Martedì, 7 Giugno 2011| Il portale di riferimento per gli immigrati in Italia
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Decreto del 30 maggio 2011 del Tribunale di Varese

Disapplica per contrasto con l’art. 7 n. 1 della Direttiva 2008/115/CE, l’espulsione amministrativa disciplinata dall’art. 13 d.lgs. 286/1998, nella parte in cui non prescrive la concessione di un termine per la partenza volontaria, compreso tra i sette e i trenta giorni - espulsione annullata

     

TRIBUNALE DI VARESE

Come segnalato nel decreto del 4 maggio 2001, al di là delle motivazioni introdotte nel ricorso (causa petendi), il ricorrente (cittadino non comunitario) chiede sostanzialmente (petitum) ordinarsi l’annullamento del decreto di espulsione adottato dal Prefetto di Varese in data 3 marzo 2011. L’art. 13 comma II d.lgs. 286/98 prevede un potere di espulsione amministrativa in capo al Prefetto, riconosciuto pure per l’ipotesi in cui il cittadino non comunitario sia in difetto del permesso di soggiorno (lett. b). Trattasi di un atto senz’altro suscettibile di gravame che, quanto alla competenza, è rimesso al vaglio del Tribunale in pendenza di un giudizio riguardante i procedimenti minorili disciplinati dal Testo Unico (v. art. 1, comma 2-bis, del d.l. 241/04 conv. in Legge 271/04).

La questione giuridica centrale da affrontare, riguarda la compatibilità della procedura seguita dal Prefetto, secondo le norme del TU d.lgs. 286/1998, con la direttiva comunitaria 2008/115/CE, questione che si impone in via preliminare, tenuto conto del recente arresto della Corte di Giustizia Europea la quale, con sua pronuncia (Corte Giust. UE, sez. I, sentenza 28 aprile 2011, causa C-61/11 PPU) ha affermato che gli artt. 15 e 16 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, sono incondizionati e sufficientemente precisi da non richiedere ulteriori specifici elementi perché gli Stati membri li possano mettere in atto (1).

Ebbene, per costante giurisprudenza della CGE, qualora uno Stato membro si astenga dal recepire una direttiva entro i termini o non l’abbia recepita correttamente, i singoli sono legittimati a invocare contro detto Stato membro le disposizioni di tale direttiva che appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise (v. in tal senso, in particolare, sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 46, e 3 marzo 2011, causa C-203/10, Auto Nikolovi, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 61). Ciò, quindi, alla luce della sentenza sopra indicata, vale anche per gli artt. 15 e 16 della direttiva 2008/115.

Le norme de quibus contengono delle precise disposizioni con il precipuo fine di armonizzare gli ordinamenti europei verso l’adozione di norme chiare, trasparenti ed eque per definire una politica di rimpatrio efficace quale elemento necessario di una politica d’immigrazione correttamente gestita. Trattasi di norme che si inseriscono in più complesso articolato normativo che persegue “l’attuazione di un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone interessate siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità.” (v. considerando n. II della Direttiva).

La finalità presidiata dalla direttiva è conseguita mediante l’adozione di un cd. diritto comune minimo: la direttiva riconosce agli Stati membri la facoltà di introdurre o di mantenere disposizioni più favorevoli per i cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare rispetto a quelle stabilite dalla direttiva 2008/115, purché compatibili con quest’ultima, ma non permette invece a tali Stati di applicare norme più severe nell’ambito che essa disciplina (Corte Giust. UE, sez. I, sentenza 28 aprile 2011). Viene, quindi, introdotta una forma di inderogabilità in pejus delle norme comunitarie cd. minime.

1 La direttiva è entrata in vigore il 13 gennaio 2009; il termine per la trasposizione è scaduto il 24 novembre 2010.

La direttiva è entrata in vigore il 13 gennaio 2009; il termine per la trasposizione è scaduto il 24 novembre 2010.
Le norme minime di cui si discute sono dotate di estrema precisione e dettaglio. L’art. 6, n. 1, prevede anzitutto, in via principale, l’obbligo per gli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio sia irregolare. Nell’ambito di questa prima fase della procedura di rimpatrio va accordata priorità, salvo eccezioni, all’esecuzione volontaria dell’obbligo derivante dalla decisione di rimpatrio; in tal senso, l’art. 7, n. 1, della direttiva 2008/115 dispone che detta decisione fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni. Risulta dall’art. 7, nn. 3 e 4, di detta direttiva che solo in circostanze particolari, per esempio se sussiste rischio di fuga, gli Stati membri possono, da un lato, imporre al destinatario di una decisione di rimpatrio l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, di prestare una garanzia finanziaria adeguata, di consegnare i documenti o di dimorare in un determinato luogo oppure, dall’altro, concedere un termine per la partenza volontaria inferiore a sette giorni o addirittura non accordare alcun termine. In quest’ultima ipotesi, ma anche nel caso in cui l’obbligo di rimpatrio non sia stato adempiuto entro il termine concesso per la partenza volontaria, risulta dall’art. 8, nn. 1 e 4, della direttiva 2008/115 che, al fine di assicurare l’efficacia delle procedure di rimpatrio, tali disposizioni impongono allo Stato membro, che ha adottato una decisione di rimpatrio nei confronti di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare, l’obbligo di procedere all’allontanamento, prendendo tutte le misure necessarie, comprese, all’occorrenza, misure coercitive, in maniera proporzionata e nel rispetto, in particolare, dei diritti fondamentali.

Emerge da quanto precede che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 corrisponde ad una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro –, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità (v. Corte Giust. UE, sez. I, sentenza 28 aprile 2011).

Elemento costitutivo del diritto comune minimo è, quindi e in primis, la concessione di un termine per la partenza volontaria che non sia inferiore a sette giorni, salvo riduzione del tempus di allontanamento spontaneo, mediante motivazione specifica secondo le indicazioni tassative della direttiva (es. pericolo di fuga). Giova ricordare che la motivazione non può essere apparente: non è valida se ricalca il testo normativo (cd. motivazione in astratto) dovendo introdurre specifici elementi del fatto sottoposto a valutazione (motivazione in concreto).

Ebbene, nella sua sentenza già citata, la Corte di Giustizia rileva che “mentre detta direttiva prescrive la concessione di un termine per la partenza volontaria, compreso tra i sette e i trenta giorni, il decreto legislativo n. 286/1998 non prevede una tale misura”.

Secondo la difesa erariale, le norme istitutive dell’obbligo di consentire l’allontanamento spontaneo, con un termine minimo di sette giorni, non sarebbero self-executing: ma trattasi di un rilievo smentito dalla sentenza della CGE che, invece, le pone espressamente a base delle proprie conclusioni valorizzandone la specificità e concretezza. Sempre secondo la difesa di Stato, nel caso di specie vi sarebbe stato comunque il pericolo di fuga: ma due elementi smentiscono l’assunto. In primis, è fortemente dubitabile che un padre che richiede il ricongiungimento al figlio dimorante in Italia, lasci il territorio in contrasto con la volontà espressa ufficialmente nelle forme del ricorso presentato al Tribunale per i Minorenni; in secundis, la motivazione prefettizia è in “negativo” (il ricorrente non ha dimostrato) ma così si contravviene all’obbligo di motivazione in positivo, spettando all’Organo che espelle di indicare le ragioni per cui a tale adempimento si procede.

Il provvedimento impugnato, nei contenuti, espressamente, riconosce di non avere concesso un termine al ricorrente per la partenza volontaria, in violazione dell’art. 7 n. 1 della Direttiva 2008/115/CE, che contrasta con l’istituto dell’espulsione amministrativa, disciplinato dall’art. 13 TU, nella parte in cui non prescrive la concessione di un termine per la partenza volontaria, compreso tra i sette e i trenta giorni. Il provvedimento, inoltre, per quanto rilevato, difetta di valida motivazione sulla presenza di un eventuale eccezione sorretta da idonea ratio derogandi.

Accertato il contrasto tra la norma applicata dall’Autorità amministrativa e la norma self-executing della direttiva, occorre soffermasi sulle conseguenze che ne conseguono. Le Alte Corti italiane hanno già avuto modo di pronunciarsi in merito agli effetti della sentenza della Corte di Giustizia sul tessuto legislativo interno. Il Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, con la sentenza 10 maggio 2011 n. 8, ha tratto, quale conseguenza della decisione del Collegio di Lussemburgo, l’obbligo di disapplicazione della normativa interna dove contrastante con il diktat europeo (nel caso di specie, l’art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998). Stesse conclusioni sono state rassegnate dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. I, sentenza 11 maggio 2011 n. 18586).

Nel caso in esame, quindi: a monte, va disapplicato l’art. 13 d.lgs 286/1998, poiché in contrasto con l’art. 7, n. 1, della direttiva 2008/115 e a valle, va dichiarata la illegittimità del provvedimento amministrativo che ha fatto applicazione della norma euro-incompatibile. Quest’ultima conclusione si impone per garantire l’effettività del comando comunitario e si allinea alle decisioni dei giudici amministrativi al cospetto di provvedimenti applicativi di norme dichiarate nelle more incostituzionali: come noto, infatti, secondo l’orientamento prevalente (2), l’atto della P.A. diviene illegittimo dove venga espunta dall’ordinamento la norma dante causa del potere della pubblica amministrazione o la norma che quel potere condizionava (nel senso di costituirne un elemento indispensabile). Quanto vale anche per le norme contrastanti con il diritto UE, posto che la disapplicazione, pur lasciando in vita la norma incompatibile, ha, nel caso concreto, gli stessi effetti della disposizione incostituzionale: in ambo i casi, il giudice non può applicare la legge caducata.

P.Q.M.

Sentito il ricorrente e lette le difese

DISAPPLICA
per contrasto con l’art. 7 n. 1 della Direttiva 2008/115/CE, l’espulsione amministrativa disciplinata dall’art. 13 d.lgs. 286/1998, nella parte in cui non prescrive la concessione di un termine per la partenza volontaria, compreso tra i sette e i trenta giorni. Per l’effetto,

ANNULLA
immediatamente il provvedimento impugnato, decreto della Prefettura di Varese del 3 marzo 2011 n. 150/2011 e, conseguentemente, il decreto della Questura della Provincia di Varese, n. 150/2011, adottato il 3 marzo 2011.
da ultimo, Tar Puglia, Lecce, sez. I, 24 febbraio 2011, n. 355 in Giur. Merito, 2011, 5
Ordina all’amministrazione di eseguire il decreto, che viene munito di efficacia esecutiva immediata.

Decreto letto in udienza

VARESE LÌ 30 MAGGIO 2011

IL GIUDICE DESIGNATO
DR. GIUSEPPE BUFFONE


2 V. da ultimo, Tar Puglia, Lecce, sez. I, 24 febbraio 2011, n. 355 in Giur. Merito, 2011, 5

 

Lunedì, 30 Maggio 2011

 
 
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