12 dicembre 2011

Torino, shock dopo il rogo anti rom
La sedicenne del finto stupro si scusa "Mi vergogno per quella bugia"
La rabbia dei nomadi: vendichiamoci. Il quartiere teme un'escalation
I due arrestati sono un cinquantenne e un ventenne Indagini nel mondo dei tifosi juventini
La ragazza scrive una lettera alla città La madre: non ho neanche il coraggio di uscire di casa
la Repubblica, 12-12-2011
di ERICA DI BLASI e DIEGO LONGHIN
TORINO - "Perdonatemi se potete". Dopo aver visto le immagini delle fiamme che divoravano il campo nomadi, Sandra, il nome è di fantasia, ha deciso di chiedere scusa alla città. Lo ha fatto con una lettera. Il raid è scattato dopo la sua denuncia: stuprata a pochi metri da casa da due rom. Peccato che fosse tutto inventato, una bugia per coprire la prima volta con un ragazzo che ama, ma che la famiglia non vuole nemmeno vedere.
Paura delle reazioni, paura delle botte, paura per quella verginità persa che per la famiglia era un valore da preservare ad ogni costo, tanto che l'avevano costretta a giurare alla nonna che sarebbe arrivata pura all'altare. Sandra ora è a casa, rannicchiata nel suo divano letto, in una stanza con le pareti arancioni. Al posto dei poster decine di santini. I genitori in salotto, tra una stella di Davide dipinta e un quadro del Sacro Cuore di Gesù, accolgono amici e parenti. La madre piange: "Cosa posso fare ormai, non si può fare più nulla. Non posso nemmeno più uscire di casa. Cosa dico ai vicini, alla gente del quartiere".
Sandra prova a scrivere, a raccontare i suoi perché di una bugia che ha provocato tanta violenza. "Scusatemi. Ho visto in tv le immagini delle fiamme al campo nomadi e mi sono sentita male. Mi vergogno da morire: mi sono resa conto solo ora di quello che è successo", scrive. "Ho raccontato quella storia per paura. Vorrei sentire i miei genitori vicini perché ho capito di aver
sbagliato. Mi sono inventata quella storia, che erano stati due rom, appena ho visto mio fratello passare per la strada. In quel momento non ho pensato alle conseguenze. Chiedo scusa a tutti e soprattutto a quei bambini del campo. Chiedo scusa a tutta la gente del quartiere per la rabbia che ha suscitato la mia bugia. La colpa è solo mia".
In testa Sandra ha ancora pensieri brutti. Andrà a visitare le ceneri del campo, il fratello, che ha chiesto scusa con un post su Facebook, è pronto ad accompagnarla. Vuole rendersi conto di quello che ha provocato, prima di lasciare Torino per un po'. "Mamma, mandiamola a Roma, così si sistema tutto", suggerisce un altro fratello.
Le scuse della ragazza potrebbero però non bastare. Nel quartiere, il giorno dopo il raid violento contro il campo abusivo, la gente ha paura. Il finto stupro, la finta pista dei due rom. C'è chi alle Vallette, estrema periferia Nord di Torino, teme l'escalation, la vendetta da parte di chi sabato è stato attaccato dalla follia, senza aver fatto nulla. "Ci hanno bruciato le case, i letti, se eravamo dentro bruciavano anche noi - dice Rambo, uno dei tanti rom che vivono alla Continassa e che ieri è andato a recuperare le uniche cose che le fiamme non hanno distrutto - bene, tanto noi sappiamo dove abitano: una notte di questa andremo noi da loro". Non tutti meditano la vendetta. "Non siamo come loro - dice Fatima, poco più che diciottenne - quelli sono delle bestie, ci potevano ammazzare". Il rischio di ritorsioni, dall'uno o dall'altro fronte è alto. "Voi non capite, qui potrebbe scoppiare la guerra", dicono quattro ragazzi del quartiere. Parole pesanti, sull'onda dell'emozione.
Sabato sera nel corteo erano presenti ultrà riconducibili a gruppi organizzati della tifoseria bianconera, i "Bravi Ragazzi", che hanno la base proprio alle Vallette. Al momento sono due gli arrestati per il blitz contro il campo: si tratta di un ragazzo di 20 anni e un signore di 59. L'accusa è di danneggiamento aggravato con matrice razzista. Sarebbero stati visti mentre davano fuoco alle baracche. Sono poi una trentina le persone su cui i carabinieri stanno portando avanti accertamenti dopo il blitz.
"È un fatto gravissimo, con chiari connotati di stampo razzista", dice il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli. Sul fronte tifo organizzato è prudente: "Non ci risulta nulla di ufficiale, ma nella nostra città vedere una minoranza, per quanto esigua, che si scatena in questo modo è grave". Per il sindaco Piero Fassino quello che è successo "è inaccettabile, a maggior ragione per la città capitale dell'accoglienza". Il raid violento è comunque "la spia di una situazione di grande difficoltà e disagio. Bisogna affrontare le ragioni che hanno provocato questo scoppio d'ira".



La telefonata: andiamo a bruciare tutto Il pogrom fatto in casa delle Vallette
Gli ultrà della Juve: noi non c'entriamo. "Ma degli zingari non se ne può più"
Don Ciotti: la miseria e la discriminazione sono diventati un problema nostro
Il leader dei tifosi: mi hanno cercato sabato pomeriggio, volevano farci partecipare
la Repubblica, 12-12-2011
PAOLO GRISERI
La telefonata: andiamo a bruciare tutto Il pogrom fatto in casa delle Vallette
TORINO - Un pogrom fatto in casa, con gli ingredienti del quartiere, il retrobottega della città. La manovalanza ultrà che vive all'ombra del Juventus Stadium, le pressioni dei pregiudicati, che entrano e escono dal carcere, trecento metri più in là. E poi l'odio per gli zingari, parafulmine di ogni rabbia, accampati a cinquecento metri, tra i ruderi della vecchia cascina della Continassa. Via delle Primule, dove abita Sandra, è il centro geometrico di questo mondo di paure, pregiudizi e codici d'onore. È il centro delle Vallette, da mezzo secolo avamposto di torri rosse e casermoni alla periferia nord di Torino.
"Mi hanno cercato sabato pomeriggio. Volevano che partecipassimo anche noi. Ma io non ho fatto nessuna telefonata, quella storia non mi convinceva". Facile dirlo oggi, quanto tutti sanno che Sandra si è inventata tutto. Ma Massimo Lazzarini, uno dei leader degli ultrà juventini, sembra sincero. È uno dei capi dei "Bravi ragazzi", i vecchi "Irriducibili", deferiti dopo un assalto alla sede bianconera per dissensi con Moggi. Parla in un bar dell'altra periferia torinese, alle spalle della direzione delle Case Popolari. È domenica mattina. Pochi testimoni. "Quella storia degli zingari non mi convinceva perché io sono uno di strada, lo so come vanno queste cose". E come vanno ? "Gli zingari non cagano dove mangiano". Per dire che non sono così stupidi da violentare una ragazza del quartiere dove abitano. "Già
l'anno scorso c'erano state manifestazioni contro di loro, organizzate dal centrodestra. Sapevano che erano a rischio". Massimo è consigliere di circoscrizione dei Comunisti Italiani: "Figurati se avrei partecipato a una roba razzista. Non si incendiano le baracche con i bambini. Nessuno di noi farebbe una cosa del genere ". E allora chi è stato?
Tutti e nessuno, come nel giallo di Agatha Christie. Perché l'altra sera tutti avevano un motivo per andare al campo degli zingari. E sapevano come affrontare la polizia. "Non escludo che qualcuno di quei palazzi, che magari era un ultras una volta, abbia deciso di partecipare", ammette Massimo. I cori da stadio e la spavalderia con gli agenti confermerebbero questa ipotesi. Lo stadio è una scuola: "Da quei palazzoni - conferma l'ultras - fino a pochi anni fa scendevano anche in cinquecento per andare in corteo con noi al Delle Alpi". Adesso, con lo stadio nuovo "sono quasi tutti abbonati, c'è la tessera del tifoso" e molti hanno abbandonato le curve. Ma non hanno perso le vecchie abitudini. "Mi raccomando - chiude Massimo - deve essere chiaro che nessuno del direttivo dei 'Bravi ragazzì ha aderito al corteo. E mi sento di dire che nemmeno quelli dei 'Drughì lo hanno fatto". "Drughi" e "Bravi ragazzi" se le danno volentieri le domenica in curva. Se uno garantisce per l'altro, è difficile non credergli.
Non la parte più organizzata del tifo dunque ma la manovalanza, forse l'ex manovalanza delle curve, ecco il primo ingrediente. Non l'unico. Nel pogrom fatto in casa c'è il codice d'onore di un quartiere, della strada. Lo stesso delle carceri, che stanno dall'altra parte del corso. La vendetta per "una ragazzina rovinata", come sta scritto sul volantino di convocazione del raid. Una "bambina" italiana violentata da "tre farabutti presumibilmente stranieri nell'indifferenza dei media. Perché queste violenze non fanno più notizia?". Perché il retrobottega della città non fa notizia. Tutti parlano della vetrina, di quel che accade nello stadio dove arrivano le tv di tutto il mondo. Di quel che accade in corso Molise o in via delle Pervinche, non importa a nessuno. Neanche quando stuprano le bambine. Nasce così la parola d'ordine del pogrom: "Ripuliamo la Continassa". Il quartiere non ne può più e ha trovato qualcuno che sta peggio su cui sfogarsi: "Gli stranieri vivono di prostituzione e delinquenza", si legge sul volantino.
"Ma a gonfiare il corteo dell'altra sera ci dicono che abbia contribuito il pressante invito di qualche pregiudicato", spiega Oliviero Alotto, volontario che da anni lavora con i rom. Il diktat di qualcuno potente tra i casermoni che guardano il carcere. Qualcuno che aveva ordinato la vendetta fidando sulla rabbia del retrobottega della città. Sandra ha confessato la sua bugia troppo tardi per impedire il rogo. Alla Continassa sono rimaste una ventina di persone e un esercito di topi che scappano tra le macerie senza più una tana in cui nascondersi. Don Luigi Ciotti arriva intorno a mezzogiorno. È sconvolto: "In questa città scopriamo, con un misto di sorpresa e di vergogna, che la miseria, la segregazione, la discriminazione e la violenza non sono di un'altra parte del mondo. Sono diventati un problema nostro".



«Nessuna violenza» Ma intanto bruciano il campo rom
Avvenire, 12-12-2011
​ Si era inventata tutto la ragazza che ha denunciato lo stupro a opera di due rom. Tanto che ieri, quella che doveva essere una fiaccolata di solidarietà, nel quartiere Vallette di Torino, dove mercoledì la ragazza ha denunciato la violenza, si è invece trasformato in una assurda spedizione punitiva. Ancora più assurda perché i rom, che hanno subito l’incendio e la devastazione del loro insediamento, non c’entravano nulla.
I familiari della sedicente vittima, che hanno organizzato la fiaccolata, avevano sostenuto di poter risalire agli autori. «Siamo sicuri – ha raccontato il fratello – che si sia trattato di due zingari romeni che abitano in una cascina qui vicino. Io – aveva aggiunto – li ho visti mentre fuggivano e ho provato a inseguirli, ma senza riuscirci». Secondo il giovane, la ricostruzione dei fatti sarebbe diversa da quella riferita dai Carabinieri, che invece hanno da subito dubitato del racconto della ragazza. «Mia sorella – ha ripetuto il ragazzo – è stata trascinata brutalmente su una montagnola di un parco di corso Molise, vicino a un ponte, e lì è stata violentata». La ragazza ha raccontato di essere riuscita a divincolarsi e a raggiungere le case dove il fratello l’ha trovata, senza i jeans e con gli altri abiti sgualciti.
A dar fuoco a baracche e roulotte sono stati alcuni dei manifestanti che, a un certo punto, hanno lasciato la manifestazione e si sono diretti verso la cascina Continassa, dove si trova il campo rom. Dopo aver fatto allontanare i nomadi che si trovavano nel campo, hanno cominciato a devastare strutture, camper e auto, appiccando poi il fuoco. Secondo testimoni, alcuni dei manifestanti avevano bastoni e hanno minacciato fotografi e operatori televisivi. La fiaccolata, a cui hanno partecipato centinaia di persone, si è conclusa allo Juventus Stadium. Poco dopo i carabinieri, hanno confermato che la sedicenne, in lacrime, aveva ritrattato, confessando di essersi inventata tutto. In serata i militi dell’Arma hanno proceduto all’arresto di due partecipanti all’assalto al campo rom con l’accusa di danneggiamento aggravato. Si tratta di un giovane di 20 anni e di un uomo di 59.

 

Appostamenti e bombe molotov per un blitz studiato nei dettagli
La Stampa, 12-12-2011
Il procuratore Caselli: «Episodio con connotati razzisti»
Massimo Numa
torino -Un attacco pianificato in ogni dettaglio. I Rom andavano puniti e cacciati e la scelta è stata quella di incendiare il loro campo. Persone e baracche. Con calma. Prima un paio di sopralluoghi, per studiare i punti d’accesso, gli obiettivi da colpire, le vie di fuga.
Poi la preparazione delle armi da usare. Bombe molotov per incendiare la «bidon-ville» della Continassa, grossi petardi (da stadio) per spaventare la gente, spranghe e bastoni per colpire. I carabinieri hanno fermato due giovani, presi poco dopo il raid; ieri sono stati sentiti altri ragazzi di questo quartiere della periferia Nord segnato dal degrado ma anche dalla passione per la Juventus.
E le indagini puntano proprio lì, in quella rete di bar e di sale-gioco dove si ritrovano gli ultras della fazione dei «Bravi Ragazzi». Ma il loro capo, Massimo Lazzarini, spiega che «no, attenti, la nostra associazione non c’entra assolutamente nulla. Non siamo razzisti, non avremmo mai messo a disposizione i nostri simboli per un’impresa infame del genere. Se qualcuno ha sbagliato, deve pagare. A volte basta indossare un berretto, una maglietta o una sciarpa per essere arruolati in questo o in altro gruppo. Sì, ho saputo dei cori da stadio durante l’attacco, ho saputo degli insulti a polizia e carabinieri in perfetto stile da curva ma niente di più. Ho chiesto ai miei se sapessero qualcosa, per adesso niente di utile per le indagini». Chi è entrato l’altra notte nel campo, presidiato da poche pattuglie di carabinieri e polizia, aveva le idee chiare. La sezione della Digos di Torino che si occupa degli ultras è già al lavoro, su immagini e testimonianze.
È possibile che alcuni dei protagonisti siano stati già identificati, mentre altri tifosi sono stati sentiti a lungo. Uno è ricercato, gli inquirenti sono quasi certi di sapere chi è. Ha caratteristiche fisiche particolari, quasi uniche. E ci sono una serie di altri indizi che potrebbero essere utili per portare in carcere gli autori di un’azione che il procuratore Giancarlo Caselli definisce così: «Un fatto gravissimo, di una violenza assolutamente inaudita per Torino. La procura e i carabinieri stanno indagando per identificare tutti i responsabili. In questa vicenda vanno tenuti distinti due aspetti: il procedimento penale di cui si sta occupando la procura dei minori, per quanto riguarda il reato di simulazione compiuto dalla ragazza, e la nostra indagine sul raid punitivo al campo nomadi, episodio con connotati da approfondire ma che sembrano essere di autentico razzismo». Indagini serrate. Saranno acquisite le immagini registrate dai video-sistemi di sicurezza per tentare di individuare, in quell’arco di ore in cui è stato organizzato l’attacco, chi ha riempito taniche o bottiglie nei distributori di carburante automatici della zona delle Vallette. Poi i testimoni. Alcuni automobilisti, bloccati dal corteo, hanno visto i teppisti entrare nel campo. Frazioni di secondo ma qualcuno potrebbe essere stato riconosciuto. Il solito appello: chi sa, parli.



"L'emergenza non è inventata la politica si occupi dei rom"
La Stampa, 12-12-2011
L'ex sindaco Chiamparino: «Interroghiamoci sul razzismo, ciò che è successo è gravissimo»
Sergio Chiamparino, quante volte? Quante volte nella sua lunga carriera di sindaco di Torino s'è imbattuto nel germe del razzismo?
«Guardi che ciò che è accaduto l'altra sera alle Vallette, una cosa gravissima, ha più di un triste precedente e non conosce collocazioni geografiche. Ricorda la tragedia di Novi Ligure? Erika e Omar? Anche allora la prima cosa che si disse fu "Sono stati gli albanesi!"».
E allora?
«E allora, più che tentare di capire i motivi per cui quella ragazzina delle Vallette è dovuta ricorrere a una menzogna, bisognerebbe riflettere sul fatto che sempre quella ragazzina, per nascondere una cosa punta l'indice contro due rom, e non contro due torinesi, due italiani, due qualunque, che l'aggrediscono e aggiunge pure il particolare che puzzano...».
E perché, secondo lei, s'è comportata così?
«Perché il germe del razzismo è dentro di noi, ci permea. Stamattina, per farle un esempio, in un bar del centro ho incontrato una persona conosciuta quando ero sindaco. Un saluto, due parole, poi il discorso è finito su Porta Palazzo ostaggio, secondo il mio interlocutore, di "marocchini e neri". E dire che questa persona viene da un paese lontano dove la violenza è ben peggiore che da noi. La realtà è che tendiamo a scaricare le colpe su chi è più lontano da noi, diverso da noi. E tutto ciò è frutto di una cultura che non si combatte con gli esorcismi. Rifletta un attimo su ciò che è accaduto per quel povero bambino investito e ucciso a Torino sulle strisce pedonali di corso Peschiera. Sembra che la colpa sia di tutti e nessuno che dica che l'investitore doveva andare più piano, rispettare il codice della strada. No, tutti a cercare un colpevole fuori da sé: i vigili che non vigilano, le strisce pedonali che non dovevano esserci...».
Va bene, però il problema dei campi rom esiste e non da ieri. Un problema con il quale s'è misurata a lungo e con alterne fortune la sua amministrazione e con il quale continua a misurarsi quella del suo successore Fassino: qual é la situazione?
«Non credo sia molto cambiata da quando ero sindaco io ed è un problema condiviso con prefetto e governo. Non mi stanco di ripetere che per gestire in modo civile una simile emergenza occorrerebbe una disponibilità corale di tutte le comunità per accogliere questa gente in strutture decenti e più piccole degli attuali campi concentrati nell'area torinese».
E invece cosa accade?
«Poco o nulla. Solo un comune, quello di Settimo, ha dato la sua disponibilità e ha messo in atto iniziative come comunità alloggio e altro ancora utili, se non a risolvere, almeno ad attenuare il problema. Perché se da un lato i rom hanno modalità di vita che vanno combattute come, ad esempio, quella di mandare i bambini a elemosinare o quella di rubare il rame, dall'altra parte è più facile ottenere risultati se non li si fa vivere in situazioni precarie. Detto questo, una cosa non giustifica il resto e cioè che se accade un fatto negativo lo si debba addebitare a loro, né tantomeno organizzare spedizioni punitive».
Cosa fare, allora?
«Non ci sono ricette, ognuno deve farsi carico delle proprie responsabilità. Stamane, sarebbe stato facile e comodo per me dare ragione a quel signore che si lamentava dei neri e dei marocchini di Porta Palazzo. Non so se l'ho convinto delle mie ragioni, mi basta sapere che sicuramente qualcosa delle mie argomentazioni sarà rimasta. Su un altro fronte, ho apprezzato il fatto che voi abbiate chiesto scusa per aver dato per scontato, nella titolazione, negli articoli precedenti le violenze dell'altra sera, che i responsabili dell'aggressione alla sedicenne fossero rom. Ecco, se ognuno nel suo grande o piccolo non abdicasse al suo ruolo e alle sue responsabilità avremmo già fatto un gran passo avanti affinché episodi come quello dell'altra sera alle Vallette non si ripetano»



I cerchi dell'impotenza
la Stampa, 12-12-2011
E’ l’incubo dei tre cerchi concentrici. Primo cerchio: la famiglia. Un padre e una madre che nella Torino del 2011 costringono la figlia sedicenne a sottoporsi al controllo mensile di verginità. Non stupisce che una ragazza cresciuta in quell’ambientino faccia sesso col fidanzato e poi si inventi di essere stata violentata dai rom, disegnati apposta - da sempre - per il ruolo di capri espiatori. Ed ecco il secondo cerchio: la comunità. Una comunità povera di soldi e di sogni, in preda a un’arrabbiatura perenne e senza anticorpi. La falsa notizia dello stupro si infiltra nel quartiere e scatena gli istinti primordiali. L’emotività dell’orda che vuole vendicare l’affronto con la violenza. Il vendicatore non si sente un razzista, ma un giustiziere. Nel deserto di cultura, anche popolare, l’ultima ideologia che sopravvive è quella dell’ultrà. Il terzo cerchio, il più grande e il più grave: la politica. Dovrebbe mediare gli scontri e trovare le soluzioni. Invece non fa nulla, se non partecipare al piagnisteo collettivo. Qui è simboleggiata dalla dirigente del Pd locale che marcia in corteo con la comunità irritata dalla vicinanza del campo rom. Marcia, cioè, contro se stessa, visto che il suo partito governa Torino da decenni senza aver mai affrontato seriamente la questione, limitandosi a spostarla ogni volta un po’ più in là.
Famiglia, comunità, politica. Tre cerchi concentrici, accomunati dalla stessa impotenza. Per spezzare l’incantesimo esiste una sola formula: più cultura nelle case, più calore nei quartieri, più coraggio nei palazzi del potere.



La Stampa chiede scusa per il titolo sui rom
Un articolo del giornale fa autocritica sul "titolo sbagliato"
La Stampa, 11-12-2011
In un breve articolo a firma di Guido Tiberga, caporedattore del giornale, il quotidano di Torino la Stampa ha chiesto scusa per il titolo precipitoso dedicato sabato alla falsa accusa di stupro che ha portato all’attacco contro il campo rom di Torino.
    Il razzismo di cui più dobbiamo vergognarci è quello inconsapevole, irrazionale, che scatta in automatico anche quando la ragione, la cultura, le convinzioni più profonde dovrebbero aiutarci a tenerlo lontano.
    Ieri, nel titolo dell’articolo che raccontava lo «stupro» delle Vallette abbiamo scritto: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella». Un titolo che non lasciava spazio ad altre possibilità, né sui fatti né soprattutto sulla provenienza etnica degli «stupratori». Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due «torinesi», due «astigiani», due «romani», due «finlandesi». Ma sui «rom» siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista. Un titolo di cui oggi, a verità emersa, vogliamo chiedere scusa. Ai nostri lettori e soprattutto a noi stessi.
In un breve articolo a firma di Guido Tiberga, caporedattore del giornale, il quotidano di Torino la Stampa ha chiesto scusa per il titolo precipitoso dedicato sabato alla falsa accusa di stupro che ha portato all’attacco contro il campo rom di Torino.
    Il razzismo di cui più dobbiamo vergognarci è quello inconsapevole, irrazionale, che scatta in automatico anche quando la ragione, la cultura, le convinzioni più profonde dovrebbero aiutarci a tenerlo lontano.
    Ieri, nel titolo dell’articolo che raccontava lo «stupro» delle Vallette abbiamo scritto: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella». Un titolo che non lasciava spazio ad altre possibilità, né sui fatti né soprattutto sulla provenienza etnica degli «stupratori». Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due «torinesi», due «astigiani», due «romani», due «finlandesi». Ma sui «rom» siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista. Un titolo di cui oggi, a verità emersa, vogliamo chiedere scusa. Ai nostri lettori e soprattutto a noi stessi.



La storia dei rom a Ponticelli
Marco Imarisio
L'attacco al campo rom di Torino sulla base di accuse false ha molti precedenti storici, e uno di tre anni fa in cui fecero una brutta figura tutti
La Stampa, 11-12-2011
A maggio del 2008, nel quartiere di Ponticelli a Napoli, avvenne un’aggressione popolare contro i rom a partire dalla falsa accusa – calunnia secolare – che una donna avesse tentato di “rubare” un bambino. I giornali indagarono molto poco i fatti e la fondatezza di quell’accusa, avallandola: Marco Imarisio del Corriere della Sera seguì dall’inizio tutta la vicenda e la raccontò poi in un libro, da cui sono tratte queste pagine dedicate alla successione dei fatti e alle indagini. Per dire che quello che è successo sabato a Torino non è niente di nuovo.
Ci sono luoghi comuni che fanno bene, non vorresti mai che fossero sfatati. Il grande cuore napoletano, generoso, bendisposto con i più deboli, disposto a dividere con tutti il poco che ha. Gli umili di questa città sempre pronti a solidarizzare con quelli messi come loro o peggio, perché tra diseredati occorre almeno stare insieme, tenersi. Tra i cumuli di rifiuti invece sparisce anche questa radicata illusione. Terra bruciata, impastata di cenere e carbone. È ciò che rimane, di quel luogo comune e delle baracche dei Rom di Ponticelli, in un maggio che sembra essere il mese peggiore. Maggio, il mese peggiore. Per l’inarrestabile abbruttimento. Per la sensazione diffusa che nulla sia possibile davanti a questa deriva anche morale. Una città inerte, intontita dalla sua disgrazia.
La fuga notturna di 500 persone sui carretti, su auto di fortuna, inseguite da roghi e minacce di linciaggio, è a modo suo una epifania. L’annuncio di una mutazione. Napoli ha cambiato pelle senza che nessuno se ne sia accorto. La città che più di ogni altra ha avuto e ha ancora i suoi migranti accolti nel mondo, ha perso la sua tradizione. Scrive Marco Rossi-Doria su Repubblica: “Mio nonno pronunciava la parola “pogrom” – il linciaggio di tutti per accuse, vere o presunte, di uno solo – sottovoce, con paura negli occhi. Spesso l’accusa che dava il via ai linciaggi era proprio il furto di bambini. È una vergogna di cui dobbiamo tutti rispondere che, mentre sull’episodio specifico la giustizia sta facendo il suo lavoro, venga ancora diffusa, a giustificazione delle orde organizzate per i linciaggi, l’accusa di furto di bambini a una popolazione marginalizzata di una nostra periferia povera, dove – si sa – si fa presto a dire a chi è socialmente escluso che i colpevoli sono quelli della minoranza che sta a pochi passi. È questa una storia terribile e ricorrente. L’accusa di furto di bambini è stata gettata addosso a ebrei e nomadi in Europa, alle popolazioni di origine africana o ai nativi nelle Americhe colonizzate. E’ un pericolo, un’evenienza minacciosa che sta lì, ripetuta dalle narrazioni diffuse, che si nutre degli stereotipi, che avallarano o inducono a diffondere conformismi di massa o di gruppo, confermando il già noto o più esattamente il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato. Non si tratta di verità, ma di convinzioni”.
A Ponticelli è andata esattamente così. La giovane rom accusata del tentato sequestro di un bimbo è un pretesto. Forse è anche una bugia, come dicono da subito gli abitanti del quartiere che conoscono la storia della famiglia della bambina, e fanno un rapido collegamento tra causa e possibile effetto. “Succederà qualcosa” dicono. E infatti. I rom di Ponticelli vengono cacciati, campo per campo. Da donne inferocite guidate da uomini feroci.
In quei giorni sui muri di Ponticelli è affisso un manifesto vergognoso, firmato non dalla Lega Nord, ma dalla locale sezione del Partito democratico. “Via gli accampamenti Rom da Ponticelli” è il titolo. Segue una valutazione sulla “grave emergenza” rappresentata dalla presenza dei nomadi nei punti più oscuri del quartiere, sotto i cavalcavia, in campi affacciati sul trafficato nulla che porta a Casoria. L’emergenza è di tre tipi, “sanitaria, sociale, ambientale”, la prima presenta anche “rischi concreti per la salute pubblica, resi ancor più gravi dall’imminente stagione estiva”. Dopo, ma soltanto dopo, il suo estensore racconterà di avere raccolto i frutti di una lunga discussione all’interno del partito, mosso soltanto dal nobile intento di offrire ai rom “condizioni di maggiore civiltà”.
Gli effetti immediati dello sforzo collettivo si vedono la mattina del 12 maggio. All’inizio è soltanto una colonna di fumo, un segnale che nessuno collega allo sciame di motorini che attraversano sparati l’incrocio di via Argine, due ragazzi in sella a ogni scooter. L’esplosione arriva qualche attimo dopo, sono le bombole del gas custodite in una baracca avvolta dal fuoco. Le fiamme lambiscono l’ estremità dei pali della luce, il fumo diventa una nuvola nera e tossica, gonfia com’è di rifiuti e plastica che stanno bruciando. Le baracche dei rom di via Malibrand sono un enorme rogo.
La resa dei conti con gli «zingari» è definitiva, senza pietà. Il traffico che impazzisce, il suono delle sirene, i camion dei pompieri, carta annerita che volteggia nell’aria, i poliziotti di guardia all’ accampamento che si guardano in faccia, perplessi. Loro stavano davanti, quelli con il motorino sono arrivati da dietro. Allargano le braccia, succede, non è poi così grave, tanto i rom se n’erano andati nella notte. «Meglio se c’erano», si rammarica un signore in tuta nera dell’Adidas. «Quelli dovrebbero ammazzarli tutti». Parla dall’abitacolo della sua Punto, in bella evidenza sul cruscotto c’è un santino, «Santa Maria dell’Arco, proteggimi».
Il primo spettacolo, perché ce ne saranno altri, va in scena davanti alla Villa comunale, l’unica oasi verde, con annessa pista ciclabile, di questo quartiere alla periferia orientale di Napoli, dove l’orizzonte è delimitato dalle vecchie case popolari figlie della speculazione edilizia voluta da Achille Lauro. Un uomo brizzolato con un giubbotto di jeans sulle spalle è il più entusiasta. «Chi fatica onestamente può anche restare, ma per gli altri bisogna prendere precauzioni, anche con il fuoco». Il fuoco purifica, bonifica il terreno «da queste merde che non si lavano mai», aggiunge un ragazzo con occhiali a specchio, capelli impomatati, maglietta alla moda con il cuore disegnato sopra, quella prodotta da Vieri e Maldini. Siccome non c’ è democrazia e lo Stato non ci protegge, dice, «la pulizia etnica si fa necessaria» e chissà se capisce davvero il significato di quella frase.
Quando si fanno avanti le televisioni, la realtà diventa recita, si imbellisce. Il donnone con la sporta della spesa che un attimo prima batteva le mani e inveiva contro i pompieri – «lasciateli bruciare, altrimenti tornano» – assume di colpo la faccia contrita, Madonna mia che disastro, poveracci, meno male che là dentro non ci stanno le creature. Il ragazzo con gli occhialoni a specchio diventa saggio all’ improvviso: «Giusto cacciarli, ma non così». La telecamera si spegne, lui scoppia a ridere.
Sotto a un albero dall’altra parte della strada c’è un gruppo di ragazzi che osserva la scena. Guardano tutto e tutti, nessuno li guarda. Sembrano invisibili. I loro scooter sono parcheggiati sul marciapiede. Il capo è un ragazzo con una maglietta nera aderente, i capelli tagliati cortissimi ai lati della testa. Tutti i presenti sanno chi è, ne conoscono con precisione il grado e la parentela. È uno dei nipoti del cugino del «sindaco» di Ponticellii, quel Ciro Sarno che anche dal carcere continua ad essere il signore del quartiere, capo di un clan di camorra che ha fatto del radicamento nel quartiere la sua forza. Quando vede che la confusione è al massimo, fa un cenno agli altri. Si muovono, accendono i motorini.
Dieci minuti dopo, dal campo adiacente, quello di fronte ai palazzoni da dodici piani chiamati le Cinque torri, si alza un’ altra nuvola di fumo denso e spesso. L’ accampamento è delimitato da una massicciata di rifiuti e copertoni. Sono i primi a bruciare, con il fumo che avvolge le case popolari. La claque si sposta, ad appena 200 metri c’ è un nuovo incendio da applaudire. I ragazzi in motorino scompaiono. La radio di una Volante informa che ci sono fiamme anche nei due campi di via Virginia Woolf, al confine con il comune di Cercola. Sul prato bagnato ci sono un paio di rudimentali bombe incendiarie. I rom sono scappati in fretta. Nelle baracche ci sono ancora le pentole sui fornelli, gli zaini dei bambini. All’ingresso di una di queste abitazioni in lamiera e compensato, tenute insieme da una gomma spugnosa, c’è un quadro con cornice che contiene la foto ingrandita di un bimbo sorridente, vestito da Pulcinella. Florin, carnevale 2008, la festa della scuola elementare di Ponticellii. Alle 14.50 comincia a diluviare, una pioggia battente che spegne tutto. «Era meglio finire il lavoro», dice un anziano mentre si ripara sotto ad una tettoia della Villa comunale.
Mezz’ora più tardi, nel rione De Gasperi si vedono molte delle facce giovani che salivano e scendevano dai motorini. È il fortino dei Sarno, un grumo di case cinte da un vecchio muro, con una sola strada per entrare e una per uscire, con vedette che fingono di leggere il giornale su una panchina e invece sono pagate per segnalare chi va e soprattutto chi viene. Ma questa caccia all’uomo non si spiega solo con la camorra. Sarebbe persino consolante, però non è così. Sotto al cavalcavia della Napoli-Salerno ci sono gli ultimi tre campi rom ancora abitati. Dai lastroni di cemento dell’autostrada cadono fiotti di acqua marrone sulle baracche, recintate da una serie di pannelli in legno. Un gruppo di donne e ragazzi che abita nelle case più fatiscenti, quelle in via delle Madonnelle, attraversa la piazza e si fa avanti. «Venite fuori che vi ammazziamo», «Abbiamo pronti i bastoni».
La polizia si mette in mezzo, un ispettore cerca di far ragionare queste donne furenti. Siete brava gente, dice, la domenica andate in chiesa, e adesso volete buttare per strada dei poveri bambini? «Sììììì» è il coro di risposta. Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e paura. Quasi per proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle donne più esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di pelo grigio. La conosce. «Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del male». La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce in faccia la bambina. L’ ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. «Brava, bravissima». Avanti verso il Medioevo, ognuno con il suo passo.
La cronaca di quella giornata bestiale fatica a rendere quel che è stato. I vigili del fuoco sbeffeggiati mentre cercano di spegnere i roghi. “Tanto torniamo”, li canzonano così, promettendo di ripresentarsi, sempre con le molotov, che il nostro codice penale cataloga come armi di guerra. Le donne del quartiere che ballano come invasate, inneggiendo alla vendetta. Lo sguardo di quella madre sputata, che a sera vedremo andar via scortata dai carabinieri, mentre si allontana a bordo di un Apecar stracarico di masserizie ed esseri umani. Sotto la pioggia, con i lampegginati della Polizia  a fare da scorta e ad illuminare possibili agguati sulla strada dell’esilio. Ladri di bambini, tutti. Senza perdono, senza compassione. La loro cacciata però non è stata decisa da un prefetto o da un sindaco severo, come può accadere a Milano o Verona. L’ordine di stanarli e di sgomberare, baracca per baracca, è arrivato in modo misterioso e trasversale. Da un’entità comunque autorevole, vista la solerzia che ha generato, vista la scientificità della caccia. Lo Stato ha perso il suo monopolio, è svuotato di ogni forza. Comandano gli altri. Quelli che ci tengono a mostrarsi come gli unici protettori della popolazione angariata dagli “zingari”. Per loro le ronde sono palliativi che usano al Nord. Qui, quando si decide di agire, c’è campo libero per le bombe incendiarie.
L’ipocrisia estrema di questa storia dista appena un paio di isolati dai campi incendiati dei rom. Nei commenti sdegnati dei giorni seguenti, nelle rapide retromarccie e scomuniche dei maggiorenti locali del Pd, nelle analisi meditate e ponderose sullo stato della società napoletano – una specialità dell casa – non si troverà alcuna traccia di rione De Gasperi. Eppure c’entra, in questa storia. Gli abitanti che hanno trasformato in una sorta di forca caudina la fuga notturna dei Rom, aiutati soltanto dai volontari della Caritas, sanno bene di cosa si tratta. Mostrano deferenza verso le persone che abitano in quell zona e la presidiano, la stessa che dovrebbereo esibire nei confronti dello Stato. Dovrebbe essere il contrario. Dovrebbero sapere che l’incertezza economica dalla quale scaturisce il rancore disperato che indirizzano verso “nemici” altri e ancora più poveri, dipende anche dall’esistenza del fortino di rione De Gasperi. Perché è di questo che si tratta. Un fortino non autorizzato.
Post scriptum
(Dove si procede ad una dissertazione molto pignola ma necessaria, viste le conseguenze prodotte dall’episodio del quale si tratta)
Il ratto della bambina di Ponticelli non è mai stato tale. Ne sono convinti i giornalisti che accorrono sul posto quando si diffonde la notizia del tentato sequestro. Troppe cose che non tornano. Troppe testimonianze, rigorosamente anonime, che forniscono una ricostruzione dei fatti completamente diversa da quella che si va propagando. Sono voci raccolte al banco di un un negozio di alimentari o ai tavolini del bar tabacchi, e con le voci non si costruisce un’altra verità.
Passi per i giornalisti, si sa come siamo. Esercitiamo il dubbio, ogni tanto. Senza certezze non possiamo che scrivere quel che viene riferito dalle fonti ufficiali. Ma del fatto che nulla torni in questa storia è convinta anche la Polizia. Che dubita fin da subito della versione ufficiale, costruita sul racconto della madre della bambina e dei suoi familiari. Accanto a quella sugli autori degli incendi nei campi nomadi, la Digos di Napoli apre un’indagine contro ignoti per i reati di calunnia aggravata  e procurato allarme. Ad immaginare il nome e il volto degli ignoti non ci vuole poi moltissimo, le persone “assunte a sommarie informazioni” quel giorno non sono più di cinque.
È necessario dire che la Polizia va in cerca di qualcosa che non troverà. Nel suo rapporto conclusivo, consegnato all’autorità giudiziaria, continuerà ad esprimere “fortissimi dubbi” sulla “verosimiglianza” di quanto accaduto a Ponticelli. I familiari della bambina verranno “ascoltati” per un paio di mesi, nella speranza che le loro conversazioni private indichino i motivi di quella ch e agli investigatori sembra una messinscena, una “versione peggiorativa” di qualcosa che è avvenuto in quella casa. Dalle loro conversazioni non emergerà nulla di penalmente rilevante.
Il punto di partenza dell’indagine sta nei precedenti e nell’assoluta incongruenza dello svolgimento dei fatti. “Zero casi” registrati finora di rom che rapiscano bambini altrui. Una delle leggende metropolitane più diffuse non ha alcun riscontro nella realtà. Cose che si sanno, ma che ha ribadirle sia l’organo incaricato di indagare sull’ultimo e più roboante caso – anche per le conseguenze che produce – fa comunque un certo effetto. “Parimenti, nessun sequestro di persona si è mai verificato all’interno di una bitazione privata, ma sempre fuori o nelle vicinanze”. Mai nell’appartamento. Anche questa osservazione ha una sua solidità. Andiamo avanti. Il bambino sequestrato è nipote di Ciro Martinelli detto “o’ cardinale”. È lui che ha fermato con la maniere forti la giovane rom, giunta ormai sul ciglio della strada. L’uomo è un personaggio molto noto nel quartiere, un punto di riferimento. Difficile anche solo immaginare che qualcuno possa rubare a casa sua.
La casa si trova in una piccola traversa di via Botteghelle. Una palazzina di tre piani, abitata completamente dalla famiglia Martinelli. I genitori della bambina, il padre e il fratello della madre della bimba. La giovane rom presunta autrice del ratto era già entrata almeno altre quattro volte in quello stabile, così sostengono le testimonianze dei vicini. “Probabilmente molte di più” chiosano gli ispettori della Digos. Lei stessa ha raccontata di esserci tornata spesso, “perché mi davano dei vestitini”. La porta di ingresso dell’appartamento è in cima ad una piccola rampa di scale. Si apre subito su un locale adibito a salone, dove si trovava la bimba. La madre ha dichiarato che si trovava nella stanza adiacente. La Polizia ha ipotizzato che sapesse della presenza della visitatrice, e fosse andata a prenderle dei vestitini da donarle.
Ipotesi della Polizia: la ragazza stava rubando qualcosa, e la donna se ne è accorta. Racconto della madre: non mi sono accorta di niente; ad un certo punto entro in salone e vedo che non c’è nessuno; la porta d’ingresso è socchiusa; la apro, e alla fine del pianerottolo vedo la Rom che si appresta a scendere le scale con in braccio la mia bimba. Il racconto sembra filare, ma per gli investigatori è inverosimile. Il pianerottolo è lungo non più di due metri. Entrare nel salone, avvicinarsi alla porta, aprirla. E’ un’operazione che richiede una trentina di secondi, soprattutto se eseguita senza fretta alcuna, come confermato dalla donna. Per farsi trovare in quel punto la sequestratrice, che aveva buone ragioni per andare di fretta, avrebbe dovuto invece camminare in modo esageratamente lento. Comunque: la donna raggiunge la rom, le strappa la bimba dalle braccia e comincia ad urlare. Gli strilli attirano il nonno, che si trova al piano di sotto. Un uomo dalla corporatura massiccia, alto e grosso. Ma quando si trova davanti la rom, su una scala stretta dove non vi sono vie di fuga, se la fa misteriosamente sfuggire. La riacciuffa in strada, dopo una fuga durata quasi 500 metri, praticamente un isolato con una “zingara” in fuga e nessuno che interviene. Il nonno picchia la rom. Un testimone dice di avergli chiesto se la giovane aveva tentato di “rubare la bambina”. “Ma quando mai”, è stata la riposta. Al momento di raccontare questa versione alla Polizia, dirà di essersi sbagliato, che aveva capito male. Così fallisce il ratto della bimba di Ponticelli. Non aveva grandi possibilità di riuscire, del resto. Una volta uscita dal palazzo, questa ragazza dai capelli e dalla carnagione scura, vestita come si vestono i rom, non molto popolari in zona come poi si vedrà, avrebbe dovuto percorrere un camminamento sempre affollato con una bimba bionda in braccio. Sarebbe dovuta passare davanti all’autolavaggio gestito dal nonno della bambina, a quell’ora pieno di persone che lavorano per lui e conoscono i suoi cari. E avrebbe dovuto proseguire per oltre un chilometro prima di raggiungere il campo nomadi più vicino.
L’indagine viene archiviata. Non ci sono prove che possano confutare la versione resa dalla madre e dal nonno della bimba. Non ci sono prove che riescano a confutare la traballante e improbabile versione dei fatti raccontata dalla madre e dal nonno della bimba. Non ci sono prove che non sia andata così, quindi è andata così. Da questo sillogismo è cominciata la stagione dell’intolleranza napoletana. Da una mezza verità, che somiglia molto ad una bugia intera.



L'insegnante di storia e geografia
Caserta, la prof le abbassa il voto: "Tu non sei come gli altri, sei nera"
Choc in una seconda della scuola media "Giannone"
Corriere della sera, 11-12-2011
Carla Foresta
CASERTA — Quei due elaborati di geografia erano del tutto simili. Anzi: uguali. In tutto e per tutto. E alla bambina il 7 rimediato, rispetto al 9 elargito al compagno di classe, stava stretto. Il suo unico torto è stato quello di farlo notare alla prof. La richiesta di spiegazioni davanti alla cattedra dopo la correzione delle verifiche, una risposta di rimando che ha gelato lei e l’intera classe: «Tu non sei come gli altri, sei nera». Caserta, scuola media statale «Pietro Giannone», quella dei figli di papà. È l’ora di geografia. La piccola, che frequenta la seconda di una sezione che terremo nascosta, ha un tuffo al cuore. Indietreggia senza più aprire bocca, tra gli sguardi altrettanto stupiti dei suoi compagni di studi e di giochi. Riguadagna il suo posto tra i banchi e la cosa - per quanto difficile da mandare giù - finisce lì.
L’orario di lezioni prosegue, la campanella suona altre due volte a sottolineare il cambio di docente tra un’ora e l’altra. Poi, un’ultima volta in maniera più prolungata: è il momento di uscire, di tornare tutti a casa. Gli schiamazzi e i soliti sfottò tra compagni per le scale e l’uscita dal portone che dà su corso Giannone, stesso nome per la più antica scuola del capoluogo con annesso Ginnasio e per il lungo stradone che costeggia il verde del parco della reggia. Simona, un nome di fantasia, torna a casa dopo aver fatto un pezzo di strada con alcune amiche. Dentro si porta un peso troppo grosso per una bambina di 12 anni. Italiana di Caserta ma dalla pelle nera. Si apre con la mamma, che nota un turbamento sul suo viso e le chiede di raccontare. Ed è l’inizio di un’altra storia, che il suo finale deve però ancora scrivere.
Al momento c’è una prof sott’accusa, e che da alcuni giorni non ha fatto più rientro a scuola, ed un carteggio tra l’istituto dove la docente è di ruolo e l’Ufficio scolastico provinciale, quello regionale e forse già anche con il Ministero della Pubblica istruzione. Perché quanto accaduto è stato regolarmente denunciato agli organi superiori dalla dirigente scolastica, che quella professoressa di Geografia seguiva con attenzione già da qualche anno dopo i primi problemi avuti con gli studenti di alcune classi e, di riflesso, con i loro genitori. Era titolare della cattedra di Italiano quando arrivò cinque anni fa alla media «Giannone». Poi la docente, la quarantina superata da un po', sposata e con figli, ha cominciato a manifestare qualche prima difficoltà di relazione coi ragazzi. Le fu tolto l’insegnamento dell’Italiano e lasciata la Storia e la Geografia. Dall’inizio di quest’anno insegna solo l’ultima materia. La mamma di Simona, riavvolgendo per un attimo il nastro della storia, impietrita dalle parole della piccola decide di andare fino in fondo. L’indomani mattina chiede ed ottiene un appuntamento con la preside durante l’orario di lezione.
A Maria Bianco, questo il nome della dirigente scolastica, racconta ogni cosa. E questa, tra un cambio di ora e l’altra, entra nella seconda frequentata da Simona. Si chiude la porta alle spalle ed esige silenzio. Chiede di conoscere la versione dei fatti dei bambini. Ne ottiene una dolorosa conferma. «Tu sei diversa» sente ripetere dagli scolari: «Sei nera». Assume quindi l’iniziativa di chiamare a sé la prof e di parlarle chiaro: tu sei fuori da questa scuola, le intima. E la docente comincia ad assentarsi. Nei suoi confronti non viene assunto un provvedimento di sospensione, almeno sulle prime: è in malattia. L’accaduto resta chiuso nel più stretto riserbo, fino a quando mercoledì scorso, alla vigilia di una giornata di festa, è in calendario il collegio dei docenti. Due ore di confronto fitto fitto tra la dirigente scolastica e una cinquantina di docenti quanti ne conta oggi la scuola. Qualcuno nota l'assenza della prof ma non ci dà peso: succede di assentarsi anche quando all’ordine del giorno ci sono argomenti importanti. La Bianco non ne fa parola ma sul finire della riunione, quando scattano tutti in piedi che di sotto ci sono mogli e mariti in attesa con i motori delle auto accese ed è quasi ora di cena, vi fa un accenno.
Così lieve che ai più sfugge la gravità della vicenda. Si fa spallucce, per lo più. Ma ci sono anche capannelli. «Stavolta questa ha esagerato» si commenta. E finisce lì, perché è tardi e c’è da prepararsi per la festa dell’Immacolata: domani non c'è scuola, ognuno sogna di evadere con la famiglia. E di mettersi alle spalle, probabilmente, questa brutta storia. Se non ci pensi, in fondo, è come se non fosse mai accaduto. Simona è tornata regolarmente a scuola sin dal giorno successivo all’episodio. Lei è adorata dai compagni di classe e dagli altri docenti. Ha un buon profitto, si dice, e quel 7 in calce alla verifica di Geografia le brucia ancora molto. Non quanto, però, quel marchio di «diversa» imprudentemente affibbiatole. La rabbia è tanta ma stringe i pugni e manda giù un’altra lezione. La più dura che la scuola poteva riservarle. Le verifiche di Geografia ritorneranno, ma i suoi voti saranno ben diversi.



Il dirigente scolastico della Campania: "Un fatto gravissimo, sono esterrefatto"
"Parlerò al più presto con il dirigente provinciale, poi deciderò il da farsi. Mi chiedo come sia possibile, oggi, nella società multirazziale, che accadano episodi simili"
Corriere della sera, 11-12-2011
CASERTA - «Sono esterrefatto: se la notizia fosse vera, saremmo di fronte ad un fatto gravissimo. Farò piena luce sulla vicenda». È l'amaro commento del dirigente scolastico della Campania, Diego Bouchè, alla storia raccontata domenica dal 'Corriere del Mezzogiornò di una alunna di seconda media di Caserta discriminata per la sua pelle. La ragazzina - pur in presenza di un compito di Geografia del tutto simile a quello di un suo compagno - ha avuto un voto inferiore (7 rispetto al 9 dell'altro alunno) unicamente perchè «diversa» come le avrebbe detto la professoressa di fronte alla richiesta di spiegazioni.
Quanto accaduto, si sottolinea, «è stato regolarmente denunciato agli organi superiori dalla dirigente scolastica, che quella professoressa di Geografia seguiva con attenzione già da qualche anno dopo i primi problemi avuti con gli studenti di alcune classi e, di riflesso, con i loro genitori». L'accaduto è venuto all'attenzione del corpo insegnante della scuola al termine di un collegio dei docenti svoltosi mercoledì scorso.
Ora il dirigente scolastico regionale della Campania intende vederci chiaro e commenta: «È incomprensibile tutto ciò. Sono amareggiato - evidenzia Bocuhè - parlerò al più presto con il dirigente provinciale e della scuola, poi deciderò il da farsi. Mi chiedo come sia possibile, oggi, nella società multirazziale, che accadano episodi simili... È insopportabile. E pensare che proprio ieri sono stato in provincia di Caserta in un incontro al quale erano presenti molti responsabili della scuola casertana. Ma nessuno mi ha fatto cenno ad un episodio così grave. Ripeto, se tutta la vicenda fosse confermata, saremmo in presenza di un episodio gravissimo».



Immigrati: incentivi per il rimpatrio Anche mille euro. In pochi lo sanno
L'Eco di Bergama, 11-12-2011
Essere aiutati economicamente dallo Stato per tornare nel proprio Paese d'origine si può. Ma i posti sono pochi, la burocrazia è pignola e tra i migranti sono pochi a conoscere questa opportunità. Nella Bergamasca, infatti, i progetti per il rimpatrio volontario assistito sono poco conosciuti tra gli immigrati: in pochi si rivolgono ai punti informativi e chi torna, a detta degli osservatori privilegiati, lo fa per conto proprio.
È il caso dei progetti di rimpatrio sostenuti dalla Rete Nirva (network italiano per il rimpatrio volontario assistito), sostenuta dal ministero dell'Interno e dal fondo europeo per i rimpatri, in collaborazione con Aiccre (Associazione italiana del consiglio dei comuni e delle regioni d'Europa), Cir (Consiglio italiano per i rifugiati), Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e da Oxfam Italia.
I diversi progetti sono rivolti a categorie di migranti differenti (per esempio: rifugiati, vittime della tratta, ex minori albanesi non accompagnati, e così via) che intendono tornare nel proprio Paese d'origine e chiedono un aiuto per il rimpatrio.
I progetti garantiscono un servizio di tutoraggio e le spese per il ritorno in patria, l'assistenza al rilascio dei documenti di viaggio e alcuni anche un contributo per aprire un'attività nel Paese d'origine. Per esempio, il progetto «Remploy», oltre ad assistere i migranti a rimpatriare, finanzia un progetto di microimpreditorialità nel Paese d'origine per 1.100 euro.
Tuttavia questo progetto prevede solo 100 posizioni aperte per i migranti residenti nel Nord Italia e il finanziamento è piuttosto basso anche per aprire un'impresa nel Sud del mondo. Gli altri progetti proposti dalla Rete Nirva (www.retenirva.it) prevedono sempre piccoli contributi e pochi posti.



IMMIGRATI: RADICI E LEGAMBIENTE, A ROSARNO SITUAZIONE DI SCHIAVISMO
(ASCA) - Rosarno (Rc), 10 dic - ''La stagione delle arance si avvia nel peggiore dei modi. Come ogni anno, i braccianti rientrano nella Piana, si sistemano come possono, accettano le condizioni schiavistiche, imposte dal mercato e, ogni tanto, si ribellano. Arrivano anche quest'anno, saranno un migliaio entro la fine del mese, quasi tutti dell'Africa subsahariana''. Radici e Legambiente della Calabria lanciano l'allarme su Rosarno (Rc), dove la situazione rischia di diventare espolosiva.
''Le premesse non sono buone: l'allarmismo e il sensazionalismo che si registra negli ultimi giorni dicono - e' quanto mai inopportuno per almeno tre ragioni. La prima: parlare ancora di emergenza, nel bene o nel male, e' stucchevole. Le condizioni di vita e di lavoro dei migranti sono note all'opinione pubblica, sono state registrate, documentate e analizzate nei dossier ''Arance insanguinate'' e ''Radici/Rosarno- monitoraggio autunno-inverno 2010-11''.
Nonostante gli sforzi e l'impegno di un'amministrazione comunale, sensibile al tema, i nodi strutturali non sono stati affrontati. I progetti e gli impegni di spesa a medio-lungo periodo sono mal calibrati: riguarderanno solo la sfera ''regolare'' dell'immigrazione, che e' gioco-forza per larga parte una ''zona grigia'' fatta di richiedenti asilo, diniegati in attesa di ricorso, inespellibili, stranieri col permesso di soggiorno per motivi umanitari in scadenza ecc.
Nei dossier citati si affronta la questione al di la' della logica emergenziale, proponendo soluzioni e modelli di azione (ad esempio la mediazione abitativa sperimentata a Drosi e gli affitti calmierati) attuabili da subito. Purtroppo la concertazione avviata in Prefettura la scorsa primavera s'e' interrotta senza motivi apparenti. Il cerino e' rimasto in mano ai sindaci. I proclami della Regione Calabria sull'accoglienza sembra siano destinati a restare tali (campi di accoglienza in tutta la Piana). Lo diciamo subito: la logica emergenziale dei campi non ci piace, altre solo le soluzioni efficaci. Ma il punto e' un altro: su una questione delicata come quella dei migranti occorrono chiarezza e coerenza, programmazione e continuita'. Si intraprenda una strada con chiarezza, la si segua con determinazione e coerenza, e i risultati saranno giudicati con onesta' intellettuale. Invece, sembra che le polemiche siano strumentalmente pilotate a colpire un sindaco coraggioso come Elisabetta Tripodi.
La seconda ragione riguarda la sfera culturale e quella civile. La rivolta di Rosarno rappresenta uno strappo, in parte sanato con la storica manifestazione del 7 gennaio 2011. Lo ricordiamo con orgoglio: i migranti sono scesi in piazza, hanno scioperato per i propri diritti ma anche per il rilancio dell'agricoltura della Piana. Insieme e non contro i cittadini rosarnesi. Terza ragione quella economica. La vertenza per il diritto di soggiorno dei migranti lanciata all'indomani della rivolta - una vertenza che dopo aver ottenuto risultati eccezionali sconta una battuta d'arresto con le fibrillazioni politiche nazionali e la caduta del governo - ha posto con forza una questione: solo il riconoscimento dei sacrosanti diritti dei migranti puo' garantire la manodopera regolare necessaria al rilancio dell'agricoltura della Piana''.



Immigrati, altro carico di bambini sul gommone anche due neonati
Sono sbarcati stamattina a Otranto 55 clandestini: tra questi quattro donne, 36 minori e due neonati. Anche Ieri a Gallipoli un perschereccio con 33 ragazzi. "Il rischio è grande ma così i genitori sono sicuri che una volta arrivati in Italia i figli non possono essere rimpatriati"
la Repubblica, 10-12-2011
CHIARA SPAGNOLO
Immigrati, altro carico di bambini sul gommone anche due neonati I profughi arrivati ieri a Gallipoli
OTRANTO - Un gommone carico di ragazzini ha attraversato come un razzo la notte nera dell'Adriatico per attraccare in silenzio sulla costa meridionale del Salento. L'imbarcazione nessuno l'ha vista, i migranti sono stati individuati all'alba dai carabinieri mentre vagavano per le strade del Capo di Leuca. Quarantuno fantasmi, bagnati e infreddoliti, 36 dei quali minorenni, due addirittura neonati portati in braccio dalle madri che, con il calore dei loro corpi, hanno impedito che durante la traversata il gelo li uccidesse. È l'ennesimo sbarco di questo 2011 sulla costa leccese. Il secondo nella stessa notte, il terzo nel giro di 24 ore. È lo sbarco dei bambini, che le famiglie mandano via da Paesi come l'Iran e l'Afghanistan. Ragazzini che sognano di raggiungere il Nord Europa e invece si ritrovano chiusi per mesi nei centri di accoglienza per minori di cui la Puglia è disseminata. La loro età gli impedisce di essere rispediti nei luoghi d'origine e così diventano numeri in strutture diocesane o gestite da volontari, di cui pian piano ci si dimentica. Così come numeri sono tutti gli immigrati fin dal momento in cui mettono piede in Italia.
In Salento, dall'estate 2010, non si fa che contare e guardare il mare. Accogliere profughi e contare. Venerdì la guardia di finanza ha contato 75 egiziani a bordo di un peschereccio individuato a 48 miglia al largo della costa e scortato fino al porto di Gallipoli. Tutti maschi, in buona salute, 33 dei quali minori che sono stati smistati in Centri dedicati mentre gli adulti saranno
trasferiti nel Cara di Bari per essere rimpatriati. A distanza di poche ore, intorno a mezzanotte, un'altra conta è iniziata sulla scogliera del Ciolo, nel territorio di Gagliano del Capo. Lì uno scafista ha fatto sbarcare 14 disperati, tutti maggiorenni, poi si è perso nel buio della notte. Il gommone su cui i clandestini viaggiavano è stato individuato da un elicottero della guardia di finanza, a 50 miglia dalla costa, mentre sfidava inesorabile le onde. I militari lo hanno seguito a distanza di sicurezza, monitorandolo tramite i radar, per evitare che lo scafista, consapevole di essere stato scoperto, gettasse in mare il suo carico umano. Lo sbarco è avvenuto senza problemi e le pattuglia a terra hanno accompagnato tutti i viaggiatori nel porto di Otranto, dove è stata prestata loro la prima accoglienza.
Anche i migranti rintracciati dai carabinieri a Leuca (55 quindi, in totale, di origine asiatica, anche se alcuni hanno dichiarato di essere rumeni, nel tentativo di farsi passare per cittadini comunitari) sono stati condotti nella città dei Martiri, in attesa che gli egiziani arrivati venerdì vengano spostati dal centro Don Tonino Bello. La struttura è, infatti, adibita solo alla "primissima" accoglienza e non dovrebbe ospitare gente durante la notte. Solo cinquanta sono i posti ufficialmente disponibili ma da mesi, ormai, il Centro è costretto ad accogliere molte più persone, perché le imbarcazioni che arrivano sulle coste pugliesi trasportano quasi sempre numeri elevati di passeggeri.
Lo sbarco più consistente, avvenuto il 29 novembre, ha fatto contare 189 extracomuniatri, che viaggiavano stipati su uno yacth, che si è schiantato sulla scogliera di Porto Badisco. In quella circostanza la strage è stata evitata per un soffio. Tra i miracolati c'erano molti nuclei familiari, dei quali facevano parte diversi minori. Anche per loro un viaggio da incubo, stipati nel ventre di un'imbarcazione da venti metri, costretti a subire minacce e a pagare prezzi esorbitanti per comprare il passaggio verso la Puglia. Ragazzini o adulti che siano, infatti, per i trafficanti di uomini non fa differenza: il sogno italiano non costa meno di 3.000 euro e l'arrivo nella terra promessa, a quanto pare, non è mai garantito.
 



 

Share/Save/Bookmark