21 settembre 2010

Lezione svedese: l'immigrazione è il problema
il Giornale, 21-09-2010
Giordano Bruno Guerri
Non ha senso lanciare anatemi contro chi sceglie gli unici partiti disposti a dare delle risposte alla paura di vedere sconvolto il proprio mondo. Un afflusso troppo numeroso di stranieri produce questo effetto. Ed è molto pericoloso
In natura qualsiasi organismo, raggiunto da corpi estranei, cerca o di integrarli o di espellerli. Succede anche in quei grandi, multiformi organismi che sono i popoli. Ogni popolo può, e spesso è ben disposto, ad accettare individui, abitudini, comportamenti appartenenti ad altri popoli, finché non se ne sente attaccato o addirittura danneggiato.
Accade però che gli Stati siano organismi diversi dal popolo che li abita. Ordinati da complessi sistemi legislativi, da accordi internazionali, dalle mutevoli necessità della politica, il loro comportamento difficilmente riesce a interpretare in toto l'anima e i bisogni del popolo. Ciò è tanto più vero per i governi, espressione della maggioranza - ma non della totalità - degli elettori.
Aggiungiamo che, di regola, tutto ciò è un bene, perché i popoli non rappresentano la saggezza incarnata, né hanno sempre ragione. Soggetti a emozioni e umori, privi della preparazione tecnico-strategica necessaria per affrontare certi problemi, i popoli possono prendere facilmente atteggiamenti o decisioni sbagliate, se abbandonati a una sorta di democrazia plebiscitaria o populista.   Basta  pensare   -l'esempio è fulminante - a quale enorme errore venne commesso nel referendum che tanti anni fa impedì all'Italia di disporre di energia nucleare: sottoposti ugualmente all'ipotetico pericolo di radiazioni dalle vicine centrali straniere, siamo stati costretti a comprare energia proprio da quei Paesi che le centrali le hanno, e infine arriveremo con grande ritardo a costruirle anche noi.
Tutto ciò serve a introdurre un discorso delicato, delicatissimo, perché può essere frainteso, spesso in malafede, attirando su chi lo fa l'accusa infamante di razzismo. Sto, ovviamente, parlando della Svezia e degli svedesi, che nelle elezioni dell'altro giorno hanno mandato in Parlamento - per la prima volta - i "Democratici di Svezia" (Sd) di Jimmie Akesson: con il 5,7% dei voti sono diventati una forza determinante nella politica di quel Paese.
La Svezia aveva già sorpreso l'opinione pubblica internazionale, quattro anni fa, mandando a casa, dopo ottant'anni, quei socialdemocratici creatori di un ipotetico paradiso in terra che assicurava una protezione del cittadino «dalla culla alla tomba». Paradiso ipotetico, se si pensa che la Svezia ha una percentuale di suicidi fra le più alte del mondo, eppure di certo confortevole, se si pensa all' assistenza sanitaria, alle politiche scolastiche e della famiglia. Ma i socialdemocratici, nei loro sforzi di portare tutti -proprio tutti - in paradiso, non hanno tenuto abbastanza conto del fatto che anche gli svedesi sono un organismo che dispone di corpi e di anticorpi.
I socialdemocratici persero, quattro anni fa, per la loro eccessiva apertura all'Unio¬ne europea (nel 2003 un referendum respinse l'ingresso nell'euro), e la loro apertura -evidentemente eccessiva - all' immigrazione. Più rigido verso l'Unione Europea, il governo di centrodestra guidato da Frederik Reinfeldt non lo è stato abbastanza rispetto all' immigrazione, visto che oggi il 14 per cento della popolazione svedese è composto da immigrati, in buona parte extracomunitari islamici.
E sono scattati gli anticorpi, ovvero l'estrema destra di fimmie Akesson, ovvero un giovanottone in giacca e cravatta -obbligatoria nel partito - che ha ripulito i suoi non con la giacca e la cravatta ma soffocando (almeno all'apparenza) la componente apertamente razzista del Sd. Il futuro ci dirà se ci è riuscito. Di certo, quanto è avvenuto in Svezia è una lezione interessante per tutti gli altri Paesi europei, in special modo per quelli guidati dal centrodestra. I quali, se adottano una politica troppo tollerante verso l'immigrazione, regalano all' estremismo spazi che posso diventare anche molto vasti. In Italia è già successo anni fa (con il centrosinistra) riguardo alla Lega. Per questo in molti Paesi si sta correndo ai ripari, in Danimarca, per esempio. In Francia Sarkozy in persona si è assunto il compito non facile applicare una politica rigida ai rom, per non far risorgere il lepenismo. In Spagna persino Zapatero, zitto zitto, sta procedendo all' espulsione di immigrati irregolari o nei guai con la legge.
«Tutti gli immigrati non sono dei criminali, certo, ma c'è una connessione», ha detto Akesson, sottolineando come le politiche in merito a immigrazione e criminalità siano «ciò che ci differenzia dagli altri partiti». Un'argomentazione certamente sgradevole, ma non quanto le statistiche che lo supportano.
Infine, una politica rigorosa Stato per Stato, da sola non basta. Espulsi da un posto, gli ospiti sgraditi approderanno in un altro. Occorre una vera concertazione europea, anche con un aiuto concreto, affinché i Paesi che adesso producono emigranti possano produrre ricchezza.



Nella città più xenofoba di Svezia Il sogno dell'integrazione è fallito

A Södertälje uno su due è immigrato. Qui Akesson ha sfiorato il 10%. Nella patria di Borg e del gigante farmaceutico Astra-Zeneca, vivono bosniaci, afgani e iracheni: "Vincono loro ma hanno bisogno di noi" 
la Repubblica, 21-09-2010
ANDREA  BONANNI
SÖDERTÄLJE - "Non è vero che abbiamo sbagliato. Non è vero che il nostro modello è fallito. Degli immigrati abbiamo bisogno ora, e avremo ancora più bisogno in futuro. Il problema è che il sistema si è inceppato per l'eccessivo sovraccarico. Dobbiamo solo trovare il modo di farlo funzionare di nuovo". Nel palazzo di vetro del comune, Anders Lago, sindaco socialdemocratico di Södertälje, cerca disperatamente di negare che la Svezia sia di fronte a quella che il quotidiano liberale Dagens Nyheter definisce "La fine di un'epoca". Le elezioni hanno segnato il tracollo dei socialdemocratici che registrano il peggior risultato elettorale dal 1914 e l'affermazione di un'estrema destra xenofoba che per la prima volta entra in parlamento con un ruolo determinante. Dopo l'Italia, dopo l'Olanda, dopo il Belgio e l'Ungheria, anche la Svezia, patria dello stato sociale, delle politiche di asilo e della civiltà eretta a sistema di governo scopre di non essere immune dal virus del populismo anti-islamico e anti-immigrati.
A livello nazionale l'estrema destra dei Democratici svedesi ha raggiunto il 5,6 per cento. Ma qui a Södertälje, insieme ad un altro piccolo partito ancora più razzista, gli xenofobi superano il dieci per cento. In questa gradevole cittadina di centomila abitanti a quaranta chilometri da Stoccolma, patria di Bjorn Borg, della Scania e del gigante farmaceutico Astra-Zeneca, i cittadini di origine non svedese rappresentano il 44% della popolazione.
La composizione etnica di Södertälje ripercorre i mali del mondo, e la disperata ambizione svedese di potervisi opporre. "La prima ondata di immigrati era di origine turca e siriana, quando quei Paesi erano in preda alla dittatura - spiega il sindaco - Poi, ai tempi della guerra nei Balcani e della pulizia etnica, sono arrivati i bosniaci. Quindi è stata la volta dei profughi di guerra iracheni. Nell'ultimo anno sono arrivati altri ottomila rifugiati dall'Iraq, dall'Afghanistan, dalla Somalia. Integrarli diventa sempre più difficile".
In Svezia gli stranieri rappresentano il 14% della popolazione, record europeo. Ma il Paese praticamente non ha immigrazione economica. La stragrande maggioranza di chi arriva qui lo fa chiedendo asilo politico per sfuggire da una guerra o da una dittatura. E riceve dallo Stato un sussidio, un alloggio, e aiuti di vario genere per far fronte alle necessità più importanti. Un onere che molti elettori, nonostante l'economia continui a crescere, considerano ormai eccessivo.
"Il problema è che per i rifugiati integrarsi, trovare un lavoro, è un processo lento e difficile - spiega Anders Lago - mediamente una donna ci mette dieci anni, un uomo circa sette. In queste condizioni, è chiaro che si determinano situazioni socialmente esplosive". Fino a ieri Södertälje era considerata un modello di integrazione. Lago era perfino stato invitato a parlare davanti al Congresso americano per spiegare "la via svedese" alla società multietnica. Ora però l'esplodere delle formazioni xenofobe che hanno triplicato i loro voti in quattro anni dimostra che questo modello non funziona più.
Jimmie Akesson, il leader dei Democratici svedesi, è un brillante trentenne con la faccia da ragazzino che ha saputo dare un'immagine per bene a un partito che ancora pochi anni fa sfilava inalberando il saluto nazista. La scalata al successo è cominciando conquistando le assemblee parrocchiali della Chiesa luterana, diventata agli occhi di molti l'ultimo baluardo di una identità nazionale travolta dalla globalizzazione. Ed è proseguita con una politica soft, fatta di sorrisi e di apparente ragionevolezza: la stessa ricetta con cui, quattro anni fa, il leader dei conservatori Fredrick Reinfeldt ha sottratto la maggioranza ad un partito socialdemocratico vecchio e logorato da una lunga permanenza al potere. Il risultato è che oggi Akeson ha rubato voti in egual misura ai conservatori e ai socialdemocratici. "Il ritratto dell'elettore tipo di Akeson - dice Annika Ström Melin, editorialista del Dagens Nyheter - è abbastanza preciso: giovane, maschio, impiegato in lavori manuali, residente nel Sud del Paese dove la pressione degli stranieri è più forte. Molta di questa gente fino alle ultime elezioni votava socialdemocratico. Oggi ha scoperto la paura dell'altro".
Ma il problema dell'immigrazione in Svezia è più complesso di quanto possa apparire a prima vista. "L'estrema destra ha agitato lo spauracchio della criminalità - spiega il sindaco di Södertälje - Ma per esempio da noi non sono i rifugiati a compiere crimini, semmai i figli o i nipoti degli immigrati di trenta, quarant'anni fa, che non sono riusciti a integrarsi e si sono progressivamente auto-ghettizzati. In compenso oggi noi non saremmo in grado di andare avanti senza gli stranieri. Negli stabilimenti di Scania, la metà della manodopera è composta da immigrati. E le ultime ondate hanno un livello culturale molto elevato. Il quaranta per cento dei nuovi rifugiati ha ricevuto una educazione accademica: sono mediamente più colti dei giovani svedesi. Di questa gente non possiamo fare a meno. La soluzione non è rimandarli indietro, ma integrarli più rapidamente. Se la loro presenza sta mettendo in pericolo il miracolo svedese, senza di loro questo miracolo non esisterebbe proprio".



LA SINDROME DI STOCCOLMA

Corriere Della Sera, 21-09-2010
Maurizio Ferrera

Dopo aver investito molti Paesi dell ’ Europa continent a le, l’onda xenofoba ha raggiunto il cuore della Scandinavia. Nelle elezioni di domenica, i «democratici svedesi» (formazione di estrema destra) hanno ottenuto quasi il 6% dei voti. Una doccia fredda per il leader moderato Frederick Reinfeldt, una sconfitta di proporzioni storiche per i socialdemocratici.
La portata di queste elezioni oltrepassa i confini svedesi. Non si tratta solo di un piccolo terremoto politico, ma della crisi di un intero «modello sociale», per molti aspetti unico al mondo. Un modello capace di combinare in modo virtuoso crescita economica e welfare, difesa delle tradizioni nazionali e apertura verso l’esterno.
L’economia svedese è fra le più prospere del pianeta. Mercato e capitalismo non sono mai stati nemici da abbattere, ma strumenti da addomesticare per produrre ricchezza, senza eccessive sperequazioni. Lo Stato sociale è generoso e inclusivo. Costa caro, ma funziona bene. Impregnato sin dai suoi esordi di etica protestante, il welfare è diventato un elemento centrale dell’identità svedese: è considerato la «casa di tutto il popolo», la parola «imposte» vuol dire anche «tesoro comune».
Il principale artefice del modello è stato il partito socialdemocratico, pioniere di un riformismo ambizioso ma pragmatico e conciliante. Nei cortei del Primo maggio, i militanti del partito hanno sempre sfilato con la bandiera rossa in una mano e quella del Regno di Svezia nell’altra: solidarietà fra i lavoratori di tutto il mondo ma anche rispetto della comunità e identità nazionale. Che cosa è andato storto?
La crisi non è di natura economica: il circolo virtuoso fra crescita e welfare funziona ancora, la Svezia resta la prima della classe in Europa. A scardinare il modello è stata soprattutto l’immigrazione. A torto o a ragione, nell’ultimo decennio si è diffusa la paura di un assalto alla casa e al tesoro comuni da parte di persone «diverse» in termini di cultura, costumi, etica civica. Oggi un terzo della popolazione svedese è costituito da immigrati di prima o seconda generazione. Molti elettori accusano i socialdemocratici di aver spalancato le porte agli stranieri e il partito non è riuscito ad aggiornare il proprio programma al nuovo clima. Il cittadino medio crede ancora al binomio «crescita e welfare», ma non si fida più della combinazione «comunità e apertura». Se deve scegliere, opta per la chiusura, per la difesa del territorio e dei diritti dei nativi. Il nuovo partito dei «democratici svedesi» ha sobillato e cavalcato questi umori ed è ora l’ago della bilancia nel Parlamento di Stoccolma.
I governi e i partiti politici europei (soprattutto quelli di ispirazione socialdemocratica) farebbero bene a riflettere seriamente sui fattori che hanno prodotto la sindrome di Stoccolma: flussi immigratori troppo intensi e senza filtri, la mancata integrazione degli stranieri (in particolare quelli di seconda generazione), la formazione di enormi ghetti islamici alla periferia delle metropoli, i problemi di sicurezza pubblica. Un progetto sistematico e coerente di rilancio del binomio «comunità e apertura» in chiave liberaldemocratica ed europeista non è stato ancora elaborato, da nessuna delle principali famiglie politiche del continente. Ma sarebbe lo strumento più efficace per rispondere in modo ragionevole alla grande sfida dell’immigrazione, evitando di farci travolgere dall’ondata xenofoba e nazional-protezionista.



Sarrazini e saraceni

Il Foglio, 21-09-2010
L'Europa deve superare i complessi sui critici dell'immigrazione e dell'islam.
Con le elezioni di domenica, la Svezia ha completato il percorso di "europeizzazione". A Stoccolma hanno vinto il premier di centrodestra, Fredrik Reinfeldt, e la voglia di liberalismo, ma il dato che più avvicina il paese al resto del continente passa per un partito anti immigrazione. Grazie ai 20 seggi conquistati alle urne, i Democratici svedesi fanno un ingresso molto rumoroso al Riksdag, privando Reinfeldt della maggioranza assoluta. Come altrove, un movimento della destra populista è diventato decisivo per la vita di un governo. In Olanda, Geert Wilders negozia l'appoggio esterno all'esecutivo. In Danimarca, la stabilità è garantita dai partiti anti islam. L'Austria è condannata a grandi coalizioni per tenere lontano dal potere l'estrema destra, che continua a crescere. Comunque andranno le trattative, anche a Stoccolma ci sarà una coalizione inedita.
Gli establishment europei, accecati dall'ideologia del politicamente corretto, prima fingono di non vedere, poi si dicono scioccati da questa avanzata. E' accaduto con i Democratici svedesi, che hanno trasmesso in televisione uno spot nel quale un anziano è superato da un gruppo di donne in burqa nella corsa ai sussidi statali. E' capitato con l'espulsione di Thilo Sarrazin dal board della Bundesbank per aver scritto un libro in cui preconizza una Germania a maggioranza musulmana, con arabi e turchi che "producono in continuazione ragazze con il foulard in testa". E' successo di nuovo con le procedure di infrazione della Commissione europea contro la Francia e la politica di Nicolas Sarkozy sui rom.
Due questioni problematiche come islam e immigrazione non si risolvono escludendo chi le affronta, ma riformando le politiche inefficaci. Molti leader europei dovrebbero chiedersi se il modo migliore per combattere l'estrema destra sia demonizzare i suoi leader, o fare sì che una parte crescente della popolazione debba integrarsi secondo leggi e regole.



Intervista
"Ma la crescita dei razzisti  non è certo irreversibile"

D'Almeida: "Da noi Sarkozy gioca sulla sicurezza per essere rieletto"
La Stampa, 21-09-2010
Domenico Quirico
Fabrice D'Almeida, docente di E storia contemporanea a «Paris - 2», autore de «La circulation des élites européennes» e uno dei capofila della nuova storiografia sociale francese, fa il punto sul decorso della Francia sarkosista che, cavalca con forza il tema della lotta al'immigrazione come strumento di creazione del consenso in un'Europa che si volge a destra.
In Europa le destre avanzano sul timore dell'immigrazione...... «Il risveglio delle estreme destre è
dovuto un effetto di distanza dalla memoria della seconda guerra mondiale che rende un certo numero di forze politiche finora escluse dal gioco più udibili di prima anche se certo non più frequentabili. E' quanto accade nei paesi dell'Est e in Italia».
Ma non è l'unico fattore... «Poi c'è la realtà di un continente invecchiato che si confronta a popolazioni giovani di origine straniera o che hanno da poco acquistato la nazionalità del paese di arrivo. Si tratta di uno scontro generazionale e non soltanto di un problema di origini etniche a cui però spesso viene ridotto. Si costituiscono gruppi di giovani violenti che si riferiscono ai concetti dei loro anziani e affrontano i giovani usciti dalla immigrazione . Nei movimenti di destra estrema i dirigenti sono vecchi ma nei ranghi   ci   sono molti giovani a differenza degli anni sessanta in cui giovani erano assenti. Il terzo effetto è lo choc del 2005 cioè la fine della politica europea come coperchio al nazionalismo che ha dato slancio ai sovranisti e ai nazionalisti come è accaduto in Francia. Ma in questo senso la crisi economica del 2008 ha agito in funzione positiva costringendo molti paesi europei a agire insieme rilanciando le istituzioni». La crisi econonica e il crescere della xenofobia sono collegate? «No sono fenomeni che si cumulano e non la conseguenza uno dell'altro. L'allargarsi della xenofobia non è un fenomeno irreversibile   perché ci sono altre forze politiche che vanno a costruire il loro progetto politico attorno a questo problema con risposte  diverse, che siano di sinistra o di destra. Anche tra gli immigrati ci sono settori che si radicalizzano, altri invece possono decidere di integrarsi in modo accelerato. Un tendenza che potrebbe dissolvere il problema».
La Francia sembra un caso a parte: qui è il presidente che impone e cavalca questo tipo di paure. «La novità è che Sarkozy abbia fatto il legame tra insicurezza immigrazione.  Chirac nel 1986 l'aveva fatto ma in parte, sul piano solo dei costumi. Sarkozy ha paura della crescita del Front National, per lui è un problema soprattutto di identità politica, sa bene che la identità di destra è quello che importa soprattutto agli elettori che hanno più di 55 anni e questa identità lui la definisce come stabilità economica sicurezza e garanzia del modo di vivere. Quest'estate la questione della sicurezza è tornata in primo piano, la identità nazionale infatti in termini consenso non rendeva molto. Ha cercato di fare al rovescio imponendo regole dure alla immigrazione un modo di far capire alla gente che lui difende la identità francese».
Insomma, strategia del consenso «In tutta Europa gli ultracinquantenni hanno le chiavi della economia e della elezioni. Sarkozy sa di averli destabilizzati all'inizio della sua presidenza con il suo modo di vivere, i divorzi gli amori. Così mettendo i rom sugli aerei pensa di correggere questa cattiva impressione. Sta mandando un segnale al suo campo per dire che non ha cambiato e che devono obbedirgli per vincere nel 2012».
Negli altri paesi c'è la stessa illusione generazionale ? «In Italia mi pare che ci sia la stessa dinamica. In Germania invece si pensa che la progressione economica risolverà la crisi nazionale e abbasserà le tensioni, perché quando uno è ricco ci sono meno difficoltà. In Svezia ancora un altro calcolo: si è considerato che per ora non esiste un problema globale e puntano a integrare ai massimo con gli aiuti sociali».



Svezia e rom il fantasma della xenofobia

Il Mattino, 21-09-2010
Ennio Di Nolfo
L'esito delle elezioni parlamentari in Svezia è importante per sé; lo è più ancora se si riflette sul suo significato europeo. È importante per sé, dato che conferma la forza dei partiti moderati, che dopo aver sopraffatto nel 2002 i socialdemocratici, al potere dal 1914, ottengono un nuovo successo, conquistando il 49,2% dei voti, contro il 43,6% dell'alleanza guidata dai socialde-mocratici. È un segno sulla politica di ammorbidimento delle norme che reggevano lo stato sociale svedese. È il segno che tale politica è stata condivisa da gran parte degli elettori. E che l'abolizione di certe generosità, che favorivano abusi ad alti costì, in un momento di crisi economica globale, è condivisa da molti che continuano a volere uno stato moderno ma meno generoso. Tuttavia questo successo, che del resto non è sufficiente, per soli due o tre seggi, a assicurare una maggioranza stabile al primo ministro uscente, Frederik Reinfeldt, lo pone dinanzi al problema di tentare la quasi impossibile alleanza con i Verdi se non anche la via della Grande Coalizione di matrice tedesca.
Ma la novità più importante scaturita dalle urne svedesi riguarda il successo dei Democratici di Svezia. Guidato dal giovane Jimmi Akesson, questo partito, che di democratico ha forse soltanto il nome, è riuscito a varcare lo sbarramento del 4% dell'elettorato, tocca il 4,6 dei votanti e ottiene una ventina di seggi nel Parlamento. Il punto è proprio questo: nessuno vorrà o potrà accettare l'appoggio di questi voti, pena una caduta nel discredito più completo nella stessa Svezia e nel resto del mondo.
Sicché l'avvenire sarà quanto mai incerto e affidato alla capacità di Reinfeldt di governare senza maggioranza parlamentare. In un Paese che appartiene ai modelli della democrazia progressista e popolare, come accettare, infatti, una collaborazione con un partito dichiaratamente xenofobo? Il caso non riguarda la normale dialettica tra la destra e la sinistra al potere. Riguarda il tema che si è ora affacciato con prepotenza a tutta la vita europea, la questione della xenofobia, parente stretta del razzismo. Troppi episodi recenti, accaduti in tante parti dell'Europa, confermano il rifiuto di accettare "l'altro", il "diverso", soprattutto se questo si colloca su un piano economico-sociale più basso, o addirittura tale da richiedere aiuto quotidiano per la sopravvivenza; oppure da spingere verso attività illecite pur di sopravvivere. L'aspetto psicopatologico prevale allora sulla risposta più meditata rispetto a uno dei problemi perenni dell'umanità, ma un problema che la crisi economica globale rende ancora più allarmante.
È evidente che il problema esiste; che la crisi colpisce chi è benestante ma soprattutto chi vìve nelle condizioni più disagiate. In questi due estremi si annida la xenofobia, come volontà di emarginare chi non possiede uno status sociale ben definito oppure, e al contrario, come volontà di tenere lontani coloro che possono diventare concorrenti nella lotta quotidiana per il lavoro e per la vita. La dialettica naturale fra i partiti viene sconvolta dall'emergere di questo fenomeno non come aspetto marginale della vita sociale ma come problema che tende a investire decine di migliaia di uomini.
Queste tensioni debbono essere incanalate verso prospettive di sviluppo po-sitivo. Ma perché ciò accada è necessario che governi responsabili, anziché cercare una facile popolarità combattendo i "diversi", riescano a immaginare
forme di integrazione sociale adeguate. Si tratta di una linea politica facile da enunciare, difficile da ideare e attuare. Ma bisogna ben rendersi conto che se l'Europa non vuole esser investita da ondate di tensioni razziali che finirebbero con lo snaturare la qualità e la natura delle istituzioni che negli ultimi due secoli essa si è data, è necessario che la xenofobia non abbia spazio per affermare le proprie declamazioni e venga combattuta con un'azione di accordi, di progetti integrativi, di iniziative che spetta al politico immaginare, per sopravvivere alla più difficile delle sfide che essa oggi vive.



L'EUROPA E IL CONTAGIO DELLA PAURA

La Stampa, 21-09-2010
Enzo Bettiza
Il risultato del voto svedese assume un significato che fa della Svezia il campione dei profondi mutamenti che, da qualche anno, stanno sconvolgendo il panorama politico dell'Europa nordica un tempo immune da tempeste, nevrosi e paure endemicamente diffuse nelle regioni meridionali e orientali del Vecchio Continente. Il significato storico ed emblematico di quanto è emerso dalle urne scandinave va ben al di là di un semplice regolamento o spostamento di conti elettorali da sinistra e destra.
Gli svedesi, assuefatti da quasi un secolo a vivere in un clima di welfare blindato, abbiente, pressoché infinito, hanno determinato col loro voto una sorta d'eutanasia rivoluzionaria: hanno staccato la presa dell'ossigeno al già indebolito partito socialdemocratico, infliggendogli, per la prima volta in ottant' anni, un catastrofico calo di oltre il 4 per cento. Sempre per la prima volta una coalizione moderata di centrodestra, guidata con accortezza dal premier Fredrik Reinfeldt ed elevata alla notevole percentuale del 49,1 (un passo dalla maggioranza assoluta), è riuscita non solo a portare a termine il mandato governativo, ma potrà e dovrà impegnarsi sia pure con qualche spinosa difficoltà nella formazione di un secondo esecutivo.
Nella lineare e neutrale vicenda della Svezia contemporanea, sostanzialmente modellata e condizionata dal predominio socialdemocratico, non era ancora successo dalla fine della guerra che i conservatori crescessero al punto di conquistare due mandati di seguito.
Il primo dato impressionante emerso dalle urne è infatti la conferma di quella che l'Economist, con icasticità clinica, definisce oggi «la strana morte della socialdemocrazia svedese». Basti pensare che solo cinque anni prima il severo Guardian, influente negli ambienti laburisti, vedeva nella Svezia forgiata dai governi di Olof Palme «la migliore delle società che il mondo avesse mai conosciuto». Per anni i socialisti europei, e non solo europei, avevano ammirato e contemplato nella nazione guida della Scandinavia un socialismo democratico austero e generoso insieme, capace di combinare un fisco esigentissimo e una spesa pubblica massiccia con un'economia robusta e un'alta qualità della vita. I Paesi vicini e consimili, Finlandia, Danimarca, Norvegia, perfino l'Olanda, cercavano d'imitarne con successo la lezione che conteneva in sé anche una notevole e talora ardita tolleranza nel settore dei diritti civili, concessi sia ai concittadini sia agli stranieri immigrati.
Dopo l'enigmatico assassinio di Palme nel 1986, mai chiarito fino in fondo, le prime ombre cominciarono a oscurare il paradiso socialdemocratico di Stoccolma. Iniziò a turbarsi la sostanziale stabilità politica, presero ad aprirsi parentesi governative gestite dai conservatori, la Svezia nel 1994 siglò gli accordi per l'ingresso nell'Unione Europea. Con il progressivo allargamento verso l'Europa orientale postcomunista si profilarono, anche per gli svedesi, ormai stanchi del modello socialista, troppo fiscale con i compatrioti e troppo indulgente con gli stranieri, i due problemi insidiosi che l'Europa intera conosce da alcuni anni: la crisi economica combinata con la crisi  dell'immigrazione incontrollata. Sul piano economico il governo dei conservatori moderati, eletto nel 2006, capeggiato dal primo ministro Reinfel-
dt e amministrato dal responsabile delle Finanze Borg, ha saputo affrontare con sagacia e competenza la crisi, senza smantellare le fondamenta del sistema socialdemocratico ma correggendone gli eccessi ideologici e ammorbidendo con interventi liberisti e maggiore elasticità gli spazi operativi dell'industria privata. Il compromesso è riuscito, il prodotto lordo è aumentato, la disoccupazione è calata. Oggi la Svezia occupa un posto d'avanguardia nell'economia mondiale. Il contrasto con la situazione stentata di non pochi Paesi europei è più che notevole: è quasi schiacciante.
Alla fine, anche su questa Svezia economicamente risanata e ristabilizzata incombe lo stesso pericolo che oggi travaglia, assieme alle regioni scandinave, tanti altri Paesi europei. Esso incombe però con forza particolarmente nevrotica a Stoccolma, a Helsinki, a Copenaghen, ad Amsterdam, nelle parti fiamminghe del Belgio: cioè proprio nei vivai delle civiltà nordiche più evolute, fino all'altro-ieri culturalmente più aperte alla tolleranza e alla convivenza con il diverso, con l'esule, con l'immigrato in cerca di pane e di protezione. Il retaggio di tolleranza, di carità umana, depositato in quelle gelide terre settentrionali dal protestantesimo e dalle socialdemocrazie, si è come rovesciato nella grande paura dei diversi che oggi vagano e premono a tutte le porte del continente. Il cortocircuito prodotto dalla paura per la calata in massa dei dissimili, paura ancestrale, che per facile retorica definiamo troppo sbrigativamente «xenofobia», sta fomentando perfino nella civilissima Svezia una contropartita politica. Qui, difatti, si è verificata un'ennesima «prima volta» con la rottura dello sbarramento elettorale del 4 per cento e l'entrata imbarazzante in scena dell'estrema destra del giovanissimo Jimmie Akesson. Esorcizzati non solo dai perdenti socialdemocratici di Mona Sahlin, ma anche dal vincente conservatore Reinfeldt, i «Democratici svedesi» capitanati da Akesson hanno raggiunto, pare, più del 6,5 percento dei voti al grido «restituiamo la Svezia alla Svezia». La situazione è poco piacevole soprattutto per Reinfeldt che, dopo aver annunciato che non toccherà Akesson «neppure con le pinze», potrebbe vedersi costretto a trattare una scandalosa coalizione proprio con l'intoccabile. La vittoria del centrodestra moderato è stata purtroppo incompleta: alla coalizione manca una manciata di voti per formare un esecutivo da soli.
Non sappiamo quello che potrà succedere a giorni a Stoccolma. Sappiamo invece che la paura sta dilagando per il Nord. In Finlandia stanno correndo forte i cosiddetti «Veri finlandesi» che esaltano la «dignità delle tradizioni silvane». In Danimarca sta crescendo il «Partito del popolo» che basa la sua campagna sul «pericolo immigrati». In Olanda il «Partito della libertà» di Geert Wilders ha già 24 seggi in Parlamento e intrattiene contatti sempre più stretti con i consanguinei nazionalisti fiamminghi di Vlaams Belang. Tutti, compresi i na-zional radicali di Budapest e di Bucarest, si riuniranno a fine ottobre ad Amsterdam per festeggiare l'ormai leggendario Wilders.
Si vede, insomma, che il caso svedese è tutt'altro che isolato. L'Europa si è fatta più piccola, mentre la paura, che andrebbe studiata e non solo respinta con anemica «correttezza politica», si va facendo sempre più grande e più ubiqua. Non basta condannare alla rinfusa i «cattivi». Bisognerebbe anche sforzarsi di spiegare come e capire perché sono diventati tali dal Baltico fino al Danubio.



Daniel Cohn-Bendit: "In Svezia gli stessi meccanismi che nel Nord ltalia fanno la  forza della Lega"
' 'La destra razzista dilaga ovunque sfruttando le paure del ceto medio"
la Repubblica , 21-09-2010
ANDREA TARQUINI
BERLINO — Onorevole Daniel Cohn-Bendit, anche a Stoccolma la destra populista entra in Parlamento. Quanto è importante e pericolosa questa svolta?
«Ormai in tutti gli Stati europei esistono movimenti populisti di destra. Sembra ormai normalità. Posso deplorarlo, posso rincrescermi di questo sviluppo, ma lo sviluppo è in atto».
Normalità anche nella Svezia ritenuta aperta e tollerante?
«Non dimentichiamo che anche in Svezia esistono le stesse paure di declino e insicurezze del ceto medio. Magari in Svezia queste sono le angosce dei ricchi e di chi partecipa al vasto benessere. Ma non è diverso dalle tendenze
che nel ricco Nord italiano fanno la forza della Lega. Anche in Nord Italia sì vive bene e si vota per Bossi. E perché gli svedesi dovrebbero essere migliori degli italiani?».
Perché la Svezia ha tradizioni democratiche più antiche e solide?
«Ah, le tradizioni. Io non sopravvaluterei le tradizioni di un sistema politico, la maggioranza della gente non vive distoria di tradizioni politiche . Vive il momento
presente. E in Svezia tendenze di destra radicale sono attive da tem-po. Basta guardare al mondo del calcio, ai tifosi. Bisogna andare allo stadio per sapere com'è e pensa una società, cosa sente».
I populisti svedesi puntano molto sul no agli immigrati musulmani.
«Come Sarrazin in Germania. Il mondo è complesso, l'Islam o  piuttosto certi movimenti integralisti sono molto offensivi e a volte 0 ceto medio reagisce. Succede in Olanda, in Francia, in Germania, in Italia, perché non dovrebbe succedere in Svezia? Nessun paese è immune».
L'integrazione dei musulmani allora è particolarmente difficile?
«Guardi, a metà dei'60 la Bild  titolò "finalmente arrivano gli immigrati turchi, non solo spagnoli e italiani". Perché spagnoli e italiani scioperavano spesso, i turchi erano visti come più disciplinati e operosi. Prima gli italiani davano fastidio, oggi l'Islam. Ciò si può spiegare anche col comportamento di alcuni Stati islamici. In un mondo globale le paure sono globali».
Parte degli immigrati musulmani rifiutano di integrarsi?
«Parte degli immigrati italiani  anche. Spesso hanno i voti peggiori a scuola. La mafia è una realtà italiana, non islamica, di società parallela».
Il Bundestag è quasi l'unico parlamento europeo senza destre xenofobe. Quanto a lungo lo resterà?
«Sarrazin ha già venduto 650mila copie del suo libro. In Germania mancano solo politici capaci di dare leadership e integrare simili trend, ma emozionalmente parte della società è pronta».
Angela Merkel però chiede di abituarsi a più moschee.
«Ha ragione, ha fatto bene a dirlo. Sarkozy e Berlusconi non lo dicono, ma la signora Merkel ha ragione. Perché è vero, e già oggi in Europa ci sono più musulmani che non olandesi».



Europa, lo spettro dell'ultradestra

La Stampa, 21-09-2010
Marco Zatterin
Dalla Svezia all'Ungheria aumenta nei Parlamenti europei la presenza di partiti estremisti, anti-islamici e populisti. Sullo sfondo, il malcontento per le politiche sull'immigrazione: ma l'Ue è pronta a raccogliere la sfida?
BRUXELLES -Prima il terrorismo, poi la paura dell'immigrato e infine la crisi economica che ha incrinato la fiducia. Alla fine del primo decennio del nuovo secolo l'Europa è agitata da una deriva nazionalista che cavalca le tensioni e complica i bioritmi della politica. Il primo effetto del continente che piega a destra è la precarizzazione delle coalizioni, il secondo .è il diffondersi dell'illusione che alzando la voce si risolvano i problemi in fretta. Leader scaltri hanno capito che nel breve periodo può funzionare. Nel lungo non si sa, non ancora.
Il populismo cresce nell'intolleranza e nella paura, nella liberale Olanda come nel rigoroso Belgio e ora anche in Svezia, patria socialdemocratica di un Welfare per anni invidiato. In Ungheria, Slovacchia e Romania, partiti dall'anima fascista raccolgono consensi insperati aggrappandosi ad antichi ideali ed esacerbando i confronti con l'«altro», in genere le minoranze, gitani o ebrei non pare far differenza. Ci riescono nel nome della «Libertà» a cui dedicano i loro partiti, come fece Jòrg Haider, che nel 1999 convinse il 25% dell'Austria a votarlo, e come è riuscita a Geert Wilders, il leader antislamico dei Paesi Bassi che cavalca la «minaccia» dello straniero e la delusione verso partiti tradizionali che tiene in scacco dal voto di giugno.
In Francia, nel momento in cui ha visto cadere i consensi, il presidente Nicolas Sarkozy ha lanciato l'offensiva contro la «gent du voyage», termine con cui ha mascherato l'intenzione di colpire i rom, irregolari da cui una ampia frangia della popolazione si sente minacciata. Per lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, che vive in Francia da anni, l'Eliseo ha «usato le espulsioni per sedurre l'estrema destra, dunque per ragioni di consenso e di conservazione del potere». Nell'attimo della difficoltà, Sarkozy ha riprodotto lo schema delle Destre, ha cercato un nemico e promesso di sconfiggerlo. Capita anche in Germania, dove dalla Cdu di Angela Merkel è in arrivo una componente superconservatrice, animata da Erika Steinbach, presidente dell'Associazione dei tedeschi espulsi dall'Europa centrale dopo l'ultima guerra.
Il Belgio ha dimostrato che alla lunga l'estremismo non paga, lo provano i duri fiamminghi del Vlaams Belang, battuti dal N-Va di Bart De Wever, che è riuscito a persuadere parte degli elettori delle Fiandre di «essere un moderato». Anche negando il parallelo con la Lega: «Loro sono di destra», giura. «Ciò che accomuna diversi partiti di estrema destra, spesso caratterizzati da politiche legalistiche, è il forte antieuropeismo», spiega Rosa Balfour, Senior policy analist dell'European Policy Centre. In effetti, Bruxelles è la nemesi del nazionalismo, i suoi valori negano xenofobia, odio razziale e discriminazioni, ma non tolgono che il vecchio continente sia una polveriera di minoranze in cerca di futuro, come gli ungheresi che vivono in Romania e Slovacchia. L'Ue «deve contraddire quanti la accusano di essere agli ordini di un progetto di omologazione delle culture e delle identità su scala mondiale», suggerisce Magali Balent, della Fondazione Robert Schuman. I risultati dicono che, sinora, non è riuscita a farlo in modo concreto.



I successi dell'estrema destra
Il buonismo chic che crea gli xenofobi
Libero, 21-09-2010
Davide Giacalone
Da una parte c'è il vaniloquio perbenista e ipocrita di quelli che si sentono buoni, giusti e colti, che scrivono sui giornali (a corto di lettori) o siedono nella Commissione Europea, sempre pronti a impartire lezioni sull'accoglienza degli immigrati e la fratellanza con i nomadi. Dall'altra ci sono le lezioni della realtà, (...)
(...) c'è un'opinione pubblica europea che la pensa in modo opposto e che rischia di scivolare sui ghiacci della xenofobia, solidificati dai venti gelidi che arrivano dall'Olanda, dal Belgio, dall'Austria e, da ultimo, dalla Svezia.
Nella nostra Europa è ovunque in crisi il modello di welfare state, divenuto troppo costoso e troppo inefficiente, e ovunque ci sono problemi relativi all'immigrazione. Negare l'una e l'altra cosa, pensare di poter rimediare inutilmente aggrappandosi al passato o ridicolmente sermoneggiando d'accoglienza, propizia disastri politici. Mentre l'assenza d'idee spendibili spinge al cortocircuito: siccome gli immigrati vengono per pesare sul nostro welfare ecco che il nostro belparadiso s'azzoppa.
L'ESTREMISMO
Inutile stupirsi, allora, se crescono le formazioni politiche estremiste, che se non dispongono di una soluzione positiva forniscono, almeno, una bella spiegazione negativa. Se si restasse sul piano della razionalità, le cose non sarebbero (dal punto di vista teorico) così complicate: a) gli immigrati sono utili e creano ricchezza, ma il Paese che accoglie ha diritto a regolarne il flusso, facendo valere le proprie condizioni; b) il rispetto della legalità vale per tutti, cittadini propri, comunitari o provenienti da ogni altra parte del mondo, ma se a delinquere è un ospite il Paese ospitante ha il diritto di punirlo e/o cacciarlo, impedendogli di tornare; c) gli immigrati non sono dei rifugiati, e tutte queste associazioni che fanno confusione sembrano essere state inventate apposta per favorire l'ascesa dei razzisti.
Il caso francese è assai istruttivo, e segnala un pericolo collettivo. È evidente che il presidente francese ha scelto di aprire il fronte dei Rom anche per indurre i francesi a non parlare solo degli affari e degli affaracci suoi. È evidente che ha scelto quel tema perché sa di raccogliere un consenso quasi unanime. Com'è evidente che la reazione della Commisione Europea e della pretesa intelligenza scrivana è stata cieca, violenta e dissennata, tipica di gente che non solo vive fuori dalla realtà, ma si ostina a credere che i propri pregiudizi siano il giusto e la realtà la loro corruzione. Dei matti, insomma. Fra i due schieranti preferisco, di molto, Sarkozy, ma non al punto di credere che egli abbia proposto una qualche soluzione. Ha solo messo in atto un'azione dimostrativa. Occorre essere cretini assai per parlare di "deportazioni", ed occorre avere una coscienza piallata dall'ignoranza per far paralleli con le persecuzioni naziste. Ma i rimpatri disposti dai francesi sono pochi e su base consensuale, per giunta pagati dallo Stato. Sono una pezza, non un modello. Che fare, allora?
PARI TRATTAMENTO
Ripeto, dal punto di vista teorico è meno complicato di quel che sembra. Io cittadino italiano non posso starmene senza fissa dimora, non vedo perché dovrebbe essere consentito ad uno zingaro. Se abbandono mio figlio o lo riduco all'accattonaggio m'arrestano, non vedo perché i nomadi dovrebbero essere compresi e aiutati. Se assegno mia figlia in
sposa torno in galera, o vado al manicomio, non si capisce perché dovremmo consentirlo ad altri. Se mi laureo negli Usa, dopo aver pagato salatissime rette a università private, ma poi non trovo un lavoro e non riesco a prolungare il permesso di soggiorno me ne devo andare, anche se ho contribuito alla ricchezza di quel Paese, così non c'è motivo che da noi rimangano quelli che non dichiarano un tallero di guadagni.
Questo banalissimo buon senso minaccia la fratellanza fra i popoli? Temo che la minaccia venga dai forsennati che negano la realtà e parlano a vanvera. Facciano accomodare la zingara corpacciuta al lindo tavolo del loro ristorante preferito e ne gustino l'insopportabile tanfo, così come già si ha occasione di fare sui mezzi pubblici (dove non pagano) e alle casse dei supermercati (dove la fila si ferma nel mentre la commessa conta monetine). Io sono favorevole a che la signora resti, se si trova un lavoro onesto, una casa e una doccia. Loro, invece, pretendono che rimanga a carico delle narici e delle tasche altrui. Chi è, allora, il razzista e lo xenofobo? Ecco, prima che il vento gelido soffi (più forte) anche da noi, propongono di andare presso tutte queste associazione di accoglitori in casa e nei quartieri altrui, affiggendo un avviso all'ingresso: qui operano i produttori di razzismo.



L'IMBROGLIO ROM

il Fatto Quotidiano,21-09-2010
Maurizio Chierici
Anche la Svezia dopo l'Olanda, mentre nella Slovacchia i   massacri dei Rom svaniscono nei valzer dei caffè dove nessuna signora vuole essere disturbata dai pogrom del 2000. L'Europa dei diritti umani sceglie la modernità del razzismo. Stoccolma manda in soffitta lo Stato-badante e immagina un futuro da conquistare sul ring. Proibito difendersi a chi non parla come noi. Vittoria degli xenofobi svedesi rafforzata dai deliri di Parigi, eppure proprio a Parigi ricomincia la ragione con l'addio a Sarkozy: due francesi su tre non lo sopportano più. La sua politica ha incendiato le periferie; burqa, sinonimo di terrorismo, e pulizia etnica annacquano la fede di chi lo votava immaginando il ritorno alla grandeur. Due anni fa l'Economist lo presentava sul cavallo di Napoleone. Due anni dopo il Sarkozy dell'Economist è un nano appollaiato fra le piume di Carla Bruni. Per resistere si aggrappa a un tipo di imbroglio che funziona nei popoli dalle losche quasi vuote: gonfiare la paura per gli stranieri responsabili della nostra infelicità. Facce gialle, facce nere, Rom immondizie pericolose. Il nemico è un ricostituente storico del nazionalismo (metafora di egoismo) dei leader meschini, ma questa volta nessuno si è lasciato prendere per il naso. In giugno il gradimento era sceso sotto il 5O per cento; dopo burqa e Rom precipita a 30. Un dubbio avvilisce: come mai i francesi respingono il trucco che scarica la crisi su protagonisti marginali della società, mentre gli italiani continuano a bere come le oche dei/e favole d'infanzia? Bossi, Maroni, Calderoli, Borghezio, perfino il Salvini, smorfia del marò che cantava " le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera'; perfino Salvini, camicia verde, riceve lettere d'amore. Ma il peggio sta arrivando: lo squinternamento del Cavaliere fa scappare i confusi verso il "buonsenso" della Lega. Le sue radici nel territorio sembrano profonde. I brontolìi di Bossi, voce del paradiso. "Ti adoro, ti amo per tutto quello che dici e che fai. Ho 26 anni e sono fiera di te. Bravo Umberto, sogno un marito che abbia le stesse idee. Cristina, Bolzano". "Elgh'a razon, se ne poeu puu de tucc'sti barbon senza dio, in gira far nient tucc 'al di - Umberto Marini, Bollate". Archivio della devozione Padana. E i versetti del Calderoli calzoni corti come Herman Goring, fanciullone nel "Dittatore" di Chaplin, allargano il cuore ai nemici di ogni straniero. Nemici, perché? Spiegazioni gridate per fare impressione: portano via case, lavoro; rubano, violentano, sporchi e cattivi. Il sangue stanco delle vecchie facce esulta quando l'orgoglio dei politici ne pianifica l'esclusione. E la non cultura impedisce un dialogo appena sensato. Dal dio Po alla battaglia di Lepanto che Bossi giura vinta dai marinai padani mentre i genovesi scappavano davanti ai turchi, nasce la storia inventata dell'Italia dei danè da difendere spargendo disprezzo e paura perché la paura dell'altro è il dogma che rincuora le furbizie dei fantaceltici dal familismo che impallidisce le famiglie del Sud. "Col leghismo trionfa la logica tribale basata sulla gestione del mercato della paura e sull'ossessione della sicurezza armata. Capitalizza le proteste esibendosi come religione civile, settaria e guerriera. A supportarla, il cemento di una rete finanziaria: Lega mescolata a Opus Dei e Compagnia delle Opere. Ed è ciò che spinge alcuni parroci e cattolici padani a tollerare una religione con idee forti: l'identità "della nostra gente" contraria ai vizi della modernità e la funzione di coesione della Chiesa che può sentire omogenee "le comunità organiche" di Bossi e i suoi fratelli. Il leghismo vuole conquistare l'anima popolare, in realtà è la fede cristiana a rischiare di perdere l'anima". Parole sconsolate di Sandro Paronetto, vicepresidente
nazionale Pax Christi. E la gente normale? Guarda, tacendo. Moravia racconta negli Indifferenti la borghesia che non si scompone mentre il fascismo dilaga. Ottant'anni dopo siamo ancora li.



A Lanciano una kermesse musicale trasformata in un viaggio per raccontare una cultura millenaria
I rom entrano in Parlamento per suonarle al razzismo
Liberazione,21-09-2010
Stefano Galieni
I rom in parlamento. Ieri, in quello italiano per una conferenza stampa, rispettivamente il 7 ottobre a Strasburgo e il 18 novembre a Bruxelles nelle sedi europee per portare un messaggio potente di pace, di convivenza e di cultura. Un progetto, forse meglio dire un sogno che si sta realizzando, fra mille difficoltà, elaborato da Alexian Santino Spinelli, musicista e docente di lingua e cultura romani all'università di Chieti e che si sta avvalendo di collaborazioni, patrocini, sostegni di una vasta gamma di soggetti: dall'European Economie and Social Comitee, ad Amnesty International, dall'università di Pescara alle associazioni rom e sinti, all'Arci, alla Cgil, alla Federazione delle chiese evangeliche, fino ad associazioni antirazziste e a testate come Liberazione. «Faremo un percorso di rottura, in senso inverso rispetto alla tradizione - ha spiegato Spinelli - per secoli la nostra musica si è incontrata e contaminata con i paesi e le culture dei paesi in cui ci fermavamo. I grandi compositori come Listz, Brahms, Schubert, Dvorak, Ravel, Bartok, Stravinskj, hanno attinto a piene mani dalla tradizione e dalla musica romani, spesso omettendo di citarne le origini. Con questo progetto, sostenuti dall'Orchestra Europea per la Pace, faremo il contrario. Verranno suonate musiche originarie romani, cantate nella nostra lingua e l'orchestra accompagnerà la nostra musica». Sarà insomma un viaggio millenario attraverso una cultura che è parte integrante e rimossa della cultura europea, ma non sarà soltanto un evento culturale. Il progetto è stato pensato in tempi non sospetti ma arriva in un momento in cui la battaglia per la lotta contro le discriminazioni si trova ad affrontare in tutto il continente forme vecchie e nuove di razzismo, xenofobia, antiziganismo e allora un evento di questo tipo diventa una splendida rivendicazione di dignità. Quando viene dato ad uno fra i tanti e le tante rom e sinti che sono riusciti ad appropriarsi dei diritti fondamentali, che hanno acquisito cittadinanza, diritto alla casa, all'istruzione e non condanna al degrado e all'assistenzialismo, si viene a conoscenza di un mondo ricco e prezioso di cui è criminale privarsi. «Non è un periodo buono per parlare dei diritti umani - ha affermato Roberto Tumbarello, corrispondente in Italia per il Consiglio d'Europa -per cui elementi che rompano il muro di ignoranza e di pregiudizio sono esempi luminosi da sostenere». Jean Leonard Touadì, deputato del Pd, nel far riferimento ai tanti articoli della costituzione che vengono disattesi quotidianamente nei confronti di rom e migranti ha espresso l'esigenza che accanto e contemporaneamente ad una battaglia di ordine culturale si sia capaci di fare anche una forte mobilitazione politica. Molto apprezzato poi l'intervento del sindaco di Lanciano, Filippo Paolini. Lanciano, il Comune abruzzese dove Spinelli e la sua famiglia hanno deciso di vivere, è retto da una giunta di centro destra. Fra i 40 mila abitanti la presenza rom è di antica data - in Abruzzo i primi insediamenti risalgono a circa 700 anni fa - ma a Lanciano non ci sono mai stati "campi nomadi". Questo perché il sindaco, che rifiuta anche l'etichetta di destra, si definisce un liberale crociano, collabora da molti anni per progetti di inclusione sociale. Non a caso, a Lanciano si tiene ogni anno la festa "Amico Rom" che ha richiamato spesso personaggi dello spettacolo e della cultura. Non solo, a Lanciano l'amministrazione ha fatto in modo che nell'assegnazione delle case popolari non avvenissero discriminazioni:«Pensiamo che se si tentasse tutti di applicare un principio equanime e solidale, molte emergenze scomparirebbero». Non a caso la prima nazionale del concerto dell'Orchestra Europea per la Pace, dal titolo "Romano drom: viaggio concerto nella musica rom", si terrà a Lanciano. Direttore d'orchestra sarà il maestro Luciano Di Giandomenico - anch'egli presente alla conferenza. Un appassionato della musica colta che però mantiene una grande curiosità verso quella moderna e popolare, rompendo l'assioma che vuole i due mondi separati. C'è grande interesse attorno ad un evento in cui la musica diventa anche testimonianza di impegno sociale, spazio per rompere l'immagine che vuole la presenza rom soltanto legata alla cronaca ma che serva a ricordare al mondo come senza questo popolo che non ha mai avuto eserciti e non ha mai fatto guerre, non ci sarebbero stati il flamenco in Spagna, il jazz europeo di Django Reinhardt e Stephène Grappelli, solo per fare esempi di¬menticati ma indimenticabili.



L'Europa incerta

il sole, 21-09-2010
Disprezzano Sarkozy dicendo che agisce inseguendo il consenso. E qual è il problema? Mi pare del tutto normale che il popolo elegga i suoi rappresentanti e presidenti, e questi a loro volta ne assecondino e soddisfino le opinioni.
Luigi Fressoia e-mail
Risponde Salvatore Carrubba
Si può lungamente discutere se il politico che ambisca a diventare statista debba necessariamente inseguire il consenso immediato o debba piuttosto fissare lui stesso l'agenda, sfidare - eventualmente -l'impopolarità e cercare di orientare l'opinione pubblica, non semplicemente di piegarvisi. Detto questo, mi pare che sul tema dei Rom, come ha notato domenica Giuliano Amato, il pendolo oscilli tra i due estremi della faccia feroce o del permissivismo più naif. Le elezioni svedesi hanno ulteriormente confermato l'incertezza e il disagio che serpeggiano nell'opinione pubblica europea a proposito delle immigrazioni,di tutti i tipi.Non credo che questi sentimenti siano necessariamente segno di razzismo: ma proprio per questo è un errore fatale sia blandirli nelle espressioni più esasperate; sia ignorarli, irriderli o condannarli, con atteggiamenti che spesso rasentano l'autentico disprezzo per le preoccupazioni della gente comune.



La missione della Farnesina all'Onu
L'asse tra Roma e Parigi in difesa dell'identità europea

Libero, 21-09-2010
Marco Gorra

Frattini conferma il sostegno a Sarkozy sugli zingari e annuncia: vicini a risolvere il caso Sakineh. Berlino isolata
ROMA -La missione del ministro degli Esteri Franco Frattini a New York parte sotto auspici tutt'altro che cattivi. Aparte l'aereo. Il capo della nostra diplomazia, infatti, ha dovuto affrontare la trasvolata oceanica a bordo di un aviogetto mignon da una decina di posti, avendo dovuto "prestare" il velivolo ammiraglio a Berlusconi, rimasto a terra causa rottura del finestrino dell'aereo presidenziale. Per il resto, l'assemblea generale dell'Orni apertasi ieri a New York dovrebbe chiudersi, per l'Italia, con il segno più.
Principalmente perché, nella delegazione italiana, c'è parecchio ottimismo circa le sorti del nostro impegno prioritario, ossia la richiesta di una risoluzione dell' Onu contro le mutilazioni genitali femminili. Le probabilità che la nostra richiesta (che Frattini presenterà assieme alla collega delle Pari opportunità Mara Carfagna) venga accolta ci sono e non sono basse. Alla Farnesina, inoltre, si scommette anche sull'appoggio della comunità internazionale anche sugli altri temi che saranno sollevati da Frattini nel corso dell'intervento alla seduta plenaria del Palazzo di vetro. Piatto forte del discorso sarà il problema della libertà religiosa nel mondo, e segnatamente le persecuzioni subite dalle minoranze cristiane in diversi Paesi di Medio oriente e Asia.
Ma è in Europa e adiacenze che la nostra politica estera gioca la partita più importante. Una partita che si svolge su due tavoli. Uno è quello delle alleanze strategiche con i Paesi che con l'Europa confinano. In primis quelli nordafricani affacciati sul mediterraneo. Posto d'onore a questo tavolo è quello occupato dal rais libico Muammar Gheddafi. Che, al netto del folklore un tantino cialtronesco, per l'Italia si conferma un alleato di primaria importanza. «Sui cinque miliardi chiesti da Gheddafi all'Europa per fermare l'immigrazione clandestina», ha detto ieri Frattini nel corso di una video-chat sul sito del Tgl, «sono state fatte orrende strumentalizzazioni di politica interna. È ovvio che questi soldi Gheddafi non li mette nelle sue tasche, ma sono destinati alla cintura dei paesi dell'Africa sub sahariana». Perché non è solo questione di investimenti o di lotta all'immigrazione clandestina: l'asse con Gheddafi (privilegiatissimo, basti pensare a Berlusconi unico leader europeo invitato alla plenaria dell'Unione africana) è vitale perché ci apre le porte dell'intero Continente nero.
L'altro tavolo è quello interno. Dove la diplomazia italiana gioca la partita più delicata. Ovvero quella che corre sulla direttrice tra Roma e Parigi. Negli ultimi mesi, i governi di Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy hanno infatti marciato uniti in più di un'occasione. E sempre su temi attinenti la politica estera: dal recente impegno sul problema dei
rom alle azioni congiunte verso l'Iran («Sakineh può essere salvata», ha detto Frattini, «le parole di Ahmadinejad sono un segnale»), alle iniziative di contrasto dell'immigrazione clandestina.
Particolare interesse, in questa un po' inedita joint venture, sulle tematiche legate all'ordine pubblico, argomento che, in un'Europa dove la crescente domanda di sicurezza produce ovunque l'avanzamento    elettorale dell'estrema destra, ha una sua centralità.
E l'azione in tandem di Palazzo Chigi ed Eliseo ha anche un altro obiettivo, meno palese ma parecchio importante. Provare ad inserirsi nel celebre asse franco-tedesco che, da che Europa è Europa, a Bruxelles fa il bello e il cattivo tempo. L'asse franco-italiano è ancora di là da venire, ma a Berlino stanno iniziando a capire che l'aria è cambiata.



Lupomanni

L'analfabetismo di Alemanno in fatto di rom, l'attenzione di Lupi per i penultimi della terra
Il Foglio 21-09-2010
Luigi Manconi
1- Attenzione: qui non si parla si razzismo. E, infatti, il titolo di questa rubrica (Politicamentecorrettissimo) va preso maledettamente sul serio: fino al punto di mettere al bando l’uso corrivo (scorretto dunque) della categoria stessa di “politicamente corretto”. Chi scrive si interessa di immigrazione dalla fine degli anni ’80 ed è in grado di provare che mai ha utilizzato con leggerezza il termine “razzista”. L’ha fatto, al contrario, con la massima parsimonia. La ragione è che quel termine - nei sistemi e nei linguaggi della democrazia – è tuttora il più denotativo in senso denigratorio. Pertanto, va utilizzato con avvedutezza e solo quando tassativamente motivato. Sia perché esso è suscettibile di radicalizzare il destinatario nelle sue posizioni sia perché l’abuso di quella definizione finisce col banalizzarla. Per la stessa ragione ritengo che le sacrosante parole della commissaria europea Viviane Reding siano state gravemente compromesse dal riferimento alla seconda guerra mondiale. Per questo, ancora, non mi sogno di definire tout court “razzista” la Lega Nord o certe componenti del Pdl: anche perché è ampio il ventaglio di termini più pertinenti
(xenofobia, intolleranza, discriminazione …). Precisato questo, va detto: ma quanno ce vo’ ce vo’. Un esempio. Gianni Alemanno reclama misure drastiche contro Rom, prostitute e vagabondi. Per questi ultimi la fantasia autoritaria (e giuridicamente analfabeta) del sindaco, vorrebbe – Dio lo perdoni - il trattamento sanitario obbligatorio. E qui casca l’asino due volte. Perché quando si evocano misure draconiane – suscettibili, anche solo potenzialmente, di ledere diritti fondamentali – la chiarezza dovrebbe essere d’obbligo: e prevedere un modo non troppo sgangherato di mettere insieme le parole. E, invece, così si è espresso Alemanno (trascrizione letterale): “quando c'è un allontanamento coatto un foglio di via da parte di una persona residente in un'altra città quello diventa effettivo, bisogna che avvenga anche al punto di vista comunitario”. Ma, se l’esprimersi in un italiano appena discreto sembrasse troppo noioso o fighetto, ci si potrebbe limitare a un semplicissimo “Raus”. Si capisce benissimo lo stesso.
2. Maurizio Lupi, vice presidente della Camera, fa parte di Comunione e Liberazione e, nei suoi interventi, il riferimento ai valori cristiani è costante. Nel corso della puntata di Ballarò del 14 settembre scorso, ha rivendicato a merito del governo il fatto che nel 2010 a Lampedusa sarebbero sbarcate 30536 persone in meno rispetto a quelle sbarcate nel
2008. Ma non si è chiesto dove mai siano finiti coloro che non hanno raggiunto le nostre coste. Non se lo è chiesto né in nome dei valori cristiani né in quello dei principi fondativi di un regime democratico. Eppure Lupi dovrebbe sapere che “i non arrivati” sono in parte reclusi, senza processo e senza garanzia alcuna nelle carceri libiche, in parte venduti dalla polizia locale a trafficanti che percorrono altre rotte, in parte finiti cadaveri tra le sabbie del deserto. Perché tacerlo? So bene di non potermi permettere di dare lezioni morali ad alcuno, ma sollevare qualche dubbio sì. Ho conosciuto abbastanza bene Don Luigi Giussani e ho sostenuto con lui l’esame di Morale1 prima di essere espulso dall’Università Cattolica per ragioni politico-disciplinari; frequento militanti e dirigenti di CeL e penso, per
esempio, che Giorgio Vittadini sia persona degna di stima e che Roberto Formigoni, uomo pieno di contraddizioni e tentazioni, sia un politico capace e, confesso, lo trovo simpatico.
Penso ancora che Antonio Socci col quale ci siamo scambiati fendenti e colpi bassi sia un’intelligenza interessante (tanto più ora che il suo successo è, per così dire, meno mondano). So bene anche che il solidarismo di CeL non ha nulla a che fare con quello “sociologico” e radicale dei miei amici della sinistra cristiana. E che quello di CeL,
avendo come riferimento il popolo (e il popolo di Dio), si preoccupa prioritariamente di ciò che costituisce fattore di unità e condivisione: e, dunque, di quanto in quella identità unita e condivisa possa essere integrato (gli immigrati, tra gli altri). Da qui l’attenzione non tanto per “gli ultimi” come nella sinistra cristiana, bensì per i “penultimi”, già parte del popolo e non ai suoi margini estremi. La distinzione non è di poco conto: CeL non è in alcun modo xenofoba (per carità), ma non pone gli ultimi – e gli immigrati - come destinatari prioritari della propria azione sociale. È un’impostazione meritevole di rispetto, a patto di manovrarla con sensibilità. Cosa che non fa Maurizio Lupi quando si preoccupa – giustamente – dell’impatto che gli sbarchi irregolari possono avere sul popolo italiano, ma tace sulla sorte
di quanti vengono respinti. Temo che ciò dipenda dalla sua sudditanza psicologica nei confronti di Silvio Berlusconi. Lupi, infatti, esprime uno specifico stile gregario, che non ha la sfrontata innocenza dell’amor fou di Sandro Bondi né l’iperbole pop della devozione psicadelica di Renato Farina, ma sembra affidarsi interamente a tributi encomiastici e
blandizie ditirambiche. Peccato: potrebbe far meglio.



Immigrazione: una sfida all’immaginazione

Associazione Migrare
Shukri Said, Segretaria e Portavoce dell’Associazione Migrare
L'immigrazione è un fenomeno relativamente recente in Italia, un Paese che, a differenza di altri Stati europei, non ha avuto un passato coloniale di lunga durata e che, comunque, non ha mai comportato l'amalgama con i popoli conquistati.
Ci si è accorti dell'arrivo degli stranieri quando i parabrezza delle nostre auto sono stati lustrati da cittadini polacchi e quando sulle nostre strade alcuni sorridenti personaggi dalla pelle ambrata hanno cominciato a proporci acquisti con un accento esotico.
Quelle prime esperienze sono ormai alle nostre spalle ed il fenomeno dell'immigrazione sta raggiungendo in rapida accelerazione le percentuali delle altre grandi democrazie europee.
E' dunque forse inevitabile che ad una così rapida evoluzione sociale, tanto incisiva e diffusa, le risposte non siano state sempre adeguate alla complessità della materia e probabilmente proprio la velocità con la quale l'immigrazione si è radicata in Italia è alla base dell'espandersi del successo elettorale della Lega Nord che tra le prime forze politiche ha reagito all'incremento del numero degli immigrati e degli effetti collaterali che ne conseguono.
Occorre anche ricordare che, verosimilmente sulla scia del successo della Lega Nord, altri importanti esponenti politici assunsero atteggiamenti fortemente reattivi all'immigrazione e non si possono dimenticare le parole dell'On. le Casini che nel 1999 voleva sparare ai gommoni degli scafisti che trasportavano decine di albanesi sulle nostre coste, né, sempre intorno a quel periodo, il giro di vite apportato dalla novella Bossi-Fini alla legge Turco-Napolitano sull'immigrazione.
Occorre però dare anche atto ad alcuni di questi esponenti politici di aver poi  modificato quegli atteggiamenti sino al punto di dover riconoscere come le posizioni oggi assunte dal Presidente della Camera Gianfranco Fini sulla cittadinanza breve, sullo ius soli e sul voto amministrativo, si collochino all'avanguardia nei confronti degli stranieri.
Questi ripensamenti, accompagnati dall'invito ad un “tagliando” per la legge Bossi-Fini, costituiscono manifestazione della conquista di un diverso approccio al fenomeno dell'immigrazione, più attento alle esigenze dei nuovi residenti e dei loro diritti, laddove altri continuano la contrapposizione sino al punto di affermare il diritto dei gendarmi libici del Mediterraneo di sparare sui barconi degli immigrati.
E' evidente, dunque, l'ampiezza del dibattito che, a sua volta, riflette quella assunta dal fenomeno dell'immigrazione. Né potrebbe essere diversamente se i considerano i numeri che ruotano intorno all'immigrazione.
Gli immigrati hanno raggiunto circa il 10% della popolazione residente in Italia sfiorando i 5 milioni di individui che producono circa il 10% del PIL; pagano i contributi agli enti previdenziali che in gran parte non erogheranno loro alcun trattamento pensionistico; hanno arrestato, con la nascita dei loro bambini, il declino demografico degli italiani; sono in vetta al numero delle nuove aziende aperte e danno quindi un serio contributo nell'arginare l'emorragia dei posti di lavoro conseguente alla crisi economica mondiale che ha colpito tante imprese italiane.
Peraltro, la diffusione degli immigrati sul territorio è abbastanza omogenea tra Nord, Centro e Sud, anche se la loro concentrazione emerge soprattutto nelle aree metropolitane.
Certamente l'immigrazione in Italia non è tutta rose e viole ed i problemi della criminalità si ergono a costituire un'arma in mano ai sentimenti xenofobi.
E tuttavia, allorché si parla della criminalità collegata all'immigrazione, occorre fare la tara depurandone i numeri tanto del reato di clandestinità, quanto di tutti quei reati di scarso allarme sociale che hanno stretta connessione con il disagio in cui versano alcune categorie di immigrati, talvolta derivante dai ritardi burocratici della loro regolarizzazione.
E' infatti evidente che un conto è la scelta di una vita al di fuori della legalità e tutt'altro conto sono i comportamenti antigiuridici indotti dallo stato di necessità e di sopravvivenza.
Del resto, sono proprio le politiche scarsamente votate all'integrazione a costituire la base per il reclutamento degli immigrati da parte di organizzazioni criminali che, non di rado, assicurano, oltre alla sopravvivenza, anche la protezione ed è sorprendente osservare come proprio le forze  politiche che si proclamano contro tutte le mafie, creino poi le condizioni per favorire alle mafie il reclutamento della loro manodopera e, quindi, nuove occasioni di sviluppo dei loro traffici.
Detraendo questi reati dai dati statistici, è possibile affermare che la concentrazione delle illiceità commesse dagli immigrati, e per di più quelle di maggiore allarme sociale, non ricade sugli extracomunitari confermando lo strabismo e la strumentalizzazione con la quale spesso vengono affrontati i problemi dell'immigrazione in sede politica.
L'osservazione che precede ne suggerisce un'altra.
L'immigrazione non è una sola, ma presenta molteplici aspetti e numerose sfaccettature permettendo di affermare che ci sono molte “immigrazioni”.
C’è l’immigrazione operosa di coloro che affollano l’alba delle nostre metropoli e delle nostre fattorie, quelli che puliscono le nostre case, assistono i nostri anziani, curano i nostri malati, lavorano nelle nostre imprese e nelle nostre fabbriche.
Poi c’è l’immigrazione di coloro che si sono emancipati dalla subordinazione del rapporto di lavoro e si sono affacciati alla libera imprenditoria aprendo frutterie, ristoranti, parrucchieri e attività di trasporto esibendo un’efficienza ed una cortesia in grado di soddisfare la clientela più esigente.
C’è poi l’immigrazione irregolare con la sua necessità di sopravvivenza, le sue paure, i suoi drammi, lo squallore dei Centri di identificazione ed espulsione che si salda con i problemi della capienza delle carceri quali unici sbocchi offerti dalla nostra burocrazia ad un universo di violenza, fame, guerra e malattie che costituiscono una delle fonti primarie dell’immigrazione umanitaria.
Quando ancora un numero rilevante di italiani si confronta a disagio con queste realtà, ecco che l’immigrazione propone un nuovo argomento di meditazione: le seconde generazioni ed, in prospettiva, le generazioni a venire.
Vi sono quartieri delle nostre metropoli in cui la concentrazione di immigrati ha già portato a classi scolastiche interamente formate da figli di immigrati ed è agevole pronosticare che la loro istruzione proseguirà sino a candidarli alle nostre università ed alle professioni cosiddette liberali, la punta di diamante della nostra borghesia.
Si tratta di traguardi ineludibili, che verranno raggiunti nel breve volgere di pochissimi decenni e che mostrano gli stessi itinerari che i nostri emigranti hanno seguito, per esempio, in America dove proprio in questi anni si assiste all’elezione di un Presidente come Barack Obama, a quella del Presidente della Camera dei Rappresentanti come Nancy Pelosi, a quella del Governatore della California come Arnold Schwarzenegger: tutti con origini non amercane.
Occorre chiarire una volta per tutte che il fenomeno dell’immigrazione è talmente complesso che le risposte semplici che vengono dalle attuali scelte politiche risultano assolutamente inadeguate e prive di quella creatività che, invece, nel settore delle finanze viene esaltata dall’Esecutivo.
Non si riconoscono in nessun modo attività di integrazione e si perdono occasioni preziose come, per esempio, i periodi di custodia in carcere la cui popolazione non viene istruita né alla lingua italiana, né ad un’attività lavorativa, venendo così meno anche all’impegno rieducativo della pena scolpito nella nostra Costituzione.
Eppure vi sono realtà locali che hanno saputo mettere a frutto l’immigrazione, ad esempio offrendo ai migranti ospitalità nelle case dei paesi completamente abbandonati dagli abitanti, fuggiti alla miseria chi in Svizzera, chi in Germania. E quei paesi hanno ricominciato a vivere e a produrre sia nel settore dell’artigianato che nel settore dell’agricoltura.
Si è trattato di esperimenti i cui buoni risultati ben potrebbero essere allargati a livello nazionale, mettendo a disposizione degli immigrati, con una innovativa riforma, le tantissime terre abbandonate, i numerosi casali fatiscenti, le innumerevoli stalle in disuso e cadenti. Gli stessi contratti agrari di antica memoria, come la mezzadria, l’enfiteusi e l’affitto potrebbero trovare rinnovata applicazione e slancio mescolandosi con l’istituto delle cooperative per assicurare ai prodotti remunerativi sbocchi sui mercati metropolitani.
E’ un’idea semplice, capace, oltretutto, di mettere ulteriormente in moto il mercato delle macchine agricole, delle sementi, dei braccianti, degli scambi, dei consorzi agrari agitando lo stagno dell’economia che pronostica, ancora per parecchi anni, una vera e propria immobilità del PIL.
Per la sua realizzazione sottolineiamo la necessità di una volontà politica di cui allo stato non vi è traccia nel panorama italiano, ma l’occasione di questa manifestazione può costituire l’inizio di un percorso che ci pare sufficientemente virtuoso da non dover essere immediatamente accantonato e poi abbandonato. Del resto, come insegna Lao Tzu, il fondatore del Taoismo: “Da ogni minuscolo germoglio nasce un albero con molte fronde. Ogni fortezza si erige con la posa della prima pietra. Ogni viaggio comincia con un solo passo.”.
I NUMERI DELL’IMMIGRAZIONE
IL RAPPORTO DELLA CARITAS - Secondo il rapporto dell’ottobre 2009 sull'immigrazione della Caritas/Migrantes gli immigrati regolari in Italia sono 4 milioni e mezzo. Nello studio si sottolinea come il nostro Paese per la prima volta nel 2008 - anno in cui gli immigrati sono cresciuti del 13,4% (+458.644 unità) - abbia superato la media europea (6,2%) per presenza di immigrati in rapporto ai residenti. I regolari, in particolare sono 4.330.000, il 7,2% dei residenti. Ma superano i 4 milioni e mezzo se si considerano i circa 300 mila regolarizzati lo scorso mese. È straniero un abitante su 14, circa la metà è donna. Nel 2050, secondo quanto sottolineato da Franco Pittau, coordinatore del dossier sull'immigrazione della Caritas/Migrantes (con riferimento alle previsioni dell'Istat) l'Italia sarà chiamata a convivere ben oltre 12 milioni di immigrati, la cui presenza «sarà necessaria per il funzionamento del paese».
I NUMERI - Il dossier sottolinea inoltre che oltre la metà degli stranieri regolari in Italia sono passati per le vie dell'irregolarità e sono stati quindi oggetto di regolarizzazioni. Sugli immigrati - sottolinea il rapporto - «non esiste alcuna emergenza criminalità, non ci distinguiamo in negativo nel confronto europeo. Mentre la vera emergenza, stando alle statistiche, è il catastrofismo migratorio, l'incapacità di prendere atto del ruolo assunto dall'immigrazione nello sviluppo del nostro paese». Gli stranieri sono il 7,2% dei residenti ma se si fa riferimento ai più giovani (fino a 39 anni), gli immigrati sono il 10%. Siamo sulla scia della Spagna (5 milioni) e non tanto distanti dalla Germania (7 milioni). Fra gli immigrati, prevale la provenienza da paesi europei (53,6%, per più della metà da paesi comunitari); seguono africani (22,4%), asiatici (15,8%), americani (8,1%). Le prime cinque comunità superano la metà dell'intera presenza: 800 mila romeni, 440 mila albanesi, 400 mila marocchini, 170 mila cinesi e 150 mila ucraini. Le maggiori presenze si hanno al Nord (62,1%); il 25,1% al Centro, il 12,8% al Meridione. Prima regione e la Lombardia (23,3%) seguita dal Lazio (11,6%) e Veneto (11,7%). Oltre un quinto degli stranieri sono minori (862.453), 5 punti percentuali in più rispetto agli italiani (22% contro 16,7%). I nuovi nati da entrambi i genitori stranieri (72.472) hanno inciso nel 2008 per il 12,6% sul totale delle nascite. Altri 40 mila minori sono giunti a seguito di ricongiungimento. Tra nati in Italia e ricongiunti, il 2008 è stato l'anno in cui i minori, per la prima volta, sono aumentati di oltre 100 mila unità. Oltre metà degli stranieri sono cristiani, un terzo musulmani. Le acquisizioni di cittadinanza sono quadruplicate dal 2000 (39.484 nel 200). Dal 1995 sono stati celebrati 222.521 matrimoni misti (un decimo solo lo scorso anno); non mancano i fallimenti, il 6,7% finisce con una separazione, il 5,7% con un divorzio. Ogni anno, infine, si laureano in Italia 6 mila stranieri. Buona parte di questi sono destinati a diventare la classe dirigente nel paese di origine.



UNO SVILUPPO SENZA FIGLI

la Repubblica, 21-09-2010
JOAQUIN NAVARRO-VALLS

Se si vuole giungere a sciogliere perlomeno uno dei nodi gravi e concreti della nostra vita contemporanea, bisogna riflettere sulla "questione demografica". Una cosa sono i flussi migratori, altro gli spostamenti di massa delle persone e altro ancora la presenza di molte diverse culture nelle singole comunità. L'effetto unico è, tuttavia, quello che vediamo, vale a dire una compagine umana eterogenea. in cui i modi di vivere sono ibridi e instabili e in cui è difficile dare una legislazione stabile e duratura. Una nota agenzia ecologica, Ecoage, ha presentato un curioso rapporto nel 2009 secondo cui "uno dei fattori determinanti dei problemi ambientali e sociali del nostro pianeta deriva per l'appunto dalla smodata crescita demografica". L'umanità, secondo l'agenzia, sarebbe passata dai 200 milioni di persone del I secolo d. C. ai 6,2 miliardi degli anni 2000, incontrando problemi nuovi di sopravvivenza nel tempo. Noi non sappiamo chiaramente quale fosse il livello demografico reale di duemila anni fa, perché allora nessuno poteva fare il censimento del continente americano, non essendo ancora conosciuto, o di quello africano, totalmente estraneo alle osservazioni demoscopiche. Dal 1960 al 2010 in Europa il numero è lievitato comunque da 605 milioni di unità a 733 milioni, mentre in Africa da 292 milioni a 1007. In qualche continente, insomma, si fanno molti figli, mentre in altri quasi per niente. Per correggere la distribuzione demografica ad alcuni Paesi è parso indispensabile invertire la tendenza in casa propria, comprimendo drasticamente la natalità. La Cina ha seguito rigorosamente questa via, investendo molto sul controllo delle nascite e sul rafforzamento della famiglia. Il risultato conclusivo di quest'operazione di ingegneria sociale è stato pessimo. Qualche giorno fa un alto dirigente di Pechino commentava ancora la politica del suo Paese in merito. Le scelte decise a livello centrale prevedono tutto, anche un aumento possibile nel futuro dei permessi familiari ad avere figli. Tutto, quindi, tranne la libertà. Il controllo coatto della vita, infatti, oltre ad essere in contrasto con il buon senso, costituisce un'evidente violazione dei diritti umani e una scelta inefficace a superare un problema generale come quello dei flussi migratori, determinati in larga parte dallo squilibrio distributivo e non dalla crescita quantitativa degli individui. L'anomalia, evidentemente, non solo non sta nell'aumento delle nascite, ma precisamente nell'esatto contrario, ossia nella sua diminuzione. La saggezza universale esprimeva già con chiarezza una persuasione valida di tipo razionale, secondo la quale tra le certezze inoppugnabili vi è il principio che "è sempre meglio essere piuttosto che non essere", ossia che è impossibile che la presenza anche solo di una persona in più comporti esclusivamente costi senza benefici. Solo un dogmatismo ideologico può far dire ai cinesi una cosa del genere, unito alla miopia illiberale e totalitaria della forma di governo. Che senso ha, d'altronde, promuovere la famiglia senza valorizzare la sua capacità generativa della vita? E ' risaputo, per converso, che è l'incremento sbilanciato e unilaterale della popolazione a generare semmai le difficoltà che tutti conosciamo e vediamo. La Francia, fedele a questa seconda linea, prima con Mitterand e poi in modo maggiore con Chirac e Sarkozy, ha puntato tutto sul rafforzamento demografico, ignorando però, simultaneamente, le condizioni che ne rendono possibile lo sviluppo, oltre che l'effettività. Ciò ha comportato, a conti fatti, optare univocamente pei una politica di progresso quantitativo del numero delle nascite, non allacciando il giusto sforzo ad una corrispettiva politica familiare ed educativa. La conseguenza è stata il sensibile aumento della popolazione senza la corrispondente crescita di stabilità della comunità. Una soluzione che, in definitiva, non ha dato i risultati voluti, perché concretamente era impossibile fin dall'inizio che potesse darne. Pensare che l'aumento delle nascite potesse avvenire al di fuori del contesto familiare che l'ha reso possibile, è un mistero. I nascituri crescono e possono svilupparsi in modo personale solo nel quadro di una realtà familiare che ne garantisca la sicurezza e la maturazione. Quindi, se la formula cinese sembra essere «Famiglia senza figli», quello della Francia potrebbe puntare a «Figli senza famiglia». II caso italiano, in questo senso, è particolarmente emblematico, perché è dotato dei giusti presupposti che servono a realizzare a pieno tutte le diverse esigenze sociali. L'Istat ha presentato, tuttavia, un documento del 2009 non del tutto ottimi sta, dove si mostra, regione per regione, quanto l'immigrazione  sia legata al calo demografico. In Trentino Alto Adige, ad esempio, il tasso di natalità per: 1000 abitanti è del 10,3 % con un 14 % di nascite da genitori stranieri. Mentre nelle Marche scende al 9,3 % con una percentuale da stranieri del 18 %. Questo significa che vi è uno scarso numero di figli, e una corrispondenza diretta tra il numero di stranieri presenti sul territorio e la diminuzione delle nascite autoctone. Essendo, nei fatti, la struttura profonda della società ancora in larga parte ancorata a valori di tipo tradizionale, è evidente il bisogno per l'Italia di una politica demografica che parta dal sostegno alla famiglia, come  perno culturale, politico ed economico della società, per estendersi in seguito e gradualmente alla crescita quantitativa della popolazione.
La risposta giusta, insomma, è famiglia e figli insieme, anche perché ovunque è necessario puntare su entrambi questi pilastri antropologici, favorendo uno sviluppo delle nascite progressivo e consequenziale, unito alla stabilità domestica. In fin dei conti, solo nuclei affettivi stabili, duraturi e numerosi, generano nelle comunità cittadini in grado di rispondere alla domanda sociale ed industriale e capaci di produrre lavoro, mercato e ricchezza interna ed esterna. Tutto ciò è verificato empiricamente, cioè concretamente, anche se corrisponde con esattezza ad un criterio di valutazione etico e culturale ben preciso. L'aumento demografico, d'altronde, è l'unico rimedio conosciuto per arginare, oltre la domanda d'immigrazione, il deficit endemico del sistema previdenziale.



OMOFOBIA
Coppia gay picchiata e aggredita Si stavano baciando su un panchina

Corriere.it, 21-09-2010
Due inglesi sono stati assaliti da un gruppo di uomini alla festa della birra a Pignataro, nel frusinate
PIGNATARO (Frosinone) - Una coppia di fatto, composta da due uomini omosessuali inglesi, è stata aggredita nel corso della festa della birra che qualche sera fa si è svolta nel comune di Pignataro. I due, trentenni e in vacanza nel paesino nel cassinate, erano intenti a scambiarsi effusioni seduti su una panca quando sono stati avvicinati da un gruppo di uomini, quasi certamente romeni, che li ha selvaggiamente picchiati.
L'AGGRESSIONE - Gli aggressori hanno contestato a voce alta il fatto che i due italo-inglesi (uno dei due è originario della zona) stessero dando uno spettacolo poco edificante. Le vittime hanno riportato ferite al setto nasale e alla testa, e uno dei due è dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso. Sul gravissimo episodio di omofobia stanno indagando ora i carabinieri della compagnia di Pontecorvo. I militari stanno ascoltando anche gli altri presenti alla festa per cercare di risalire agli aggressori. La coppia (i due inglesi sono regolarmente sposati) è ripartita alla volta dell'Inghilterra. (fonte Agi)



LATINA, IL CASO DELLA DONNA VELATA
"Spaventati dal niqab? In classe lo toglierò"
La Stampa, 21-09-2010
CRISTIANA PUMPO
LATINA -I bambini della scuola materna di Sonnino, provincia di Latina, non dovranno più avere paura della «maestra nera»: da oggi la mamma col volto coperto da un velo nero, una volta a scuola con la sua bambina mostrerà il volto, indossando un altro tipo di velo. «Noi rispettiamo le leggi italiane ed il Corano ci consente di far girare le nostre donne anche con il volto scoperto - dice il marito della donna, Moustafa Addì, imam della moschea di Priverno -, per cui da oggi in poi mia moglie si recherà a scuola in questo modo per non spaventare i bambini, perché mia moglie non porta il burqa come è stato detto erroneamente ma il niqab».
La decisione comunque è stata presa durante l'incontro che si è svolto ieri mattina nell'asilo del paese tra il sindaco Gino Cesare Gasbarrone, la dirigente scolastica Assunta Natalini e il marito della donna. Assente però la donna. «L'imam di Priverno e sua moglie - dice il sindaco di Sonnino, Gino Cesare Gasbarrone -hanno dimostrato la piena disponibilità a venire incontro alle esigenze delle famiglie del paese».

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