooperazione tra i due paesi.
Leggi l’articolo sul New York Times: http://www.nytimes.com/2010/09/13/world/europe/13prato.html?scp=1&sq=prato&st=cse
Foreign
Press
Nadia Shira Cohen for The New York Times
PRATO, Italy 12 settembre 2010 — Over the years,
Italy learned the difficult lesson that it could no longer
compete with China on price. And so, its business class dreamed, Italy
would sell quality, not quantity. For centuries, this walled medieval city just
outside of Florence has produced some of the world’s finest fabrics, becoming a
powerhouse for “Made in Italy” chic.
And then, China came here.
Chinese laborers, first a few immigrants, then tens of
thousands, began settling in Prato in the late 1980s. They transformed the
textile hub into a low-end garment manufacturing capital — enriching
many, stoking resentment and prompting recent crackdowns that in turn have
brought cries of bigotry and hypocrisy. The city is now home to the largest
concentration of Chinese in Europe — some legal, many more not. Here in
the heart of Tuscany, Chinese laborers work round the clock in some 3,200
businesses making low-end clothes, shoes and accessories, often with materials
imported from China, for sale at midprice and low-end retailers worldwide. It
is a “Made in Italy” problem: Enabled by Italy’s weak institutions and high
tolerance for rule-bending, the Chinese have blurred the line between “Made in
China” and “Made in Italy,” undermining Italy’s cachet and ability to market
its goods exclusively as high end. Part of the resentment is cultural: The
city’s classic Italian feel is giving way to that of a Chinatown, with signs in
Italian and Chinese, and groceries that sell food imported from China.
But what seems to gall some Italians most is that the
Chinese are beating them at their own game — tax evasion and brilliant
ways of navigating Italy’s notoriously complex bureaucracy — and have
created a thriving, if largely underground, new sector while many Prato
businesses have gone under. The result is a toxic combination of residual fears
about immigration and the economy. “This could be the future of Italy,” said Edoardo
Nesi, the culture commissioner of Prato Province. “Italy should pay attention
to the risks.”
The situation has steadily grown beyond the control of
state tax and immigration authorities. According to the Bank of Italy, Chinese
individuals in Prato channel an estimated $1.5 million a day to China, mainly
earnings from the garment and textile trade. Profits of that magnitude are not
showing up in tax records, and some local officials say the Chinese prefer to
repatriate their profits rather than invest locally. The authorities also say
that Chinese and probably Italian organized crime is on the rise, involving not
only illegal fabric imports, but also human trafficking, prostitution, gambling
and money laundering. The rest of Italy is watching closely. “Lots of
businesses from Emilia Romagna, Puglia and the Veneto say, ‘We don’t want to
wind up like Prato,’ ” said Silvia Pieraccini, the author of “The Chinese
Siege,” a book about the rise of the “pronto moda” or “fast fashion” economy.
Tensions have been running high since the Italian authorities stepped up raids
this spring on workshops that use illegal labor, and grew even more when
Italian prosecutors arrested 24 people and investigated 100 businesses in the
Prato area in late June. The charges included money laundering, prostitution,
counterfeiting and classifying foreign-made products as “Made in Italy.” Yet
many Chinese in Prato are offended at the idea that they have ruined the city.
Instead, some argue, they have helped rescue Prato from total economic
irrelevance, another way of saying that if the Italian state fails to innovate
and modernize the economy, somebody else just might. “If the Chinese hadn’t
gone to Prato, would there be pronto moda?” asked Matteo Wong, 30, who was born
in China and raised in Prato and runs a consulting office for Chinese
immigrants. “Did the Chinese take jobs away from Italians? If anything, they
brought lots of jobs to Italians.” In recent months, Prato has become a
diplomatic point of contention. Italian officials say the Chinese government
has not done enough so far to address the issue of illegal immigrants, and they
are seeking a bilateral accord with China to identify and deport them. Some
Prato residents suspect that the flood of immigrants is part of a strategy by
Beijing to exploit the Italian market, though the Chinese government does not
generally use illegal migrants to carry out its overseas development plans.
Italian officials say Prato is expected to be on the agenda when Prime Minister
Wen Jiabao of China visits Rome in October.