Newsletter
periodica d’informazione
(aggiornata
alla data del 18 gennaio 2011)
Sommario
o
Dipartimento Politiche
Migratorie – Appuntamenti pag. 2
o
Decreto flussi 2010
– Dal 17 gennaio la compilazione delle domande; pag. 2
o
Decreto flussi 2010
– Guglielmo Loy <è un primo passo, ma si deve cambiare> pag. 2
o
Decreto flussi 2010
– Pronti patronati ed
associazioni per l’assistenza ai
datori di lavoro pag. 3
o
Società – Test
di italiano al via per ottenere il permesso di soggiorno pag. 4
o
Direttive UE –
sulle espulsioni esame approfondito pag. 4
o
Direttive UE
– Sui rimpatri le
indicazioni del Viminale pag. 5
o
Lavoro e società
– Ricerca: un nuovo disoccupato su 4 è immigrato pag. 6
o
Lavoro – Ma cosa
fanno i cinesi in Italia? pag. 6
o
Presse étrangère
– L’Europe malade de la xénophobie pag. 9
A
cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento
Politiche Migratorie
Rassegna
ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL
Tel.
064753292- 4744753- Fax: 064744751
n.
301
Dipartimento
Politiche Migratorie: appuntamenti
Roma, 19 gennaio 2011, ore
11.00 - Largo Chigi
Unar: cabina di regia con le
parti sociali
(Giuseppe Casucci)
Roma, 26 gennaio 2011, ore 10,
sede naz. UIL
Incontro con Opera Nomadi
(Giuseppe Casucci)
Decreto Flussi 2010
Con queste prime operazioni parte la procedura che terminerà con
l'invio vero e proprio delle domande, sempre tutto online, con i click day del
31 gennaio, 2 e 3 febbraio per le diverse categorie e nazionalità dei
richiedenti. Da oggi possibile rivolgersi all’Ital
per pre-caricare la propria domanda
Le scadenze
Roma, 17
gennaio 2011 - E’ partita oggi, dalle ore 8,00 la procedura del decreto flussi.
Da questa data sarà possibile registrarsi online e scaricare l'applicativo
necessario per inviare la domanda per ottenere il permesso di soggiorno. E'
opportuno precisare che l'invio, sempre tramite internet dal sito web del
Viminale, si potrà fare solamente a partire dal 31 gennaio (per alcune nazionalità indicate
nel decreto), il 2 febbraio (lavoratori domestici e di
assistenza alla persona) e il 3 febbraio per tutti i restanti settori e
nazionalità. Collegandosi con www.interno.it si troverà una pagina che guiderà
l’utente attraverso le fasi della procedura. Per facilitare e sciogliere
eventuali dubbi, il Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione ha
realizzato delle slide che ripercorrono dettagliatamente tutti i passi da
effettuare. Ricordiamo che da quest'anno la compilazione delle
domande avverrà in modalità online direttamente sul web, per consentire
una maggiore celerità nell'acquisizione da parte del sistema informatico del
Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione. Inoltre, la conferma di
avvenuta ricezione non sarà più inviata sull'e-mail del richiedente ma sarà
visibile già sull'applicativo di compilazione, nell'area privata dell'utente.
Gli uffici
del Patronato della UIL, l’Ital, sono a disposizione fin da ora per il pre
– caricamento delle domande. L’assistenza alla presentazione delle
pratiche è gratuita.
Roma, 17
gennaio 2011 - Tra pochi giorni scatterà la lotteria dei permessi d’ingresso
regolare per 100.000 cittadini immigrati “chiamati” a lavorare da imprese e
famiglie. La UIL ha già messo in campo le proprie strutture nel territorio, a
partire dal Patronato Ital, per aiutare coloro che intendono assumere,
regolarmente, un lavoratore pur sapendo che questo meccanismo rischia, appunto,
di essere una lotteria informatica. Pur apprezzando che dopo 2 anni e
nonostante la crisi si riaprirà un piccolo canale “regolare” d’ingresso per
motivi di lavoro nel nostro Paese, la UIL continua a richiedere al Governo di
rivedere questo meccanismo. Occorre trovare un equilibrio tra esigenze del
sistema produttivo, condizioni di accoglienza e tutele dei lavoratori.
Flussi. Pronti patronati,
associazioni e consulenti
Possono compilare e inviare
le domande dei datori di lavoro. Ma se la coda è troppo lunga si hanno meno
chance
Roma –
14 gennaio 2010 - Patronati, consulenti del lavoro e associazioni di categoria
scendono in campo per la nuova corsa alle quote.
(di Elvio
Pasca, Stranieri in Italia)
Grazie
agli accordi con il ministero dell’Interno, solo i loro operatori potranno
compilare un numero illimitato di domande e, al momento giusto, inviarle tutte
insieme con un solo clic. Le domande verranno però acquisite dal sistema una a
una, secondo l’ordine in cui sono state compilate, e tra l’una e l’altra
potranno infilarsi anche quelle inviate autonomamente da altri datori di
lavoro. Ogni patronato, consulente o associazione avrà una coda di domande per
ciascun computer, ed è evidente che un datore di lavoro in fondo alla coda avrà
meno chance rispetto a chi è nelle prime posizioni. Detto ciò, chi ha
intenzione di farsi aiutare lo faccia subito: da lunedì 17 gennaio sarà già
possibile compilare le domande, e quindi guadagnare le prime posizioni negli
invii cumulativi. I patronati offrono assistenza per i flussi gratuitamente, né
possono obbligare a tesserarsi chi si rivolge ai loro sportelli. Le
associazioni di categoria spediranno le domande dei loro soci, i consulenti del
lavoro quelle dei clienti che assistono nella gestione quotidiana delle aziende.
Su tutti incombe il ricordo di ciò che accadde tre anni fa, quando gli invii
cumulativi si bloccarono per un errore del sistema informatico del ministero
dell’Interno. Secondo l’Assindatcolf, che rappresenta i datori di lavoro
domestico, “le modifiche apportate al sistema per evitare gli inconvenienti del
decreto flussi 2007 sono interessanti”. Le novità, spiegava ieri
l’associazione, dovrebbero infatti “garantire la stabilità del sistema a fronte
del carico elevato di connessioni che si potrebbero verificare nei momenti
iniziali dei click day” e “facilitare coloro che, come le famiglie, sono poco
avvezzi all’uso degli strumenti informatici”. “Ci hanno assicurato che il
sistema è migliorato, ma siamo scottati dall’ultima esperienza. Per questo
lavoreremo con prudenza, e moltiplicheremo i computer che inviano le domande,
evitando code troppo lunghe” dice Piero Bombardieri, responsabile immigrazione
di Ital Uil. Il suo patronato ha la presidenza di turno del Ce.Pa., sigla che
riunisce anche Inca-Cgil, Acli e Inas Cisl. “I nostri servizi sono
gratuiti, –conferma Bombardieri - tuteliamo pensionati e altre
persone che non possono pagare centinaia di euro a chi si offe di spedire le
loro domande. Questo però non è il sistema giusto per i flussi di ingresso, non
è democratico, troppe variabili: il pc è vecchio o è nuovo? si è in grado di
usarlo? c’è l’adsl o no? Meglio un sorteggio…” Da lunedì inizieranno a
compilare le domande anche i consulenti del lavoro, aggiornati costantemente in
questi giorni dal consiglio nazionale dell’Ordine. Naturalmente potranno
spedire anche domande per colf e badanti, ma è chiaro che lavoreranno
soprattutto per le aziende che cercano lavoratori subordinati non
domestici. “Puntiamo soprattutto alla qualità e alla professionalità del
servizio. I consulenti del lavoro conoscono perfettamente la situazione
dell’azienda, sanno valutare i requisiti per l’assunzione e gestire tutti gli
altri aspetti, dalle condizioni contrattuali all’idoneità dell’alloggio” dice
Silvia Bradaschia, della Fondazione Studi. Tutti pronti, quindi. E tra poco si
parte.
Flussi
2010. Datori di lavoro stranieri alla pari con gli italiani. Non occorre il
permesso di soggiorno CE.
Le domande, contrariamente al 2008, possono essere presentate
dai datori di lavoro extra UE purché regolarmente soggiornanti.
Roma, 17/01/2011 - Nel 2008
(conferma delle domande di assunzione presentata in esubero nel 2007) i datori
di lavoro extracomunitari dovevano essere in possesso di carta di soggiorno o
di permesso di soggiorno CE o di carta di soggiorno per familiari del cittadino
europeo. Quest’anno, come peraltro stabilisce il Testo unico immigrazione, il
decreto flussi non prevede alcuna discriminazione e pertanto lo straniero
regolarmente soggiornante in Italia può assumere un cittadino extracomunitario
alla pari di un cittadino italiano. Ciò è possibile anche se lo straniero è in
attesa del rinnovo del permesso di soggiorno. (Red.)
Roma,
17-01-2011 - A 40 giorni dal via libera ai test di conoscenza della lingua
italiana, rivolti ai cittadini non comunitari che intendono ottenere il
permesso di soggiorno di lungo periodo, da oggi a Firenze e ad Asti
cominceranno a svolgersi le prime verifiche. Le prove, introdotte dall'articolo
9 del testo unico e da un accordo quadro del 4 giugno scorso tra ministero
degli Interni e Miur, verranno svolte da cittadini non italiani con almeno
cinque anni di un permesso di soggiorno, un reddito minimo, alloggio e vari
altri requisiti di idonei. Solo coloro che supereranno i test potranno chiedere
il soggiorno lungo al questore, per se' e per i propri familiari. A Firenze la
prefettura ha comunicato che saranno 170 gli stranieri che cercheranno di
aggiudicarsi per primi il nuovo requisito. I test si svolgeranno il 17, 19, 25,
27, 28 e 31 gennaio alla scuola media 'Arnolfo di Cambio-Beato Angelico' di
Firenze e il 18 gennaio alla scuola 'Giovanni della Casa' di Borgo San Lorenzo.
Sono previste "prove di ascolto, di lettura e di scrittura e si
considerano superate se il candidato - comunica la prefettura toscana - ottiene
un risultato positivo complessivo dell'80%. Se non dovesse riuscirci, puo' fare
subito domanda per sostenere un nuovo esame". Durante la prova di ascolto
verra' fatta sentire una registrazione (ad esempio il dialogo tra due persone)
e lo straniero sara' chiamato a rispondere (con le tre modalità scelta multipla,
abbinamento, vero/falso) a una serie di domande che attestino il suo livello di
comprensione. La medesima procedura si adottera' per la prova di lettura
e comprensione di un brano, mentre nell'ultimo esame il candidato dovra'
scrivere un breve testo, come una cartolina per gli amici nella quale racconta
dove si trova e cosa sta facendo, oppure rispondere ad un'email o compilare un
modulo. "L'obiettivo - spiegano sempre dalla prefettura di Firenze
- e' attestare una conoscenza base della lingua, definita di livello A2
secondo gli standard europei, tale da permettere allo straniero di
destreggiarsi nell'ambiente che lo circonda e nel mondo scolastico e
lavorativo, comprendendo e scrivendo espressioni e parole di uso
frequente". Il risultato del test, che sarà consultabile dall'interessato
online all'indirizzo http://testitaliano.interno.it/, sara' inserito nel
sistema informatico dalla Prefettura che ha organizzato gli esami in
collaborazione con l'Ufficio scolastico provinciale. Tutta la procedura,
infatti, e' telematica, fin dal primo step (l'inoltro delle domande alla
Prefettura) come previsto dal decreto del ministro dell'Interno del 4 giugno
2010 che ha stabilito le modalità di svolgimento. Secondo la Flc-Cgil i test di
conoscenza della lingua italiana non possono rappresentare un requisito di
accesso al permesso di soggiorno, perche' sarebbero ispirati "da una
visione securitaria dell'immigrazione che vede gli immigrati solo come
necessaria e 'provvisoria' forza lavoro. All'interno di questa visione, l'acquisizione
di un livello (basso) di conoscenza dell'italiano nonché il cosiddetto
'orientamento civico' non sono orientati a promuovere davvero inclusione,
bensi' a controllare, testandolo, il grado di propensione del singolo immigrato
ad un processo solamente assimilatorio". "Un provvedimento
finalizzato ad una reale integrazione - conclude il sindacato confederale -
avrebbe valorizzato compiutamente il ruolo della scuola pubblica".
Direttive UE
Di Marco Noci, Il Sole 24
Ore
Roma, 6
gennaio 2011 - Il giudice di pace è chiamato ad un esame approfondito dei
requisiti per l'espulsione dei cittadini stranieri. La I sezione civile della
Cassazione – con la sentenza 111, depositata in Cancelleria lo scorso 4
gennaio 2011 – ha accolto il ricorso di un cittadino straniero, figlio di
una italiana, che non aveva rinnovato, entro il termine di 60 giorni dalla
scadenza, il permesso di soggiorno per motivi familiari.
Il giudice di pace aveva rigettato i motivi di ricorso prospettati dal
cittadino straniero basati sulla convivenza fra lui e la madre italiana.
L'articolo 19 del Testo unico sull'immigrazione vieta, infatti, l'espulsione
del cittadino straniero familiare convivente di uno italiano e l'onere di
provare la convivenza con il familiare italiano è a carico dello straniero che
deve essere messo in grado di dimostrarlo anche con prove testimoniali, come
quella orale della madre. Il giudice di pace ha ritenuto di non ammettere i
mezzi istruttori richiesti dallo straniero per dimostrare la convivenza, senza
però motivare, nel provvedimento impugnato in Cassazione, perché erano stati
esclusi o considerati irrilevanti. Sebbene la normativa disponga tempi
ristretti per la decisione (termini ritenuti, comunque ordinatori e non perentori)
il giudice di pace deve necessariamente istruire il procedimento, ammettendo i
mezzi istruttori richiesti dalle parti.
Contro il
decreto di espulsione può essere presentato ricorso al giudice di pace del
luogo ove ha sede l'Autorità che ha adottato il provvedimento, entro 60 giorni
dalla data di adozione del decreto. Se poi il provvedimento di espulsione è
stato adottato a seguito di revoca o di diniego del permesso di soggiorno per
motivi familiari il ricorso deve essere presentato al Tribunale ordinario e non
al giudice di pace (articolo 1, comma 2 bis del decreto legge 241/2004,
convertito nella legge 271/2004). In materia di espulsione è da
segnalareladirettiva 2008/1157Ce che l'Italia non ha ancora recepito. Anche se
il ministero dell'Interno, con la circolare del 17 dicembre 2010, ha
raccomandato ai questori di adeguare le procedure di espulsione al dettato
della direttiva. Le norme comunitarie prevedono un meccanismo diverso e, per
certi aspetti, in contrasto con il Testo unico sull'immigrazione. Il cittadino
straniero è soggetto ad una decisione di rimpatrio volontario che non può
essere inferiore a 7 giorni e superiore a 30, ed in presenza di condizioni
specifiche (come vincoli familiari) tale termine può essere prorogato. Solo se
c'è un pericolo di fuga o di una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza
dello Stato, è prevista l'espulsione immediata, con un divieto di reingresso
non superiore ai 5 anni, che può essere aumentato se lo straniero rappresenta
una grave minaccia.
Direttiva rimpatri: Le
indicazioni del Viminale
Il Ministero dell'Interno
fornisce le prime indicazioni per le espulsioni a seguito del mancato
recepimento della Direttiva sui rimpatri
(www.stranieriinitalia,it)
Roma – 11 gennaio 2010 – La Direttiva 2008/115/CE riguardante le
norme e le procedure comuni applicabili negli Stati membri per il rimpatrio di
extracomunitari in caso di soggiorno irregolare non è stata recepita dallo
Stato Italiano. Gli effetti potrebbero essere gravissimi: è a rischio l’intero
meccanismo delle espulsioni dei cittadini extracomunitari presenti
clandestinamente sul territorio italiano. Si erano illustrati gli scenari
possibili visto che le norme contenute nella direttiva prevedono
un sistema di rimpatrio dello straniero irregolare molto lontano da quello
attualmente in vigore in Italia.
Il Dipartimento della Pubblica Sicurezza presso il Ministero dell’Interno ha
pertanto emanato la circolare Prot. 400/B/2010 con la quale impartisce
direttive operative alle autorità competenti per l’adozione dei provvedimenti e
l’esecuzioni delle espulsioni, nel tentativo di non vanificare lo spirito della
direttiva stessa. In particolar prevede che i provvedimenti di rimpatrio (le
espulsioni) dovranno essere adottati previa valutazione della situazione del
cittadino straniero irregolare; dovrà essere privilegiato l’invito
all’allontanamento dal territorio italiano, concedendo un termine massimo di 30
giorni, piuttosto che l’accompagnamento coattivo immediato (solo in casi
residui).
Per evitare il rischio di fuga o irreperibilità sarà possibile obbligare lo
straniero a presentarsi periodicamente alle autorità, a dimorare in un luogo
specifico oppure a consegnare i documenti di identità. Il trattenimento nei
Centri di identificazione ed Espulsione sarà possibile solo se non potranno
essere applicate misure meno “coercitive” e solo quando esista un pericolo di
fuga o sia ostacolato, dallo straniero stesso, il rimpatrio. Per regola
generale non è più previsto il divieto di reingresso (la legge italiana prevede
un termine non inferiore a 10 anni) salvo che per le espulsioni motivate
da gravi motivi di ordine pubblico oppure per chi non abbia ottemperato ad
un primo ordine di rimpatrio. In questi ultimi casi il termine di reingresso,
cioè il periodo durante il quale chi è stato espulso non può far rientro in
Italia, non potrà essere superiore a cinque anni (non vale per grave minaccia
all’ordine pubblico e alla sicurezza dello Stato). Infine, le autorità
competenti dovranno verificare se sussistono le condizioni per il rilascio di
un permesso di soggiorno umanitario o ad altro titolo. Nonostante tutto gli
interrogativi rimangono: è impensabile adattare un sistema congegnato secondo
una logica completamente differente che mira a tutelare l’ordine pubblico
interno piuttosto che il rispetto dei diritti fondamentali del cittadino
straniero. Dove la regola è l’espulsione con accompagnamento coattivo alla
frontiera o trasferimento presso un Centro di identificazione ed espulsione,
è impensabile che qualche indicazione ministeriale riesca a dare attuazione al
meccanismo di “rimpatrio progressivo ad intensità graduale crescente”. La
certezza del diritto e l’esatta individuazione delle norme da applicare
rappresentano dei principi inderogabili che devono ispirare l’operato delle
autorità compenti, non potendo esser rimesso a loro il compito che grava sul
legislatore. La conseguenza è prevedibile: l’espulsione di un cittadino
irregolare o clandestino dipenderà di volta in volta dalla valutazione
effettuata da ciascun ufficio con la conseguenza che cittadini nelle stesse
situazioni si troveranno ad esser “allontani” con regole differenti. Qualcuno
più fortunato magari riuscirà ad ottenere il permesso di soggiorno provvisorio
(lo prevede la direttiva e la circolare), un altro invece sarà accompagnato
coattivamente alla frontiera grazie ad un provvedimento di espulsione
adeguatamente motivato non contestabile in caso di contenzioso.
Avv. Mascia
Salvatore
SCARICA
CIRCOLARE
(AGI) - Roma, 11 gen. - In Italia,
dall'inizio della crisi il numero di disoccupati stranieri e' aumentato di
oltre 95mila unita' (68mila solo al nord), pari grosso modo ai nuovi ingressi
di lavoratori extracomunitari previsti dal decreto flussi 2010. Tra tutti i
soggetti che nel nostro Paese hanno perso il lavoro, il 28,4% e' straniero.
Sono alcuni dei dati di una analisi della Fondazione Leone Moressa, che ha
studiato le dinamiche occupazionali degli immigrati nell'ultimo biennio.
Attualmente - spiegano i ricercatori della Fondazione - il tasso di disoccupazione
degli stranieri e' del 9,8%, contro una media degli italiani del 7,3%. Le aree
settentrionali, oltre a mostrare la piu' alta consistenza di disoccupati
stranieri, evidenziano i tassi di disoccupazione piu' elevati: 10,4% contro il
9% del Centro e il 9,1% del Mezzogiorno. I disoccupati stranieri sono oltre
235mila e rappresentano il 12,6% di tutti i senza lavoro in Italia: nelle
regioni del nord la percentuale dei nuovi senza lavoro aumenta al 30,4%, al
centro e nel mezzogiorno si stabilizza rispettivamente intorno al 23,5 e al
26,3%. "L'emorragia occupazionale che ha colpito soprattutto gli stranieri
- si legge nello studio - rischia di farli cadere in una situazione di
irregolarita', dal momento che il lavoro e' la condizione necessaria per il
loro regolare soggiorno. Considerando che il numero dei nuovi disoccupati
stranieri corrisponde grosso modo a quello dei nuovi ingressi previsti dal
decreto flussi 2010 (poco meno di 100mila unita'), serve ripensare ad una
politica di immigrazione che, tra le altre cose, privilegi dove possibile
l'assunzione di quei soggetti gia' presenti nel nostro territorio, ma rimasti
senza lavoro a causa della crisi".
di Federica Bianchi
Non
solo ristoranti e negozi di chincaglieria: gli immigrati dalla Repubblica
popolare adesso fanno anche gli studenti, i professionisti e soprattutto gli
imprenditori. Rompendo l'antico isolamento delle loro comunità.
L’Espresso,
3 gennaio 2011
Non
ci sono "estranei" in giro, non ci sono negozi di souvenir e nemmeno
palloncini rossi appesi agli stipiti dei ristoranti. Quella di Prato non è una
Chinatown per turisti: è un pezzo del sud della Cina trapiantato in un lembo di
Toscana. In piazza, sulla vetrina di un piccolo supermercato, è appeso un grande
monitor blu su cui scorrono, in cinese, offerte di lavoro: operai, segretarie,
commesse, modiste. Una moltitudine di giovani stretti in giacchette nere di
finta pelle attende con ansia lo svolgersi del rotolo elettronico, poi su un
pezzettino di carta bianca si appunta un numero di telefono. Sono le prossime
reclute del pronto moda più economico e più efficiente del Vecchio continente:
3.400 aziende, 40mila addetti regolari e clandestini, due miliardi di giro
d'affari. Qui, tra via Pistoiese e via Filzi, gli abitanti hanno gli occhi a
mandorla davanti e dietro i banconi dei negozi, i supermercati vendono cavolo
bianco e zenzero, e i parrucchieri tagliano i capelli ai bambini lasciandogli
un codino sulla nuca. Queste vie sono per i pratesi i primi gironi dell'Inferno
e per molti italiani la dimostrazione che ben lontana dall'integrarsi la
popolazione cinese in Italia, rinchiusa nelle sue fortezze autosufficienti,
minaccia di sfilarci il Paese dalle mani, un distretto alla volta. Eppure a
guardare oltre pregiudizi e titoli di giornale, a sbirciare nei negozi
all'ingrosso di piazza Vittorio a Roma, a fare un giro tra le università di
economia ed ingegneria di Milano, e a passeggiare tra le boutique del centro
storico di Firenze si colgono i primi segnali che qualcosa sta cambiando: i
cinesi residenti in Italia iniziano ad integrarsi. Un po' per
voglia.
Un po' per forza. E siccome l'Italia non è la California, di cinesi che parlano
l'italiano meglio del mandarino ancora non vi è traccia. Ma è solo una
questione di tempo. Cominciano ad esserci persone come la quarantaduenne Hongyu
Lin, assessore all'integrazione di Campi Bisanzio, un piccolo comune alla
periferia di Firenze che aveva preceduto Prato nell'essere definita la
Chinatown d'Italia: "Io sono la speranza che i cinesi possano accedere
anche al quadro istituzionale italiano e sentirsi italiani a tutti gli
effetti". Lei è arrivata in Italia appena laureata all'indomani del
massacro di Piazza Tiananmen nel 1989, in cerca di un paese dove coniugare
opportunità economiche a libertà democratiche. Passata per il Trentino dove il
marito era stato assunto da un'azienda informatica durante gli anni del boom,
ha trovato in Toscana una seconda patria. Oggi nella giunta del sindaco Adriano
Chini (Pd) si batte affinché i cinesi rispettino le leggi e i costumi locali e
gli italiani si accorgano dell'immensa opportunità offerta dalle seconde
generazioni di asiatici. "L'intolleranza dei cittadini italiani verso i
cinesi nasce dal mancato rispetto delle regole", racconta: "Ma glielo
hanno insegnato gli italiani stessi a forza di assumere lavoratori in nero e a
non stipulare mai un contratto di affitto. Così finisce che l'unica regola che
gli immigrati imparano velocemente è quella di non pagare le tasse". Negli
ultimi anni il rapporto tra italiani e cinesi si è talmente incrinato da
culminare nell'aprile del 2007 nella prima rivolta etnica della storia del
Paese (contro le limitazioni imposte al commercio cinese dal comune di Milano)
e, successivamente nel 2009, nella scelta (speculare) di un sindaco di destra a
Prato, dopo 63 anni di giunte rosse. Ad alimentare il risentimento sono
soprattutto due fattori. Innanzitutto il successo economico raggiunto dalle
comunità cinesi che hanno sfruttato non solo il fiuto imprenditoriale ma anche
gli anelli deboli del nostro sistema economico - dall'evasione fiscale
all'impiego di manodopera in nero. E poi l'autoreferenzialità delle comunità,
in grado di aiutare i propri membri sotto ogni aspetto, dal sostegno economico
a quello legale, rendendo inutile per i nuovi arrivati imparare perfino la
lingua italiana. Se questa vecchia tendenza a rimanere nella propria enclave
etnica era una caratteristica apprezzata dagli italiani quando i cinesi erano
numericamente inferiori ed economicamente più deboli, ora che il loro status
sale mentre quello dell'italiano medio scende, crea sospetti, pregiudizi e
ritorsioni. Senza contare il successo di tanti imprenditori - da Luigi Sun a
Milano a Xu Qiulin a Prato - contraddice lo stereotipo classico della via italiana
all'immigrazione. "Il modello Caritas con loro non funziona perché non
sono vittime e tantomeno vittimizzabili", spiega Patrizia Farina,
professore di Demografia presso l'università Bicocca di Milano: "Si
mettono in diretta concorrenza con gli italiani". Ma il successo economico
porta con sé inevitabili cambiamenti: con la maggiore visibilità aumenta la
radicalizzazione sul territorio e l'esigenza di un maggior rispetto delle
leggi. "Dieci anni fa nei capannoni c'era una situazione igienica disperata
e non c'erano nemmeno abbastanza posti letto per tutti: due operai dividevano
lo stesso letto", racconta Lina Iervasi, capo dell'ufficio immigrazione
della questura di Prato: "Adesso i datori di lavoro cercano magazzini a
due piani per separare la zona notte da quella del lavoro. La situazione rimane
illegale, ma è meno illegale di prima". Le aziende che riescono a fare il
salto di qualità sono ancora poche, ma sono molte quelle che non si perdono una
mossa di pionieri come la Koralline di Francesco Zhang, uno dei rari marchi del
pronto moda, per vedere se dopotutto una produzione di maggiore qualità e una
campagna promozionale basata sulla comunicazione potrebbero avere un effetto
positivo sul fatturato. "La soluzione vincente è lavorare insieme",
spiega Edoardo Nesi, scrittore e assessore allo sviluppo economico della
provincia di Prato: "Per battere la concorrenza dei prodotti in arrivo
dalla Cina anche i cinesi che vivono in Italia dovranno alzare il livello
qualitativo, di conseguenza i prezzi, e quindi potranno comprare i tessuti
dagli italiani". Per chi non vuole o non riesce a fare il salto di
qualità, la via del rientro in Cina è spesso la soluzione più facile. Quegli
imprenditori cinesi del Nord Italia che sono sbarcati da noi con l'intenzione
di fare un rapido bottino e sistemarsi per la vita stanno facendo le valige,
complici la crisi economica degli ultimi anni e la concorrenza diretta degli
imprenditori della madrepatria che hanno annullato i margini delle imprese più
precarie. Tra il 2004 e il 2007 le rimesse cinesi sono quintuplicate, passando
dai 335 milioni di euro del 2004 ai 1.687 milioni del 2007. "Una parte
consistente è attribuibile al controesodo dei cinesi che stanno tornando in
patria" alla ricerca di nuove opportunità, si legge nel rapporto del
ministero degli Interni. "Ormai non si guadagnava più", spiega Marco,
un imprenditore di Wenzhou, per anni in Italia, che con un socio si è appena
trasferito nel Qinghai, la frontiera occidentale della Cina, per aprire un
supermercato e acquistare la licenza dell'unica salina della regione: "Mia
moglie e mio figli però non vogliono tornare, loro vivono bene a Modena".
A rimanere in Italia è chi si è maggiormente legato al territorio in veste
personale, magari tramite un marito italiano, o attraverso i propri figli, nati
e, soprattutto, cresciuti da noi. Secondo i dati del ministero dell'Istruzione,
nell'anno scolastico 2008-2009 hanno frequentato le classi italiane 30.776
bambini cinesi rispetto ai 27.558 dell'anno precedente, il quarto gruppo di
studenti stranieri dopo rumeni, albanesi e marocchini. E se una volta i
genitori che venivano nel nostro Paese alla ricerca di un lavoro tendevano a
lasciare i figli piccoli alle cure dei nonni rimasti in Cina almeno fino alla
conclusione del ciclo elementare, adesso hanno fatto retromarcia. Si sono resi
conto che il tardivo inserimento nel sistema scolastico italiano impediva ai
ragazzi di avere un'educazione e un futuro adeguati. Oggi l'80 per cento dei
235 mila residenti cinesi in Italia ha meno di 40 anni e il 21,7 per cento è
minorenne. Così dentro le severe mura umbertine della gelateria Fassi, nel
quartiere multietnico di Roma, a parlare mandarino sono gli studenti italiani
della facoltà di studi orientali: i ragazzi cinesi della limitrofe scuola Daniele
Manin litigano tra loro in romanaccio, con i più piccoli che alternano le due
lingue mentre tengono in bilico sul cono gelato una generosa porzione di panna
a dispetto del fatto che i cinesi detestano i dolci. Insieme ai gusti
alimentari, stanno cambiando anche le aspirazioni professionali. "In
Italia se sei un immigrato e cerchi prospettive di crescita, l'unica via è
quella imprenditoriale", spiega il sociologo Daniele Cologna: "E la
cosa è tanto più facile quanto più la tua comunità etnica ti aiuta a reperire
capitali e relazioni, chiedendo in cambio una fedeltà e disponibilità assoluta
ad aiutare a tua volta i nuovi arrivati". Ma le nuove generazioni hanno
meno bisogno di uno stretto rapporto socioeconomico con la comunità di origine
e possono permettersi il lusso di rompere il cordone ombelicale perfino con la
loro ambasciata, che - a differenza delle sedi consolari europee - ha sempre
svolto un ruolo importante nel coordinamento della vita dei cinesi all'estero.
Parlando e pensando in italiano possono ambire a una serie di attività e
relazioni precluse ai loro genitori. "I cinesi di seconda e terza
generazione con titolo di studio superiore lavorano regolarmente assunti come
commessi nei negozi italiani, diventano segretarie oppure traduttori: l'interpretariato
è un settore in grande crescita", racconta Iervasi: "Ormai ci sono
ragazzi cinesi sempre più integrati che pensano al futuro esattamente come noi.
Sono loro il traino dell'integrazione". Le boutique firmate del centro
impiegano regolarmente ragazze cinesi perfettamente bilingui per trattare con
il numero crescente di turisti cinesi (quest'anno un milione) che amano fare
shopping nel nostro Paese; le agenzie di viaggi cinesi cominciano a rivolgersi
anche ai clienti italiani; nei bar gestiti dai cinesi un occhio di attenzione
viene dato a usi e tradizioni di casa nostra; nelle liste di attesa degli
ospedali della capitale cominciano ad apparire cognomi cinesi. "Ho appena
assistito una paziente di Wenzhou", spiega meravigliato un anestesista
dell'ospedale Sant'Eugenio a Roma: "Non era mai successo che una donna
cinese si sottoponesse a un intervento ospedaliero non in emergenza. Prima si
rivolgevano solo ai loro dottori". Il sogno per i rampolli borghesi di
origine cinese non è più o non solo l'aziendina tessile, il negozio o il bar,
ma le migliori università che l'Italia può offrire: "I nuovi status symbol
sono la casa, la macchina e un figlio in Bocconi", spiega Marco Wong,
presidente di Associna, l'associazione nata per aggregare le seconde generazioni.
La Bocconi quest'anno conta tra i suoi studenti 134 cinesi cresciuti in Italia
e il Politecnico di Milano ha visto i cinesi salire dall'1 all'8 per cento
degli iscritti in otto anni. "Volevo studiare business e i miei genitori
hanno scelto la Bocconi", spiega Angela Wei, 21 anni, figlia di piccoli
imprenditori di Cesena, terzo anno di Economia aziendale, e, involontariamente,
lancia un campanello di allarme: "Mi piacerebbe trovare un lavoro in
Europa o negli Usa, oppure lavorare per un'azienda occidentale in Cina, così
potrei fare avanti e indietro e guadagnare di più". Con tutto questo
andirivieni rischiamo di perdere lei e i giovani come lei: se il nostro Paese
non saprà offrire ai suoi nuovi ragazzi opportunità di crescita, saremo noi a
mancare il treno dell'integrazione, quella nell'economia globale.
Presse
étrangère
| 04.01.11
Point de vue
Jürgen Habermas, philosophe et sociologue
Depuis
la fin du mois d'août, l'Allemagne a été en proie à des accès d'agitation et de
confusion politique autour des questions de l'intégration, du multiculturalisme
et de la culture " nationale " comme "culture
de référence" (Leitkultur), provoquant des débats qui ont eu
pour corollaire d'aggraver, au sein du grand public, les tendances xénophobes. Ces tendances ne sont pas nouvelles ; études et
sondages font apparaître depuis longtemps une hostilité aux immigrés,
croissante mais silencieuse. Or tout se passe comme si ces tendances venaient,
tout à coup, de se trouver une voix. Les stéréotypes habituels ont brusquement
quitté le comptoir des bistrots pour prendre d'assaut les talk-shows et
investir le discours des hommes ou des femmes politiques les plus en vue,
pressés de séduire un électorat potentiel tenté par la dérive droitière. Deux
événements ont conduit à un tel chassé-croisé des émotions qu'on est bien en
peine d'encore les situer sur l'éventail politique — un livre écrit par
un membre (SPD) du directoire de la Banque centrale allemande et un discours
prononcé par le nouveau président fédéral d'Allemagne (CDU).
Tout a commencé avec la publication dans la presse des
"bonnes feuilles" les plus provocantes de Deutschland
schafft sich ab — L'Allemagne court à sa perte —, livre où on
lit que l'avenir de l'Allemagne est menacé par la "mauvaise"
immigration, celle issue des pays musulmans. Dans ce livre, Thilo Sarrazin, politicien SPD (Parti social-démocrate) siégeant
alors au directoire de la Banque fédérale, avance des propositions de politique
démographique visant la population musulmane d'Allemagne. À partir de
recherches portant sur l'intelligence, il discrimine cette minorité en
recourant à des conclusions biologiques fausses, qui trouvèrent là néanmoins une
publicité d'une ampleur inhabituelle. Si, d'entrée de jeu, le personnel
politique en place s'est spontanément opposé à ces thèses, il n'en alla pas de
même du grand public qui les soutint sans réserve. Un sondage révéla ainsi que
plus d'un tiers des Allemands était d'accord avec le pronostic de Sarrazin
selon lequel l'Allemagne devenait, "dans la moyenne, de plus en plus
bête" du fait de l'immigration en provenance des pays musulmans. Les
réponses en demi-teinte de la poignée de psychologues consultés par la presse
laissant l'impression que, après tout, il pourrait bien y avoir quelque chose
sous ces allégations, on assista alors du côté des médias et des politiques à
un progressif changement d'humeur à l'endroit de Sarrazin. Il fallut plusieurs
semaines avant que ne soit publié dans un journal un démontage en règle de
l'interprétation pseudo-scientifique des statistiques utilisées par Sarrazin.
L'auteur de cet article, Armin Nassehi, sociologue respecté, démontrait comment Sarrazin
avait "naturalisé" l'interprétation des mesures de l'intelligence,
selon des procédés qui avaient été scientifiquement battus en brèche il y a
déjà plusieurs décennies, aux États-Unis notamment.
Mais cette objectivité propre à désamorcer les
émotions intervenait trop tard dans le débat. Le poison que Sarrazin avait
distillé en renforçant l'hostilité culturelle aux immigrés par des arguments
génétiques s'était coagulé dans les préjugés populaires. Lorsque Nassehi et
Sarrazin se présentèrent pour débattre à la Maison de la littérature de Munich,
il se produisit comme un effet de meute au sein d'une assistance
essentiellement issue des classes moyennes cultivées, qui refusa ne serait-ce
que d'entendre les objections aux arguments de Sarrazin. Sarrazin fut contraint
de démissionner du directoire de la Banque fédérale ; mais son éviction
combinée à la campagne orchestrée par la droite, comme toujours soucieuse de
dénoncer les abus de la "correction politique", ne firent que
contribuer à dépouiller ses arguments les plus contestables de leur caractère
odieux. Toute critique à son endroit était perçue comme surréaction. Angela
Merkel, la chancelière outragée n'avait-elle pas dénoncé son ouvrage sans
l'avoir lu ? N'était-elle pas, au demeurant, en train d'opérer une
volte-face en expliquant aux jeunes chrétiens-démocrates que le
multiculturalisme en Allemagne avait vécu (et échoué) ? Quant au président
du SPD, Sigmar Gabriel, le seul homme politique de premier plan qui se fût
attaqué en substance aux affirmations de Sarrazin au moyen d'arguments
astucieux, n'était-il pas en butte à une forte résistance de l'intérieur
lorsqu'il proposait d'exclure le camarade mal aimé ? Le second événement
médiatique qui mit l'Allemagne sens dessus dessous fut la réaction au discours
prononcé par le président fédéral nouvellement élu, Christian Wulff, à l'occasion des vingt ans de l'unification
allemande. Wulff avait été, lorsqu'il présidait la Basse-Saxe, le premier
ministre-président à intégrer à son cabinet une collaboratrice allemande
d'origine turque. Lors de son discours du 3 octobre dernier, il prit la liberté
de réaffirmer une idée somme toute banale, déjà défendue par ses prédécesseurs,
à savoir qu'à l'instar du christianisme et du judaïsme, "l'islam
faisait également partie de l'Allemagne". Ce discours lui valut de
recevoir une ovation debout au Parlement, de la part de l'ensemble des
notabilités politiques qui y étaient réunies. Mais, le lendemain, la presse
conservatrice tirait à boulets rouges sur son allégation à propos de la place
de l'Islam en Allemagne. Depuis, d'ailleurs, la question divise l'Union
chrétienne-démocrate (CDU), son propre parti. L'intégration des travailleurs
turcs et de leurs descendants a été, d'une manière générale, plutôt une
réussite en Allemagne ; il est toutefois vrai que, dans certaines régions
économiquement sinistrées, on trouve encore des voisinages problématiques avec
des migrants se mettant eux-mêmes à l'écart de la société majoritaire. Mais ce sont là des problèmes que le gouvernement
allemand a reconnu et qu'il s'efforce de traiter. La véritable source
d'inquiétude n'est pas là, mais dans le fait, comme le montre ce qui s'est
passé avec Sarrazin et avec Wulff, que des politiciens peu scrupuleux soient en
train de découvrir qu'ils peuvent divertir les angoisses sociales de leurs
électeurs en les incitant à l'agression ethnique contre des groupes sociaux
encore plus faibles qu'eux. Le ministre-président de Bavière, Hort Seehofer, nous en donne le plus exemple lorsqu'il déclare que "les
migrants d'autres cultures" sont des nuisibles et lorsqu'il appelle à
ce que cesse toute immigration "en provenance de Turquie et des pays
arabes". Bien que les statistiques nous montrent une nette inversion
de l'immigration turque, Seehofer joue sur l'image phobique de parasites
grouillant en masses erratiques au cœur des réseaux de notre État social, et ce
à seule fin de justifier ses propres objectifs politiques. N'en
doutons pas, la mauvaise habitude qui consiste à exciter les préjugés
politiques est un phénomène qui va bien au-delà de l'Allemagne. Au moins, nous n'en sommes pas encore, comme aux
Pays-Bas, au point où notre gouvernement devrait compter sur le soutien d'un
populiste de droite comme Geert Wilders. À la différence de ce qui s'est
produit en Suisse, aucune mesure n'a encore été prise pour interdire la
construction de minarets. Et lorsqu'on compare les données des enquêtes
européennes sur l'hostilité envers les immigrés, on ne remarque pas à propos
l'Allemagne de résultats extrêmes. Si l'on tient compte, cependant, de ce que
l'histoire allemande a compté d'horreurs, on se dit que l'idée de développement
social et politique n'a pas nécessairement en Allemagne le même sens que dans
les autres pays. N'y aurait-il pas, dès
lors, des raisons de craindre une possible reviviscence des mentalités "anciennes"
? Tout dépend de ce que l'on entend par "ancien". Ce à quoi
nous assistons n'a sans doute pas grand chose à voir avec les années trente. Il
est probable en revanche qu'est en train de se rejouer quelque chose des
controverses du début des années quatre-vingt-dix, quand l'arrivée de milliers
de réfugiés de l'ex-Yougoslavie déclencha un débat sur les demandeurs
d'asile ; quand la CDU et son parti-frère bavarois la CSU (Union
chrétienne-sociale) affirmèrent avec force que "l'Allemagne n'était
pas une terre d'immigration". C'est alors que les auberges de
réfugiés se mirent à flamber et qu'au Parlement les sociaux-démocrates bâtirent
en retraite en donnant leur accord à un compromis misérable sur le droit
d'asile. Hier comme aujourd'hui, pour attiser la dispute on excitait le
sentiment d'une culture nationale en danger, tenue de s'affirmer comme la "culture
de référence" à laquelle doit se plier tout nouvel arrivant. Dans les
années quatre-vingt-dix, toutefois, ce qui sous-tendait aussi la controverse,
c'était la toute fraîche réunification et le sentiment de parvenir enfin, au
terme d'un chemin pénible, à une mentalité capable de fournir les étais
nécessaires à une compréhension libérale de la Constitution. Aujourd'hui,
l'idée de culture de référence ne repose plus que sur l'idée fausse selon
laquelle l'État libéral devrait exiger plus de ses immigrés que l'apprentissage
de la langue du pays et l'acceptation des principes constitutionnels. Il nous
restait au début des années quatre-vingt-dix à surmonter l'idée que les
immigrés sont censés assimiler les "valeurs" de la culture
majoritaire et adopter ses "coutumes" — apparemment,
nous n'y sommes toujours pas parvenus. Que nous soyons confrontés à
une rechute dans la compréhension ethnique de notre constitution libérale n'est
déjà pas une bonne nouvelle, mais que nous définissions désormais la "culture
de référence" moins à partir de la culture allemande qu'à partir de
la religion, voilà qui n'arrange rien. Aujourd'hui les apologistes de la "culture
de référence" en appellent à cette "tradition
judéo-chrétienne" qui " nous "
distinguerait des étrangers, ayant l'arrogance au passage de s'approprier le
judaïsme — avec un incroyable mépris à l'égard de ce que les Juifs ont
souffert en Allemagne. Il reste que je n'ai pas l'impression que les appels à
la "culture de référence" traduisent plus qu'une mouvement
d'arrière-garde, ni que la chute d'un essayiste dans les pièges d'une
controverse sur l'inné et l'acquis a donné un nouvel essor durable à des
amalgames plus nocifs mêlant xénophobie, sentiment raciste de supériorité et
darwinisme social. Les problèmes d'aujourd'hui ont reconduit les réactions
d'hier — pas celles d'avant-hier. Je ne sous-estime pas l'ampleur des
sentiments nationalistes accumulés, ce qui n'est d'ailleurs pas un phénomène
limité à l'Allemagne, mais, à la lumière des événements actuels, il est une
autre tendance qui me paraît tout aussi préoccupante : l'inclination à
préférer des figures non-politiques sur la scène publique, qui renvoie à un
trait fort suspect de la culture politique allemande, le rejet des partis et de
la politique des partis. Au cours de l'élection par le Parlement du président
fédéral, l'été dernier, Joachim Gauck, le militant des droits
civiques, sans expérience politique et non-inscrit dans un parti politique,
s'est trouvé être le candidat opposé à Christian Wulff, homme politique de
carrière. Contre la majorité du collège électoral,
Gauck, un pasteur protestant dont l'histoire tient avant tout dans son
opposition à l'ancien régime est-allemand, gagna les cœurs du plus grand nombre
et faillit remporter l'élection. C'est encore ce même attrait pour les figures
charismatiques qui ne se mêlent pas aux querelles politiques que l'on peut
déceler dans la déconcertante popularité dont jouit notre aristocratique
ministre de la défense, Karl-Theodor zu Guttenberg, qui, sans faire valoir
beaucoup plus que son arrière-plan familial, ses manières polies et une
judicieuse garde-robe, est parvenu à éclipser la renommée de Merkel. Plus
préoccupantes encore sont ces manifestations dont nous avons été récemment les
témoins à Stuttgart, qui virent des dizaines de milliers de personnes protester
contre le projet de démolition de l'ancienne gare par les Chemins de fer
fédéraux (Bundesbahn). Ces manifestations qui ont duré des mois
rappellent à certains égards le spontanéisme de l'opposition extraparlementaire
des années soixante, à cette différence près, cependant, qu'aujourd'hui ce sont
des gens de tous âges et de toutes conditions qui descendent dans la rue, et
que leur objectif immédiat est conservateur : préserver un monde familier
dans lequel la politique fait irruption comme le bras armé d'un supposé progrès
économique. Derrière ces manifestations toutefois, c'est un conflit plus
profond qui se trame et qui touche à la compréhension que nous avons de la
démocratie. Le Bade-Wurtemberg, dont Stuttgart est la capitale, est dirigé par
un gouvernement de région qui a choisi de porter sur ces manifestations un
regard étroit : le gouvernement fédéral est-il ou non habilité à porter
légalement et sur le long terme des méga-projets de ce type ? Face à cela,
en pleine tourmente, le président de la Cour constitutionnelle fédérale décida
alors de voler au secours du projet, plaidant que le public avait été consulté
quinze ans plus tôt, qu'il avait approuvé le projet à l'issue d'un vote et
n'avait par conséquent plus à intervenir dans son exécution.
Or il est
apparu que les autorités n'avaient pas, à l'époque, fourni une information
suffisante, de sorte que les citoyens n'avaient pas pu se forger une
opinion suffisamment informée sur laquelle fonder leur choix. Prétendre aujourd'hui qu'ils n'ont plus leur mot à
dire sur le cours des choses revient donc à se reposer sur une compréhension
formelle de la démocratie. La question est alors la suivante : la
participation dans les procédures démocratiques n'a-t-elle pour signification
fonctionnelle que de réduire au silence la minorité battue, ou implique-t-elle
une signification délibérative qui inclut les arguments des citoyens dans le
processus démocratique de formation de la volonté et de l'opinion ? Les
motivations qui sous-tendent chacun de ces trois phénomènes — la peur des
immigrés, l'attrait pour des figures charismatiques non-politiciennes et la
rébellion populaire de Stuttgart — sont différentes. Mais elles se
rencontrent pour traduire cumulativement un malaise croissant face à un système
politique replié sur lui-même et de plus en plus désemparé. Plus le champ
d'action des gouvernements nationaux se rétrécit, plus la politique se soumet
docilement à ce qui s'impose comme des impératifs inévitables, économiques ou
autres, et plus la confiance du peuple dans une classe politique résignée
diminue. Les États-Unis ont élu un président qui possède une vision politique
lucide, quand bien même est-il lui aussi pris d'assaut sur tous les fronts et
en butte à des sentiments de plus en plus mêlés. Ce dont nous avons besoin en
Europe, c'est d'une classe politique revitalisée, qui surmonte son propre
défaitisme avec un peu plus de perspectives, de résolution et d'esprit de
coopération. La démocratie dépend de la capacité du peuple à croire qu'une
certaine marge de manœuvre existe qui nous permette de façonner l'avenir et
d'affronter tous ses défis.