03 gennaio 2011

Flussi 2010: pubblicato il decreto in Gazzetta Ufficiale. Primo click day il 31 gennaio, poi il 2 e 3 febbraio.
ImmigrazioneOggi, 03-01-2010
La presentazione delle domande tramite il sito del Ministero dell’interno; il 31 gennaio le richieste di lavoratori provenienti da paesi con accordi bilaterali; il 2 febbraio per colf e badanti ed il 3 per le altre categorie. La ripartizione delle quote su base provinciale solo al termine ed in base alle richieste.
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 305 del 31 dicembre 2010 il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, varato il 30 novembre scorso, che autorizza i flussi di ingresso per il 2010 per complessivi 98.080 lavoratori (di cui 11.500 conversioni di permessi).
Le domande dovranno essere presentate attraverso il sito del Ministero dell’interno dai datori di lavoro o tramite intermediari autorizzati nei termini illustrati dal decreto stesso e con le modalità che nei prossimi giorni verranno rese note dal Viminale. Ancora una volta, le graduatorie verranno stilate in base all’orario di presentazione delle domande, un meccanismo che già in passato ha destato più di una perplessità perché l’invio tramite procedura informatica risulta dipendere da diversi fattori quali la velocità della connessione internet, la dimestichezza con i sistemi informatici dei richiedenti o le modalità con cui le domande vengono inviate dagli intermediari.
I flussi 2010, come anticipato da ImmigrazioneOggi, prenderanno il via il 31 gennaio alle ore 8.00 con il primo “click day” dedicato ai datori di lavoro che presenteranno richiesta di assunzione di cittadini appartenenti a paesi extra Ue che hanno stipulato, o sono in procinto di farlo, accordi per la regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione.
Si tratta di 52.080 quote, per tutte le tipologie di lavoro subordinato, ripartire a seconda dei paesi: 4.500 albanesi, 1.000 algerini, 2.400 del Bangladesh, 8.000 egiziani, 4.000 filippini, 2.000 ghanesi, 4.500 marocchini, 5.200 moldavi, 1.500 nigeriani, 1.000 pakistani, 2.000 senegalesi, 80 somali, 3.500 dello Sri Lanka, 4.000 tunisini, 1.800 indiani, 1.800 peruviani, 1.800 ucraini, 1.000 del Niger, 1.000 del Gambia, 1.000 di altri Paesi non appartenenti all’Unione europea che concludono accordi finalizzati alla regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione.
Il 2 febbraio inizierà la presentazione delle domande per l’assunzione di colf e badanti provenienti da Paesi che non hanno stipulato accordi con l’Italia. In questo caso i posti in palio sono solo 30mila.
Il 3 febbraio, infine, il “click day” per le altre categorie: 11.500 quote sono destinate alle conversioni in permesso di soggiorno per lavoro subordinato di 3.000 permessi di soggiorno per studio, 3.000 permessi di soggiorno per tirocinio e/o formazione, 4.000 permessi di soggiorno per lavoro stagionale, 1.000 permessi di soggiorno CE per soggiorni di lungo periodo rilasciati a cittadini di Paesi terzi da altro Stato membro dell’Unione europea, e 500 quote per la conversione in lavoro autonomo dei permessi CE rilasciati da altri Stati membri; 4.000 ingressi riservati agli stranieri che hanno completato programmi di formazione e di istruzione nei Paesi di origine ai sensi dell’art. 23 del TULI e 500 ingressi per motivi di lavoro subordinato stagionale o di lavoro autonomo riservati a lavoratori di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea retta di ascendenza residenti in Argentina, Uruguay, Venezuela e Brasile.
Per il 2010 inoltre, contrariamente a quanto avvenuto nel 2008, le quote verranno ripartire a livello territoriale soltanto al termine della presentazione delle domande in considerazione delle effettive richieste giunte. Questo, spiegano i tecnici, anche per tener conto delle richieste delle Province autonome di Trento e Bolzano e di altri di limitare i nuovi ingressi o di tener conto dell’effettiva domanda di lavoro.



Click day, la lotteria dell'immigrato

Gazzetta di Modena, 03-01-2011
A Modena in migliaia pronti a concorrere per uno dei 100mila permessi
C'è chi l'ha già soprannominato «la lotteria degli immigrati»: è il "click day", la fase operativa del nuovo decreto flussi riservato agli stranieri che vogliono ottenere un permesso di soggiorno per poter arrivare in Italia a lavorare. E' la riproposizione di una formula andata in scena tre anni fa, non senza problemi visto che tutto verrà effettuato con domande inviate solo via internet. A Modena patronati ed enti di assistenza si stanno già preparando ad accogliere il nuovo assalto da parte di datori di lavoro che chiederanno di poter far arrivare a Modena personale da fuori confine. Nella maggioranza dei casi, come accaduto in passato, si tratterà soprattutto di regolarizzazioni di persone che già fisicamente si trovano in Italia, magari senza permesso. Il provvedimento che autorizza gli ingressi di stranieri in Italia sarà ufficialmente in vigore dal momento del "click day", che si svolgerà secondo quanto comunicato a febbraio - si ipotizza nei primi giorni 10 giorni del mese - attraverso la procedura informatica sperimentata con gli ultimi due decreti flussi (2007 e 2008). Ciò significa che vincerà chi sarà più veloce: le prime 100mila domande che inviate al Viminale riceveranno permessi di soggiorno, in base all'orario di arrivo. Come per il decreto stabilito per il 2007, dunque, la modalità per entrare nella graduatoria degli ingressi sarà quella della procedura telematica attraverso il click day. Insomma una gara di velocità e di fortuna poichè verranno esaminate in ordine cronologico di arrivo le prime 100mila domande di ingresso. Sarà quindi fondamentale l'orario di arrivo della domanda e sarà importante anche il millesimo di secondo. Nella precedente occasione a Modena le domande presentate furono oltre 5mila. Ovviamente molti di meno quelli che riuscirono effettivamente ad avere il permesso. Le domande dovranno essere presentate dai datori di lavoro, che potranno usare il decreto per regolarizzare lavoratori e lavoratrici attualmente impiegati in nero. Così facendo, un lavoratore su cinque otterrà il permesso: secondo le stime aggiornate dell'Ismu, infatti, gli immigrati irregolari
in Italia sono 544mila nel 2010, in calo di 16mila unità rispetto al 2009. Per quanto riguarda i numeri si calcola che poco più della metà delle assunzioni (53mila) spetterà a egiziani, marocchini, albanesi, filippini e moldavi, cioè stranieri provenienti da uno dei 14 stati a forte pressione migratoria che da Africa, Asia ed Europa dell'Est giungono in Italia, secondo accordi di cooperazione. Nell'ultima edizione del decreto flussi la lista dei paesi privilegiati comprendeva Albania, Algeria, Ghana, Marocco, Moldavia, Bangladesh, Egitto, Filippine, Somalia, Nigeria, Senegal, Pakistan, Sri Lanka e Tunisia. Il resto delle assunzioni sarà ripartita tra le assistenti familiari, colf e badanti e permesso di soggiorno per studio.



Flussi 2010: rimpatrio volontario senza divieto di ritorno secondo la direttiva europea 2008/115/CE, possibile salvacondotto per gli immigrati irregolari a rischio di espulsione.

ImmigrazioneOggi, 03-01-2011
Studi legali impegnati a valutare la situazione di stranieri irregolari che potrebbero chiedere il rimpatrio volontario, evitare l’espulsione con il divieto di ritorno ed ottenere il visto d’ingresso nell’ambito delle quote flussi 2010.
È noto che buona parte dei lavoratori stranieri, richiesti dai datori di lavoro con nulla osta rilasciato nell’ambito delle quote d’ingresso, in realtà già si trova in Italia in condizione di irregolarità. Perciò, se il datore di lavoro avrà la fortuna di spuntare una quota, quel lavoratore dovrà comunque lasciare l’Italia e recarsi presso la sezione consolare dell’ambasciata italiana nel suo paese per ritirare il visto. Durante il periodo di attesa della definizione del procedimento da parte dello sportello unico e spesso proprio al momento della partenza è elevato il rischio di incorrere in un controllo, con conseguente espulsione e divieto di ritorno; provvedimenti questi che sono ostativi al rilascio del visto e che quindi vanificano il nulla osta all’assunzione.
Oggi un possibile rimedio sembra indicato dalla direttiva 2008/115/CE che l’Italia non ha ancora recepito; ciò nonostante, in alcune parti è direttamente applicabile tanto dai giudici quanto dalla Pubblica amministrazione. In particolare, la procedura ordinaria di allontanamento degli irregolari che, secondo l’articolo 7 della direttiva, ora prevede il rimpatrio volontario in luogo dell’accompagnamento coattivo alla frontiera, immediato o previo trattenimento nei CIE. La misura coercitiva è perciò eccezione, possibile solo “se sussiste il rischio di fuga o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale”. L’articolo 11 della direttiva – e qui sta il punto – nei casi di rimpatrio volontario non prevede la sanzione del divieto di reingresso, purché lo straniero lasci il territorio nazionale entro il periodo stabilito. Di conseguenza, nonostante il rimpatrio ed avendone i requisiti, potrà ottenere un visto d’ingresso e rientrare in Italia regolarmente.
Proprio su questa novità puntano gli studi legali per valutare l’opportunità di far presentare spontaneamente in questura gli assistiti – che dispongono di un datore di lavoro interessato a regolarizzare il lavoratore mediante il decreto flussi 2010 – per chiedere il rimpatrio volontario (dimostrando così l’assenza del pericolo di fuga) e scongiurare una possibile espulsione con l’accompagnamento ed il divieto di ritorno. Da quanto è dato sapere un primo caso si sarebbe già presentato in Sicilia, destando l’imbarazzo degli agenti incerti sulla possibilità di accogliere o meno una richiesta del genere visto che fino a quel momento nessuno si era mai sognato di “costituirsi” per essere espulso.



Torino dice si alla moschea  e ora è scontro con la Lega

"Rischiamo attentati come in Egitto, l'Islam moderato non esiste". Pronto il ricorso al Tar. Il nuovo centro religioso potrà accogliere settecento fedeli Ma niente minareto
la Repubblica, 03-01-2011
FEDERICA CRAVERO
Una vera e propria moschea, senza minareto, ma in grado di accogliere fino a settecento fedeli in un luogo dignitoso per pregare. A Torino è stato appena dato il via libera alla costruzione di un grande luogo di culto per far uscire i musulmani dagli scantinati e dai garage abusivi sorti negli ultimi anni. E già la Lega Nord ha dichiarato guerra. "Temiamo che Torino diventi un'altra Alessandria d'Egitto - tuona il deputato della Lega Nord Stefano Allasia tirando in ballo la strage di Capodanno contro la minoranza copta - Islam e terrorismo non sempre coincidono, ma nessuno ci può garantire che nella nuova moschea non ci sarà qualcuno pronto ad emulare le gesta di Alessandria. Nel nostro paese la libertà di religione e di culto è tutelata, ma deve esserlo anche la libertà di ogni singolo cittadino di poter vivere non nella paura. Il sospetto che nella nuova moschea non si pregherà soltanto, senza dubbio c'è". E Mario Carossa, capogruppo del Carroccio in consiglio regionale, rincara la dose: "Non credo a un Islam moderato. Nel resto del mondo i cristiani vengono ammazzati proprio dai seguaci di Allah".
Dichiarazioni forti, che indignano sia i musulmani torinesi, sia l'amministrazione comunale, che nel corso dell'ultimo anno ha seguito l'iter burocratico per la ristrutturazione del nuovo centro religioso. "In decenni di presenza islamica a Torino - attacca l'assessore comunale all'Integrazione, Ilda Curti - non ci sono giunte segnalazioni da parte dell'intelligence di infiltrazioni terroristiche. Ai sospetti della Lega rispondo con le parole del Papa sulla strage in Egitto e dico che bisogna affrontare la violenza intensificando il dialogo. Per il resto, i centri islamici sono associazioni private che affittano da privati: se c'è un problema di ordine pubblico è il questore che interviene, altrimenti il Comune non deve interferire".
La Lega Nord da tempo dà battaglia al centro religioso di via Urbino, contro cui ha annunciato anche ricorso al Tar per presunte irregolarità nella concessione edilizia. "Vogliamo chiarezza sulla provenienza dei finanziamenti per il nuovo edificio - chiede Allasia - Temiamo l'ingresso di qualche manovratore occulto dal mondo arabo: già stanno cercando di uccidere la cristianità, che almeno non islamizzino il Paese". In realtà i lavori di ristrutturazione, circa un milione di euro, sono stati interamente sostenuti dal governo del Marocco. "C'è un bonifico eseguito dal ministero degli Affari religiosi", precisano dall'associazione La palma, che gestirà il centro islamico.
Ma la Lega non si arrende e rilancia l'allarme terrorismo: "Chiediamo che le celebrazioni siano fatte in lingua italiana - rincara Allasia - Le intercettazioni ambientali che in altre città sono state effettuate nei luoghi di culto islamici, infatti, gettano un'ombra di preoccupazione e sospetto sui messaggi che vengono lanciati durante i sermoni. E noi siamo dell'idea che sia meglio prevenire che correre ai ripari".
Insinuazioni respinte al mittente. "Già oggi - replicano dall'associazione La palma - le celebrazioni vengono tradotte in italiano, che è anche la lingua ufficiale della nostra associazione, per venire incontro ai musulmani della seconda generazione e a quelli provenienti da Paesi non arabi".
I vertici locali della Lega Nord avrebbero voluto sondare con un referendum il parere dei cittadini sulla moschea. Ma i comitati spontanei di residenti hanno già superato questa posizione e si sono detti interessati a un protocollo d'intesa con forze dell'ordine e prefetto sul tema della sicurezza.



«Islam moderato? Un'invenzione Con i luoghi di culto ci invadono»

Carossa, Lega Nord: ci batteremo fino all'ultimo contro la moschea di Torino
Il Mattino, 03-01-2011
Chiara Graziani
«NÉ QUESTA né un'altra moschea, a Torino». Mario Carossa, Lega Nord piemontese, capogruppo in consiglio regionale della regione Piemonte espugnata sul filo di lana al centrosinistra, lo riassumi in una riga.
Le immagini dall'Egitto, la strage dei cristiani nella notte di Capodanno, gli danno modo di aggiungere: «L'Islam moderato non esiste. E noi non accettiamo di cedere all'Islam un altro spazio della città. Con tutti i mezzi. Democratici, ovviamente. Noi, a differenza di loro, vìviamo in una democrazia».
Il comune di Torino, si apprende, concede ad un rappresentante dell'Unione musulmani d'Italia il permesso di aprire un luogo di culto con centro culturale annesso. E la Lega, a colpi di ricorsi al Tar, si butta nell'ennesima mìschia contro il nemico straniero: nella fattispecie musulmano, più precisamente marocchino e musulmano. «È il loro governo che paga per la moschea di Torino - dice Carossa - è chiaro che non sarà neppure un luogo aperto a tutti ma solo ai loro connazionali. E ce la volevano spacciare come la soluzione alle moschee abusive...» Da qualche parte bisognerà pregare. Chiunque si voglia pregare. «Si vede che lei non abita in un quartiere a stretto contatto con gli islamici». Perchè?
«Perchè là ci sono una serie di problemi e gravi. E la moschea, dicono per 800 persone, verrebbe aperta in una zona già piena di problemi. E, tral'altro, con le vie strettissime...».
E se le vie fossero più larghe? Magari in un'altra zona? Accettereste la moschea?
«Noi contestiamo il via libera alla moschea nel metodo ma anche nel merito. Nel metodo perchè si è voluto evitare il passaggio in consiglio comunale mentre invece occorreva mettere mano al piano regolatore. Nel merito perchè l'Islam è una realtà aggressiva che si ripropone di occupare l'Europa. Senza eccezioni fra islamico moderato o radicale. Davanti a noi fanno vedere la faccia moderata, si vestono in giacca e cravatta, lo abbiamo visto durante un sopralluogo. Il signore con il barbone, vestito all'orientale, però, lo tengono nascosto».
Anche la barba sarà una scelta. Ma non avete provato a incontrare rappresentanti della comunità, a guardarvi negli occhi, trovare soluzioni? Lei vanta sul suo sito il suo impegno nel volontariato. «Certo che ci abbiamo provato, è sempre interessante guardarsi negli occhi. Ma ci raccontavano la loro storia che loro erano i moderati, quelli trasparenti. E io ho detto molto chiaramente: non vi credo». Quindi nessuna moschea. «Noi non siamo pronti a ricevere loro, loro non sono pronti per convivere con noi. È legittimo che facciano partire i lavori. Hanno i permessi. Ma noi ci batteremo in tutti modi perchè siano fermati».
È quello che i cristiani subiscono nei paesi musulmani. Niente chiese e niente preghiera. È giusto? «No, guardi, non è la stessa cosa, il paragone non si può fare. I cristiani sono perseguitati. Ma, ripeto, provi ad abitare vicino a loro e poi vedrà...».



Il sindaco Chiamparino: "È una battaglia di civiltà, pregare senza nascondersi è un diritto"
"Dal Carroccio solo sciocchezze così noi batteremo il terrorismo"
la Repubblica, 03-01-2011
SARA STRIPPOLI
TORINO — «La Lega dice stupidaggini. Non ne sono affatto stupito ma la nuova Moschea è un battaglia di civiltà, le persone hanno diritto di esprimere la loro fede senza nascondersi. Ammesso che esista qualche pericolo di vicinanza con il terrorismo, è molto più facile il controllo in una moschea regolare piuttosto che in locali abusivi». Da Marrakech, dove è in vacanza per qualche giorno, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino critica gli accostamenti del Carroccio fra l'attentato di Capodanno in Egitto e il rischio sicurezza a Torino: «Pura propaganda».
Sindaco, la Lega prima annuncia un ricorso al Tar, e dopo i fatti in Egitto parla di diritto dei cittadini alla libertà di vivere in una città sicura. Tutto previsto?
«Me lo aspettavo. La strage di Alessandria offre un'ulteriore sponda, ma sono sciocchezze. Se anche il rischio fosse reale, la valutazione dovrebbe essere opposta, i pericoli di infiltrazioni di terroristi diminuiscono in un luogo di culto realizzato con finanziamenti trasparenti che arrivano dal governo del Marocco attraverso canali diplomatici ufficiali. Per quanto riguarda il ricorso amministrativo, facciano pure. Abbiamo seguito un percorso che è durato un anno. Con la massima attenzione, vista la delicatezza del problema».
In fase di progetto lei aveva scritto una lettera al ministro degli esteri Frattini e degli interni Maroni. Qualche perplessità da parte loro?
«Frattini mi aveva risposto positivamente sottolineando che il nostro progetto andava nella direzione di favorire l'Islam moderato. E invito la Lega a ricordare che si tratta di un ministro del governo di centrodestra. Quanto a Maroni, non mi ha mai risposto e quindi devo ritenere che il suo sia un silenzio-assenso. Forse adesso dirà di non aver mai visto la mia lettera ma io ho voluto informarlo proprio per avere il suo parere. Se il ministro dell'Interno, da persona seria e responsabile qual è, avesse ritenuto che esistevano dei rischi me lo avrebbe fatto sapere».
La collaborazione con le associazioni islamiche per la realizzazione di questo progetto può essere considerato un ulteriore esempio del "modello Torino?».
«Direi di sì e aggiungo che questo modello ha funzionato. Abbiamo riscontrato molta disponibilità da parte delle associazioni e per rispetto hanno rinunciato ad erigere un minareto. Collaboriamo poi con i comitati di cittadini che si preoccupano di aspetti concreti e sicurezza come telecamere e traffico. La Lega finora ha fallito nel tentativo di screditare questo modello e cerca un nuovo appiglio».
I rappresentanti del Carroccio sostengono che le moschee abusive non scompariranno. È possibile che accada?
«Non lo penso proprio, e per il momento chiude quella storie; abusiva, la più grande. La Lega sot tovaluta l'intelligenza dei cittadini e se in questo modo pensa di con quistare un voto ne perderà due»



«Napoli è un esempio di convivenza la città ci rispetta senza diffidenze»

Gentile, imam di piazza Mercato: ci serve solo uno spazio più grande dove poter riunirci a pregare
Il Mattino, 03-01-2011
Elena Romanazzi
«Siamo liberi di pregare ma non abbiamo le moschee». Jasin Gentile Agostino, imam della moschea di piazza Mercato dal 2004 precisa che a Napoli l'integrazione con i cristiani è reale. «Non abbiamo problemi se non quelli legati al lavoro e alla crisi, il nostro essere musulmani in città viene rispettato si può dire da sempre».
Si può parlare dunque di piena integrazione?
«Dal '97 esiste la moschea a piazza Mercato e il rapporto con il nostro vicinato è sempre stato di grande rispetto. Eppure qualche problema il venerdì lo creiamo. Non ci sono mai state grandi polemiche e non abbiamo mai avuto la sensazione che fosse in atto una caccia ai musulmani. C'è rispetto ma manca qualcosa». A cosa fa riferimento? «Alle moschee, abbiamo bisogno di un luogo più grande per pregare». In Egitto per costruire una chiesa occorre un decreto presidenziale. Alla vostra comunità è stata negata una nuova moschea?
«No, ma i lavori vanno a rilento e certo l'attuale luogo di culto non può ospitare tutti i musulmani presenti in città. Stiamo parlando di circa tremila persone che attualmente pregano in situazioni di grande disagio in un luogo sporco e pieno di ratti. Il rispetto religioso è importante ma da solo non basta le istituzioni devono comunque adoperarsi affinchè chi abbraccia l'Islam possa pregare in luoghi adeguati».
Come valuta l'attentato ai cristiani d;Egitto?
«È una vergogna ciò che è accaduto. Ero in chiesa quando ho appreso la notizia a pregare con un parroco e un rabbino. Questo non è l'Islam. La pace è per noi un obiettivo prioritario. Noi non siamo terroristi questo deve essere chiaro e va spiegato soprattutto ai giovani».
Pensa alla scuola?
«Non ho intenzione di sollevare polveroni sull'ora di religione nelle scuole. Ma sarebbe opportuno dare agli studenti la possibilità di conoscere la vera storia dell'Islam e le idee dei musulmani. La nostra è una religione che abbraccia un miliardo e mezzo di persone ed è indispensabile che ci sia una corretta informazione. L'Islam non può certo essere ignorato e non può essere rappresentato in maniera negativa».
In questi giorni quanto ha influito nel vostro vivere comune l'attentato ad Alessandria?
«Non siamo stati insultati da nessuno. Forse perchè siamo musulmani italiani. In generale neanche in momenti storici ben più difficili, nessuno può dimenticare l'attacco alle Torri Gemelle, siamo stati oggetto di aggressioni. C'è sempre stato un dialogo civile. Le
criticità sono altre».
Quali?
«La maggior parte dei musulmani che sono in città sono venuti in Italia per lavorare. L'integrazione diventa difficile solo quando c'è la fame. Ed è su questo aspetto che occorre una seria ed ampia riflessione che non può e non deve riguardare solo l'Islam».



Non lasciamo che la crisi ci imbarbarisca

La Stampa, 03-01-2011
RACHIDA DATI
La marea populista che sale in Europa ci deve preoccupare. Crisi economica, immigrazione clandestina e ritorno del terrorismo hanno attizzato la paura: estremisti di ogni genere guadagnano terreno inmolti Paesi europeinostri vicini.
L’Europa dovrebbe essere realistica sul tema immigrazione, ne ha bisogno e continuerà ad averne bisogno. La Francia è sempre stata terra di accoglienza, in particolare per chi si èbattutoinguerraal fianco dei nostri soldati e per coloro che hanno contribuito alla ricostruzione della Francia e alla prosperità delle sue industrie.
Oggi si dovrebbe ripensare l’immigrazione in maniera pacata, e dovremmo mettere in opera una politica efficace di integrazione.
La politica dell’integrazione riguarda tutti. Di fronte alla paure e alla sensazione d’ingiustizia generate - legittimamente - dalla crisi, dobbiamo più che mai resistere alla tentazione di ripiegarci su noi stesi e rigettare l’altro. Anche perché, troppo spesso, sbagliamo avversario.
Per esempio, quando vengono presi a bersaglio i nostri compatrioti di cultura e confessione islamiche, bisogna chiaramente distinguere l’infima minoranza di persone che utilizzano l’islam per giustificare pratiche contrarie alle credenze pacifiche della grande maggioranza dei musulmani e per sfidare i valori della Repubblica. Non si può ignorare che la maggioranza silenziosa dei musulmani è la prima vittima delle azioni della minoranza integralista.
Come non inquietarsi per una situazione come quella di Malmoe in Svezia, dove da un anno un assassino sconosciuto prende di mira gli immigrati? E che dire di un recente sondaggio della fondazione tedesca FriedrichEbert da cui il 58% delle persone ascoltate risulta favorevole alla limitazione delle «pratiche religiose musulmane»?
Sì, l’integrazione riguarda tutti, e noi abbiamo la responsabilità morale di agire per smorzare i risentimenti ed evitare sia gli eccessi dei partigiani dell’immigrazione zero sia di quelli della regolarizzazione di massa. In Francia si parla continuamente di immigrazione, si ama dibatterne, spesso per sottolineare soltanto i fallimenti. Per troppo tempo in materia di integrazione ci siamo appiattiti su meccanismi di integrazione stereotipati, quali che siano le origini degli immigrati che sono qui da molti anni; e quanto ai loro figli, recenti ricerche mostrano che il sistema educativo è diventato via via meno capace di integrazione.
L’abbassamento dei requisiti scolastici avrebbe dovuto ridurre le ineguaglianze sociali; così non è stato, ridurre gli standard non ha favorito la mobilità sociale auspicata. Nel 2009 un rapporto della Corte dei conti di Parigi ha dimostrato l’inefficacia di questo sistema nel ridurre le diseguaglianze, anzi il rischio della ghettizzazione etnica e sociale è risultato accentuato. Così ha constatato anche l’Alto consiglio per l’integrazione (Hci). Citerò un solo esempio, la messa in opera dei programmi di conoscenza delle culture d’origine. Questi programmi sono stati sviluppati negli Anni 80 per facilitare i legami con i «Paesi d’origine». Ma ha ancora senso, per i bambini di terza o quarta generazione, che in genere sono di nazionalità francese, trovarsi davanti degli insegnanti «della cultura d’origine» che, da parte loro, conoscono poco il nostro Paese? È dal 1991 che l’Alto consiglio per l’integrazione chiede di sopprimere questi corsi, e invece sempre più allievi li frequentano, e così non sanno più se sono francesi. Ci vuole il coraggio politico di finirla.
A scuola un altro freno all’integrazione è la concentrazione di una stessa popolazione, con le medesime difficoltà, negli stessi quartieri e quindi negli stessi istituti scolastici. Nelle nostre città bisogna imporre una politica volontarista di mescolanza sociale, fatta in maniera intelligente e non puramente aritmetica.
Perché non incoraggiare le famiglie a cambiare luogo di abitazione attraverso un dispositivo di incentivazione? Perché non lavorare con le municipalità per la messa in opera di una politica di abitazione sociale capillare, fatta immobile per immobile, e non più solamente quartiere per quartiere? È una politica da inventare, che non si può ridurre all’attuale legge Dalo - «Droit au logement opposable» - criticata oggi persino da chi l’aveva proposta, perché ha intensificato l’effetto-ghetto.
Allora, smettiamo di sognare l’«integrazione», è più che mai tempo di mettersi all’opera concretamente perché non passa solo attraverso la scuola ma anche attraverso l’inserimento sociale e professionale. Accogliere dei giovani nella sfera professionale significa integrarli.
Aiutiamo quelli che possono a fare degli studi superiori in un ambiente sereno, ma soprattutto non abbandoniamo mai ai bordi della strada i giovani che sono in difficoltà o che non se la sentono più di proseguire lunghi studi. A questo scopo bisogna assolutamente valorizzare la filiera professionale. Perché si sa, l’apprendimento di un mestiere è la maniera per integrare generazioni di donne e di uomini. Appartenere alla classe operaia dava fierezza, conferiva status! Non confondiamo eccellenza ed elitarismo!
Per questo dovremmo forse avviare misure di discriminazione positiva, cioè azioni provvisorie che conducano all’eguaglianza reale? Non deve essere più un tabù. Se tali misure favoriscono l’integrazione, perché escluderle in maniera dogmatica? Ma attenzione, non bisogna spingere la discriminazione positiva all’eccesso. Detto altrimenti, una spintarella sì, un assistenzialismo controproducente no.
Quando Nicolas Sarkozy in campagna elettorale diceva «tutto diventa possibile» molti giovani francesi, venuti dagli orizzonti più diversi, hanno creduto al suo messaggio. Questi giovani dovrebbero ancora poter credere che in Francia nulla è mai perduto. A noi dimostrarlo!



Immigrati imprenditori In Lombardia 50mila, il record degli egiziani poi cinesi e marocchini

il Giornale, 03-01-2011
Aumentano ancora le imprese individuali guidate da cittadini extracomunitari, con i marocchini e i cinesi a trainare la crescita. E quasi una su cinque è in Lombardia.
Nei primi nove mesi del 2010 - secondo i dati di Infocamere, la società informatica delle Camere di commercio - le aziende con titolare straniero sono salite a quota 262.934, con un +4,5% rispetto alla fine dell’anno scorso (251.562). Nello stesso periodo, invece, tutte le imprese individuali in Italia si sono ridotte di 2.287 unità. Gli imprenditori stranieri rappresentano il 7,8% del totale (3.373.513), il settore principale di attività è il commercio e il 18,4% è concentrato in Lombardia. E per un’impresa su cinque (il 20,1%) il titolare è una donna: nei primi nove mesi dell’anno scorso, le aziende al femminile hanno superato quota 50mila (52.932), con un incremento del 6,5%. I più numerosi tra gli imprenditori extracomunitari sono i marocchini, una delle comunità da più tempo in Italia: sono 49.958 (+4%) e le regioni in cui sono più presenti sono il Piemonte (6.840) e la Lombardia (6.673). Subito dopo ci sono i cinesi, in totale 36.788 (+6,3%), diffusi su tutto il territorio e soprattutto in Toscana (8.086) e Lombardia (6.702). Rilevante, secondo i dati di Infocamere, anche il numero di imprese individuali albanesi (28.330), di cui 5.484 solo in Toscana. A seguire ci sono gli svizzeri (16.586, soprattutto in Puglia e Campania), i senegalesi (13.849, con una significativa presenza di 1.598 imprenditori in Sardegna), i tunisini (11.348, la maggior parte in Emilia-Romagna), gli egiziani (10.881, concentrati in Lombardia) e i cittadini del Bangladesh (10.842, di cui quasi la metà nel Lazio). Il settore in cui gli stranieri sono più attivi è il commercio. Altri comparti di rilievo sono le costruzioni con 70.050 aziende (il 12,6% del totale), le attività manifatturiere con 25.614 imprese (il 9,7%), i servizi di ristorazione con 11.692 operatori (il 6,9%) e quelli di noleggio con 9.873 (il 14,1%). Le aziende guidate da extracomunitari sono diffuse su tutto il territorio, ma tra le regioni il primato per la maggiore presenza spetta alla Lombardia: le imprese sono 48.346 e gli egiziani sono la comunità più numerosa (7.096). A seguire c’è la Toscana con 28.098 aziende, la maggior parte cinesi (8.086), e l’Emilia-Romagna con 26.151 unità, di cui 4.360 albanesi (il gruppo più significativo).



Ma cosa fanno i cinesi in Italia?

L'espresso, 03-01-2010
Federica Bianchi
Non solo ristoranti e negozi di chincaglieria: gli immigrati dalla Repubblica popolare adesso fanno anche gli studenti, i professionisti e soprattutto gli imprenditori. Rompendo l'antico isolamento delle loro comunità
Non ci sono "estranei" in giro, non ci sono negozi di souvenir e nemmeno palloncini rossi appesi agli stipiti dei ristoranti. Quella di Prato non è una Chinatown per turisti: è un pezzo del sud della Cina trapiantato in un lembo di Toscana.
In piazza, sulla vetrina di un piccolo supermercato, è appeso un grande monitor blu su cui scorrono, in cinese, offerte di lavoro: operai, segretarie, commesse, modiste. Una moltitudine di giovani stretti in giacchette nere di finta pelle attende con ansia lo svolgersi del rotolo elettronico, poi su un pezzettino di carta bianca si appunta un numero di telefono.
Sono le prossime reclute del pronto moda più economico e più efficiente del Vecchio continente: 3.400 aziende, 40mila addetti regolari e clandestini, due miliardi di giro d'affari. Qui, tra via Pistoiese e via Filzi, gli abitanti hanno gli occhi a mandorla davanti e dietro i banconi dei negozi, i supermercati vendono cavolo bianco e zenzero, e i parrucchieri tagliano i capelli ai bambini lasciandogli un codino sulla nuca. Queste vie sono per i pratesi i primi gironi dell'Inferno e per molti italiani la dimostrazione che ben lontana dall'integrarsi la popolazione cinese in Italia, rinchiusa nelle sue fortezze autosufficienti, minaccia di sfilarci il Paese dalle mani, un distretto alla volta.
Eppure a guardare oltre pregiudizi e titoli di giornale, a sbirciare nei negozi all'ingrosso di piazza Vittorio a Roma, a fare un giro tra le università di economia ed ingegneria di Milano, e a passeggiare tra le boutique del centro storico di Firenze si colgono i primi segnali che qualcosa sta cambiando: i cinesi residenti in Italia iniziano ad integrarsi. Un po' per voglia. Un po' per forza. E siccome l'Italia non è la California, di cinesi che parlano l'italiano meglio del mandarino ancora non vi è traccia. Ma è solo una questione di tempo.
Cominciano ad esserci persone come la quarantaduenne Hongyu Lin, assessore all'integrazione di Campi Bisanzio, un piccolo comune alla periferia di Firenze che aveva preceduto Prato nell'essere definita la Chinatown d'Italia: "Io sono la speranza che i cinesi possano accedere anche al quadro istituzionale italiano e sentirsi italiani a tutti gli effetti". Lei è arrivata in Italia appena laureata all'indomani del massacro di Piazza Tiananmen nel 1989, in cerca di un paese dove coniugare opportunità economiche a libertà democratiche. Passata per il Trentino dove il marito era stato assunto da un'azienda informatica durante gli anni del boom, ha trovato in Toscana una seconda patria. Oggi nella giunta del sindaco Adriano Chini (Pd) si batte affinché i cinesi rispettino le leggi e i costumi locali e gli italiani si accorgano dell'immensa opportunità offerta dalle seconde generazioni di asiatici. "L'intolleranza dei cittadini italiani verso i cinesi nasce dal mancato rispetto delle regole", racconta: "Ma glielo hanno insegnato gli italiani stessi a forza di assumere lavoratori in nero e a non stipulare mai un contratto di affitto. Così finisce che l'unica regola che gli immigrati imparano velocemente è quella di non pagare le tasse".
Negli ultimi anni il rapporto tra italiani e cinesi si è talmente incrinato da culminare nell'aprile del 2007 nella prima rivolta etnica della storia del Paese (contro le limitazioni imposte al commercio cinese dal comune di Milano) e, successivamente nel 2009, nella scelta (speculare) di un sindaco di destra a Prato, dopo 63 anni di giunte rosse. Ad alimentare il risentimento sono soprattutto due fattori.
Innanzitutto il successo economico raggiunto dalle comunità cinesi che hanno sfruttato non solo il fiuto imprenditoriale ma anche gli anelli deboli del nostro sistema economico - dall'evasione fiscale all'impiego di manodopera in nero. E poi l'autoreferenzialità delle comunità, in grado di aiutare i propri membri sotto ogni aspetto, dal sostegno economico a quello legale, rendendo inutile per i nuovi arrivati imparare perfino la lingua italiana. Se questa vecchia tendenza a rimanere nella propria enclave etnica era una caratteristica apprezzata dagli italiani quando i cinesi erano numericamente inferiori ed economicamente più deboli, ora che il loro status sale mentre quello dell'italiano medio scende, crea sospetti, pregiudizi e ritorsioni.



Immigrati, tutto ciò che si deve sapere sui cibi che arrivano alla nostra tavola

la Repubblica, 02-01-2011
GIULIA CERINO
Dietro al marchio made in Italy, si nasconde il lavoro di tante braccia di arabi, rumeni, algerini, tunisini e nigeriani che con il loro lavoro sottopagato permettono di esportare 206 mila tonnellate di pomodoro doppio concentrato (il 50 per cento della produzione totale dell'Unione Europea) pari a 240 milioni di euro. Tutti nelle casse di casa nostra
Immigrati, tutto ciò che si deve sapere sui cibi che arrivano alla nostra tavola
ROMA - Nel carrello della spesa, al supermercato, uno ci mette le arance le clementine calabresi, i pachino di Licata, tre quattro pomodori tardivi di San Gervasio, patate a un euro al chilo, raccolte vicino San Nicola Varco dove la verdura è buona davvero, qualche kiwi di Rizziconi (anche se fuori stagione) e una bottiglia di vino d'Alcamo, dal colore paglierino. Uno dei primi vini siciliani ad ottenere nel 1972 il marchio Doc. Come i pachino e le angurie pugliesi, come le arance e le clementine. Si tratta di specialità tipicamente italiane, con un particolare trascurato troppo spesso: se non fosse per gli stranieri, noi non ne berremmo, non ne mangeremmo neanche con la fantasia.
Dietro le etichette. Il marchio made in Italy, nasconde infatti il lavoro di tante braccia (in tempo di raccolta) e di piedi (in tempo di vendemmia) di arabi, rumeni, algerini, tunisini e nigeriani. Cittadini stranieri che spesso non parlano neanche una parola della nostra lingua, ma che con il loro lavoro da 30 euro al giorno, permettono di esportare 206 mila tonnellate di pomodoro doppio concentrato (il 50 per cento della produzione totale dell'Unione Europea) pari a 240 milioni di euro. Tutti nelle casse di casa nostra.
Tutto ciò che non si sa. A farelo sapere sono Antonello Mangano e Laura Galesi i quali, per manifestolibri, hanno pubblicato Voi li chiamate clandestini, un libro-inchiesta da Castel Volturno a Foggia, da Rosarno a Cassibile. Un viaggio nelle campagne degli stagionali
per scoprire quanto poco l'Italia sa sulla produzione di pomodori, vino doc, arance e ortaggi "tipicamente italiani". Partiamo dalla Sicilia. Qui le serre si estendono dalla campagna al mare, da Pachino a Vittoria fino a Licata e servono per consegnare sulle nostre tavole ortaggi e frutta in ogni periodo dell'anno. Le prime rudimentali serre di pomodorini le costruirono i contadini del ragusano, coprendo le piantine con le pale dei fichi d'India. Volevano sfruttare la rossa e fertilissima terra tra Siracusa, Ragusa e Caltanissetta. Cercarono manodopera a basso costo, qualche giovane dalle braccia possenti. E, cercando cercando, trovarono i rumeni e i tunisimi, pronti a proteggere per un pugno di euro le serre siciliane affiancando gli agricoltori locali.
Oggi gli italiani sono tutti "capi". Nelle serre invece sono rimasti solo gli stranieri. Lavorano da Linea verde o nella Cooperativa Primavera. Confezionano il grappolo del pomodoro a Siracusa. Su 12 mila migranti, 2500 circa sono di origine rumena e 8 mila sono impiegati nelle campagne. Le donne si concentrano a Vittoria, che stando alla definizione data da Wikipedia, è "nu comune 'e 54320 crestiane d'a pruvincia 'e Ragusa". Anche grazie a loro, negli ultimi 60 anni la produzione italiana di mandarini, clementine e uva da tavola è cresciuta di oltre 11 volte per. Di 8 volte per mele e albicocche, di oltre 7 per pesche e pomodori, di 5 volte e mezzo per le arance, di quasi 5 per le nocciole e i sedani e di oltre 4 per le pere e i fagioli. E insieme alla produzione è aumentato anche il consumo. Di vino, per esempio. Riprendiamo il Bianco d'Alcamo, prodotto tra Trapani e Palermo nella valle del Belice un tempo terra di arabi e normanni. Di questo vino si ha notizia già nel 1549, quando uno dei sommelier della Santa Sede lo inserì tra i vini più pregiati del tempo. A partire dal 1800 la sua notorietà si diffonde oltre i confini regionali.
Un vino noto anche in Australia. Quello d'Alcamo, lo sanno anche in Australia, è un pregiato vino tipicamente siciliano. E l'uva, in effetti, viene proprio dalla Sicilia. La produzione però avviene grazie alla vendemmia novembrina basata  -  sorpresa  -  sul lavoro degli arabi. Ma non quelli che Alcamo la fondarono nel 972. No. Dagli arabi irregolari, arrivati per una stagione e pronti ad andarsene di nuovo. Pronti a emigrare verso la Calabria per raccogliere le arance a dicembre e di nuovo verso la Puglia a maggio, in attesa delle angurie. Ma questo la signora Maria non lo sa.
Passiamo alle patate. In Italia si coltivano soprattutto a Cassibile. Ogni anno in primavera, tra aprile e giugno, centinaia di migranti raggiungono il comune siracusano. Nel 2008 la produzione italiana di patate è salita, nonostante la flessione delle superfici investite, a circa 2 milioni di tonnellate pari al 10 per cento in più rispetto al raccolto del 2007. Il merito di tale abbondanza è da attribuire alle condizioni meteorologiche favorevoli. Ma non solo. Il merito va ai braccianti che spesso vengono chiamati clandestini, appunto. Secondo le stime della Cgil sono circa un milione i lavoratori irregolari in agricoltura e rappresentano un quarto dell'economia informale. "Negli elenchi anagrafici dell'Inps per il 2007  -  spiega Salvatore Lo Balbo segretario nazionale Flai Cgil - i lavoratori comunitari iscritti erano 980 mila, di questi 60 mila non sono italiani ma europei, gli extracomunitari sono 81 mila". Ottantunomila braccianti. Ma in molti, davanti a una buona bottiglia di vino dal sapore mediterraneo e dal colore verdognolo, non lo immaginano neppure. Bisognerebbe ricordarlo.
La proposta di un giovane nigeriano. La proposta arriva da una riunione sindacale durante la quale un giovane nigeriano nel suo intervento suggeriva di mettere sull'etichetta dei prodotti agricoli i nomi e i cognomi dei lavoratori che hanno contribuito alla produzione di quel frutto, quella verdura, di quel vino e di quel pane. Si tratterebe di porre sul retro del prodotto doc una sorta di carta d'identità di tutti i protagonisti della filiera produttiva e, perché no, distributiva. Sì, perché è proprio nella distribuzione che casca l'asino, come suol dirsi. Ed è lì che si nasconde il nodo da sciogliere. Gli operai che forniscono la manodopera sono i primi anelli di una lunga catena che porta frutta, ortaggi, olio e vino sulle nostre tavole natalizie. Ma la lunghezza della filiera fa lievitare i costi, penalizza le parti più deboli, ostacola la tracciabilità e toglie competitività ai nostri prodotti soprattutto sui mercati del Nord Europa dove i pachino, tanto per fare un esempio, al produttore costano poche decine di centesimi mentre al consumatore vengono venduti a 18 euro al chilo.



Eritrei, 15 liberati. «Altri sotto ricatto»

Avvenire, 03-01-2011
Ilaria Sesana
Sono rimasti in pochi. Sono meno di 50 i profughi eritrei ancora in mano ai beduini Rashaida, prigionieri dei trafficanti di uomini nel deserto del Sinai da oltre un mese. I predoni hanno separato gli ostaggi e la situazione si fa sempre più grave: «Un gruppo di 15 persone dovrebbe essere liberato oggi (ieri per chi legge, ndr) – spiega don Mosè Zerai, il sacerdote eritreo che dal 23 novembre scorso ha denunciato il sequestro del gruppo di richiedenti asilo proveniente dalla Libia e diretto in Israele –. Non avendo visto nessuna forma di intervento da parte delle autorità egiziane, i loro familiari hanno raccolto il denaro necessario per pagare il riscatto».
Nelle mani dei predoni di Abu Khaled sono rimasti, ormai, poche decine di profughi: sono i più poveri, coloro che non hanno i soldi necessari per pagare il riscatto o i parenti in grado di racimolare gli 8mila dollari pretesi dai trafficanti per la loro liberazione. Tra loro anche tre donne incinte, una delle quali ormai prossima al parto. Su questi uomini e queste donne, i predoni si accaniscono con violenza: «Continuano a picchiarli con bastoni di ferro e catene. Questi ragazzi hanno il corpo ormai pieno di lividi», riprende don Mosè Zerai. Incatenati mani e piedi, rinchiusi dentro a un container sotterraneo, le percosse piovono in continuazione, con l’ossessiva richiesta a trovare soldi o ad accettare l’espianto dei reni come forma di pagamento. «Anche il dolore sta diventando sempre più insopportabile – conclude il sacerdote –. Purtroppo cominciamo il nuovo anno con questo dramma ancora irrisolto».
Un dramma che è già costato la vita a otto persone, tra cui due diaconi della chiesa ortodossa: ragazzi giovanissimi che animavano la preghiera del gruppo di prigionieri, torturati e poi uccisi a colpi di pistola di fronte a tutti gli altri. E ancora gli stupri ripetuti sulle donne, le marchiature a fuoco, le catene ai polsi e alle caviglie. Una pagnotta ogni tre giorni e poca acqua salmastra da bere. E su tutti incombe l’agghiacciante minaccia dei beduini: l’espianto degli organi per pagare il riscatto, già quattro persone sono sparite senza lasciare traccia.
Dal deserto però arriva anche una buona notizia. «Tra venerdì sera e sabato mattina mi hanno chiamato altre 11 persone che facevano parte del gruppo di 20 profughi liberato prima di Natale – spiega don Mosè Zerai –. Ora si trovano in un centro di detenzione per migranti in Israele». Per loro l’incubo è finito: sono riusciti a raccogliere, in un modo o nell’altro, i soldi necessari per il riscatto. E così i loro carcerieri li hanno scortati fino al confine con Israele, poi li hanno lasciati andare.
Secondo le stime riportate dalla stampa israeliana, sono più di 35mila i migranti irregolari che hanno attraversato il Sinai per raggiungere Tel Aviv e la maggior parte di loro ha pagato i trafficanti di uomini per essere guidato attraverso il deserto. Una prassi consolidata in tutto il mondo: chi non può viaggiare regolarmente paga i servizi di uno smuggler, un passatore, che lo aiuta ad attraversare la frontiera proibita.
Qualcosa, però lungo la frontiera tra Egitto e Israele, è cambiato. Nei primi mesi del 2010 i medici israeliani che prestano assistenza ai rifugiati hanno iniziato a notare sui corpi dei loro pazienti i segni di un nuovo, osceno, business condotto da spietati trafficanti di uomini: le botte, le bruciature, i segni delle catene imposte dai trafficanti del Sinai per ottenere il pagamento di un riscatto esorbitante (in totale circa 10mila dollari) per ogni profugo. Secondo Ran Cohen, direttore esecutivo di "Physicians for human rights-Israele", dalla fine del 2009, quando i trafficanti di uomini diedero il via alle estorsioni e alle violenze, sono entrati in Israele circa 6-7mila eritrei. «La maggior parte di loro – ha spiegato il medico – ha riferito di aver subito abusi».
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