11 gennaio 2011

L’intollerabile silenzio che accompagna il genocidio nel Sinai
l'Unità, 11-01-2011
Don Mussie Zerai, direttore dell’agenzia Habeshia, quasi in completa solitudine, da oltre un mese, prova a tenere alta l’attenzione sulla vicenda delle 240 persone ostaggio di un gruppo di predoni nel deserto del Sinai. Dopo la più recente e drammatica telefonata con uno dei prigionieri (ai quali viene consentito di comunicare con l’esterno al fine di raccogliere il denaro per il riscatto), ha scritto: «Nessuno sta facendo qualcosa per debellare questa piaga dei nostri giorni, non si vedono risultati a parte la liberazione di chi ha pagato il riscatto. Intollerabile l’inerzia dei governi della regione del Sinai e vergognoso il silenzio della comunità internazionale di fronte al dramma di centinaia e migliaia di profughi tenuti in catene dai predoni nel fazzoletto di terra più rovente del globo, non solo per ragioni climatiche, ma perché dovrebbe essere un territorio sotto il controllo dell’intera comunità internazionale. Ma quest’ultima sembra chiudere gli occhi sul dramma di profughi che vengono spogliati di tutto. Dove sono finiti i difensori della vita? Dove sono i paladini dei diritti umani? Dov’è l’Europa ‘culla della civiltà’? Gli ostaggi africani forse valgono meno di altri per i quali ci si mobilita? Nell’Europa che li respinge, si annunciano muri da costruire, ma nessuno si occupa della vita di questi disperati. Uno di loro, raggiunto al telefono sabato scorso, ha detto: «Ormai siamo rassegnati a morire qui, ma voi, che vivete nel mondo libero, a restare schiavi della vostra inerzia, del vostro silenzio, della vostra complicità passiva con questi criminali». Il nostro compito è uno: bisogna offrire a quegli infelici la possibilità di arrivare in posti sicuri, dove siano garantiti i diritti umani e civili dei rifugiati».



IMMIGRATI: CARITAS VENEZIA, SI' ALLA SANATORIA NO AL DECRETO FLUSSI

(ASCA) - Venezia, 11 gen - ''Anziche' emanare un nuovo decreto flussi, il Governo provveda a sanare la posizione degli immigrati presenti sul territorio, che vivono in condizioni di estrema precarieta' a causa della crisi''. Lo chiede mons. Dino Pistolato, direttore della Caritas di Venezia, precisando all'Asca il suo pensiero, ''a scanso di interpretazioni malsane della mia posizione''. ''Non sostengo, come qualcuno mi vorrebbe far dire, che sono per il rimpatrio degli immigrati, a seguito della crisi occupazionale, ma proprio il contrario: bisogna accogliere gli extracomunitari in condizioni di dignita' e questo non si puo' farlo con l'arrivo di 100 mila stranieri - osserva mons.
Pistolato -. Anche perche', come hanno rilevato ieri i vescovi del Nordest, abbiamo tanti immigrati che hanno perso il lavoro e le cui famiglie si disgregano, perche' moglie e figli sono costretti al rimpatrio''.



La Caritas: «Basta stranieri si rischia guerra fra poveri»

Accuse al decreto flussi: «La situazione è drammatica»
Corriere dela Sera, 11-01-2011
Alessio Antonini
VENEZIA - Un tempo c’erano le dichiarazioni da iperleghista di Mario Borghezio e di Giancarlo Gentilini sugli stranieri e sui temi dell'immigrazione in generale. Ora, anche l'ultima roccaforte di difesa dei migranti, la Caritas, fa dietrofront, seppur partendo da presupposti diversi e con motivazioni sostanzialmente opposte: «La situazione occupazionale è drammatica - dice il direttore della Caritas veneziana Don Dino Pistolato in occasione della presentazione di "Una sola famiglia umana", la 97esima giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si terrà il 16 gennaio - non si possono aprire i flussi migratori a centomila persone in questo momento, è una scelta pericolosa». Svolta protezionista della Chiesa di fronte alla scelta del governo di accogliere circa centomila nuovi stranieri sul territorio italiano di cui diecimila in Veneto? «Nemmeno per sogno — frena don Pistolato — E' che bisogna imparare a guardare in faccia la realtà anche quando è brutta: accoglienza significa poter offrire lavoro, alloggi e dignità, non alimentare il panico mandando al massacro i nuovi arrivati e alimentando il razzismo», aggiunge il direttore della Caritas. Basta guardare che cosa sta succedendo ai corsi destinati alle badanti o nei mercati ortofrutticoli. Fino a due anni fa infatti c'era solo personale straniero e gli imprenditori continuavano a chiedere nuova manodopera, mentre oggi a causa della crisi gli italiani sono di nuovo disposti ad accettare qualunque lavoro pur di avere un minimo di stipendio.
«E' tornato lo spettro degli stranieri che rubano il lavoro» aggiunge il coordinatore della commissione regionale per le migrazioni don Ferruccio Sant spiegando che «l'integrazione in Veneto si è basata sul fatto che gli stranieri hanno sempre lavorato nelle fabbrichette dei paesini a stretto contatto con i veneti e hanno sempre vissuto accanto a loro con le loro famiglie». Ma adesso le cose sono cambiate: gli oltre cinquecentomila stranieri che vivono sparsi tra le sette province hanno iniziato a chiedere alla Caritas proprio i soldi per spedire i famigliari a casa visto che tra disoccupazione e cassaintegrazione non riescono più ad affrontare affitti e costi scolastici per tutta la famiglia. Quelli che restano dunque sono tutti maschi tra i 18 e i 40 anni che si ammassano nelle case dei loro connazionali per diminuire i costi di affitto e continuare a mandare i soldi nei rispettivi paesi d'origine. E soprattutto hanno iniziato a fare concorrenza ai veneti nella ricerca del lavoro a fronte di decine di migliaia di nuovi disoccupati. «E' già iniziata una guerra al massacro tra poveri», rincara la dose Don Pistolato. «L'integrazione è un argomento estremamente complesso e difficile - spiega il direttore dell'ufficio immigrazione delle chiese del Nordest monsignor Adriano Tessarollo - ma il Vangelo ci chiede di accogliere lo straniero e ci impone di non trasformare differenze e diversità in contrasti sociali, perché il legame della fede è più forte del legame di sangue».
Resta il fatto che la presenza di migliaia di immigrati regolari senza lavoro rischia di alimentare circuiti di sfruttamento e di lavoro nero (quasi l'80 per cento sono uomini e il 20 per cento donne) accommpagnati dal rimpatrio massiccio di figli e mogli. Problemi che senza una svolta economica sono destinati a crescere soprattutto nelle provincie di Vicenza che conta quasi il 17 per cento di stranieri e Verona che segue a ruota. Le difficoltà però sono destinate a coinvolgere anche Venezia che conta il più alto numero di immigrati di seconda generazione del Veneto e Belluno che vede una presenza massiccia di donne rispetto agli altri territori. D'altro canto, a sentire la Caritas, gli stranieri che vivono in Veneto stanno subendo doppiamente la crisi, perché molti di loro provengono da paesi in guerra e non possono in alcun modo fare rientro a casa. «Le politiche di assistenza devono essere le stesse per italiani e stranieri - conclude don Marino Callegari della Caritas di Chioggia - Senza uguale accesso al lavoro e senza possibilità di accedere agli alloggi comunali o regionali non c'è integrazione. Va potenziata la scuola, primo veicolo d'integrazione, e regolarizzati gli stranieri che già ci sono».



«Qui c’è posto soltanto per stagionali e badanti»

La Regione: prima i disoccupati. La Cgil: sanatoria mascherata
Corriere della sera, 11-01-2011
VENEZIA — «Qui c’è ancora posto soltanto per due categorie di lavoratori immigrati: gli stagionali del turismo e le badanti. Per il resto, se dipendesse dalla Regione Veneto, la richiesta sarebbe a zero». Va dritto al sodo Daniele Stival, assessore leghista ai Flussi migratori nella giunta Zaia. Le preoccupazioni espresse dalla Caritas sono anche le sue preoccupazioni, perché «la vera priorità - sottolinea - è riassorbire i molti disoccupati, stranieri ma non solo, che già ci sono. Aprire a nuovi ingressi di lavoratori subordinati significa, senza dubbio, creare le basi per nuove tensioni sociali». Quanti, dei 98 mila extracomunitari previsti in ingresso dal nuovo decreto flussi del governo, saranno destinati al Veneto, verrà deciso dopo una verifica sul campo condotta dalle articolazioni locali dell’amministrazione statale: prefetture e uffici del lavoro. «Questo almeno ci garantisce - evidenzia Stival - che saranno calcolate le effettive esigenze del territorio». Ciò non toglie che la riapertura dei flussi, dopo due anni di blocco che hanno coinciso con la fase più dura della recessione economica, avvenga in uno scenario in cui la crisi - soprattutto sul versante dell’occupazione - appare tutt’altro che archiviata. «Proprio per questo condivido in pieno l’allarme della Caritas: riparlare di flussi in questo momento è, semplicemente, una scelta sbagliata».
Lo dice con parole nette Stefano Fracasso, oggi consigliere regionale del Pd ma fino al 2009 sindaco di Arzignano (Vicenza), uno degli epicentri della «questione straniera» in Veneto. Argomenta Fracasso: «Qui si rischia di ingrossare le file dei poveri, che andranno a bussare alla porta delle istituzioni assistenziali. Molti degli immigrati già presenti in Veneto hanno perso il lavoro e vorrei ricordare che, tra gli extracomunitari, la stragrande maggioranza delle famiglie è monoreddito: le donne (con l’eccezione delle badanti) registrano un tasso di occupazione bassissimo, perciò se il capofamiglia rimane a spasso - continua il consigliere del Pd - crolla il reddito di tutto il nucleo». Una critica, da uomo dell’opposizione, Fracasso si sente di farla: «Qui il governatore Zaia e i leghisti gridano a ogni pie’ sospinto "stop ai flussi" ma poi, a Roma, il ministro leghista Maroni sottoscrive questo decreto che apre a quasi centomila nuovi ingressi. C’è una contraddizione di fondo, mi sembra evidente. A meno che - insinua Fracasso - non siamo di fronte a una sanatoria camuffata per gli extracomumitari che sono già qui. Allora, però, il governo abbia il coraggio di riconoscerlo, fuori di ogni ipocrisia». È un sospetto, quest’ultimo, che è venuto immediatamente anche a Carla Pellegatta, responsabile per l’immigrazione e i rapporti con la Regione nella segreteria regionale della Cgil: «Temo si tratti dell’ennesima sanatoria per gli esclusi dalle precedenti - sostiene Pellegatta -. Per questo ho qualche dubbio sull’allarme avanzato dalla Caritas: molti dei 98 mila autorizzati credo siano già qui. Non sono nuovi flussi, bensì una regolarizzazione a posteriori: il governo cominci a chiamare le cose con il loro nome».



Fini va a sinistra: cittadinanza agli stranieri

Libero, 11-01-2011
TOMMASO MONTESANO
«Oltre le chiacchiere quotidiane, quasi un milione di giovani nati in Italia da stranieri regolarmente residenti attende una legge che li renda cittadini: in Parlamento esiste un'ampia maggioranza che può sostenere la Sarubbi-Granata».
Ovvero la proposta di legge che abbrevia l'attesa per diventare cittadini italiani.
Futuro e Libertà sterza ancora a sinistra. Lo fa rilanciando (...)
(...) il provvedimento che accorcia da dieci a cinque anni il tempo per ottenere la cittadinanza del nostro Paese. L'autore del nuovo avvicinamento finiano alle posizioni dell'opposizione è, manco a dirlo, Fabio Granata, primo firmatario, insieme al collega del Partito democratico Andrea Sarubbi, della proposta di legge presentata alla Camera il 30 luglio 2009 e impantanata in commissione   Affari   costituzionali (l'ultimo esame risale al mese di luglio). «Nel 150esimo    anniversario    dell'unità d'Italia,  sarebbe un  segnale storico per l'Italia e per chi la ama», osserva Granata, capofila dei falchi finiani. Secco il rifiuto del Popolo della Libertà, mentre il Pd applaude alla
mossa di Granata e si dichiara pronto a sostenere la riforma in Parlamento.
RITORNO DEL FALCO
Ormai il ribaltamento delle alleanze in Parlamento, e non solo, è cosa fatta: finiani e sinistra da una parte, PdL e Lega dall'altra. Già sperimentato nel primo scorcio di legislatura, l'abboccamento sull'immigrazione torna di moda all'inizio del 2011.
«Se la legislatura va avanti», annuncia   solenne   Granata, «bisogna dare cittadinanza ai giovani di seconda generazione». Negativa la risposta del PdL. «La cittadinanza non è  un regalo, ma il risultato di un processo di reale integrazione e di adesione ai valori fondanti della nostra società, che non può essere garantito dal solo fatto di nascere in Italia», ribatte il deputato Isabella Bertolini, che ha seguito il percorso della proposta di legge icommissione  Affari   costituzionali.  «Ribadiamo   il   no all'introduzione dello jus soli e alle    scorciatoie    temporali, proposte  dai  rappresentanti del Fli, per il riconoscimento della cittadinanza italiana agli stranieri che vivono nel nostro
Paese», aggiunge l'esponente del PdL. Ma l'affondo contro gli ex alleati finiani non è finito: «Utilizzare  l'anniversario dell'Unità d'Italia per riproporre questo dibattito, conferma che la compagine finiana condivide sempre di più le tesi del centrosinistra ed è ormai lontana anni luce dal PdL e dai suoi alleati». Niente da fare, insomma, per quello che è stato uno dei principali cavalli di battaglia di Gianfranco Fini
nella polemica contro il governo: «Gli italiani hanno votato il governo Berlusconi non certo per concedere la cittadinanza "facile" agli immigrati. Questo   rimarrà   un   sogno dell'onorevole Granata e della sinistra».
APPLAUSI A SINISTRA
Dal Pd, invece, arriva un entusiastico sì alla proposta ribadita ieri dall'esponente finiano. «Il no allo ius soli da parte del PdL è il riflesso di
una destra retriva e per nulla europea», replica il senatore Roberto Di Giovan Paolo, segretario   della   commissione Affari europei. «Lo ius soli», insiste, «è una realtà in tanti altri Paesi europei, da noi è un tabù per colpa della destra populista». Secondo il senatore, «PdL e Lega per gli immigrati vogliono solo doveri e niente diritti, dimenticando che tanti di loro pagano le tasse e contribuiscono alle casse dell'Inps».



Immigrati, Fli sempre più a sinistra: "Cittadinanza ai figli degli stranieri"

il Giornale, 11-01-2011
L'annuncio di Granata: "Se la legislatura va avanti, bisogna dare cittadinanza ai giovani di seconda generazione. Quasi un milione di giovani nati in Italia da stranieri regolarmente residenti attendono una legge che li renda cittadini. C'è un'ampia maggioranza". E la proposta: "Sarebbe un bel segnale per festeggiare il 150esimo dell'Unità d'Italia". Il no del Pdl: "La cittadinanza è una conquista. No allo ius soli"
Roma - Cittadinanza agli immigrati di seconda generazione. I figli degli stranieri nati in Italia. Un'idea storica della sinistra italiana che Gianfranco Fini ha scelto di "sposare" in diverse uscite pubbliche e che, ora, diventa la linea ufficiale di Futuro e Libertà per l'Italia, il nuovo partito del presidente della Camera. Dopo aver lasciato la maggioranza per l'opposizione Fli rilancia anche una proposta politica totalmente alternativa all'asse Pdl-Lega e alla stessa legge sull'immigrazione, curiosamente firmata a quattro mani solo otto anni fa da Umberto Bossi e proprio da Fini.
La legge Granata "Se la legislatura va avanti, bisogna dare cittadinanza ai giovani di seconda generazione. Quasi un milione di giovani nati in Italia da stranieri regolarmente residenti attendono una legge che li renda cittadini: in parlamento esiste un ampia maggioranza che può sostenere la legge Sarubbi/Granata" spiega Fabio Granata, parlamentare del Fli. Che aggiunge: "Nel 150esimo anniversario dell’unità d’Italia, sarebbe un segnale storico per l’Italia e per chi la ama".
Il no del Pdl "La cittadinanza non è un regalo, ma il risultato di un processo di reale integrazione e di adesione ai valori fondanti della nostra società, che non può essere garantito dal solo fatto di nascere in Italia. Per questo ribadiamo il no all’introduzione dello ius soli e alle scorciatoie temporali, proposte dai rappresentanti del Fli, per il riconoscimento della cittadinanza italiana agli stranieri che vivono nel nostro Paese" dice Isabella Bertolini, della direzione del Popolo della Libertà. "Utilizzare l’anniversario dell’Unità d’Italia, per riproporre questo dibattito, conferma che la compagine finiana condivide sempre di più le tesi del centro sinistra ed è ormai lontana anni luce dal Pdl e dai suoi alleati. Gli Italiani, però, hanno votato il governo Berlusconi non certo per concedere la cittadinanza 'facile' agli immigrati. Questo rimarrà un sogno di. Granata e della sinistra".



Moschee in Europa? Nascondetele!

Avvenire, 11-01-2011
GIORGIO DE SIMONE
Lo vedi nel phone center, nel negozio etnico, nella macelleria halal non distante da casa tua, nel marocchino che a un'ora che lui sa s'inginocchia su un cartone rivolto alla Mecca. L'islam tra di noi è questo. Anche questo. Non solo una religione, ma un fenomeno sociale difficile, spinoso. Come tale lo analizza Stefano Allievi, docente di Sociologia all'Università di Padova in La guerra delle moschee (Marsilio, paginel76, euro 12). Un libro dove la mappatura rigorosa dei luoghi di culto islamici subito ci dice che in un'Europa con ormai 23 milioni di musulmani, le moschee sono undicimila (2.600 in Germania, 2.100 in Francia, 764 in Italia, più di mille in Gran Bretagna, 1.867 in Bosnia, eccetera). Naturalmente, quando si dice moschea non si dice solo tempio, ma luogo dove i musulmani si ritrovano principalmente a pregare. E che può cominciare da un tappeto, continuare con una stanza, proseguire con la musalla (sala di preghiera) e concludersi con la moschea vera e propria. Che non è solo luogo religioso, per come lo intendono i cristiani, ma anche luogo politico-organizzativo. Di queste, moschee ad hoc -costruite per essere tali - se ne contano quasi 200 in Francia, 100 nei Paesi Bassi, una settantina in Germania, ma 300 (su 400) in Grecia e, in gran parte ricostruite dopo la guerra, ben 1.472 (su 1.867) in Bosnia, dove esiste una popolazione islamica autoctona. In Italia, con un milione e trecentomila musulmani (il 2,2% dei residenti, contro una media europea del 3,77%), le moschee ad hoc sono appena tre: una a Catania, non più utilizzata, una a Milano -Segrate e la terza, inaugurata nel 1995 come grande centro islamico culturale, a Monte Antenne a Roma. 761 moschee italiane altro dunque non sono che sale, stanze, spazi ricavati un po' dovunque, in capannoni, magazzini, scantinati, negozi. Attualmente una moschea è in allestimento a Colle Val d'Elsa, in Toscana, mentre altre sono in fase progettuale o a inizio lavori in diverse nostre città senza che se ne venga a capo. Si ripete - è vero - che una città come Milano dovrebbe avere una grande moschea al pari di altre metropoli europee proprio per dimostrare, anche con attività collaterali che ad essa si legherebbero (incontri, dibattiti, attività culturali e cerimonie collettive), la propria caratura internazionale. Ma per Allievi il sospetto e a volte l'ostilità verso l'islam, soprattutto nel Nord Italia, impedisce la costruzione di mosquées cathédrales. Sicché, per evitare contrasti, si ricorre un po' a tutto, per esempio al «mimetismo». Si dice sì alla moschea purché sia poco vistosa: niente cupole, mezzelune o segni e fregi che ricordino l'orientalismo architettonico. E no a quel simbolo di potenza, grandezza e forza che è il minareto. Perché poi sono stati proprio i minareti a innescare operazioni (anche legislative) in odore di anti-islamicità È successo in Carinzia nel 2008 con la loro messa al bando, e in Svizzera, nel novembre del 2009, quando queste "torri di dominio" sono state sottoposte a un referendum che le ha bandite con il 57% dei voti in 22 cantoni su 26. Il tutto a dire come la "visibilizzazione" dell'islam nello spazio pubblico europeo resti un serio problema. C'è anche, per la verità, uno spazio acustico che l'islam vorrebbe occupare con Yadhan, o appello alla preghiera. ma il diniego è stato nella fattispecie totale anche là dove si era dato disco verde alla costruzione di moschee. Insomma non si può dire che l'islam trovi in Europa delle autostrade su cui correre indisturbato. Allievi ci informa che i partiti anti-islamici europei sono a tal punto legati tra di loro da formare una sorta di «internazionale dell'islamofobia». E comunque, a livello di sensibilità popolare, due sembrano essere le maggiori ragioni di ostilità alla moschea: la perdita di valore delle case intorno e la paura di aumento della delinquenza. Più la sempre presente sindrome Nimby (Not in my backyard, «non nel mio cortile»). Sulle sensibilità popolari soffia peraltro il vento della politica che, per quanto riguarda l'Italia, trova nella Lega Nord il suo mantice maggiore. E poi, sulla combustione del fenomeno, molto hanno influito i mass media, e qui Allievi non è tenero con Oriana Fallaci. Si chiede così il sociologo dove stiamo andando e, sottolineando come il conflitto diventi più o meno duro a seconda che i musulmani godano di minori o maggiori diritti, assegna al «fattore T» (tempo) un ruolo rilevante nell'«integrazione sostanziale» dell'islam. Se poi, spostandoci negli Stati Uniti, guardiamo al recente discorso di Obama a favore della costruzione di una moschea a pochi isolati da Ground Zero in nome della libertà di religione che in America prevale su tutto, entriamo in un'altra dimensione. Auspicabile dimensione, certo, anche per l'Europa secondo Allievi, fautore di una pacifica e ragionata apertura nei confronti dell'islam. Di quello stesso islam, peraltro, che nei Paesi dove domina dovrebbe portare grande rispetto a tutte le minoranze, a cominciare da quelle cristiane, o a chi, musulmano, al cristianesimo decidesse di convertirsi. E sarebbe bello, certo, se fosse così. Ma troppi avvenimenti, alcuni anche molto dolorosi, ci dicono che non si va in questa direzione.



Le moschee proliferano contro la volontà dei cittadini

Avvenire, 11-01-2011
FRANCESCA MORANDI
Negli ultimi dieci anni è nata una moschea ogni dieci giorni. È questo l'allarmante ritmo dell'espansione islamica nel nostro Paese dove, i centri di culto musulmani si sono raddoppiati dal 2000 ad oggi, grazie a compiacenti amministrazioni locali di sinistra e finanziamenti poco trasparenti.
Di fronte al preoccupante scenario di un'Europa trasformata in Eurabia, la Lega Nord continua a chiedere a gran voce regole chiare, che ha già messo nero su bianco con una proposta di legge, firmata da Andrea Gibelli e Roberto Cota (la numero 1246 - "Disposizioni concernenti la realizzazione di nuovi edifici destinati all'esercizio dei culti ammessi"), depositata nel lontano 2008 in Parlamento, dove giace da troppo tempo in commissione Affari costituzionali. Intanto le richieste di edificazione di moschee si moltiplicano a Milano, Genova, Firenze, Torino, Bologna, Napoli, Vicenza, Colle Val D'Elsa, Trento e Cesena, alla faccia del persistente vuoto normativo nazionale, del pericolo del terrorismo (che troppo spesso si è intrecciato alle attività di luoghi di culto islamici) e della volontà della gente comune. Proprio a loro intende dare voce la proposta di legge leghista secondo la quale la costruzione delle moschee deve essere autorizzata dalle Regioni, ma solo se i cittadini dell'area interessata danno il via libera con un referendum. La normativa prevede inoltre che gli edifici abbiano dimensioni proporzionate al numero di fedeli, non includano minareti con altoparlanti e siano distanti almeno un chilometro dalle chiese. È necessario inoltre che le moschee non abbiano al loro interno mercati o scuole.
La Lega Nord chiede poi che quanti promuovano la costruzione di una moschea si dotino di uno statuto i cui requisiti verranno definiti dal Governo, ma che comunque dovrà riconoscere alcuni principi come la democraticità e la laicità dello Stato, la dignità dell'uomo e della famiglia. Necessari anche un albo degli imam, che dovrebbero predicare in italiano, l'assenza di contributi statali e più trasparenza nei finanziamenti.
Un'insieme di regole che allo stato attuale non sono garantite adeguatamente sotto il profilo legislativo, e che nascono, avevano sottolineato i firmatari, «dall'esigenza di regolamentare una realtà complessa che potrà avere ripercussioni importanti sulla nostra società e sul nostro modo di vivere».
«Chi non vuole prendersi la responsabilità di affrontare un simile problema - aveva detto Gibelli - vuol dire che vive al di fuori della realtà». O intende vivere in Eurabia.



I sottotitoli in cinese al cinema? Addio integrazione

il Giornale, 11-01-2011
Si fa presto a dire integrazione. Tutti si riempiono la bocca con questa parola e poi tutti la smentiscono molto in fretta. Prendete il caso di San Donnino, nell’hinterland fiornentino, dove è stata proiettata per la prima volta in Italia un film con i sottotitoli in cinese. È «La marea silenziosa», film italianissimo eppure tradotto in ideogrammi per garantire alla numerosa comunità cinese della periferia di Firenze.
Una scelta legittima, certo. Legittima perché può essere vincente dal punto di vista commerciale. In quella zona, infatti, c’è un’immigrazione anche di vecchia data - molti sono giunti qui a San Donnino negli anni Settanta -, oggi sono circa 700-800 i cittadini dalla Repubblica cinese, la metà della popolazione di stranieri. Non è un caso che in quell’area, esattamente a Capi Bisenzio, dal 2008 c’è il primo assessore cinese in un’amministrazione italiana, Hongyu Lin, 42 anni, originaria di Shenyang.
Il problema non è questo, allora. Non è cioè la voglia di coinvolgere e anche di utilizzare la comunità cinese come mercato. Anzi. Il problema semmai è la celebre integrazione. Perché iniziative come questa sono esattamente il contrario. Fino a quando gli stranieri, cinesi o di altre nazionalità, non saranno «costretti» a conoscere nei dettagli la nostra cultura e la nostra lingua, non avremo mai una vera forma di integrazione. La lingua, già. In molti Paesi è elemento essenziale per l’ottenimento addirittura del permesso di soggiorno. Senza arrivare a questi che qualcuno può considerare degli eccessi, è però giusto ricordare che l’Italia ha già cominciato a richiedere conoscenza della nostra cultura e della nostra lingua a quegli stranieri che vogliono ottenere il permesso di soggiorno illimitato. Seppur con maldestre domande e con maldestre considerazioni, questo è un punto di non ritorno: come fa a integrarsi uno che non decide di conoscere alla perfezione la lingua del Paese che lo ospita?
Questo vale a maggior ragione con la comunità cinese, la quale non ha alcun problema di integrazione economica: da sempre i cinesi lavorano tanto e spesso riescono anche a creare occupazione per altri cinesi. Ciò che invece rappresenta una enorme difficoltà è l’integrazione sociale: i cinesi sono un gruppo chiuso, isolato, che come si vede nelle più grandi metropoli del mondo, ricrea delle Chinatown molto ristrette, dalle quali la comunità raramente esce. Ricordate gli scontri di Chinatown a Milano di qualche anno fa? Tutti, ma proprio tutti si scagliarono contro il modello fallito di integrazione con la comunità cinese: non volevano più i quartieri monoetnici, criticavano la scelta di creare quelli che chiamavano tutti «ghetti». Ecco, adesso evidentemente hanno cambiato idea. O semplicemente non si pongono più il problema perché non ci sono stati altri casi e perché la cronaca non offre spunti sui quali piombare per sentirsi il centro del mondo.
Quindi i cinesi restano confinati nelle loro strade, con la loro cultura, la loro lingua, il loro lavoro. Questo è il contrario dell’integrazione, ma ha un effetto contenuto se nel resto della città che li ospita sono costretti a interagire in lingua italiana e cercando di sforzarsi di comprendere le logighe e la cultura italiana. Se anche in quelle circostanze, non gli si offre l’obbligo di italianizzarsi, allora la partita è persa. I sottotitoli in cinese per un film italiano sono una sconfitta, altro che vittoria. Significano che abbiamo abdicato e che abbiamo rinunciato a voler integrare davvero gli stranieri.



A 83 anni lascerà alla figlia la guida del Fronte Nazionale "Per me la Lega è scioccante: sono nazionalista, non regionalista"
' 'Non sono un razzista' ' ecco l'addio di Le Pen
la Repubblica, 11-01-2011
GIAMPIERO MARTINOTTI
PARIGI Jean-Marie Le Pen non vuol sentir parlare di pensione,  anche se è arrivato alla soglia degli 83 anni. Ma sabato prossimo, al congresso di Tours, lascerà nella mani della figlia Marine (classe 1968) la guida del Fronte nazionale, .riservandosi la poltrona di presidente onorario. Si chiude così una pagina: Le Pen è stato il primo a imporre le idee dell'estrema destra nel dibattito politico europeo, a teorizzare l'impossibilità di un'integrazione dei nuovi immigrati: «La classe politica ha ignorato l'esplosione demografica del pianeta, passato in un secolo e mezzo da uno a sette miliardi di abitanti. L'unico continente in depressione demografìca è quello europeo, Russia compresa. Da questa constatazione ho tratto la conclusione, già trent'anni fa, che l'Europa era minacciata di morte».
Signor Le Pen, lei si sente il padre dei movimenti populisti che negli ultimi mesi hanno ottenuto tanti successi elettorali? «Non pretendo di essere stato geniale, chiunque poteva vedere. Sono stato il primo a dirlo e non mi è stato mai perdonato. Ma il nostro esempio ha probabilmente avuto un'influenza altrove».
In altri Paesi, però, i movimenti di estrema destra sono al governo, mentre lei è rimasto isolato: non è un insuccesso?
«È un fenomeno dovuto solo al sistema elettorale: in Francia c'è una volontà deliberata di tendere al bipartitismo».
Non è colpa anche delle sue ripetute provocazioni?
«Se la verità è provocatrice, allora sono stato un provocatore. Sono un uomo libero, ho parlato liberamente. L'establishment ha finto di essere provocato».
Più che altro era difficile dialogare con un movimento situato apertamente all'estrema destra, non le pare?
«Rifiuto questa defìnizione. Un movimento è estremo quando è estremista nelle sue proposte o nei suoi metodi. Il Fronte nazionale non è estremista nelle sue proposte, rispetta scrupolosamente le regole della Repubblica. E per quel che riguarda i metodi, non abbiamo milizie e non attacchiamo le riunioni di altre organizzazioni».
Se non le piace estrema destra, vogliamo dire populista?
«Cosa vuol dire populista? Noi non cavalchiamo movimenti di opinione popolari proponendo soluzioni elementari e fruste. Ab-biamo un programma economico, politico, sociale lontano dalla demagogia: la vera demagogia è mentire al popolo».
Né di estrema destra, né populista. Diciamo razzista?
«Sono stato il primo francese a proporre la candidatura di un arabo alla Camera nel 1957, il primo a fare leggere una musulmana in un consiglio regionale nel 1986. Nell'idea di razzismo c'è una volontà di disprezzo e di dominazione che non abbiamo. Tuttavia: ammetto il meticciato sul piano individuale, ma sono contro il meticciato generalizzato».
Xenofobo?
«Amo molto gli stranieri alla maniera di Giovanna d'Arco. Le dicevano: Giovanna, Dio ci obbliga ad amare gli inglesi, lei li ama? E lei rispondeva: Sì, a casa loro. Non sono xenofobo. Mia moglie è mezza greca».
Non può negare, però, di essere  islamofobo.
«Men che mai: ero per l'Algeria francese! Sono contro l'Islam nella misura in cui vorrebbe conquistarmi e impormi la sua legge. I minareti sono molto belli, nel mondo arabo-musulmano non mi scioccano, sono molto più reticente quando si moltiplicano su questa terra cristiana. Quando in Arabia saudita si potranno costruire chiese cristiane, allora si potranno fare delle moschee a Marsiglia, non prima».
Non sta creando confusione tra la religione musulmana e i fondamentalisti?
«E nella natura delle cose, lo si voglia o no».   
Negli anni '80 e '90 lei parlava soprattutto di immigrazione, adesso di musulmani: il suo discorso non è proprio cambiato?
«No, metto in discussione il fenomeno stesso dei flussi migratori. La Francia (e l'Europa) attira le masse diseredate da tutto il mondo. Sono un nazionalista: non considero trascurabile la miseria del mondo, ma sono più sensibile alla miseria dei miei».
Ma lei parla sempre di islamismo...
«L'islamismo è la forma più aggressiva dell'immigrazione».
Si sente vicino alla nostra Lega Nord?
«Non siamo regionalisti e considero un po' scioccante la volontà delle regioni ricche di separarsi dalla parte povera della nazione comune».
Ma sull'immigrazione non siete d'accordo?
«Non ci è vietato avere ideali comuni con questa o quella formazione politica, ma non abbiamo relazioni strutturali con la Lega. Forse a causa di Bossi, forse è lui che non vuole».
E di Silvio Berlusconi cosa pensa?
«È un uomo di successo, che fa tutto sorridendo, il che lo rende simpatico. L'Italia ne ha viste altre». E qui Jean-Marie Le Pen si mette a ridere.

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