15 dicembre 2011

Il seme del razzismo
Il Messaggero, 15-12-2011
Luigi Manconi
E se la povera fantasia di una ragazza torinese che accusa falsamente due rom di averla violentata ci dicesse qualcosa di quanto è successo l’altro ieri a Firenze? Trent’anni fa, una minorenne che avesse voluto attribuire a uno sconosciuto stupratore la perdita della propria verginità, avrebbe probabilmente accusato “l’uomo nero”: predatore non identificabile tra le ombre di una via buia. Oggi, quell’uomo nero – nella maldestra ricostruzione di un identikit - assume le concrete fattezze, mantenendo lo stesso colore scuro, di un anonimo straniero. Trent’anni fa l’esplosione criminale di uno psicopatico si sarebbe indirizzata contro la folla indistinta  proprio perché folla, e minacciosa proprio perché estranea e non conoscibile. Oggi, il delirio paranoide dà al bersaglio della propria violenza i volti di un nemico che si avverte come tale e si teme come tale in quanto diverso (per provenienza, cultura, stile di vita). In entrambi i casi, in apparenza così lontani, c’è un terribile tratto comune: è la procedura che porta alla stigmatizzazione del capro espiatorio e alla sua pubblica esecuzione. La fragile sedicenne di Torino e l’adulto pazzoide di Firenze rispondono a un personale disturbo, dando corpo ai propri fantasmi per poi eliminarli, la prima attraverso una falsa accusa, il secondo a colpi d’arma da fuoco. Entrambi, tuttavia, utilizzano materiali che circolano nella vita quotidiana, pregiudizi condivisi, stereotipi diffusi. E ciò rimanda a due processi culturali che si sono impadroniti di una parte significativa del senso comune nazionale. Il primo: la trasformazione del diverso – straniero o zingaro – in nemico e la conseguente creazione di uno stato di allarme nei suoi confronti. Gli stranieri regolarmente residenti in Italia sono quasi cinque milioni e contribuiscono, con circa l’11% del Pil, alla produzione di ricchezza nazionale, ma restano largamente estranei alla vita sociale, costretti ai margini del sistema di cittadinanza. Il rinnovo di  un permesso di soggiorno, l’accesso ai servizi (casa, trasporti) e al lavoro, per non dire dell’ottenimento della cittadinanza italiana, corrispondono ad altrettanti percorsi faticosi e accidentati, irti di ostacoli, segnati da una lentezza che brucia le aspettative e consuma le esistenze. Ma, soprattutto, emerge l’assenza di intelligenti e razionali politiche di integrazione. Queste ultime sono affidate quasi esclusivamente a dinamiche spontanee - quali la crescente presenza dei minori stranieri nelle nostre scuole - che pure risultano spesso insufficienti. Basti pensare che al compimento dei diciotto  anni, scarsissime sono le possibilità per chi ha completato un percorso di studio, di rinnovare il titolo di soggiorno. Se, pertanto, l’Italia degli italiani tiene a distanza una popolazione di alcuni milioni di persone, pacifica e integrata nella stragrande maggioranza, si capisce bene come possa accadere che quegli stranieri, restati estranei e guardati con diffidenza, vengano percepiti come un  pericolo sociale. Tanto più quando la crisi economica diffonde ansia collettiva e insicurezza verso il futuro: i venditori ambulanti senegalesi possono apparire, a quel punto, un temibile fattore di concorrenza. Sul web, in queste ore, circolano le maleodoranti voci di consenso per l’ “italiano vero” che ha portato a compimento quanto una sentina di odio neofascista e razzista riproduce, quasi inevitabilmente all’interno dei sistemi democratici. È un fenomeno pericoloso, ma contenibile attraverso i dispositivi di legge. Forse ancor più pericoloso è quel grumo di rancore tacito, di rivalsa sociale, di risentimento e frustrazione che può indurre strati di popolazione, se non ad approvare, comunque a non ripudiare quell’azione. E a ciò può contribuire un secondo processo culturale che già ha conquistato una parte della mentalità condivisa. È quello che possiamo chiamare la caduta del tabù del razzismo. Indicare nel rom il più probabile stupratore, corrisponde al diffondersi di uno stereotipo infame che, finora censurato, può oggi circolare impunemente. C’è persino una data di riferimento: è quel novembre del 2007 quando venne uccisa a Roma Giovanna Reggiani dopo essere stata abusata da un romeno. In quella circostanza, e nelle successive campagne elettorali per il Comune di Roma e per il Parlamento nazionale (2008), è come se fosse entrato in crisi quella sorta di patto civile che aveva funzionato come interdizione morale all’utilizzo nel discorso pubblico di categorie dichiaratamente razziste. In altri termini, salvo alcune e particolarmente vistose eccezioni, nella sfera pubblica del nostro paese, l’equazione romeno (o altra nazionalità) uguale stupratore non aveva libero corso e risultava impresentabile culturalmente, e tanto più politicamente. Oggi non è più così. Tutto ciò chiama in causa le responsabilità di chi nel sistema politico (la Lega, ma non solo essa) e nel sistema dell’informazione (quanti banalizzano e sottovalutano il fenomeno) acconsente a un linguaggio fatto di semplificazioni grossolane e di allarmi xenofobici. Qualche giorno fa La Stampa di Torino si è scusata con parole intelligenti di quel titolo sbrigativo («Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella») che accreditava la falsa versione della minorenne. È un esempio raro, forse unico, che dovrebbe diventare stile di comportamento e codice deontologico di tutti gli operatori dell’informazione.  



"Ho visto l'assassino negli occhi" Parla il senegalese sopravvissuto
Ndiaye Mor era in piazza Dalmazia accanto al fratello Diop, ucciso da Gianluca Casseri. "Aveva la faccia buona, si è avvicinato e ha cominciato a sparare"
la Repubblica, 15-12-2011
MARIO NERI
«Ho visto l’assassino negli occhi. Aveva la faccia buona, camminava tranquillo, sembrava un cliente. Invece ha cominciato a sparare. Mio fratello era accanto a me, l’ha colpito per primo». Nuvole e pioggia sulle strade dell’ospedale di Careggi. Ndiaye Mor venendo qui ha sbagliato strada. Dal parcheggio dell’ospedale è finito a terapia intensiva, primo piano del padiglione 12, scala C1. Un posto dove si contano i passi e i minuti sperando nella vita. E per lui, di speranza non ce n’è più. Perché lui cerca solo un corpo. Quello di suo fratello Diop Mor, uno dei senegalesi uccisi martedì in un mercato di Firenze. Lui Gianluca Casseri, l’omicida di 50 anni, il commando imbevuto di razzismo e ideologia neonazista, se l’è trovato davanti.
«In piazza Dalmazia c’ero anch’io - dice - Diop era vicino a me, più in là Modou e Moustapha. Tutti e quattro in piedi, in fila uno accanto all’altro. La merce sui teli bianchi stesi per terra. Non l’ho ancora capito perché, ma mi ha saltato. Arrivato a tre metri da noi, quell’uomo ha tirato fuori la pistola e ha cominciato a sparare. Così: pum pum pum, da sinistra verso destra. Non mi ha puntato, forse perché ero un po’ più distante. Non lo so. Quando mi sono rialzato mio fratello e Modou erano già morti». Ndiaye è un uomo di un metro e novanta, 55 anni, il volto segnato, un cappotto marrone e un berretto di lana beige. E il killer gli era perfino «sembrato una persona buona ma con lo sguardo fisso», continua a ripetere accanto a Fal Mbaye, il più giovane dei fratelli Mor, 38 anni portati da ragazzino sotto una felpa nera e verde col cappuccio, quello che tutti martedì hanno visto piangere e disperarsi accasciato davanti all’edicola. «Io non c’ero, lavoro per una ditta di pulizie, mi ha chiamato Ndiaye».
Adesso sono scesi di nuovo in strada. «Andate al padiglione 10a», ha detto loro un medico sulla porta di rianimazione, «chiedete di medicina legale». Ndiaye la mima a ripetizione quella scena. Non importa se la gente intorno lo guarda. Piove, e i fiorentini vanno di fretta. E comunque non importa. A tratti si ferma e ricomincia a spiegare: l’omicida che prende la mira, lui che si gira, d’istinto, cade. Poi la sparatoria, le esplosioni. Uno, due, tre, quattro colpi. «Hanno provato a rianimarlo, ma la macchinetta ha detto basta, non c’era più niente da fare».
Deve riavvolgere il nastro, rimettere insieme quegli istanti e sembra lo faccia soprattutto per Fal: «Non ho potuto fare niente - dice Ndiaye - ho visto quell’uomo scappare, io sono rimasto di pietra. Ma perché? Siamo qui da dieci anni, mai litigato con nessuno, siamo persone buone noi». Ora, lui che è il fratello più grande, dovrà chiamare Dakar, avvertire la famiglia, la moglie e i tre figli di Diop. «La più bambina piccola l’aveva vista per tre giorni dopo la nascita. Poi era ripartito per l’Italia dal Senegal e non era più tornato a casa, mandava i soldi da qui». Ogni tanto una lettera, una volta all’anno una foto.
Una storia simile a quella di Modou Samb, 40 anni, anche lui ucciso nell’agguato. La ricorda il suo migliore amico, Lo Mbaba, 30 anni, inginocchiato sui fiori e i messaggi che da ieri riempiono l’angolo della strage. «Eravamo partiti insieme dal Senegal nel ’99 - dice Lo - Abbiamo passato qualche anno in Marocco e poi nel 2002 siamo sbarcati in Italia a cercare fortuna. Sbarcati, sì, su una carretta del mare. Io ero riuscito a trovare un lavoro da metalmeccanico e ad ottenere un permesso di soggiorno. Lui invece no. Eppure, ogni volta che venivo a trovarlo e gli parlavo delle difficoltà, della fatica che facevamo, era lui a dire a me “fatti forza, vedrai che ce la faremo, torneremo in Senegal un giorno”. Proprio lui, che non vedeva sua moglie e sua figlia da 11 anni ma che non dimenticava mai di chiamare almeno una volta al giorno».
In rianimazione a Careggi non hanno fatto entrare nemmeno Lo Mbonde e Midiu Faye. Sono venuti dalle concerie di Santa Croce sull’Arno per vedere loro cugino, Moustapha Dieng, 34 anni. «Un proiettile l’ha colpito all’addome e uno al petto - dicono sui gradini della C1 - forse devono operarlo di nuovo, ma sembra fuori pericolo». E a casa, in Africa? «Ha 4 fratelli, non li vede da tre anni, come facciamo a chiamarli, cosa gli diciamo, che adesso rischia di rimanere paralizzato per colpa di un pazzo razzista?».



Firenze è piena di paure... ma il razzismo è un’altra cosa
Il delitto e le reazioni viste dallo scrittore fiorentino Marco Vichi. La città piange i senegalesi, mistero sul movente del killer. Colpo al gruppo xenofobo: i neofascisti che odiano i romeni ma anche Bush
il Giornale, 15-12-2011
Marco Vichi
Un italiano ha ucciso due senegalesi e ne ha feriti altri tre. È successo a Firenze, ma la città - pur da sempre inospitale con chi non è fiorentino - non deve e non può essere tacciata di razzismo.
Anzi, Firenze ha reagito con fermezza, e aggiungo qui la mia piena solidarietà alla comunità senegalese. Il primo cittadino, Matteo Renzi, ha incarnato lo spirito della città, la quale ha dimostrato con atti visibili la propria avversione all'orribile delitto di un folle, di un individuo che ha messo mano alla pistola per esprimere il proprio razzismo. Dunque la colpa ricade unicamente su di lui, così come è individuale la responsabilità di quei ragazzini che a scuola si lasciano andare a comportamenti inaccettabili, senza che per questo si debba condannare un'intera generazione. Ma ogni occasione di violenza estrema porta inevitabilmente a riflettere.
La prima domanda che mi pongo è: in Italia esiste un terreno fertile in cui coltivare il razzismo? A livello epidermico rispondo di no, ma non si deve nemmeno ignorare che qui da noi - lo sanno anche i sassi - non esiste una vera politica di integrazione. Esiste una forza contraria che mette i bastoni tra le ruote a ciò che servirebbe per creare un clima diverso, capace di fare i conti con i cambiamenti del mondo.
L'uomo non è un vitigno, di cui si può dire che è meglio se cresce nella terra di origine. Gran parte dell'evoluzione del Pensiero Umano deriva dal contatto e addirittura dalla mescolanza di culture diverse, che infrangendo le abitudini inveterate, costringe a nuove riflessioni, a nuove dialettiche e a nuove sintesi. Non dico che alcune concentrazioni etniche in certe zone di città grandi o piccole non possa presentarsi a volte come un problema, ma forse questa «concentrazione» (che a volte ha il sapore del ghetto) è il frutto della poca importanza che si è data alla faccenda, con qualche eccellente eccezione: proprio vicino a Firenze, a San Donnino, molti anni fa Don Momigli si batté come un leone per evitare che gli stranieri formassero, appunto, concentrazioni etniche, e fu avversato a destra e a manca. Uscirono anche dei libri che lo descrivevano come colui che aveva organizzato la repressione contro i cinesi e le deportazioni. Don Momigli è contrario anche «classi etniche» nella scuola: «È bene sempre domandarsi quali siano le conseguenze di una scelta. Se vogliamo una società multiculturale che favorisca le concentrazioni, si fa la classe etnica, ma se vogliamo una società interculturale, la classe etnica non si deve fare». Don Momigli gestisce anche un grande Auditorium, che offre gratuitamente ai musulmani per le loro preghiere, ai metodisti cinesi per celebrare il loro culto e a chiunque altro abbia bisogno di un grande spazio per convegni e riunioni, senza curarsi del loro credo religioso. Insomma, un esempio che dovrebbe essere seguito da tutto il Belpaese... Un paese impreparato che ha lasciato andare le cose come andavano, senza capire la forza e la velocità dell'evoluzione del mondo.
E pur affermando di nuovo che l'Italia (compresa Firenze) non è un paese razzista, devo anche rilevare che non si occupa in modo massiccio e a livello politico di rafforzare l'antirazzismo, di alimentare una vera cultura antirazzista. Qualche anno fa vidi su ARTE un servizio molto interessante: una casa di produzione francese, che si occupava di ciò che da noi viene chiamata «pubblicità progresso», aveva prodotto un filmato in cui si ribaltavano i valori in merito alla questione, mostrando situazioni in cui un razzista dichiarato veniva messo al bando con le stesse modalità con le quali i razzisti trattano gli stranieri. Un esempio fra tutti: una ragazza porta a casa sua il «fidanzato razzista», ma il padre di lei lo caccia via dicendo in malo modo «In questa casa non voglio razzisti!», e sbattendogli la porta in faccia. Mi sembrava una pubblicità geniale, molto diretta e comprensibile, che spingeva a farsi delle domande. Ma purtroppo la casa di produzione non ebbe il permesso di mandarla in onda, perché troppo cruda. Insomma, credo che si debba fare qualcosa non solo per l'integrazione - che sarà inevitabilmente lenta - ma anche per far capire anche ai più ostici che il razzismo è la via più breve e più stupida per sfogare le proprie paure. Il mondo, più che mai oggi, è una piccola palla sospesa nel vuoto. Le persone nascono in un angolo della terra e si spostano, ne hanno tutto il diritto.
Chi ha paura di questo, ha paura della sua ombra. Vorrei concludere con un altro aneddoto, che mi è stato raccontato da una professoressa che lavora in un istituto professionale di Firenze «ad alta concentrazione di stranieri»: tre ragazze fiorentine, invitate a parlare di razzismo, hanno espresso (forse ripetendo ciò che sentivano dire in casa) il loro risentimento verso «gli stranieri», con i soliti luoghi comuni del tipo «vengono a toglierci il lavoro», ecc.
La professoressa ha fatto notare alle ragazze che in quella stessa classe c'erano delle «straniere» (marocchine, cinesi, albanesi), aggiungendo che le risultava fossero loro amiche. La reazione delle italiane è stata molto chiara: «Certo che siamo amiche! Ma cosa c'entra questo? Loro le conosciamo!». Ebbene, conosciamoli. Invito i cittadini di ogni parte d'Italia che non lo hanno mai fatto, a cercare di conoscere i loro vicini di casa stranieri, a guardarli da vicino, magari a scambiarsi ricette e ad ascoltare i loro racconti. La paura è una brutta bestia, e l'arma più efficace per combatterla è la Conoscenza.



Le vite spezzate di Samb e Diop gli ambulanti che sognavano di tornare dai loro figli a Dakar
La Stampa, 15-12-2011
Guido ruotolo
Quando è entrato nella sua stanza, con quel camice verde e il seguito di medici e autorità, Sougou Mor, si è rivolto al ministro per l’integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi, parlando in francese: «Ministro, ho avuto una paura terribile».
Lui è uno dei tre sopravvissuti all’esecuzione dell’estremista di destra Gianluca Casseri. Si trovava, l’altro giorno, al mercato San Lorenzo e si è salvato perché ha alzato le braccia a mo’ di scudo, e i proiettili lo hanno colpito agli arti. Ha 32 anni e una fidanzata. «Grazie, ministro, per essere venuto». C’è tempo anche per un aneddoto sulle singolari coincidenze. Perché, Sougou Mor racconta al ministro di essere stato operato dall’esperto di chirurgia della mano, il professor Ceruso, che è stato un suo compagno di liceo, il Virgilio di Forlì.
Povero Samb Modou, una delle due vittime di Casseri. Lo piange il fratello: «Era arrivato in Italia nel 2000, con un volo di linea e un visto turistico. Era arrivato con tante speranze, anche quella di vedere crescere suo figlio qui, a Firenze, a Sesto Fiorentino dove viviamo. Aveva lasciato il suo ragazzo che aveva due anni, oggi ne ha 13. E vive con la madre nella capitale, a Dakar».
Samb Modou e Mor Diop sono stati i bersagli «neri» centrati dall’estremista di destra, nel mercato di san Lorenzo. Amare Mussra, fratello di Diop, lavora alla Coop e racconta che Diop arrivò qui tre anni fa, con un visto turistico, arrangiandosi sempre con piccoli lavoretti. «L’altro giorno aveva preso in affidamento per alcune ore un punto vendita nel mercato, una bancarella di una nostra connazionale. Diop era molto religioso e si dava daffare per spedire alla moglie qualcosa ogni mese, anche cento euro».
La via Crucis di questo sofferentissimo giorno di lutto cittadino è un viaggio nella vita disperata di un popolo in cerca di un futuro. Gran parte dei senegalesi che vivono ormai da anni in Italia non sono arrivati dalla Libia via mare, con gli altri disperati a bordo di navi, pescherecci o anche piccole imbarcazioni. Gran parte di loro è atterrata a Roma con un volo di linea e un visto turistico.
Una comunità errante, quella senegalese. Gran lavoratori nel campo del commercio, ma adesso anche nelle fabbriche e nell’export-import. «Abitava con me - ricorda il fratello di Samb Modou - e altri tre connazionali in un appartamento di via Puccini, a Sesto Fiorentino. Due camere e un salone, 800 euro al mese. E lui, ma anche noi, con la crisi lavorava dove capitava».
E già, la crisi. Nella sede del consolato senegalese, arrivano i parenti e gli amici delle vittime e dei feriti. Ndianga è il fratello di Moustapha Dieng, un sopravvissuto all’esecuzione razzista. Le sue condizioni di salute sono disperate, colpito alla schiena e alla gola. Ndianga ha 48 anni, il fratello 34. «Moustapha è arrivato in Italia quattro anni fa e aspettava che fosse accolta la sua domanda per una licenza di ambulante. Viviamo in sei in un appartamento di Cascina, in via Lungo Del Muro. Mille euro al mese di affitto». Ndianga rivela un particolare: «Erano due anni che Moustapha non andava in quel mercato. Aveva un appuntamento con due amici. Che peccato, soltanto dieci minuti dopo si sarebbe salvato, non sarebbe stato colpito». Anche il fratello di Mbenghe Cheike, 42 anni, il terzo ferito, è disperato: «L’ambulanza non arrivava mai».
Ha ragione l’imam di Firenze, il palestinese Izidin Alzir, quando dice di aver sofferto l’altro giorno perché le prime agenzie di stampa battevano la notizia che nel mercato di san Lorenzo c’era stato «un regolamento di conti». Soffre la comunità senegalese, ma anche quella fiorentina è rimasta ammutolita e dolente. Un po’ in tutte le città dove è presente una comunità senegalese si stanno svolgendo manifestazioni (civilissime) di protesta. E Firenze si appresta a vivere, sabato, una grande giornata di presenza «nera». Le previsioni parlano almeno di ventimila senegalesi che da tutta la Toscana dovrebbero arrivare a Firenze.
C’è però tensione e cresce la preoccupazione per possibili infiltrazioni nel corteo di segmenti di centri sociali e di aree antagoniste interessate a creare disordini.
Nello studio del console onorario Eraldo Stefani, diversi rappresentanti della comunità senegalese ragionano sull’appuntamento di sabato con il primo consigliere e l’addetto militare dell’ambasciata senegalese a Roma. Papa Diaw, portavoce della comunità fiorentina, riflette: «Non sarà una manifestazione di gioia o di lotta, sarà una manifestazione silenziosa. Chi verrà, deve essere consapevole che verrà in pace, che noi siamo perché alla violenza non si risponda con la violenza. Accetteremo nel corteo chiunque vorrà partecipare al nostro dolore. Ma non posso nascondere una certa preoccupazione».
Il primo segretario dell’ambasciata senegalese tiene a precisare che loro chiederanno alle autorità italiane di garantire la sicurezza dei cittadini senegalesi che vorranno partecipare alle manifestazioni. E già, almeno questo è importante, che il governo Monti, il ministro Riccardi venuto a Firenze, parlano di integrazione e di cittadinanza. Non alzano barriere, anzi cercano di abbatterle.



Chi ha alzato muri a Firenze (e non solo)
Europa, 15-12-2011
Massimo Livi Bacci
L’assassinio dei due cittadini senegalesi, ed il grave ferimento di altri tre, avvenuti martedì scorso a Firenze per mano di un folle – un uomo di mezza età, senza apparenti problemi economici che nemmeno conosceva le sue vittime – evoca oscuri fantasmi. Le cronache ci informano che l’uomo era un confuso cultore di dottrine esoteriche, neonaziste e razziste, e che le cinque vittime avevano, in comune, la pelle nera. Ma per quali ragioni e meccanismi, remoti e contingenti, sia scattata la follia, non lo sappiamo.
È un compito che lasciamo a chi per vocazione, sensibilità o professione è abituato ad esplorare i meandri della psiche. Non lo è chi scrive queste righe, e del resto molte follie si scaricano in comportamenti che, per fortuna, rimangono innocui. Ma non quella dell’uomo di Cireglio che ha trovato nell’odio razziale l’esplosione finale della sua devianza.
L’episodio però ravviva oscuri fantasmi. In tutta Europa movimenti che coltivano l’intolleranza e l’odio per i diversi – per colore, inclinazioni, religione, nazionalità – si creano, circolano, spariscono, riaffiorano, si ricombinano in forme diverse. Spesso sotto forma di movimenti e partiti politici, che non vivono nell’ombra, ma hanno giornali, seggi nei consessi elettivi, voce ascoltata nel dibattito pubblico. Chi ha leadership e influenza, chi è ascoltato e seguito, ha enormi responsabilità, e i politici più di tutti.
Chi fa politica ha l’obbligo civile e morale che non una parola pronunciata, non un atto compiuto, non un gesto abbozzato possano far germinare il repellente germe della violenza, dell’odio razziale, della ripulsa del diverso e dello straniero. Parole, atti e gesti che possano – anche per una minima frazione – contribuire a scatenare la follia, come quella esplosa a Firenze. Che concorrono ad alzare muri, attizzare conflitti, accecare la razionalità, spengere la tolleranza.
Negli ultimi anni la Lega si è caricata sulle spalle una pesante responsabilità. Ed è quella di avere “criminalizzato” il migrante irregolare, colpevole solo di avere traversato un confine di stato senza autorizzazione. Di avere tentato di introdurre un’aggravante di pena per i reati compiuti dagli irregolari – rubi una pera, dieci frustate ma, se sei immigrato senza permesso, le frustate sono quindici. Di avere proposto e attuato altre inutili vessazioni. Non importa poi se l’Europa, la corte costituzionale, o l’inapplicabilità delle misure abbia loro tolto o attenuato gli effetti negativi: il fatto è, però, che hanno contribuito a diffondere nell’opinione pubblica diffidenza verso i migranti.
La Lega ha tollerato che diversi suoi esponenti di rilievo – ministri, parlamentari, sindaci – usassero parole e linguaggi che in altri ordinamenti giuridici costituirebbero un reato di istigazione all’odio razziale.
Il governo di Mario Monti ha costituito, molto opportunamente, un ministero per la Cooperazione e l’integrazione, affidato ad Andrea Riccardi. È una buona cosa, e in attesa di una riformulazione delle politiche migratorie, ci attendiamo che vengano presto cancellate dannose norme vessatorie. Ci attendiamo anche che il dibattito sulla migrazione sia riportato sul piano della ragionevolezza mettendo al centro i veri protagonisti del fenomeno – donne e uomini stranieri e uomini e donne italiani – alla ricerca del maggior bene collettivo. E non la sola caccia al voto.



Ammettiamolo, siamo capaci d'odio E la vera libertà sta nello scegliere il bene
Avvenire, 15-12-2011
DAVIDE RONDONI
A Firenze sparano sugli ambulanti di colore. A Liegi buttano granate sui passanti. E altri fatti, più o meno eclatanti, ci hanno ricordato in queste ore una verità nuda: noi odiamo. Siamo capaci di odiare. In casi tragici e spaventosi come i fatti di Firenze e di Liegi si chiama in causa la pazzia, il raptus. Come se questi gesti di follia finale, di odio fatale non crescessero giorno per giorno da un nutrimento dell'odio, da tante piccole progressive scelte avvelenate di odio. Le biografie dei colpevoli di questi gesti estremi spesso dimostrano una assidua, continua coltivazione dell'odio. II fatto che in questi casi ci sgomenta, se non ci distraiamo subito in analisi sociopolitiche consolatorie, è cosi, infine, la capacita di odio che possiamo alimentare. Quando il suo magma erompe e si fissa in gesti micidiali, di sinistra e a volte meticolosa precisione, rimaniamo impressionati. Accade di fronte a fatti di cronaca come questi recenti, ma anche di fronte a fatti privati che ci toccano personalmente. Siamo disposti, per cosi dire, a comprendere l'invidia, la gelosia, l'avidità e tutta la spettacolare gamma dei vizi che ci troviamo tutti un po' addosso. Poi quando appare lui, nudo e tremendo, come una pietra liscia senza appigli, restiamo senza parole. L'odio abita nel fondo del cuore dell'uomo, di noi uomini, come un antico demone addormentato. Ma si, sappiamo odiare. È nelle nostre possibilita. Volere la fine dell'altro. Limitarlo. Violarlo. Arrivare a desiderarne la morte, l'eclisse, la scomparsa. La sofferenza. Certo, si possono indagare e accusare i molti elementi che sembrano alimentare atti o atteggiamenti di odio. C'è chi accusa il razzismo, la politica faziosa, la pressione di media, la facilita di armarsi, la incúria pubblica. Ma, a ben vedere, non sono queste stesse cause dell'odio azioni e atteggiamenti causate a loro volta da questo strano enigma che chiamiamo odio? Chiamare causa dell'odio il razzismo è come dire che l'odio causa odio. È indicare la politica faziosa e intollerante è lo stesso. E persino individuare possibili parti di causa in impalpabili consuetudini sociali non è forse rintracciare un odio pulviscolare, diffuso che poi si cristallizza in qualcuno nel gesto piü evidente e trágico di odio? L'odio non ha un motivo preventivo che lo giustifichi. Non è conseguenza inevitabile di qualcosa d'altro. Va detto: è una scelta. L'odio - diciamolo accettando
lo spavento di questa affermazione - è un atto libero. Uno degli atti piü radicalmente liberi dell'uomo. Come lo è
il bene. L'odio, come il bene, non ha giustificazione automatica. Quando Gesü dice che è facile amare l'amico, mentre il vero compito è amare il nemico, indica potentemente questa radicale libertà di noi uomini. Possiamo amare e odiare contrastando del tutto le circostanze. Non seguendo, per cosi dire, nulla di obbligatorio. Si odia e si ama dei tutto liberamente. Questo è la spaventosa abissale misteriosità dell'essere umano.
E la nostra possibile gloria, come vediamo in storie ordinarie o eccezionali di bene. II cuore umano, ammoniva il Manzoni poco ricordato nelle celebrazioni del centocinquantenario italiano, è insondabile se non a Dio. L'odio è una mancanza di immaginazione, diceva Graham Green. Lo ricordano in un loro bel libro recente suir enigma del male Andrea Monda e Giovanni Cucci. Solo chi si è privato di immaginazione può infatti guardare il volto di un uomo senza scorgervi nemmeno un tratto che richiami fraternità, comunanza. Una necessaria solidarietà. Siamo la società dell'immagine, non dell'immaginazione. Non a caso, sotto gli scintillanti favolosi manifesti o video di ogni genere di reclame si aggirano uomini armati, senza piü immaginazione. Alcuni con armi visibili e feroci. Altri - molti piü di quelli che pensiamo - con armi invisibili, ma non meno micidiali. Trasformare la libera scelta dell'odio in libera scelta del bene è un compito grande, specie in tempi di crisi. Si tratta di ricordare e mostrare che l'uomo che ama liberamente è più compiuto, piü lieto e piü realistico di chi cede all'odio. II resto sono chiacchiere, per lo più banali, del giorno dopo.



Colpo al gruppo xenofobo I neofascisti che odiano i romeni ma anche Bush
il Giornale, 15-12-2011
Gian Marco Chiocci Patricia Tagliaferri
Roma -Più che a un'organizzazione paramilitare ispirata al mostro norvegese Anders Breivik o all'omicida-suicida Gianluca Casseri di Casapound a Firenze, «Militia Christi» non faceva della violenza la sua arma di proselitismo. Straparlava al telefono, imbrattava i muri, faceva uso di volantini e striscioni. Il credo ideologico si ispirava all'odio razziale, al disprezzo per ebrei e romeni, alla contrapposizione con il «traditore» Fini o a «quest'ambiente politico di destra che lecca il deretano di “Papi” Silvio». Le istituzioni statali non erano un problema, non le riconoscevano proprio.
I crociati della «Militia» arrestati ieri dal Ros in straordinaria coincidenza con la mattanza dei senegalesi al mercato fiorentino di San Lorenzo, si muovevano contro tutti e tutto, «destre e sinistre». Lodavano la lotta di Hamas, l'offensiva antimperialista, la curva nord dove avevano in mente di creare il gruppo ultras «Militia Laziale», essendo stato il suo leader storico, Maurizio Boccacci, 54 anni, protagonista di scontri allo stadio. Con lui, che fu la mente del «Movimento politico occidentale», in carcere sono finiti Stefano Schiavulli, 26 anni, Giuseppe Pieristè, 54 anni, Massimiliano De Simone, 41 anni, e Daniele Gambetti, 26 anni. Sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, violazione della legge Mancino, diffusione di idee fondate sull'odio razziale ed etnico, apologia del fascismo, deturpamento di cose altrui, procurato allarme, minacce alle istituzioni e ai loro rappresentanti. Tra gli undici indagati anche un giovane di 16 anni definito l'ideologo dell'organizzazione («Ho con noi questo sedicenne napoletano che ha una mente finissima, mi ha comunicato questa mattina una prima bozza di relazione ti dico eccezionale...altro che chiacchiere, avremo un giovanissimo che chiamerà a raccolta», diceva Pieristè al telefono a Schiavulli).
Quelli di «Militia», definita un'organizzazione «politica di stampo nazional rivoluzionario», secondo quanto emerge dalle 148 pagine dell'ordinanza d'arresto, ce l'avevano con il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, contro il quale pianificavano azioni violente («è un maiale che merita di morì»), con il sindaco della capitale Gianni Alemanno, bersaglio di scritte ingiuriose al pari di Schifani e Fini. Ma tra gli obiettivi c'erano pure l'ex presidente americano George Bush e tutta la politica imperialista di Usa e Israele e i cittadini romeni. Per diffondere il loro credo utilizzavano la rivista bimestrale «Insurrezione», per svolgere attività di proselitismo e di indottrinamento politico la «Palestra popolare Primo Carnera», diventata il quartier generale di «Militia». «Agivano (Boccacci e Schiavulli in particolare) - scrive il gip Simonetta D'Alessandro - con il proposito di ricorrere alla violenza e di impiegare ordigni esplosivi per colpire gli obiettivi e di porre le basi di una “guerra rivoluzionaria” contrapponendosi alle istituzioni preposte alla repressione».
Il giudice sembra non avere dubbi: gli estremisti avevano tra i loro scopi «l'incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi». Anche se gli interessati, nelle loro conversazioni intercettate su Skype, ribadivano che il loro «non era un movimento di popolo xenofobo o razzista come qualcuno cercava di farlo apparire». L'obiettivo di Boccacci&Co, si legge sempre nell'ordinanza, era quello di «creare una macrostruttura capace di aggregare altri movimenti e gruppi caratterizzati da un'affine ideologia di destra radicale proiettata a raggiungere finalità antidemocratiche, a denigrare la democrazia e le sue istituzioni, svolgendo continuativa propaganda razzista e incitamento alla discriminazione razziale».
Nuovi seguaci li cercavano attraverso il volantinaggio e Skype o stringendo «alleanze con altri gruppi come “Avanguardia Lazio”». Il 22 maggio 2010 era addirittura prevista un'«adunanza nazionale» presso la palestra, alla quale avevano aderito «non meno di 87 camerati». Ma un precedente blitz del Ros avrebbe fatto saltare la riunione che doveva gettare le basi per la costituzione di una «struttura politica più ampia». Tra le «violenze» riscontrate la ricettazione di una camicia militare rubata a un giovane di sinistra.



Pogrom e stragi, è gonfio il ventre razzista dell'Italia
Liberazione, 15-12-2011
Annamaria Rivera
In pochi giorni il ventre razzista dell'Italia ha partorito un pogrom contro una collettività rom e una strage di cittadini senegalesi compiuta con modalità da Ku Klux Klan. Il primo episodio è accaduto in un quartiere popolare per antonomasia, Le Vallette di Torino; il secondo tra la periferia e il centro di Firenze, città reputata tollerante, democratica, civile per eccellenza. Il pogrom torinese ha avuto come vittime i capri espiatori di sempre, quelli che - dicono sondaggi e inchieste - occupano il primo posto nella scala dell'antipatia, del disprezzo e della xenofobia. All'opposto, la strage di Firenze ha colpito coloro che, fra i migranti, sono i più "integrati", accettati, se non benvoluti.
In entrambi i casi, l'informazione si è comportata secondo quella coazione a ripetere che è uno dei tratti peculiari del circolo vizioso dei razzismo all'italiana. Infatti, perfino quotidiani "progressisti" come La Repubblica sulle prime hanno dato credito alia falsa accusa di stupro contro i rom, architettata da una giovane "peccatrice" dal cervello infarcito di stereotipi razzisti («puzzavano», «uno aveva una cicatrice sul viso»...). E finanche di fronte a una violenza omicida cosi palesemente razzista come quella florentina, un altro quotidiano, La Nazione, non ha saputo resistere alla tentazione di parlare di «regolamento di conti». Del resto, è quel che fece nel 2008 La Repubblica nel primo pezzo sulla strage di camorra di sei lavoratori subsahariani, compiuta nel 2008 a Castelvolturno: il titolo parlava di «scontro a fuoco» e di «agguato contro il clan degli immigrati». In quel settembre del 2008 solo una minoranza d'italiani - i soliti antirazzisti: intellettuali, attivisti, organi d'informazione di nicchia - si allarmò per un'escalation di violenza razzista che in quattro giorni aveva fatto ben sette vittime, da un capo all'altro della Penisola: oltre alla strage di Castelvolturno, l'assassinio, a Milano, di Abdul Guiebre, diciannovenne italiano con genitori del Burkina Faso. Oggi la storia si ripete: i pogrom contro i rom - tali in senso proprio, benché per ora incruenti - avvengono con le stesse modalità al Sud come al Nord d'Italia, spesso in quartieri un tempo "rossi" e operai, spesso ispirati anche da assai concreti interessi economici. Aile Vallette la miccia simbolica che ha appiccato il rogo reale dell'insediamento rom è stata un'accusa da ma- nuale del buon razzista antigitano. Ancor più classica la leggenda che in un altro quartiere popolare. Ponticelli, a Napoli, sempre nel
2008, servi da detonatore dell'attacco razzista che costrinse alla fuga tutti i rom délia zona: la figlia di un camorrista aveva accusato una sedicenne rom di aver tentato di rapirle il bebè. La povera ragazza fu poi condannata a una pena severa da giudici forse anch'essi educati da genitori che li minacciavano: «Non fare il cattivo se no ti rapiscono gli zingari!». In entrambi i casi il pogrom si svolge secondo un tipico copione che vede protagonista una folia inferocita composta anche da famigliole: donne e bambini compresi, riferiscono le cronache.
Piü "anômala" è la strage florentina, almeno rispetto al contesto italiano. Ed è essa a segnare una svolta minacciosa nel ventennio abbondante di crimini razzisti che inizia almeno nel 1989, con Pomicidio di Jerry A. Masslo. E non solo perche compiuta da un killer, Gianluca Casseri, apertamente razzista, nazista, negazionista, iscritto o comunque frequentatore abi- tuale di Casa Pound, owero dei "fascisti del terzo millennio", troppe volte protetti e legittimati a destra, owiamente, ma perfino a sinistra. Quel che rende ancor più allarmante questo massacro è che sia stato compiuto non in un contesto marginale, degradato e/o conflittuale, ma nel cuore di Firenze e con freddezza e determinazione. Inoltre, fra 1'agguato mortale in piazza Dalmazia e il nuovo tentativo di strage in San Lorenzo passano più di due ore: è solo dopo che «gli investigatori si mettono alla caccia dell'assassino», per dirla alia maniera dei giornali. Qualcosa di simile è accaduta alle Vallette: le forze dell'ordine sono arrivate solo a corteo e pogrom compiuti. Sarebbe accaduta la stessa cosa se un «extracomunitario», come dicono loro, si fosse scatenato nella caccia ai bianchi, armato di una 357 magnum? O se degli «zingari» si fossero messi in mareia per incendiare un quartiere "bene" di Torino? Oggi si cerca di far passare Casseri per un pazzo isolato, quando invece non si contano i siti e i giornali on line dei quali era collaborator abituale, in compagnia di pezzi grossi del "pensiero" di estrema destra. Fra questi, Gianfranco de Turris, ben noto non tanto quale "studioso" dell'opera di Julius Evola ma piuttosto come caporedattore per la cultura del Giornale radio Rai. Non v'è impresa "culturale" compiuta dallo stragista suicida (o suicidato?) che non lo veda in sua compagnia. I due, Casseri e de Tunis, sono fianco a franco nel Centro Studi La Runa (che ora, con scarso senso di rispetto per il defunto, ne ha cassato gli articoli). Si scambiano i ruoli di relatore e moderatore in numerosi convegni e incontri di studio (si veda, prima che lo cancellino: http://ko- kr.facebook.com/note.php?note_id=33565237 3875). E l'uno, de Turris, scrive prefazioni o presentazioni alie opere dell'altro. Un pazzo isolato? Ci spieghino allora come mai un giomalista Rai frequentasse un simile folie e la Rai spieghi ai cittadini italiani perche  abbia (o abbia avuto per tanti anni) come redattore uno che, oltre a recensire e divulgare robaccia neonazista, aveva frequentazioni cosi pericolose. Fra l'altro, Casseri era attivo colla- boratore del sito Stormfront, avatar del Ku Klux Klan: dunque, non è in senso metaforico che rimarchiamo le modalità da incappucciati della strage florentina.
Infine: da molti anni chi scrive cerca di mettere in guardia dalla saldatura pericolosa che in Italia si è realizzata fra il razzismo istituzionale e quello popolare, grazie all'opera "pedagogica" svolta dalla Lega Nord nonché da governanti e amministratori di ogni tendenza, con l'attiva complicità di buona parte dei media e la connivenza, esplicita o implicita, di alcune élite. Oggi appare evidente come il cumulo di pacchetti-sicurezza, leggi e norme tesi a discriminate, inferiorizzare, mettere al bando immigrati e rom abbia ottenuto anche il suo secondo scopo: accendere le torce di folle inferocite e armare la mano di killer razzisti. Con l'avanzare della crisi, dell'impoverimento di massa, delia disgregazione sociale e del rancore collettivo che diviene razzismo, ne vedremo sempre dipiü. A meno che il conflitto sociale non imbocchi la Strada giusta della lotta contro i poteri finanziari ed economici responsabili di un tale disastro e i loro comitati d'affari insediati nelle istituzioni.



La Firenze che accoglie
Avvenire, 15-12-2011
ANDREA FAGIOLI
A Firenze c'è un senegalese famoso: si chiama Chouma Elhadji Babacar, è nato a Thies, di professione fa il calciatore e a soli 18 anni è uno di quelli ricchi. Ha già messo insieme 20 presenze e 4 gol in serie A con la maglia della Fiorentina. È un senegalese fortunato. I suoi connazionali nel capoluogo toscano lo sono un po' meno, ma sono pur sempre tra gli extraco- munitari più integrati. «La comunità senegalese è tra le meglio organizzate e autosufficienti, non è tra quelle che necessitano di assistenza - spiega il direttore della Caritas diocesana, Alessandro Martini -. Sono pochi i senegalesi che passano dalle nostre mense o dai nostri centri di accoglienza. Hanno anche una forte propensione alla socialità. Spesso li conosciamo solo come venditori ambulanti, ma si tratta di una comunità attiva sul piano sociale. Alcuni di loro sono anche impegnati nelle istituzioni. Come Caritas - aggiunge Martini - li abbiamo incontrati più volte. Ci coinvolgono nelle loro iniziative e celebrazioni. Essendo in stragrande maggioranza islamici, ei invitano alle feste religiose, ma anche ai dibat- titi, agli incontri. Sono molto sensibili verso i non islamici. La nostra vicinanza oggi alla comunità è senz'altro dettata da motivi contingenti, ov- vero dalla tragedia che i senegalesi a Firenze stanno vivendo dopo 1'ag- guato di lunedi, ma anche e forse soprattutto in virtù del cammino ventennale che abbiamo fatto insieme. Questa comunità - conclude Martini - è parte integrante delia città». La Caritas rispetto alla diocesi è "lo strumento sul campo" ed è per que- sto che negli uffici di via dei Pucci, a poche centinaia di metri dal mercato di San Lorenzo dove lunedi si è consumata la fase finale della tragedia, il direttore e i suoi collaboratori si sentono ancora di più responsabili e coinvolti in un cammino di accoglienza che la Chiesa locale promuove, come dice don Giovanni Momigli, direttore dell'Ufficio di pastorale sociale e parroco di una zona di "frontiera", come quella di San Donnino: «Il rapporto tra la diocesi, attraverso 1'Uflicio di pastorale sociale, e la comunità senegalese è vivo e procede da anni - afferma Momigli -. In più occasioni abbiamo partecipato alle loro iniziative, anche a confronti sui temi della legalità e dell'inserimento positivo nel tessuto sociale ed economico del territorio».
Don Momigli, che ieri ha incontrato il console onorario del Senegal, Eraldo Stefani, al quale ha partecipato la vicinanza della diocesi, ricorda come attraverso la stessa struttura consolare lui abbia potuto partecipare anche ad un'iniziativa in Senegal sull'educazione e i percorsi scolastici. A sua volta il sacerdote fiorentino sta offrendo alla comunità senegalese ambienti per la preghiera e per le loro feste nella grande struttura parrocchiale denominata "Spazio reale". «Il nostro intento -evidenzia Momigli- è di continuare a lavorare per rafforzare una cultura della convivenza che si fondi sul valore dell'uomo e sul bene comune». Maurizio Certini, direttore del Centro internazionale studenti " Giorgio
La Pira", da sempre impegnato sul fronte dell'immigrazione, ricorda che la comunità senegalese «contribuisce con il proprio lavoro al benessere materiale collettivo e offre, anche attraverso le proprie radici culturali, un apporto significativo per il bene comune». Il Senegal, dichiara ancora Certini (che ieri ha sottoscritto un comunicato congiunto con la Fondazione La Pira e "Toscana impegno comune"), «è il Paese della "Teranga", o dell'accoglienza. Simboleggiata dal leone, è essa stessa la caratteristica principale di que- sto popolo straordinario: una intra- ducibile combinazione di accoglienza e ospitalità, forza e coraggio, orgoglio, dignità. È il Paese del Baobab, immenso albero dalle radici forti e possenti, che prendono nutrimento dalle profondità più calde della terra».
La comunità senegalese ha sostanzialmente reagito «in modo responsabile e civile» alla violenza assurda con la quale alcuni dei suoi membri sono stati colpiti. Lo riconoscono tutti, anche se non va sottovalutato quanto accaduto nei due mercati fio- rentini più frequentati e che ieri, in segno di lutto e di solidarietà, sono rimasti chiusi
lo sdegno di Dakar
«Un omicidio odioso Prenderemo misure»
DA DAKAR -Sdegno. Rabbia. E la promessa di andare a fondo, nella vicenda di Firenze, di trovare ragioni, moventi. Di agire di conseguenza. La follia xenofoba di Firenze è una doccia fredda per il Senegal, che è il paese della teranga, cioè dell'accoglienza, simboleggiata dai leone. E durissimo è stato il commento del governo di Dakar su quanto accaduto. «Siamo indignati per l'odioso omicidio dei due venditori ambulanti e siamo decisi a fare plena luce su questa vicenda». Lo si è letto ieri in un comunicato del portavoce dell'esecutivo e ministro della Comunicazione senegalese inviato alle agenzie di stampa. In cui si tiene a precisare che «non sarà risparmiato nessuno sforzo per far piena luce su questa vicenda e per prendere le misure necessarie". Anche se ancora non si dice quali siano esattamente, queste misure. Pensare che proprio a Firenze, nel 1962, l'amicizia tra Italia e Senegal fu sancita dall'incontro tra il suo presidente e premio nobel per la letteratura Leopold Sedar Senghor e l'allora sindaco della città Giorgio La Pira. Un incontro aperto dallo stesso Senghor con un plauso alla città, «luminosa regina delle città pacifiche». Senghor, esprimendo la volontà implacabile della "sua" Africa di «respingere la barriera dell'assurdo per proclamare la fede nell'avvenire di un mondo riconciliato e universalmente fraterno», chiese ala platea: «Firenze, hai tu la pace?». Poi disse: «Rispondetemi secondo la tradizione negro-africana: "La pace, la pace soltanto". Quella che lunedi pomeriggio è stata soffocata.



Il razzismo brandito a sproposito
Libero, 15-12-2011  
FILIPPO FACCI
Nei giornalismo nostrano uno più uno fa quattro: se si succedono due episodi a sfondo xenofobo, ergo, scatta immediatamente la focalizzazione del trend, del Alone, del refolo che si è fatto tornado: questo anche se non ci fosse necessariamente nessun trend, nessun filone, nessun refolo che si è fatto tornado. I due episodi ovviamente sono il duplice omicidio di due senegalesi da parte dei suicida Gianluca Casseri (definito «di destra» prima ancora che pazzo e in cura da anni) e poi il caso della ragazza torinese che si è inventata lo stupro di due rom e ha favorito un raid punitivo nel vicino campo nomadi.
I tentativi di cogliere nei due episodi un qualche spirito dei tempo sono stati declinati in vari modi e in vari commenti: qualcuno ha additato un consueto e pericoloso rigurgito di destra, altri hanno cercato di intercettarvi un trend europeo e hanno tirato in bailo Breivik, lo stragista di Oslo, altri ancora hanno paventato virus sociali potenzialmente contagiosi, un importante esponente dei Pd ha detto che i fatti di Firenze «sono frutto di un clima di intolleranza alimentato in questi anni», e non pochi, ancora, hanno cercato un nesso - testuale - «tra la crisi dei debito europeo, l'impotenza dei summit malinconici e la strage dei due senegalesi». Un'emittente privata ha invitato lo scrivente a un talk show cosi sintetizzato: «La crisi crea i pazzi». E se nessuno ha tirato in bailo direttamente Berlusconi è solo perché si è dimesso: il che, a pensarci, è una sciocchezza in qualsiasi caso.
Nei sintetizzare queste tesi siamo stati volutamente generici perché non vogliamo ridicolizzarne nessuna, anche se in qualche caso verrebbe facile; vorremmo limitarci a dire - sobriamente, of course - che le probabilità che i due episodi non significhino assolutamente nulla hanno la stessa dignità statistica di tutte le altre tesi, messe cosi le cose. Il che non significa che è quello che pensiamo, e che cinicamente, da cinici e reazionari, siamo qui che facciamo spallucce per concludere tipicamente che non succede mai niente, che tutto è sempre un refolo e mai un tornado. Il punto non è questo. Il punto è che non avere certezze è diventato un disvalore. Devi sempre avere una tesi a pronto uso: ebbene, colpo di scena, non ce l'abbiamo. Lo stragista di Firenze era un folie che prendeva psicofarmaci da una vita, la ragazzetta di Torino è una mitomane che sconfina nel cretinismo: il contesto disegnatelo voi.
Ciò detto, due postille che lo scrivente scolpisce volentieri nella pietra. La prima è questa: lo stragista di Firenze era iscritto all'associazione Casapound, scioccamente subito ascritta alla galassia della destra estrema: ma è una sciocchezza. Di campagne xenofobe contro gli immigrati, Casapound, non ne ha mai fatte, e neanche non xenofobe. Se considerate che tra le battaglie di Casapound ce ne sono contro la riforma Gelmini, per il diritto alla casa, contro Equitalia e persino contro il Grande Fratello, vi renderete conto che separare l'universo di Casapound dalla sterminata galassia dei centri sociali (altrettanto sbrigativamente definiti «di sinistra») è piuttosto difficile perché non stiamo parlando di Forza Nuova, e neppure di quelle frange istituzionali - talvolta di governo - che alle manifestazioni contro gli immigrati ci vanno eccome.
Seconda postilla. Se i vari mitomani o assassini inventano sempre lo stupro o l'affrazione a opera di un rom o di un romeno (eccetera) non è solo perché sono dei razzisti o perché pescano nel torbido della xenofobia: ma perché, purtroppo, in questo modo risultano più credibili. E non risultano piü credibili puntando sull'intolleranza arcaica e popolare, non gliene frega niente di questo: risultano più credibili perché Rom e romeni (eccetera) commettono percentualmente più reati degli italiani e delle altre etnie immigrate. Personalmente credo che in Italia un problema razzismo esista eccome, anche se riguarda sostanzialmente soltanto i rom. Ne parleremo un'altra volta. Ma non c'è un problema razzismo perché ci sono gli immigrati, c'è un problema immigrati e allora c'è razzismo.



Le nostre città, luoghi coltivati dall'odio
il manifesto, 15-12-2011
Paolo Berdini
Nella Torino degli anni '60 insieme ai cartelli «non si affitta ai meridionali» si era messo in moto un grande processo di integrazione basato sulla scuola pubblica e sui servizi sociali. Martedi su queste pagine, Marco Revelli attribuiva giu- stamente questo risultato ala cultura delia solidarietà operaia allora Vincente. Nella Firenze di Giorgio La Pira si mise in moto un inedito clima di sostegno alla vertenza delle officine Pignone minacciate di chiusura e lo stesso sindaco fu in prima fila nella battaglia per dare una casa ai fiorentini. Prese addirittura la decisione di requisire alloggi vuoti per darli agli sfrattati.
Le città di quegli anni avevano dunque un senso di appartenenza che, al di là della collocazione sociale di ciascuno gruppo, fornivano servizi, assistenza e integrazione. Erano insomma i luoghi delia convivenza pubblica, e come tali venivano percepite da tutti. L'uccisione a freddo dei senegalesi nei mercati rionali fiorentini e il tentativo di pogrom contro i rom torinesi awengono in un vuoto quotidiano, fatto di indifferenza e scetticismo. Come se la concezione stessa delia città luogo pubblico fosse stata spazzata via. È questo il tema di fondo che ci interroga e al quale dobbiamo dare una risposta. Dobbiamo cioè chiederci se iventi anni diliberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica dai governi progressisti nazionaü e locali, non abbiano minato alla radice la città pubblica, il bene comune per eccellenza.
Ci accorgeremmo allora che i protagonisti di Torino e Firenze non sono «mostri»: sono i frutti avvelenati della devastazione culturale. La furia dei liberisti non ha infatti risparmiato nulla e nessuno. Le scuole dei piccoli centri sono state chiuse. Nelle grandi città vivono in perenne stato di instabilità per le carenze di manutenzione e di personale. I servizi sociali sono falcidiati dovunque «perché non ci sono i soldi». Questa formula magica non vale per il servizio sanitario nazionale che è stato invece privatizzato e affidato (a nostre spese) alle caritatevoli mani del Don Verzè, degli Angelucci e dei Tarantini di turno. I trasporti Urbani dal prossimo gennaio saranno ulteriormente tagliati fino quasi ad annullarli.
Ciascun Cittadino è dunque solo nell'affrontare la vita: la rete sociale del welfare è stata cancellata. Le città sono state ridotte a luoghi anonimi, utili all'arricchimento della proprietà fondiaria. Nei decidere nuovi progetti non si discute mai se esiste o meno la convenienza sociale; se le abitazioni costeranno di meno; se ci si metterà meno tempo per andare al lavoro. Si discute soltanto - Sesto San Giovanni è una miniera al riguardo - di quante centinaia di migliaia di metri cubi occorre incrementare i progetti per ignobili arricchimenti e vergognose prebende.
Stanno in questo devastante deserto le radici dell'indifferenza, dei rancore diffuso. E stanno sempre qui i rischi dell'accendersi di una ulteriore spirale di violenza razzista. Gli ingredienti ci sono tutti. Con la crisi economica sempre più grave aumenteranno le disuguaglianze e le fasce di emarginazione. Senegalesi e rom saranno, ancora di più, facili bersagli per tutti coloro che vogliono far dimenticare che le origini della crisi stanno in un sistema economico ed urbano perverso che non si ha il coraggio di fermare.
Il pericolo si aggrava ulteriormente se si analizzano i provvedimenti che i professori al governo stanno prendendo in questi giorni. Purtroppo destinati a cercare vie di fuga violente dall'impoverimento di larghi strati della popolazione.



L'odio razziale non nasce a Firenze
Il Riformista, 15-12-2011
MARCELLO DEL BOSCO
Único giornale ad aver relegato nelle pagine interne (la nona!) la notizia del massacro di senegalesi a Firenze è la Padania. In un contesto in cui spiccano questi altri titoli: "Per gli immigrati i soldi non finiscono mai", "Cittadinanza facile, il governo Monti va avanti", "Imam italiani? No, fratelli mussulmani". Per non farsi mancare nulla, nell'articolo sulla stage, viene messo sotto accusa il sindaco Renzi per la "tolleranza" verso i ven- ditori ambulanti e per aver lasciato la città in "mano alla delinquenza"; ossia le vittime, i senegalesi, trasformati in colpevoli. Più che le acute riflessioni di psichiatri e sociologi sul Brevnik italiano, la lettura del giornale leghista dovrebbe ricordare a tutti le valanghe di razzismo e di odio riversate ogni giorno dal Carroccio sui lavoratori immigrati in questi anni di governo.
Non solo parole, ma fatti e comportamenti. Alcuni ex ministri hanno scalato i vertici proprio puntando sull'estremismo più becero, mentre parecchi sindaci leghisti hanno fatto a gara nel distinguersi tra chi emanava le norme più restrittive e penalizzanti per gli immigrati, nel tentativo di scacciarli. Troppo preoccupati di tenere in piedi l'asse Berlusconi-Bossi, in molti hanno finto di non vedere e non sentire, lasciandosi invischiare in questa ragnatela razzista e in qualche modo rendendosi complice di una sciagurata regressione culturale e sociale. La Storia sembra aver insegnato poco; se è vero che l'ignoranza è facoltativa, troppi ne abusano. Come quelli che stanno lavorando alacremente per ricucire i rapporti fra Lega e Pdl e sperano in una rinascita dell'alleanza, per riportare alla guida del Paese i campioni della xenofobia e dell'odio verso i "diversi" (extracomunitari, meridionali, gay, tutto fa brodo). A ciascuno il suo, come dice la testata del- l'Osservatore Romano: lasciamo Bossi e i suoi compari a Ponte di Legno e mandiamo i criminologi nel salotto di Vespa a farci spiegare il Brevnik toscano.

 

 

Picchiano le donne, ci rubano il lavoro. Chi?... Gli italiani
l'Unità, 15-12-2011      
Francesca Fornario
Mamma, posso andare al parco?». «No tesoro, meglio di no». «ma perché?». «Lo sai, in giro è pieno di gente strana». «Gente che viene da un altro paese?! Ancora con questa storia?». «Tesoro, quelli sono violenti, picchiano le donne e rubano». «Mamma, smettila di generalizzare: non hai mai visto un tuo connazionale picchiare una donna? Guarda che il tuo è razzismo! E dal razzismo nascono episodi come quello di Firenze o quello di Torino. Sai che dicevano i manifesti di Forza Nuova? C’era l’immagne di una ragazzina violentata con la scritta “Se fosse tua figlia? Chiudere i campi nomadi, espellere i Rom”. Capito?». «Che poi, qui in Italia l’80 per cento delle violenze contro le donne vengono commesse in famiglia. Mi domando come mai a qualche testa calda non sia mai venuto in mente di incendiare i condomini e cacciare i padri e i mariti». «Vabbé, io vado al parco». «No!». «Perché?!». «Quelli ci rubano il lavoro!». «Ma quelli chi?!». «Lo sai, e non dire che non è vero: quanti sono in regola con i contributi?». «Ma non puoi generalizzare! La maggior parte di loro sono onesti». «Onesti? Ma fammi il piacere! Come credi che abbia fatto questo paese a ridursi sul lastrico? Ci sono più evasori fiscali in Italia che in tutto il Corno D’Africa». «Sì, ma adesso è diverso. Ora che sono in Europa si sono integrati: hanno anche deciso di abbassare gli stipendi dei parlamentari al livello di quelli europei». «Non hanno ancora deciso. Dicono che per ridurre la spesa pubblica non serve più: è sufficiente togliere la carta di credito a Minzolini». «Vabbé, allora vado al centro commerciale». «No!! È pericoloso! Hai letto del ragazzino che ha ammazzato l’amico solo perché non voleva accendergli una sigaretta? Almeno una volta ammazzavano per un oleodotto, oggi gli basta un accendino». «Mamma... ». «Sì, lo so, non tutti gli italiani sono così». Dialogo tra una ragazzina senegalese e sua madre.



Unhcr, clima di razzismo La denuncia contro l'Italia
Laurens Jolles: "Dopo Torino, Firenze: un clima di crescente xenofobia". E poi: "Pericolo sottovalutato"
la Repubblica, 14-12-2011
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) esprime sconcerto per l'episodio di violenza omicida che ha colpito ieri la comunità senegalese a Firenze e cordoglio alle famiglie delle vittime. "A pochi giorni dall'attacco al campo rom di Torino, il raccapricciante duplice omicidio di Firenze evidenzia il clima di crescente razzismo e xenofobia che sta emergendo negli ultimi anni in Italia e in altri paesi europei, - ha affermato Laurens Jolles, Rappresentante per il Sud Europa dell'Unhcr - un pericolo che è stato troppo spesso sottovalutato".
L'Unhcr ritiene che "ogni forma di razzismo, intolleranza e discriminazione nei confronti di migranti, rifugiati ed altre minoranze vada condannata con forza e auspica che quanto prima possano essere messe in atto misure mirate a valorizzare la diversità e la convivenza civile".



Diciamo la verità: lo straniero fa paura a tutti
Libero, 15-12-2011
NICHOLAS FARRELL
A Firenze, poco dopo mezzogiomo dell'altro ieri, uno psicopatico italiano apre il fuoco contro i senegalesi e poi si suicida. Il popolo di sinistra grida "frutto dei razzismo italiano".
A Liegi, stesso giorno, stessa ora, uno psicopatico marocchino apre fuoco contro i belgi e poi si suicida. I progressisti che cosa gridano? "Frutto dei razzismo islamico"? Figurati.
Anzi. Per i progressisti sia la strage di Gianluca Casseri, 50 anni, che quella di Nordine Amrani, 33 anni, sono colpa dei razzismo "di destra". Cioè? Mentre il ragioniere e autore di fantascienza toscano ha ucciso a causa dei suo odio per i neri, il saldatore e spacciatore magrebino ha ucciso a causa dell'odio dei bianchi per i neri. Casseri spacciavail nazi-fascismo, adorava gli Hobbit, e negava lo Shoah. Ecco! Amrani spacciava le droghe, teneva uno stock di armi in casa, e negava la Shoah. Con ciò? Esagero? Beh...
Secondo il progressista medio il nero, anche quando è l'assassino, è sempre vittima. Del-bianco. E mentre il nostro radi- calchic è sempre intollerante dell'intolleranza dei bianco per il nero non lo è mai in caso contrario.
Diciamolo: siamo tutti, di qualsiasi colore, razza o religione, razzisti. Io, inglese residente in Italia, lo sono, Neri? Beh, se me ne capita uno davanti sul marciapiedi di notte attraverso la strada di corsa. Non devo? Marocchini? Se mi trovo in uno spazio chiuso, tipo un tram o un treno, e vedo uno di loro dotato di uno zaino cerco una via d'uscita e penso che non debbano frequentare lezioni di volo. Italiani? Terroni, tutti.
Sarei felice se una delle mie tre figlie volesse un bel giorno sposarsi con un musulmano? No, francamente. So come vengono trattate le donne dai fedeli di Allah e come da loro sono viste le donne nostrane: puttane. E se uno dei miei due figli ma- schi volesse sposarsi invece con una bella musulmana? Va beh, al limite.
Ma non succederà perché una ragazza musulmana non può sposare un ragazzo di razza infedele. Ecco la realtà. Sono più razzisti degli occidentali quelli delle zone non-cristiane del pianeta. Che cosa pensano i cinesi, ad esempio, di noi? Beh, secondo un recente sondaggio inglese, per i turbo-comunisti dei dragone fumante siamo una razza di pigri welfare-dipenden- ti. Non hanno tutti i torti!
A Londra per parecchi anni ho abitato in una zona piena zeppa di neri. Volevo fare parte del loro giro. Mi piaceva la loro musica e le donne nere. Si, ero un po' fuori di testa. Ok, non ero Rocco Siffredi neppure George Clooney ma in pista sapevo fare. Niente. Anzi. Ho rischiato la vita ogni volta che entravo in una delle loro club. "Stai al largo delle nostre donne white boy!" Ecc.
Certo mi deprime l'idea di un'Europa che diventerà prima o poi "l'Eurabia". E da immigrato penso che troppa immigrazione faccia solo male.
Chiamatemi un pazzo razzista al limite ma, a differenza dei killer di Firenze e di Liegi, non sono né killer né psicopatico.
Nei loro caso il movente non è il razzismo malgrado quello che strillano quei cretini dell'estrema destra in internet (ragionando in modo sinistroide).



La città piange i senegalesi: mistero sul movente del killer
I connazionali delle vittime in corteo tra saracinesche abbassate e bandiere a mezz’asta. Casseri era in cura per depressione. C’è un buco nella ricostruzione
il Giornale, 15-12-2011
Diana Alfieri
I mille perché di un massacro che ancora non trova un vero movente. Gianluca Casseri, il 50enne che l’altro ieri ha ucciso a Firenze due senegalesi, ferendone gravemente altri tre, prima di togliersi la vita, studiava i punti in cui avrebbe potuto colpire.
Gli inquirenti hanno trovato nel computer della sua casa di Cireglio (Pistoia), un collegamento con il mercato di Sesto Fiorentino (Firenze). Scoprendo anche che l’omicida era in cura per depressione. Probabilmente Casseri aveva previsto di compiere proprio a Sesto il suo raid, ma per qualche ragione ha poi annullato il piano. Elemento che rafforza l’ipotesi che la strage fosse preparata da tempo e non maturata in un raptus di follia. Ma sono tanti i punti oscuri nella ricostruzione dei suoi movimenti, a partire dagli orari: c’è un buco di 90 minuti.
Ragioniere quasi a tempo perso, figlio di una famiglia più che benestante (tra i beni immobiliari di «casa» c’è anche l’edificio che ospita la caserma dei carabinieri a Cireglio), il killer xenofobo con la passione per l’alchimia, la fantascienza e miti della destra più oltranzista, sembra avesse un alloggio anche a Firenze.
Una città in lutto. E dove si teme possa esplodere ancora la violenza. Il sindaco Renzi prova a placare gli animi, rivolgendosi non solo ai senegalesi ma a tutte le comunità straniere: «Siete parte integrante e fondamentale della nostra città e del nostro Paese» ha detto di fronte a cinquecento senegalesi nel corso del consiglio comunale straordinario al quale ha partecipato anche il ministro per l’integrazione Andrea Riccardi. Dopo il rituale inno nazionale italiano, è stato intonato a cappella, senza che ci fosse niente di programmato, l’inno senegalese e l’orazione funebre islamica.
Sarà il Comune a farsi carico delle spese per i funerali e per il rimpatrio delle vittime.
Da Dakar, parole durissime del governo: «Siamo indignati per questi brutali omicidi». Aggiungendo che il Senegal intende «far piena luce sulla vicenda al fine di assumere «le misure appropriate». Ieri, nel capoluogo toscano, Bandiere a mezz’asta, banchi del mercato di San Lorenzo chiusi e saracinesche dei negozi abbassate. Mentre un corteo di immigrati senegalesi sfilava per tutta la città Hanno urlato, pianto e, davanti al Battistero, anche pregato seduti a terra e in silenzio. Hanno chiesto giustizia e voluto pure vedere il corpo dell’assassino morto suicida: non ci credevano. Erano partiti in 200 poco dopo le 13 da piazza Dalmazia. Oggi è la rabbia per il «seme diabolico» del razzismo, il pianto per un «attacco vile», sono le parole dell’imam, a riunire la «comunità più pacifica» che ci sia.
Una protesta che ha avuto momenti di tensione. Con due cameramen aggrediti.
 


Con la crisi tornano i veleni peggiori
La Stampa, 14-12-2011
GIANNI RIOTTA
Esiste un nesso tra la crisi del debito europeo, l'impotenza dei summit malinconici e la strage dei due senegalesi a Firenze, Samb Modou e Diop Mor, con il killer Gianluca Casseri?
No a prima vista, un continente opulento e la sua leadership che non sanno ripartire dopo mezzo secolo di successi e un estremista neofascista, razzista, armato. Se però guardate a fondo, oltre i grafici eleganti degli economisti e i volantini rancorosi di Casa Pound cari all'assassino, vedrete come i veleni peggiori della nostra storia stiano tornando in superficie, rimossi dal fondo delle coscienze dall'aria di recessione.
Quando è tornato a Londra, dopo l'avventato divorzio con l'Europa, il premier inglese David Cameron è stato sì criticato dagli analisti della City che, a parole, diceva di voler difendere, ma i deputati conservatori a Westminster lo hanno osannato al grido di «Bulldog Spirit!», anima da bulldog sacra a Churchill. E se la reazione vi sembra un rituffo di sciovinismo inglese, tanfo provinciale dei Club da ufficiali in pensione irrisi da George Orwell in «Giorni in Birmania», leggete invece sul più nuovo dei media, Twitter, la reazione di una firma di punta del leggendario magazine Rolling Stone, "L'Europa contro Cameron? Ecchisenefrega!".
In pochi mesi di dibattito sull'euro abbiamo visto i più squallidi cliché riemergere dall'album dei ricordi cattivi che credevamo chiuso per sempre. In Grecia si sono chiesti i «danni di guerra per l'occupazione tedesca della seconda guerra mondiale» in riparazione del debito di Atene. I giornali tedeschi, Bild Zeitung in testa, hanno descritto i greci come infingardi e noi italiani come orgiastici spendaccioni. In contraccambio alle critiche degli economisti di Berlino sui nostri conti, i siti italiani registrano commenti anonimi «Tedeschi=SS». L'uscita di Cameron ci rimanda online «alla perfida Albione», al «popolo dai cinque pasti» che Mussolini faceva caricaturare dal giornalista Mario Appelius: quei toni li trovate nella Storia del giornalismo italiano, dal 1901 al 1939, che Franco Contorbia ha raccolto per i Meridiani Mondadori, odio, livore, razzismo, disprezzo per gli altri, intolleranza, il dna profondo che riemerge in tempi di crisi, come ieri a Firenze.
Nel 2003, alla vigilia della guerra in Iraq, Stati Uniti ed Europa, gli alleati che solo 15 anni prima avevano vinto, senza sparare una cartuccia, la Guerra Fredda, si divisero insultandosi con rabbia inaspettata, vetri dei McDonald's infranti in Francia, bottiglie di vino francese svuotate nelle fogne in America, il menù della Camera dei deputati Usa che eliminava i piatti parigini, il ministro degli Esteri francese de Villepin che invocava «la violetta», fiore sacro a Napoleone. Ricordate? Americani da Marte, europei da Venere, sciocchezze che guastarono un clima, rilevarono un disagio e segnarono una distanza che non s'è colmata. Nella primavera del 2003, il Congresso Usa invitò quattro testimoni europei a un'audizione parlamentare per colmare il gap tra Washington e Bruxelles. Con me parlò Radek Sikorski, che oggi è ministro degli Esteri in Polonia. Provammo a dire che, nel difficile clima economico di inizio secolo, scherzare con il fuoco del populismo, del nazionalismo, è pericoloso. E oggi seri analisti europei, Gideon Rachman, Martin Wolf e il premio Nobel americano Paul Krugman, dichiarano di vedere nell'odio crescente online, e nella recessione che le mancate scelte della cancelliera Merkel e del presidente Sarkozy stanno innescando, l'incubatore di una stagione tragica come gli anni Trenta in Europa, con il totalitarismo fascista in Italia, Spagna e Germania e lo stalinismo delle purghe a Mosca. Krugman scrive «La recessione… sta creando un'immensa rabbia… contro quella che sembra a tanti europei solo una dura punizione tedesca. Chiunque conosca la storia d'Europa non può che rabbrividire davanti a questo ritorno di ostilità». Il premio Nobel scriveva prima della strage di Firenze, ma già citava i neonazisti vicini al Partito della Libertà in Austria, la xenofobia dei Veri Finlandesi a Helsinki, il gruppo antirom e antisemita Jobik e le tentazioni autoritarie del governo guidato dal partito Fidesz in Ungheria. Noi potremmo aggiungere i neofascisti in Inghilterra e Francia e le nostre voci razziste, fino al sangue della civilissima Firenze, la capitale della cultura europea da mezzo millennio.
Esagera Krugman? Spero di sì. E anche dalla sua parte dell'Oceano la violenza populista anima i talk-show della radio, sul web e si infiltra nel dibattito repubblicano delle primarie, anche contro il presidente Obama. La legge antiemigranti in Arizona viola, con le sue perquisizioni abusive, se non la lettera certo lo spirito della Costituzione americana.
E da noi? Le reazioni online alla bomba che ha mutilato un innocente funzionario di Equitalia spaventano. Su Twitter ho parlato di «anonimi vili», e parecchi gradassi si sono fatti sotto rivendicando la «giustizia sociale» dell'attentato con nome, cognome e mail. Altrettanto può succedere con lo sciagurato attacco di Firenze e anche col rogo dei rom di Torino. Io non credo, al contrario dei colleghi anglosassoni e di Krugman, che gli anni Trenta si ripeteranno e vedremo di nuovo camicie nere in strada, la Storia non procede in modo meccanico, il Male ha fantasia e capacità di metamorfosi. Credo però che, nei duri tempi economici che ci aspettano, prendersela con gli ultimi, invocare la propria identità nascosta, accusare gli europei a Londra e gli inglesi in Europa, prendersela sempre con gli «Altri» in difesa di «Noi», sarà male diffuso. I leader politici che cercassero di sfruttare questa epidemia per un voto in più, i giornalisti che spargono odio e populismo per una copia o un click in più, preparano una bevanda da streghe che può fare molto male. Non è il temuto ritorno di un passato autoritario che deve spingerci a difendere benessere, crescita, dialogo e tolleranza. E' la paura dei demoni futuri che l'intolleranza evoca: non vestono in orbace, ma dalla strage degli studenti a Oslo a quella dei senegalesi a Firenze, mostrano già il loro volto orrendo.




Immigrati: Riccardi, impegno necessario per cittadinanza ai bambini nati in Italia
Firenze, 14 dic. - (Adnkronos) - "Penso che la domanda che e' salita dalle considerazioni attente sulla cittadinanza di bambini nati in questo Paese sia una domanda che mi conforta in un impegno che sento per me tenace e necessario". Lo ha detto il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi intervenendo a Firenze in Palazzo Vecchio a proposito della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia.
"Credo che la coscienza della maturita' di tale legge deve maturare sempre di piu' nella nostra societa' civile e tra le forze politiche. In questo senso ha parlato il presidente della Repubblica e io non posso che unirmi a questo auspicio".
Il ministro Riccardi ha osservato tra l'altro"sento di poter dire agli amici senegalesi e agli amici immigrati che la loro sicurezza e la loro integrazione nella societa' nazionale -integrazione che non e' un dono ma un diritto dopo anni e anni di lavoro- debbano essere una priorita' dell'azione di governo, ma anche un impegno generale della nostra societa'". Riccardi ha auspicato una crescita delle "politiche dell'integrazione e perche' si allarghi una cultura dell'integrazione. Ma non bastano le politiche -ha aggiunto il ministro -deve crescere nella nostra soceita' a tutti i livelli una cultura di coscienza morale e spiriturale della necessita' di vivere con l'altro. Questo veramente puo' isolare i folli, il razzismo. E' anche questa la crescita dellaa nostra societa' di cui noi sentiamo l'esigenza".



Telefoni alla moschea e risponde il Pd
Khaled Chaouki, responsabile del partito per i «nuovi italiani», organizza anche il convegno dell'islam marocchino
Libero, 15-12-2011
ANDREA MORIGI
Islam e Pd sono ormai una coppia di fatto. Sabato prossimo, potrebbero ufficializzare la loro unione, davanti al vicesindaco Pd di Milano, Maria Grazia Guida, e del delegate al Dialogo interreligioso della Diocesi ambrosiana, don Gianfranco Bottoni, entrambi attesi come ospiti al convegno della Federazione delle moschee marocchine.
Del resto, la segreteria organizzativa dell'evento è curata da Khalid Chaouki, che indossa anche i panni di responsabile nazionale "Nuovi Italiani" del Partito democratico. Un trait d'union, che nella sua doppia veste mette a disposizione anche il suo recapito telefonico personale per fornire informazioni sull'evento, alla stampa e agli interessati.
Insomma, se chiami la moschea risponde il Pd. Oppure, palindromicamente, se chiami il Pd risponde la moschea. In fondo, si tratta pur sempre di una promessa che il feeling fra il centrosinistra e le organizzazioni islamiche potrebbe trasformarsi in un rapporto più duraturo.
Del resto, ChaouM è l'uomo giusto sul quale puntare. Possiede le naturai ambizioni di un giovane, ma anche le capacità relazionali di un esperto frequentatore della vita politica italiana e della composita galassia islamica ospite del nostro Paese. Due giorni fa era presente anche alla conferenza stampa di presentazione dell'Associazione islamica italiana degli imam e delle guide religiose, tenutasi presso la sede romana della Fnsi. La nuova associazione è diretta dall'imam di Verona Anwar Alnnihmi, un teologo yemenita, laureato presso l'università islamica al-Iman di Sana'a, ateneo fondato dallo sceicco Abdel Majid al-Zindani, teorico ispiratore di molti fondamentalisti islamici, tanto da essere inserito nel 2004 nella lista dei "terroristi globali" stilata dagli Stati Uniti. Un soggetto pericoloso, che predica il jihad contro gli israeliani e ha fatto anche da consigliere allo scomparso fondatore di Al Qaeda, Osama Bin Laden.
È naturale, dato il background associativo, che siano piuttosto scarse le proposte su integrazione, o interazione, tra i musulmani presenti in Italia, stimati in circa due milioni, e gli stessi italiani. Non passa sotto silenzio neppure la somiglianza dei logo scelto dall'associazione con il simbolo che rappresenta i Fratelli musulmani, che riproduce due spade incrociate con al centro il libro dei Corano chiuso. Sembra quello dell'associazione italiana, se capovolto e raffigurato con il Corano aperto.
Ce n e abbastanza per mettere in allarme i musulmani moderati, ai quali da voce Souad Sbai, parlamentare del Pdl, secondo la quale «questa nuova uscita dei vari fondamentalismi che rincorrono, ormai lo abbiamo capito, i tecnici per poter ritrovare la credibilità ormai perduta grazie alle battaglie dei moderati» sta a indicare
in modo «evidente che un'intera galassia estremista è in fermento». Ne ha anche per il convegno di sabato a Milano, in cui vede il «segno della volontà di primeggiare in uno scenario ben conosciuto alle cui spalle c'è sempre l'ombra della fratellanza per alcuni e dei salafismo per altri». Tutti soggetti «che riemergono come funghi dopo la pioggia», a suo giudizio, nonostante lo sforzo compiuto dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni, per favorire l'emersione delle co- munità islamiche "sommerse", la trasparenza delle moschee e dare garanzie agli imam, le loro guide religiose.



Sbarchi, 58 immigrati a Gallipoli
Sono arrivati a bordo di un peschereccio poi bloccato Dicono di essere libici: due migranti in ospedale
Corriere della sera, 14-12-2011
Antonio Della Rocca
GALLIPOLI - Colpiscono gli sguardi spauriti, il senso di rassegnazione scolpito sui volti, i silenzi. Sembrano corpi senz’anima accovacciati a poppa di una carretta del mare, intirizziti dal freddo carico di umidità che ha avvolto Gallipoli con il calare della sera. Sono 58, tutti maschi, sette minorenni. Hanno detto di essere libici, ma sarà necessario verificare. Il peschereccio di oltre 15 metri, senza né bandiera né segni di riconoscimento - se si eccettua una scritta in arabo semicancellata sulla fiancata di prua - su cui hanno viaggiato per giorni provenienti da chissà dove, ha attraccato ieri al molo foraneo quando mancavano 10 minuti alle 20. Migranti come tanti altri se ne sono visti sbarcare da queste parti, facce senza speranza, uomini fatti e ragazzi, figli di un’umanità derelitta, raminga, in cerca di qualcosa che sia anche solo un poco meglio di quanto si sono lasciati alle spalle. Non parlano, non chiedono nulla. Ubbidiscono e basta ai finanzieri che li indirizzano verso la terraferma. Ma se li guardi negli occhi intuisci cosa si portano dentro. Ognuno con la sua storia, il suo dramma personale, la sua speranza per una vita migliore in una terra accogliente. La macchina dei soccorsi è scattata puntuale: guardia di finanza, carabinieri, polizia, protezione civile, 118 erano in allerta da ore.
Da quando, nel primo pomeriggio, il guardacoste delle fiamme gialle «G6 Barberisi», appartenente al gruppo aeronavale di Taranto, a circa 30 miglia ad Ovest della costa gallipolina, ha abbordato l’imbarcazione, identica nelle dimensioni e persino nel colore verde chiaro con banda orizzontale gialloblu, a quella giunta nello stesso porto jonico venerdì scorso con un carico di 75 immigrati. Sette adulti stremati sono stati soccorsi e curati sul posto. Per due di loro, uno con sintomi di ipoglicemia e l’altro con una probabile colica renale in atto, il dottor Fiorello Giaffreda, della Protezione Civile, ha disposto il trasferimento immediato in ospedale. Tutti gli altri sono saliti su un pullman che li ha condotti al centro di accoglienza Don Tonino Bello di Otranto per le rituali operazioni di riconoscimento. L’imbarcazione era stata individuata da un aereo della Guardia costiera islandese rischiarato per l’operazione «Aeneas» contro il traffico di esseri umani, nella notte tra lunedì e martedì a circa 80 miglia a Sud di Leuca mentre navigava in acque internazionali. Una volta entrato nel Golfo di Taranto il peschereccio ha fatto rotta verso il Metapontino alla velocità di sette nodi sballotoloato dal mare forza quattro, ma è stato intercettato e bloccato dall’unità della guardia di finanza. Le operazioni sono state coordinate dal tenente colonnello Rocco Savino dalla sala operativa della guardia di finanza di Taranto. Il suo braccio operativo in mare è stato il tenente Tommaso Lombardi. I militari hanno immediatamente isolato alcune persone sospettate di essere i traghettatori. La loro posizione è ora al vaglio delle autorità. Un’operazione molto simile si era svolta il 9 dicembre scorso ed aveva visto operare sempre la guardia di finanza. In quel caso due motovedette avevano scortato fino al porto di Gallipoli un peschereccio con un altro carico umano proveniente presumibilmente dall’Egitto. Ieri sera è sembrato di assistere ad un film già visto.

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