08 aprile 2011

E li chiamano clandestini
L'Unità 8 aprile 2011
Luigi Manconi
“Sono una riga nel mare fantasma nella città/ la mia vita è proibita, dicono le autorità,/ giro solo con la mia pena,
la mia condanna va da sola,/fuggire è il mio destino,perché non ho documenti/ perso nel cuore della grande Babylon”.
Manu Chao, Clandestino, 2000
Questi i dati: dal 1988 a oggi, sono almeno 23.000 i morti in mare lungo le rotte che dalle coste settentrionali
dell’Africa vanno verso   l’Europa, la Turchia e lo stretto di Gibilterra. E ciò significa 2,7 morti in quel tratto di
mare, ogni giorno che Dio manda in terra. Sono cifre crudeli, approssimate per difetto. Ma già così dicono molto anche
a proposito della tragedia di due giorni fa: e rivelano la miseria del nostro discorso pubblico e, prima ancora, del
nostro linguaggio. Eccoli qui quelli che chiamiamo “clandestini”: i molti “sommersi” (250) e i pochi “salvati” (53),
che mostrano impietosamente (impietosamente verso di noi questa volta) la torva vacuità del nostro vocabolario. Perché
questi sarebbero i “clandestini”, secondo il termine che spadroneggia, indisturbato, in tutti i mezzi di
comunicazione. Sarebbero clandestini, cioè, quanti, nella maniera più aperta e visibile, offrono al nostro sguardo, a
quello delle telecamere e a quello delle forze di polizia, tutta intera la propria faccia, la propria nudità, la
propria sofferenza. E, invece, niente di meno “clandestino” di quei volti, di quei corpi, di quelle esistenze che ci
vengono incontro, quando non vengono fermate prima, su quelle imbarcazioni di fortuna. Clandestini i bambini annegati
nella notte tra il 5 e il 6 aprile e clandestino quel Yeab Sera, nato il 25 marzo su un pezzo di legno in mezzo al
Mediterraneo, da una donna in fuga dalla Libia. È pur vero che ci si premura di dire che questi ultimi, in quanto
provenienti dall’Eritrea o dalla Somalia – a differenza dei tunisini - sarebbero profughi: e, dunque, meritevoli di
una diversa accoglienza e del riconoscimento di una protezione umanitaria. Ma tale distinzione, anche se dotata di una
base giuridica, risulta oggi approssimativa: tanto più quando i paesi di provenienza, come nel caso della Tunisia, pur
non teatro di un conflitto bellico o di una guerra civile, sono connotati da profonda instabilità. Oggi, si può dire
che la figura del profugo politico e del migrante economico tendono a sovrapporsi; e quel sottinteso di ipocrisia, che
la distinzione prima ricordata rivela, mostra tutta la sua indecenza se consideriamo la natura del trattamento che nei
fatti accomuna entrambi, profughi e migranti. E questo riguarda i sopravvissuti. Di quelli che non ce l’hanno fatta
sappiamo molto poco. Tre morti al giorno ogni santo giorno sono, probabilmente, assai meno del numero reale. E,
infatti, di molti naufragi e, prima, di molte fughe, non esiste alcuna documentazione. D’altra parte, una percentuale
elevatissima di quei morti  (intorno al 50%) viene classificata alla voce “dispersi”, ovvero cadaveri mai più
ritrovati, senza un nome e una tomba. Tutto ciò rivela come il discorso pubblico sulle migrazioni si fondi su una
costruzione ideologica. Basti ricordare che: a. gli sbarchi a Lampedusa  hanno costituito, in questi anni, appena il
5% del complesso degli ingressi irregolari; b. una volta bloccato l’accesso a Lampedusa, a partire dalla seconda metà
del 2009, i flussi via mare si sono indirizzati verso la Puglia, la Calabria, la Sardegna; c. una quota cospicua di
quanti approdano sulle nostre spiagge è costituita da profughi, destinati a ottenere – come poi avviene per molti - lo
status di rifugiati. E qui non è inutile ricordare un altro dato significativo. Tutti, ma proprio tutti, hanno trovato
comodo richiamare la responsabilità dell’Unione Europea e la necessità di un impegno comune. Sarà pur vero, ma
consideriamo alcune cifre inequivocabili, che confermano l’eccezionale avarizia del nostro paese.  In Francia
(65milioni di abitanti) al 31 dicembre 2009 erano presenti 196384 rifugiati; in Germania (83 milioni di abitanti)
593799; nel Regno Unito (popolazione di quasi 60 milioni) 269363. In altre parole, i “parenti d’oltr’Alpe”, oggi
nuovamente “serpenti”, ospitano – con una popolazione appena superiore - un numero di rifugiati più di tre volte
maggiore del nostro (54985). E se consideriamo un altro dato, lo scenario non cambia. Solo la Francia presenta una
percentuale di immigrati (rispetto all’intera popolazione) inferiore a quella italiana, mentre l’Inghilterra e la
Germania, accolgono una percentuale di immigrati maggiore della nostra. E per conoscere la qualità del trattamento
riservato ai profughi in Italia, è sufficiente visitare uno degli “insediamenti informali” presenti a Roma: al binario
15 della stazione Ostiense, da anni vive, si fa per dire, un centinaio di profughi afghani.



Selezione all'ingresso
www.Italiarazzismo.it 8 aprile 2011
“Vietato l’ingresso agli animali ed agli immigrati. La direzione” . Ecco cosa recitava un cartello affisso qualche
giorno fa sulla porta di ingresso di un bar nel quartiere romano Montesacro. A denunciare il fatto è Abdul Bouja, un
frequentatore del bar in questione, di origine marocchina e da anni residente regolarmente in Italia. Inorridito da
quella scritta decide di chiedere spiegazioni al barista, violando il divieto di ingresso senza, per fortuna,
incorrere in una punizione. La risposta rimanda alle preoccupazioni del titolare del bar (“la direzione”) che, in
passato, ha avuto problemi con alcuni stranieri che si erano ubriacati all’interno del locale inscenando delle risse.
Il signor Bouja ha affidato la denuncia del fatto al suo avvocato, Giacinto Canzona, che sta valutando la possibilità
di un’azione legale nei confronti del proprietario del bar poiché ritiene che quel cartello sia “altamente
discriminatorio per sé e per tutti quelli stranieri che hanno un regolare permesso di soggiorno e che con il loro
lavoro contribuiscono alla ricchezza nazionale”.



L’Italia ha il mal di Francia. I Profughi c’entrano poco
Liberazione 8 aprile 2011
Stefano Galieni
Il braccio di ferro in corso fra i governi di Italia e Francia non si risolverà certo stamattina con l’incontro fra i
due ministri dell’interno. L’ incontro urgente si è reso necessario per  le diatribe connesse ai profughi tunisini
giunti a Lampedusa e intenzionati a raggiungere il paese transalpino, ma  tocca solo uno dei numerosi elementi di
attrito fra i due governi. Il passaggio in Francia di alcune migliaia di persone è elemento importante intanto per
questioni di politica interna. Si avvicinano tornate elettorali e né la destra di Sarkozy né tantomeno quella
dell’asse Berlusconi – Bossi, possono vedersi sconfitti su un tema tanto pregnante per il proprio elettorato. Il
governo italiano ha dovuto subire obtorto collo la decisione di concedere ai circa 22 mila tunisini una protezione
temporanea – di 6 mesi – valida in tutta l’area Schengen. Una scelta che ha anticipato le decisioni dell’U.E. ma che
la stessa commissaria all’immigrazione Cécile Malmstrom considerava inevitabile. Già nelle scorse settimane, molti di
coloro che avevano raggiunto l’Italia erano stati respinti poi dalla gendarmerie francese al confine con Ventimiglia-
si parla di oltre 3300 persone-, ora, in attesa di una posizione più definita dell’Europa, il governo francese ha
deciso di procedere per proprio conto. Il ministro dell’interno Claude Gueant ha inviato a tutti i prefetti di Francia
un rigido codice per rendere meno facili gli ingressi dall’Italia. Il tempo massimo di soggiorno sarà in quel paese di
3 mesi, chi entra deve essere in possesso del passaporto o di un documento di soggiorno valido emesso da uno Stato
membro dello spazio Schengen e del passaporto o di una autorizzazione provvisoria di soggiorno valida e di un titolo
di viaggio emessi dallo stesso Stato membro. Questi saranno accettati solo se notificati alla Commissione europea
dallo Stato che li ha emessi. Ovviamente si fa riferimento implicito all’Italia. Solo in presenza di tali requisiti,
uniti al fatto che gli stranieri interessati non debbono rappresentare con la loro presenza una minaccia per l’ordine
pubblico e debbono giustificare di avere risorse economiche proprie per mantenersi, la Francia potrà riconoscere
titoli provvisori di viaggio. In pratica le stesse norme con cui l’Italia legifera da anni contro rom e migranti,
anche di paesi neo comunitari, verranno attuate dalle autorità di Parigi. E se dall’Italia il ministro La Russa invita
a trovare l’intesa con quello che si considera un Paese amico, è Maroni a gettare benzina sul fuoco affermando che da
Parigi arrivano finora solo segnali di ostilità. Ma che non si tratti di divergenze connesse solo all’immigrazione lo
si capisce anche dal fatto che è stato messo in programma per il prossimo 26 aprile un incontro fra Sarkozy e
Berlusconi. I temi sul piatto saranno molti, in primo luogo, c’è da credere, l’atteggiamento diverso, per certi versi
da competitor, assunto dai due Paesi nell’affrontare la crisi libica. Ondivago e prudente quello italiano, tanto dal
portare Berlusconi ad essere per ora tagliato fuori da ogni ruolo decisionale sia nelle fasi del conflitto, sia nella
definizione del nuovo assetto geopolitico, decisionista quello francese, tanto che sembra di rivivere i fasti della
peggiore grandeur . La Francia ha attaccato in Libia anticipando anche i propri alleati, appare sempre più impegnata a
ritagliarsi un ruolo egemone nell’area rischiando – è una notizia ancora non smentita –  l’impiego di commando di
terra, uno dei quali risulterebbe disperso nel deserto libico. Sono francesi gli elicotteri che stanno intervenendo in
Costa D’Avorio per aiutare le milizie che sostengono il presidente che ha vinto le ultime elezioni, Alassane Ouattara,
contro quelle dello sconfitto Laurent Gbagbo che non intende accettare il risultato delle urne. I due impegni militari
congiunti, uniti ad uno scontro politico tutto interno alla U.E. prefigurano l’aspirazione della Francia ad avere un
ruolo egemone nella Comunità sia in termini di peso politico effettivo sia rispetto al controllo delle risorse
energetiche ed economiche dei due Paesi africani tanto distanti. Un confronto fra destre e fra Stati nazionali, da cui
l’Italia sembra uscire alquanto malconcia.



IMMIGRATI: TUNISI CONFERMA, DA ITALIA SARANNO RIMPATRIATI 800 MIGRANTI =

Tunisi, 8 apr. - (Adnkronos/Aki) - Fonti del ministero dell'Interno tunisino, citate dall'agenzia d'informazione 'Tap', hanno confermato che l'accordo con l'Italia sui rimpatri riguarda «800 migranti tunisini presenti ancora a Lampedusa», mentre «a coloro che sono arrivati nel territorio italiano dal 25 gennaio scorso saranno concessi permessi temporanei». Le fonti governative del paese nordafricano hanno quindi sottolineato che con le autorità italiane è stato concordato che la procedura di espulsione sarà fatta «evitando deportazioni di massa, ma in piccoli gruppi e in presenza delle autorità consolari tunisine al
fine di salvaguardare i diritti umani dei migranti e la loro dignità» e in modo discreto. Le stesse fonti, citate
dalla 'Tap', ribadiscono che l'accordo raggiunto con l'Italia per contrastare l'immigrazione clandestina «rispetta la
sovranità della Tunisia per quanto concerne il monitoraggio dei propri spazi ed acque territoriali, senza dovere
ricorrere a pattugliamenti congiunti».



Le dure regole francesi per ottenere il soggiorno
Terra 8 aprile 2011
Dina Galano
Un governo che ha dimostrato di saper respingere persone in alto mare non dovrebbe stupirsi della reazione francese.
La maggior parte dei tunisini, «migranti economici» e non rifugiati, vuole valicare le Alpi perché in Francia ha
parenti ed amici. Nel doppio tentativo di arginare 1'emergenza immigrazione - bloccando gli arrivi dal Nord Africa e
lasciando circolare in Europa chi è già arrivato - il governo italiano si è trovato a incassare la risposta inospitale
di Parigi. Ieri, infatti, alla firma del decreto che riconoscerà un titolo di soggiorno temporaneo di sei mesi ai
profughi già presenti nel nostro Paese, il ministro dell'interno francese Claude Gueant ha ordinato - tramite
circolare interna alle prefetture - il respingimento alla frontiera di tutti coloro che non presenteranno i requisiti
di legge. Cinque condizioni che Parigi considera cumulative per il soggiorno temporaneo sul proprio territorio, tra
cui pesa molto la richiesta di risorse economiche sufficienti da parte dello straniero, che in Francia oscillano dai
31 euro al giorno fino oltre ai 60 se si è sprovvisti di un'abitazione. «II solo fatto che la Francia abbia emesso
questa circolare è indicativo di come voglia gestire la questione immigrazione», nota il presidente dei progetto Mel-
tingpot, Nicola Grigion. La posizione francese, infatti, si oppone alla scelta dei governo italiano di prediligere
«un'attività istantanea e autonoma, decisa in base all'articolo 20 dei Testo unico sull'immigrazione e senza
richiamare un intervento europeo», spiega l'esperto. Schengen scatta proprio in conseguenza dell'applicazione di
quell'articolo che, offrendo un titolo di soggiorno in Italia della durata di sei mesi, consente per la metà dei tempo
la permanenza in un altro Paese dell'area. In caso contrario, se il governo italiano volesse far intervenire il
Consiglio Ue come ha suggerito di fare ieri Maroni, tornando sui suoi passi alle prime schermaglie con il suo collega
Gueant, i migranti non potrebbero circolare liberamente in Europa, ma soltanto nel Paese dove il permesso temporaneo è
stato riconosciuto. Sergio Briguglio, esperto di immigrazione e ricercatore Enea, scioglie cosi 1'intricata matassa:
«Per un tunisino, la possibilità di entrare in Francia con successo dipenderà dal tipo di permesso che gli verrà
concesso. Detto questo, ed esclusi casi particolarissimi, quel titolo abilita alla libera circolazione». E l'opzione
più accreditata resta il riconoscimento dei «motivi umanitari». Proclami a parte, nella pratica ai governo francese
spetta un'unica alternativa. «Può ripristinare il controllo alle frontiere sospendendo il trattato Schengen e
compiendo un atto politico molto forte nei confronti dell'Europa», chiarisce Briguglio, «oppure il tunisino che sarà
rintracciato sul suolo francese privo di uno dei requisiti da cui dipende la validità del soggiorno dovrà lasciare la
Francia. Tornerà in Italia, o in patria se i sei mesi sono scaduti».



Il giurista: «L'Europa ha tradito Schengen»
Avvenire 8 aprile 2011
Paolo Viana
Schengen consente alla Francia di respingere gli immigrati muniti del permesso di soggiorno temporaneo?
Il margine di manovra esiste - ci risponde Andrea Pin, docente di diritto pubblico comparato all'Università di Padova
- ed è duplice. La Convenzione applicativa dell'Accordo consente agli stranieri di Paesi terzi di circolare
liberamente per un periodo di tre mesi, ma a due condizioni: non devo no costituire un problema di ordine pubblico -
una massa di disoccupati può esserlo - e devono avere le risorse economiche necessarie per sostenlarsi, condizione
difficilmente aggirabile e facilmente verificabile. Non a caso la circolare diramata dal Ministero francese indica
precisamente in 62 euro/giorno l'ammontare richiesto.
Il governo italiano ha qualcosa da rimproverarsi?
Francamente non ries co a vedere alternative. Avremmo potuto modificare le nostre leggi nazionali, per consentire un
permesso di soggiorno per motivi diversi, ma non sarebbe cambiato nulla per Schengen. Piuttosto, si potrebbero fare
due ordini di considerazioni: primo, la filosofia di Schengen è di spostare sulle frontiere esterne l'attenzione e la
cooperazione. In questo senso, l'intera Europa ha "tradito" Schengen. Secondo, l'Italia con quel permesso ha fatto un
favore all'intera Europa. Infatti, il permesso presuppone l'identificazione: in questo modo gli stranieri sono stati
resi identificabili. Mentre i clandestini tendono a non declinare le generalità per non essere espulsi. Se domani
troveranno un tunisino in Olanda, lo identificheranno ed eventualmente espelleranno grazie a noi.
A questo punto dobbiamo dire che il diritto italiano e quello comunitario non parlano la stessa lingua?
Direi che questo esiste, come del resto in moltissimi altri Paesi. Non dimentichiamo che questa difformità va a favore
dell'immigrato: abbiamo utilizzato uno spiraglio normativo che ci consente di regolarizzare situazioni di cui Schengen
non vuole farsi carico. Visto che lo spiraglio ha oltre dieci anni, è un indizio di civiltà giuridica. Dovremmo
esserne fieri.



La sofferenza dei profughi non è un problema "politico"
Libero 8 aprile 2011
Don Chino Pezzoli
Questi morti annegati e ingoiati dal mare non contano. Sono ritenuti clandestini e invasori dei nostri spazi sociali.
Le affermazioni che si apprendono nei bar, tra amici e persino dai baciapile che occupano le panche delle nostre
chiese, sono disarmanti. I motívi di questo "sadismo sociale" non richiedono acute analisi. È il risultato di una
mentalità menefreghista diffusa che si copre di parole, di lamenti, di accuse inutili. «Sono annegati per imprudenza»,
si dice. «Stiano al loro paese», si commenta. Sembra che tutto passi su quella specie di moviola della nostra mente
come se fosse un susseguirsi d'immagini di un film. I più sensibili se la prendono ora con il governo tunisino e con
quello libico in sfacelo; contestano con gli Stati europei che sono più impegnati a salvare i pozzi del petrolio che
le persone. È in caduta, cari lettori, il valore della persona.
I poveri, i disperati clandestini si desidera che siano cacciati via, intruppati e piantonati nelle tendopoli in
attesa di riportarli verso il loro "inferno" appena abbandonato. Se poi annegano durante le traversate, niente di
male? «Pazienza», qualcuno afferma, «meno clandestini da accogliere, curare». Sembra ormai che si debba sostenere la
tesi che eliminare o lasciare che si eliminino da sole le persone povere, disperate, faccia parte di un metodo
necessario. Il detto "mors tua vita mea", scriviamolo pure, cari amici, all'ingresso dei nostri condomini, comuni,
stadi, scuole e Chiese. Importante è tutelare, blindare la propria vita. E quella degli altri? È un problema politico.
Questo termine "politico" ha inquinato la coscienza di molti. Basta un esempio per dimostrare che i barconi dei
clandestini trasportano vite svalutate, esistenze insignificanti. Alcuni giornali e telegiornali danno spazio e
importanza al caso Ruby e riservano poche righe al destino di migliaia di persone clandestine. E ancora. Si scatena
nel nostro Parlamento una bagarre che non risparmia offese, violenze verbali, fescennini squallidi, spintoni ed altro,
mentre sta avvenendo una invasione africana che potrebbe cambiare il nostro Paese.
Ma ritorniamo ai clandestini in cerca di speranza. Già le nostre strade del nord d'Italia sono percorse da gruppi di
tunisini, libici alla ricerca di un rifugio e di quel necessario sostentamento. Si avvicinano ai supermercati, si
presentano ai nostri centri d'accoglienza, passano la notte distesi per terra.
C'è chi strige tra le braccia un bambino, chi stende la mano per avere dai passanti alcuni spiccioli.È un momento
d'emergenza affettiva, di disponibilità solidale. Qualcuno ha detto che non si risolvono i casi disperati con gesti
caritativi e solidali. Non sono d'accordo: ognuno faccia tutto ciò che può fare. L'indifferenza è un peccato grave con
terribili conseguenze.
La storia ci insegna che non è la caccia allo straniero che risolve i disordini, ma quella capacità educativa che
avvicina chi è diverso e lo rende cosciente dei suoi diritti e doveri. Non si può dimenticare quanto disse al sindaco
di Parigi 1'abbé Pierre: «Lei come un leone, detiene il potere, mentre i poveri sono come gli insetti che vengono
dall'immondizia. Ma non si è mai visto un leone riuscire ad acciuffare gli insetti; mentre gli insetti, se vogliono,
possono infastidire il re della foresta. Nella loro debolezza i poveri sono più forti dei potenti». Mi piace questa
intuizione: i poveri sono come insetti che infastidiscono i potenti, gli egoisti e benpensanti.



La Lega pensa al blocco navale
Libero 8 aprile 2011
Matteo Pandini
La Lega annuncia il pugno di ferro. E pensa di invocare il blocco navale per impedire nuovi sbarchi a Lampedusa.
Maroni e Bossi ne avevano parlato recentemente in via Bellerio, preparando l'eventualità dello scontro diplomatico -
sia con Tunisi che con Parigi - qualora la carta delle "buone maniéré" si fosse rivelata inefficace. Cosi è stato.
Ieri è toccato al Senatur annunciare la svolta: «Tutti i Paesi attuano una politica molto dura» nei confronti
dell'immigrazione, quindi «è certo» che anche l'Italia dovrà fare la stessa cosa.
Per il Viminale è stato il segnale del via libera: Maroni doveva assicurarsi di avere le spalle coperte, prima di
preparare una controffensiva che rischia di avere ripercussioni anche nella maggioranza. In mattinata il Viminale
aveva già confermato il decreto per i permessi temporanei, affinché gli africani possano lasciare l'Italia e
sparpagliarsi in Europa. Soprattutto in Francia. È questa la seconda mossa del leghista, dopo il viaggio nel deserto
tunisino alla ricerca di un accordo impossibile: nove ore servite per buttare giù un patto con un governo tenuto
insieme con lo sputo e totalmente inaffidabile. Risultati zero, ma il tentativo - hanno spiegato nel centrodestra -
era doveroso. Solo 1'insistenza di Berlusconi aveva convinto Maroni a non abbandonare il tavolo prima dei tempo, ma
una volta rientrato in Italia il ministro ha telefonato a Bossi per accelerare sul piano B, ovvero i permessi
temporanei su cui Parigi ha già alzato le barricate. «C'è un atteggiamento di ostilità della Francia» sbotta il
titolare dei Viminale. Tra poche ore Maroni potrebbe annunciare la terza idea. Blocco navale per prevenire gli
sbarchi. Una soluzione su cui Berlusconi non pare convinto, soprattutto perche deve ragionarci mentre il Pdl
meridionale, inferocito per le tendopoli allestite nel Mezzogiorno, accusa l'esecutivo di assecondare troppo la Lega.
Pensare che proprio il premier ha rassicurato il sottosegretario Alfredo Mantovano, annunciando 1'invio di stranieri
anche sopra il Po. L'ex esponente di An aveva minacciato le dimissioni (rientrate ieri) per i troppi africani stipati
nella sua Puglia.
II presidente del consiglio ha auspicato anche un generale ammorbidimento «dell'amico Umberto». Ma il Senatur,
allarmato per una situazione su cui la Lega si gioca la faccia, anziché un passo indietro vuole farne due in avanti.
Maroni, in ansia e arrabbiato per le difficoltà internazionali, ha fotografato cosi la situazione ai fedelissimi:
dalla Tunisia i barconi continueranno ad arrivare; aumenteranno pure quelli in partenza dalla Libia; Malta se ne
frega, tanto che la carretta del mare affondata l'altro giorno è colata a picco nelle sue acque. La Penisola si
riempie di africani e non può neanche farli uscire, perche a Ventimiglia i francesi ce li rispediscono appena
posssibile. A questo, va aggiunto che nella sua Padania il Carroccio non vuole allestire tendopoli, sostenendo che gli
extracomunitari sono già troppi. Quindi non resta che alzare la voce. Chiedere aiuto e quattrini all'Europa. Fermare
le carrette dei mare. Affrontare lo scontro diplomatico soprattutto con Parigi, oltre che con Tunisi. Non è un caso se
ieri un senatore lumbard, Paolo Franco, ha proposto di non andare in vacanza Oltralpe. Mentre un deputato, Giacomo
Stucchi, abbandona le recenti cautele e critica apertamente l'opposizione, accusa di demolire «la funzione legislativa
dei Parlamento» nonostante «le emergenze». La sceneggiata di ieri alla Camera, con 1'infame cartello "Maroni
assassino" esibito da un uomo di Di Pietro, testimonia una tensione crescente e che cancella il fair play coltivato
per strappare il federalismo.
«È in gioco anche la credibilità della Lega» sbottano alcuni parlamentari, mentre il capogruppo alla Camera, Marco
Reguzzoni, argomenta cosi il progetto di legge dei padani che chiedono di inasprire le pene, fino all'ergastolo, per
gli scafisti: «Offendono la dignità umana». La Lega è pronta alla battaglia, anche se Maroni consiglia di tenere la
bocca chiusa «perché la situazione può cambiare da un momento all'altro». Oggi, a Milano, faccia a faccia tra il
ministro dell'Interno e il suo omologo francese. Maroni promette battaglia: «Se non accettano gli immigrati, i
francesi escano dall'area Schengen». La colomba Berlusconi riuscirà a fermare gli alleati?



E sugli immigrati vince Gabrielli
Alessandra Ricciardi
E già si parla di modello Albania. La Protezione civile torna in campo nella gestione dell'emergenza immigrati, dopo
settimane in cui il dipartimento era stato messo all'angolo, quasi sparito dalla gestione degli sbarchi e
dall'allestimento dei campi profughi. Ieri la retromarcia del governo. II consiglio dei ministri ha nominato Franco
Gabrielli, numero uno di Via Ulpiano, commissario straordinario per l'emergenza. Un risultato che i rumors di Palazzo
imputano non solo alla presa di posizione del sottosegretario alla presidenza,
Gianni Letta, da sempre sensibile al settore, ma anche alle forti critiche giunte dalla regioni, che hanno lamentato
l'assenza di coordiamento e la decisione di non ricorrere al pieno coinvolgimento delle forze dei volontari,
sostituiti anche nel montaggio delle tende dai vigili del fuoco per scelta del ministero dell'interno. Ora con
l'incarico a Gabrielli, la Protezione civile torna a svolgere quel ruolo centrale che ha
avuto in passato, per esempio nel '99, con i profughi in Albania. Al commissario spetterà il coordinamento di tutti i
soggetti in campo - regioni, comuni, asl, prefetti - e la gestione dei fondi che a breve necessariamente dovranno
essere stanziati per le strutture di accoglienza. Con un ritorno in primo piano dei volontari, circa 350 mila si
stima, quelli formati nel tempo ad emergenze del genere.
Impossibile però non dare alla scelta di Gabrielli commissario straordinario anche un valore politico, nella guerra
per la gestione e la spartizione dei poteri del settore che furono di Guido Bertolaso.



In Libia un banco di prova per il diritto umanitario
Avvenire 8 aprile 2011
Fracesco D'Agostino
Due guerre mondiali, l'uso di due bombe atomiche, genocidi, crudeltà e infamie di ogni tipo: il nostro tempo, forse
per la prima volta nella storia dell'umanità, sembra essersi convinto che la guerra è sempre una prassi ripugnante e
inaccettabile. Per i giuristi (e in particolare per i cultori dei diritto internazionale) condividere questa opinione
comporta un onere particolarissimo, quello di decostruire e riformulare radicalmente l'antica, e sotto certi profili
ammirevole, dottrina dello jus belli. Compito necessario, assolutamente urgente e improbo. È un fatto, comunque, che
vecchi paradigmi si stanno liquefacendo sotto i nostri occhi e quella che chiamavamo guerra si presenta sul
palcoscenico internazionale con nuovi connotati, che a volte la rendono a stento riconoscibile. Si può arrivare a dire
che, giuridicamente, è come se la guerra non esistesse piü. Non esiste piü la "dichiarazione di guerra" e meno che mai
esistono più gli "ultimatum" che spesso la precedevano, per legittimarla (ove non avessero ottenuto risposta) o per
evitaria (se accolti). Non esiste più la distinzione, radicale ed essenziale, tra le truppe combattenti e la
popolazione "civile". Si è dissolto il concetto di "prigioniero di guerra". Non esiste più la "neutralità" di uno
Stato nei confronti di altri Stati in conflitto tra loro. Né più valgono le convenzioni di guerra, volte a limitare
l'uso delle armi o a delimitare territori da salvaguardare dal conflitto. Non esistono più i trattati di pace, che nel
momento in cui vincolavano gli sconfitti vincolavano altresi, e paradossalmente, i vincitori. Le alleanze, quando
sopravvivono, non sono più pensate nella prospettiva di possibili conflitti... E potremmo continuare a lungo.
Incrinatasi o addirittura scomparsa la guerra come categoria giuridica (ma non, ovviamente, la guerra come categoria
storico-politica), l'uso della forza sta cercando una diversa legittimazione nel diritto internazionale, attraverso la
categoria del tutto nuova dell'intervento umanitario. Nella sua materialità quello umanitario è comunque un intervento
militare, ma non lo si vuole ricondurre alla categoria della guerra. Il diritto internazionale pretende che gli Stati
che si accollano il peso di simili interventi usino i loro soldati come poliziotti che combattono per la giustizia e
per l'ordine pubblico e non come combattenti chiamati a guerreggiare per ottenere la vittoria nel loro Paese contro il
nemico. In linea di principio la distinzione tra guerra e intervento umanitario sembra quindi nettissima: mentre
attraverso la guerra "tradizionale" lo Stato difendeva se stesso contro un'ingiusta aggressione o comunque operava per
difendere i propri interessi (da esso stesso costantemente qualificati come "vitali"); attraverso l'intervento
umanitario lo Stato (meglio ancora se associa alla sua azione altri Stati) agisce per la difesa di quei valori supremi
che sono i diritti dell'uomo, operando contro quei regimi che, incrudelendo contro i propri Cittadini e violandone i
diritti fondamentali, dimostrano di essersi allontanati dai sentieri virtuosi della democrazia (o di non averli ancora
calpestati). Di fatto le cose non sono cosi semplici. Come ha esattamente osservato Ugo Draetta in un'intervista ad
Avvenire «l'acquisizione del diritto umanitario da parte del diritto internazionale è recente, ancora da consolidare e
velata da diverse interpretazioni politiche». Il sospetto che dietro allo schermo del diritto umanitario si facciano
strada interessi addirittura più loschi di quelli che si pretendeva che legittimassero le guerre tradizionali non è
per nulla infondato. Ma non basta questo sospetto a non farci percepire come, pur tra tante ambiguità, il diritto di
guerra stia oggettivamente deperendo (o sia al limite già scomparso). È un fatto che "diritto di guerra" è ormai
un'espressione inaccettabile, cosi come è un fatto che "diritto umanitario" forse non del tutto limpida, ma che
comunque veicola significati positivi. Tutto bene, dunque? Si, ma ad una rigida condizione: che si riconosca che il
diritto umanitario ha bisogno di un forte radicamento etico ed è quindi incompatibile con quel "realismo politico",
con quella Realpolitik, che, in tutte le sue varianti, ancora pretende di fornire la chiave di lettura più adeguata
delle relazioni internazionali. Se non vogliono far decadere il diritto umanitario nella più odiosa delle ipocrisie, i
giuristi devono essere in grado di mostrare che attraverso di esso, e di esso soltanto, 1'umanità è in grado di
fuoriuscire definitivamente dalla terribile lógica della guerra. Le vicende del Mediterrâneo, di cui siamo tutti
spettatori, costituiscono per il diritto umanitario una banco di prova davvero straordinario.



PAURE INCROCIATE
Avvenie 8 aprile 2011
Fulvio Scaglione
La rissa (verbale e politica) tra Italia e Francia sugli immigrati tunisini delinea una situazione in cui, come capita
con le risse, tutti hanno buone ragioni che difendono nel peggiore dei modi. Fino, appunto, ad avere tutti torto.
L'Italia ha concesso agli immigrati i permessi di soggiorno temporaneo, giustificati dall'eccezionalità della
situazione. La Francia, che pure partecipa dell'Unione Europea e quindi del Trattato di Schengen sulla libera
circolazione delle persone, di fatto nega l'esistenza di una crisi nel Mediterrâneo (in cui pure interviene con tanto
di diplomazia e forze armate) e applica leggi e regolamenti al solo scopo di evitare travasi sul confine. L'Italia,
allora, chiede alla Ue di attivare la direttiva per la protezione temporanea dei rifugiati. Rifugiati, si badi bene:
ma se sono rifugiati, non dovrebbero cadere le obiezioni dei governatori che, qui da noi, agitano il refrain
"clandestini no, rifugiati si"? Potremmo andare avanti a lungo. Ma solo per ribadire quanto già sappiamo: l'Unione
Europea non ha una politica sulle migrazioni, anche se la questione ha dimensioni, appunto, continentali. Le
migrazioni investono l'Unione da Sud (e sono in prima linea Italia, Grécia, Malta) ma anche da Est. Non avendo una
strategia la Ue, non ne hanno una degna di tal nome neppure i singoli Stati. L'Italia aveva arruolato Gheddafi,
pagando cari i suoi servigi. E ora? La Grecia pensa di costruire un muro sul confine con la Turchia, proprio mentre
gli Usa registrano il fallimento del muro lungo il confine col Messico. Malta un po' respinge e un po' accoglie.
Il problema, però, non è solo politico. È anche culturale. Molto semplicemente, rifiutiamo la realtà. Nel mondo reale,
che eccede la retórica politica, le migrazioni sono un fatto inevitabile. Per due ragioni. La prima è stata descritta
con poche e lucide parole dal cardinale Bagnasco nella prolusione all'ultimo Consiglio permanente della Cei: «È
un'illusione pensare di vivere in pace tenendo a distanza popoli giovani, stremati dalle privazioni, e in cerca di un
soddisfacimento legittimo per la propria fame». Cosi come illusorio era pensare che la globalizzazione (in pratica, la
massima apertura dei confini alla circolazione di merci e capitali) potesse funzionare a senso unico: da "noi" a
"loro" e non anche viceversa. Le migrazioni, quindi, sono inevitabili. Ma sono spesso, e qui sta la seconda ragione,
anche utili. Un rapporto appena presentato dal ministero del Lavoro del nostra attuale governo spiega che l'Italia
avrà bisogno di quasi 2 milioni di nuovi immigrati da qui al 2020, per tenere in piedi l'attuale assetto economico.
Fino al 2000 il numero dei giovani (15-24 anni) che almeno in potenza si proponevano sul mercato del lavoro era
superiore al numero di coloro (55-64 anni) che stavano per uscirne. Nei 2008, invece, il numero di quelli che
"uscivano" superava già di un milione il numero di coloro che "entravano". Un buco che, sommato alle richieste di
industrie e servizi, ovviamente attrae manodopera straniera. Questa tendenza è comune a tutti i Paesi più sviluppati
della Ue. Ed è qui che entra in ballo la cultura, il modo di pensare. Da molti anni descriviamo le migrazioni solo
come una seccatura, un problema. Dobbiamo rovesciare la prospettiva: sono inevitabili, in certa misura utili, in
qualche caso indispensabili. Solo affrontando la realtà potremo poi prendere le giuste misure per contenerle in limiti
accettabili, regolarle con umanità, gestirle senza confusione, renderle profittevoli per i Paesi d'accoglienza.
Ci servirá, tra l'altro, anche a capire qualcosa di più di noi stessi. Di queste nostre società che, ben prima di
farsi terrorizzare dagli immigrati, si sono fatte spaventare dal futuro, hanno perso entusiasmo e iniziativa, si sono
chiuse nel godimento del benessere raggiunto. Perche questo dice di noi il drammatico calo demografico che solo con
gli immigrati riusciamo a mimetizzare.



Accoglienza a porte chiuse
Terra 8 aprile 2011
Marco Incagnola
Il commissario di Polizia all'ingresso della ex caserma di Civitavecchia, che oggi ospita 640 migranti tunisini, parla
chiaro: «Spiacenti, qui non può entrare nessuno, disposizioni del ministero dell'Interno». Le misure di sicurezza sono
al massimo livello, gli occhi indiscreti vengono tenuti lontano. Nel frattempo, la Strada dissestata che collega la
braccianese al centro, viene solcata dalle autovetture della Croce Rossa e della Protezione Civile, oltre a quelle di
numerosi addetti alla manutenzione. Una nutrita delegazione di Sel, capeggiata dal capogruppo regionale Luigi Nieri,
cerca di far valere le proprie ragioni. Vogliono entrare per verificare le condizioni di salute dei migranti e
assicurarsi che non vi siano trattamenti degradanti o lesivi della dignità umana. «Perché mai la società civile, il
mondo dell'associazionismo, l'informazione sono tenuti alla larga? Si stanno nascondendo degli esseri umani. In questo
atteggiamento si avvisa un principio autoritario. Come consigliere ho sempre potuto esercitare le mie funzioni
ispettive anche in carcere. Qui no" spiega Nieri. La situazione, in effetti, présenta delle anomalie. Non siamo in un
cárcere, né in un Cie (centro di identificazione ed espulsione). Dove siamo allora? La situazione sembra aver
spiazzato anche gli stessi addetti alla sicurezza. La prima impressione è di essere in un non luogo.
Una circostanza analoga si era verificata anche a Santa Maria Capua Vetere, in Campania, nella ex caserma 'Andolfato',
trasformata in tendopoli. Mauro Palma, presidente dei Comitato europeo per la prevenzione della tortura, aveva chiesto
di poter visitare i 531 migranti presenti nell'area. Anche in questo caso la richiesta è stata respinta. «I 17mila
migranti giunti finora non costituiscono un'emergenza per un Paese che conta 60 milioni di abitanti - ha detto Palma -
ma non c'è stata proporzione nella loro distribuzione. Per farli accettare agli altri Paesi dell' Unione
europea, 1'Italia deve cominciare a distribuirli sul proprio intero territorio. Quanto ai campi debbono essere aperti
al monitoraggio della società civile ed il rilascio dei permessi temporanei di soggiorno deve essere immediato».
Porte chiuse anche per numerose realtà del volontariato. Dentro la Croce rossa, fuori la Caritas, dentro Medici senza
frontière, fuori l'associazione Medici per i diritti umani (Medu). Sembra, infatti che il ministèro dell'interno abbia
emesso una disposizione (una circolare ad uso interno) che vieta l'ingresso a quelle organizzazioni che non hanno un
rapporto strutturato - relativamente ai progetti in corso - con il Ministero stesso. Perché tanto riserbo? Eppure su
alcuni punti sarebbe opportuno fare chiarezza: come viene effettuata 1'identificazione dei minori? I centri, visti gli
interventi strutturali, sono destinati a diventare luoghi permanenti? Perché è negata l'informazione e 1'assistenza
legale? Li hanno ufficialmente definiti luoghi di accoglienza, con la solita acrobazia semantica. Nei fatti sembra di
essere di fronte a una préoccupante sospensione delle libertà fondamentali.



La tragedia della Sibilla nel '97. Quando Prodi respinse gli albanesi
Qn 8 aprile 2011
Andrea Cangini
AH, LA SOLIDARIETÀ. I popoli in fuga dalla dittatura, il diritto alla ricerca della felicità (o, quantomeno, della
libertà), i doveri dell'ospitalità, la carità Cristiana... Le parole sono le stesse, diverso fu il film. Il primo
fotogramma risale all'agosto del 1991. L'Albania s'era finalmente scrollata di dosso la cappa comunista, la dittatura
dell'erede politico di Enver Hoxha, Ramiz Alia, era finita, nel Paese regnava il caos. A Roma governava Andreotti, in
Puglia sbarcarono quasi 20mila albanesi. Vennero adeguatamente coccolati e prontamente distribuiti sul territorio
nazionale? Macché, l'approccio iniziale fu a dir poco pragmatico: vennero concentrati nello stadio barese Della
Vittoria in stile Pinochet, circondati dalle forze dell'ordine e sfamati con lanci di viveri dagli elicotteri.
La nave militare speronò un barcone di disperati: morirono 80 persone
Sei anni dopo, nel '97, al governo c'era Prodi, Veltroni era il suo vice, Napolitano ministro dell'Interno, Bersani
all'Industria, la Bindi alla Sanità... L'Albania di Sali Berisha precipita nel caos e nella guerra civile, vige lo
stato d'emergenza, nelle strade si contano duemila morti. Ricomincia l'esodo, la parola «scafista» troneggia nei
titoli dei giornali.
L'ITALIA accoglie i «migranti» a braccia aperte? S'afferma allora la retórica odierna in base alla quale «un Paese di
60 milioni di abitanti non può avere paura di 20mila disperati»? Macché, il governo Prodi dispone il blocco navale:
schiera cioè la Marina militare in acque internazionali per impedire che i barconi carichi di albanesi si avvicinino
al Belpaese. L'Onu inorridisce. L'Alto commissario per i rifugiati, Fazlul Karim, denuncia la «decisione inspiegabile»
di Prodi e compagni. La sinistra perde la bússola. Rifondazione protesta, il portavoce dei Verdi, Luigi Manconi, at-
tacca: «II governo ha azzerato la possibilità e gli stessi fondamenti del diritto d'asilo».
L'INCIDENTE è in agguato, e fatalmente accade. Alle sette di sera del 28 marzo una nave carica di albanesi forza il
blocco italiano, la corvetta Sibilla della Marina militare si lancia all'inseguimento per costringerla ad invertire la
rotta. Le imbarcazioni si toccano, la nave carica di disperati cola a picco nel canale d'Otranto: muoiono in piu di
80, almeno una ventina erano bambini. Il governo resta attonito, senza parole né iniziativa. La comunità
internazionale ci critica, l'Europa fa spallucce, le regioni (Toscana in testa) continuano a non voler ospitare i
profughi, Rifondazione comunista con Pisapia parla di «delitto colposo». Berlusconi prende la palla al balzo, sarà
l'unico leader ad andare a Brindisi per incontrare gli scampati. Piange, evoca la «tradizione di solidarietà e
generosità dell'Italia», denuncia «gli atteggiamenti indegni» del governo, dice che «non dobbiamo spaventarci per
diecimila profughi e per un loro soggiorno temporaneo». Cinque giorni dopo ci va il vicepremier Veltroni, ma viene
contestato. Enrico Deaglio, direttore di Diário, inserto dell'Unità, depreca «l'incredibile faciloneria con cui Prodi
e i suoi ministri hanno gestito questa crisi», e simpatizza con Berlusconi: «Almeno lui a Brindisi c'è andato».
Prodi è spiazzato. Difende la Marina militare e denuncia le «speculazioni» di alleati e oppositori. Va a pregare sulla
tomba di Dossetti. «II blocco navale — dice — è stato fatto non per impedire l'arrivo degli albanesi ma per
arginarlo». Sottile differenza. Al netto del «dolore per le vittime», il ministro della Difesa Andreatta conclude che
«se la sono andata a cercare». Fassino, sottosegretario agli Esteri, contesta «la demagogia» di Rifondazione, che
«ritiene si debba accogliere chiunque arrivi in Italia» e difende i pattugliamenti «volti a scoraggiare l'immigrazione
clandestina».
MA IL PDS è in difficoltà, teme di perdere consensi a sinistra. Il capo dei deputati, Cesare Salvi, si dichiara contro
il pattugliamento navale: Botteghe Oscure è costretta a smentirlo. De Mita denuncia «l'assenza di una politica estera
del governo e più in generale di una politica». D'Alema, segretario del Pds, non gli dà torto. Con un éditoriale di
Angelo Panebianco, il Corriere della Sera depreca la debolezza dei governo Prodi, «destinato a galleggiare». La
missione militare italiana in Albania passerà grazie ai voti del centrodestra: Rifondazione (portando alle estreme
conseguenze una linea per certi versi uguale e contraria a quella odierna della Lega) s'era sfilata. Un anno dopo
Prodi è costretto alle dimissioni.





















 



 

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