26 luglio 2011

 

PER LA CORTE COSTITUZIONALE IL PERMESSO DI SOGGIORNO NON E INDISPENSABILE AL MATRIMONIO
Stranieri irregolari, sì alle nozze
La Consulta: liberi di sposarsi con un cittadino italiano
La Stampa, 26-07-2011 
ROMA - La condizione di immigrato o immigrata irregolare non può essere di per sé un ostacolo alla celebrazione delle nozze con un cittadino o una cittadina italiana: lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato la parziale illegittimità dell'articolo 116, primo comma, del codice civile.
La norma, nel nuovo testo che è frutto di una modifica legislativa del 2009 finalizzata a evitare i cosiddetti «matrimoni di comodo», pone tra i requisiti necessari per contrarre matrimonio il posses-so, da parte dell'aspirante coniuge extracomunitario, di un documento che certificava la regolarità del permesso di soggiorno in Italia. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale di Catania, al quale si sono rivolti una cittadina italiana e un cittadino marocchino.
I due hanno chiesto ai giudici di pronunciarsi sul rifiuto dell'ufficiale di Stato civile di celebrare il loro matrimonio. Il 27 luglio del 2009 la coppia aveva chiesto di procedere alle pubblicazioni allegando la documentazione prevista dall'articolo 116 del codice civile (la norma era
stata modificata qualche giorno prima, il 15 luglio). Il 28 agosto avevano chiesto la celebrazione delle nozze. Tre giorni dopo l'ufficiale aveva risposto picche, sostenendo che tra i documenti mancava quello «attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino» richiesto, invece, dal codice civile riformulato. I   giudici  catanesi  hanno avanzato il dubbio che l'articolo 116 cozzasse con alcuni principi costituzionali, a partire da quello di uguaglianza. Pertanto, con un'ordinanza, il tribunale ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione e passato la palla alla Consulta. I giudici costituzionali hanno condiviso gli «appunti» del collegio superando le argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato che ha, invece, difeso la norma sostenendo che era stata pensata per evitare i matrimoni di comodo. Per la Corte, però, la «condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi».
Morale: l'articolo 116 è illegittimo nella parte in cui sostiene che il permesso di soggiorno è requisito indispensabile per la contrazione delle nozze.  
 
 
 
Immigrazione, la sentenza della Cassazione "Anche gli irregolari possono sposarsi"
la Repubblica, 26-07-2011
Secondo la Consulta l'articolo 116 del codice civile che regolamenta il matrimonio di uno straniero con un cittadino italiano è parzialmente incostituzionale, nella parte che richiede, per la celebrazione delle nozze, un regolare documento di soggiorno. "Tale limitazione si traduce nella compressione del corrispondente diritto del cittadino italiano". Richiamata una sentenza della corte europea di Strasburgo   
PALERMO - La condizione di immigrato o immigrata irregolare non può essere di per sè un ostacolo alla celebrazione delle nozze con un cittadino o una cittadina italiana: lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato la parziale illegittimità dell'articolo 116, primo comma, del codice civile, bocciando così una norma del pacchetto sicurezza che impone il possesso di un regolare permesso di soggiorno all'immigrato che vuole sposare un italiano. 
Con la sentenza 245/2011, redatta dal presidente Alfonso Quaranta, la Consulta ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall'articolo 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, numero 94 (disposizioni in materia di sicurezza pubblica) - modifica volta a limitare i matrimoni di comodo - limitatamente alle parole 'nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano'". Ecco il testo completo dell'articolo: "Lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella Repubblica deve presentare all'ufficiale dello stato civile una dichiarazione dell'autorità competente del proprio paese, dalla quale risulti che giusta le leggi a cui è sottoposto nulla osta al matrimonio nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano".
Per i giudici delle leggi "la limitazione al diritto dello straniero a contrarre matrimonio nel nostro Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare. Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende, del tutto legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero".
La Consulta ha richiamato una sentenza della Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo, secondo la quale "il margine di apprezzamento riservato agli stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale" garantito dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.
"Secondo i giudici di Strasburgo", ricorda la sentenza, "la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all'articolo 12 della convenzione".
 
 
 
Anche i clandestini hanno diritto a nozze
La sentenza della Corte costutuzionale che ha dichiarato parzialmente illegale l'articolo 116 del codice civile
Corriere della Sera, 26-07-2011
MILANO - La condizione di immigrato o immigrata irregolare non può essere di per sé un ostacolo alla celebrazione delle nozze con un cittadino o una cittadina italiana: lo ha stabilito la Corte costituzionale che ha dichiarato la parziale illegittimità dell'articolo 116, primo comma, del codice civile, che recita: «Lo straniero che vuole contrarre matrimonio nello Stato deve presentare all'ufficiale dello stato civile una dichiarazione dell'autorità competente del proprio Paese, dalla quale risulti che giusta le leggi a cui è sottoposto nulla osta al matrimonio». Il testo era emerso dal «pacchetto sicurezza» del 1994 e modificato nel 2009.
«DIRITTI INVIOLABILI» - La sentenza ammette la celebrazione delle nozze tra un partner italiano e uno straniero, anche se non regolarmente presente sul territorio nazionale. Riprendendo un recente pronunciamento della Corte europea e l'articolo 12 della Convenzione, la Consulta ha risposto alla richiesta di una coppia di Catania italo-marocchina che ha contestato il rifiuto a celebrare il proprio matrimonio, annullando «la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze» su nubendi irregolarmente in territorio italiano. «Resta pur sempre fermo che i diritti inviolabili, di cui all'articolo 2 della Costituzione, spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, di talché la condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata - per quanto riguarda la tutela di tali diritti - come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi», hanno scritto i giudici nel dispositivo.
I MATRIMONI DI COMODO - La Corte costituzionale ha affermato che la limitazione al diritto dello straniero, oltre a implicare un'implicita compressione del corrispondente diritto della controparte italiana, non è comunque uno strumento idoneo a contrastare i cosiddetti «matrimoni di comodo» vista la normativa vigente che disciplina già alcuni istituti in materia.
 
 
 
La Corte Costituzionale riconosce il diritto per tutelare gli italiani
Le giuste nozze dell'immigrato irregolare
Il Mattino, 26-07-2011
Antonio Galdo
Anche se clandestino, l'immigrato ha comunque diritto a sposarsi con un cittadino italiano. La Corte costituzionale, con una sentenza che farà molto discutere, ha di fatto cancellato l'artìcolo 116 del codice civile (integrato dalle norme sul pacchetto sicurezza del 2009) in base al quale uno straniero non ha diritto alle nozze se risulta sprovvisto di un regolare documento di soggiorno. Il caso era stato sollevato a Catania da una coppia italo-marocchina, il cui matrimonio civile era saltato proprio per la mancanza di un certificato che rendesse regolare, dal punto di vista giuridico, la posizione dello sposo.
Nella sentenza, scritta dal presidente Alfonso Quaranta, vengono fissati due principi che giustificano il provvedimento: innanzitutto i diritti della persona, aparare da quelli riconosciuti dalla Costituzione, vengono prima della status giuridico di un cittadino, in questo caso di un immigrato, come é stato sancito anche da una sentenza della Corte di Strasburgo; in secondo luogo la posizione non regolare dello straniero non può pregiudicare o comprimere il diritto di un italiano a con-trarre un matrimonio secondo le procedure previste dalla leg-ge. In punta di diritto la decisione della Corte costituzionale non fa una piega e afferma il valore di una civiltà giuridica che ha un suo primato rispetto a qualsiasi norma e come tale va sempre affermata. Dal punto di vista del merito, invece,' il provvedimento dietro un'ap-parente contraddizione (un immigrato irregolare rischia l'espulsione, ma nessuno può impedirgli di sposarsi) apre un ennesimo varco del diritto, e dei suoi massimi custodi quali sono i giudici costituzionali, nella sfera della politica. Sempre più la giurispudenza sta allargando la rete dei riconoscimenti allo straniero, quasi spronando il Parlamento a scelte più aperte, più coraggiose, e meno condizionate da aspetti di ordine pubblico, sul delicato versante dell'immigrazione. L'obiettivo di un'integrazione atutto tondo, riconosciuta anche attraverso la possibilità di sposarsi da clandestino, diventa prioritario nelle intenzioni della Corte. E se oggi é in discussione davanti ai giudici un matrimonio, domani po¬trebbe essere la volta del diritto al voto che pure da più parti viene considerato ormai maturo. Non a caso, nel difendere le ragioni di un marocchino bloccato al momento del sì con una cittadina italiana, i giudici costituzionali mettono le mani avanti e ricordano che questo tipo di impedimenti non rappresentano misure idonee per contrastare i matrimoni di comodo. L'immigrazione va governata, sembra dire la suprema Corte, e non ingessata in un rigore formale che non garantisce più sicurezza e crea solo discriminazioni e separatez-za: ma su questo terreno la parola decisiva più che ai giudici spetta proprio alla politica.
 
 
 
Consulta: sì alle nozze anche se il coniuge è immigrato irregolare
Il Messaggero, 26-07-2011 
CATANIA - La condizione di immigrato o immigrata irregolare non può essere di per sé un ostacolo alla celebrazione delle nozze con un cittadino o una cittadina italiana: lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato la parziale illegittimità dell'articolo 116, primo comma, del codice civile.
La norma pone tra i requisiti necessari per contrarre matrimonio il possesso, da parte dell'aspirante coniuge extracomunitario, di un documento che certificava la regolarità del permesso di soggiorno in Italia.
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale di Catania, al quale si sono rivolti una cittadina italiana e un cittadino marocchino. I due hanno chiesto ai giudici di pronunciarsi sul rifiuto dell'ufficiale di Stato civile di celebrare il loro matrimonio. II 27 luglio del 2009 la coppia aveva chiesto di procedere alle pubblicazioni. Il 28 agosto avevano chiesto la celebrazione delle nozze. Tre giorni dopo l'ufficiale  aveva risposto picche, sostenendo che tra i documenti mancava quello «attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino».
I giudici catanesi, che sì sono trovati a dirimere la questione, hanno avanzato il dubbio che l'articolo 116 si scontrasse con una sfilza di principi costituzionali a partire da quello di uguaglianza. Con un'ordinanza, il tribunale ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione e passato la palla alla Consulta.
Morale: l'articolo 116 è illegittimo nella parte in cui sostiene che il permesso di soggiorno è requisito indispensabile per la contrazione delle nozze.
 
 
 
Sì alle nozze anche per gli irregolari
Il Riformista, 26-07-2011
CINZIA LEONE
Irregolari ma con diritto di matrimonio. A stabilirlo la corte Costituzionale, modificando parzialmente la legittimità dell' articolo 116, primo comma, del codice civile, «come modificato dall'articolo 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, numero 94» del pacchetto sicurezza. A sollevare la questione di legittimità costituzionale il Tribunale di Catania a cui si sono rivolti una italaina e un marocchino. Per contrarre regolare matrimonio è necessario il permesso di soggiorno: chi non ne è in possesso niente anello al dito. Questo determina una limitazione dei diritti del promesso sposo cittadino italiano e la corte Costituzionale ha messo riparo.
I matrimoni tra cittadini e iregolari talvolta sono un escamotage per ottenere il permesso di soggiorno ed evitare il provvedimento di espulsione. Nel 2009 i numeri parlavano chiaro, a Milano su 894 unioni fra italiani e stranieri, 496 sono state annullate e sono stati ben 496 i finti matrimoni celebrati in un anno di cui 94 scoperti dai vigili e 402 dalla polizia di Stato. Uno specchio del resto del Paese? La modifica alla legge era stata fatta per arginare il moltiplicarsi dei matrimoni di comodo e dei viaggi della fortuna di immigrati e immigrate in cerca di amore, cittadinanza e magari anche pensione di reversibilità. Molti avevano parlato dell'introduzione nel nostro Paese di "leggi razziali", perché il provvedimento mirava garantire la sicurezza pubblica ma imponeva restrizioni a carico dei cittadini stranieri.
La Consulta si è richiamata a una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Per Strasburgo" «la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all'articolo 12 della convenzione». Al cuore non si comanda, figuriamoci alla Corte.
 
 
 
Una giornata nella casa dei senza diritti
l'Unità, 26-07-2011
Luciana Cimino  
«Un monumento alla distruzione della Costituzione, un treno deragliato con esseri umani a bordo». La definizione dei Cie (centri di identificazione ed espulsione) è di Furio Colombo, a capo del Comitato per i diritti umani della Camera, che con altri parlamentari (Rosa Villeco Calipari, Andrea Sarubbi, Vincenzo Vita e Livia Turco del Pd, Pancho Pardi dell’Idv) sono entrati ieri mattina a Ponte Galeria, alle porte di Roma, per una visita di quasi 3 ore in uno dei più grandi centri di identificazione d’Italia. Cgil, associazionismo laico e cattolico insieme per la manifestazione, che l’Unità ha sostenuto dal primo momento con una raccolta di firme sul suo sito, “LasciateCIEntrare”. 
Presidi sotto i Cie di tutto il Paese, promossi da Federazione della Stampa e Ordine dei Giornalisti, per protestare contro l’assurda circolare del ministro Maroni che dal primo aprile nega l’accesso in tutte le strutture «al fine di non intralciare le attività rivolte ai migranti». Un paradosso. Che impedisce ai cittadini di sapere cosa avviene lì dentro, come e in che modo le libertà individuali sono sospese o negate. 
E difatti è «libertà» la parola che accoglie i manifestanti. Scritta a mano, su un lenzuolo liso recuperato fortuitamente. Viene issato sul tetto da una ventina di migranti-reclusi. Si sgolano, gridano «Guantanamo, aiuto », e poi «non siamo animali». «Ho il cuore bianco», urla un altro. 
INTERVISTA AL TELEFONO 
Uno di loro detta a gran voce il suo numero di cellulare. I molti giornalisti presenti lo chiamano, il suo è un racconto corale: «Che senso ha stare qui? Perché ci tenete chiusi?Non possiamo fare la doccia, le stanze puzzano, ci imbottiscono di medicinali, gli avvocati non li vediamo mai, siete fascisti, noi chiediamo solo libertà». Eppure è surreale che il Cie di Ponte Galeria sorga a pochi metri di distanza dalla Nuova fiera di Roma, il trionfo della libera circolazione delle merci. Ma lo stesso Governo ha deciso che gli uomini invece sono colpevoli di reato solo per essere clandestini. 
All’uscita dopo l’ispezione i parlamentari dicono in coro: «La Bossi-Fini e il Pacchetto Sicurezza di Maroni vanno abrogati, sono fuori dalla Costituzione ». «La situazione è esplosiva - racconta Rosa Calipari - c’è tensione e ansia e il prolungamento a 18 mesi della detenzione non fa che peggiorare le cose, è rischioso per i migranti e per le forze dell’ordine che ci lavorano». Gli immigrati, in gran parte nord africani, non sanno quale sarà il loro futuro, vivono, secondo le loro stesse parole riportate dai deputati, «un tempo fermo», aggravato dal fatto che non hanno neanche le attività previste daun normale carcere, per esempio, il biliardino o la lettura: tutto vietato per motivi di sicurezza, potrebbero incendiare le pagine. Non gli rimane altro che sostare in attesa di riconoscimento e rimpatrio forzato. 
COLOMBO: È UNA LEGGE PASTICCIO 
«In carcere si sta meglio - dice Livia Turco - è questo l’aspetto più vergognoso e drammatico, questa legge è solo disumana e inefficace». «La maggioranza - nota Andrea Sarubbi - in queste settimane si è preoccupata oltremodo della carcerazione preventiva, perché c’era uno di loro coinvolto, questa della povera gente come la vogliamo chiamare? Non è detenzione senza aver neanche commesso un reato? È da paese civile?». 
Per Furio Colombo «la legge è un pasticcio irrazionale per far piacere a immaginari elettori del centrodestra che non sono così persecutori come il Ministro dell’Interno. È ingiusta per chi la deve far eseguire ed è ingiusta per chi la subisce. È un monumento alla distruzione della Costituzione». Dopo il successo dei presidi in tutta Italia la volontà è quella di continuare la mobilitazione permanente, coinvolgendo i cittadini. Ma per primacosa bisogna creare unpool di avvocati disposti a patrocinare gratuitamente le cause dei singoli migranti e uno di giornalisti che monitori costantemente i Cie. 
Sono quotidiani infatti i racconti di scioperi della fame, rivolte e episodi di autolesionismo fino a tentativi di suicidio per non essere rimpatriati. «Mentre in parlamento l’opposizione da battaglia per abrogare la Bossi- Fini e il Pacchetto Sicurezza - commenta Gabriella Guido, del comitato Primo Marzo, tra i promotori dell’iniziativa - noi continueremo a fare pressione affinché Maroni ritiri la circolare, solo così i cittadini potranno avere reali informazioni su quanto accadde veramente dentro i Cie; i migranti hanno rischiato la vita per raggiungere le coste italiane e qui hanno trovato un altro inferno».
 
 
 
Nell’inferno di Mineo. Un centro da incubo
Terra, 26-07-2011
Dina Galano
REPORTAGE. Nel giorno della campagna “LasciateCIEntrare”, arrivano le ispezioni di tre parlamentari. Un nigeriano rinchiuso nel Cara siciliano denuncia: «Qui le persone collassano».
Bari, Ancona, Roma, Crotone e ora Mineo. Chi si trova trattenuto nel Centro per richiedenti asilo e rifugiati (Cara), nato per decreto nella spoglia provincia catanese con lo scopo di far fronte all’arrivo dei profughi dal Nord Africa, è tutt’altro che nord africano. Nel “Residence degli Aranci” - questo il nome originario della struttura - i migranti sono stati trasferiti dai Cara di tutta Italia: i tunisini sono soltanto sei e non c’è traccia di libici. Ma molti sono scappati dalla Libia in guerra, dalle bombe e dal caos, hanno attraversato il Mediterraneo, hanno perso amici e, ora, in Italia, la libertà. Tra i circa 1.800 ospiti è palpabile la disperazione e la rabbia nel giorno in cui a Mineo, come di fronte agli altri Centri di identificazione ed espulsione del Paese, arrivano le ispezioni dei parlamentari.
La mobilitazione “LasciteCIEntrare” è nazionale, indetta dalla Federazione della stampa, e invoca trasparenza contro quella circolare numero 1305 del ministero dell’Interno che, dall’aprile scorso, vieta ai giornalisti di entrare nei centri per immigrati. Quello che non si può vedere, a Mineo è affidato alla gestione della Croce Rossa soltanto fino ad agosto. Fabio Granata di Fli insieme a Fabio Giambrone e Ignazio Messina dell’Idv, dopo la visita ispettiva di ieri al Residence, esprimono «forte preoccupazione per come saranno curate le procedure di affidamento» dei servizi del centro. I tempi per avviare una gara pubblica sono scaduti, il sospetto che l’avvicendamento avvenga a chiamata diretta sembra fondato.
Ben più concreto il rischio che, finito agosto, tutto passi nelle mani della Protezione civile in quel regime di eccezionalità già sperimentato per altre “emergenze”. «Sarà fondamentale chiarire i criteri con cui verranno assegnati gli appalti», rimarca Granata che promette di premere sul ministro dell’Interno Maroni affinché «siano garantiti alti livelli di prestazione». Per Alfonso di Stefano, della rete antirazzista catanese che svolge un quotidiano lavoro con i migranti di Mineo, «va considerato l’alto rischio di infiltrazioni mafiose nel business della fornitura dei servizi ai migranti, come già accaduto ad aprile scorso con l’attività di money transfer affidata a un congiunto del boss Di Dio». Intanto, ogni giorno al Cara di Mineo qualcuno accusa malori, sviene e viene portato in infermeria. Anche ieri.
«Qui le persone collassano», dice un ragazzo della Nigeria, che prima di essere trasferito a Mineo aveva conosciuto il Cara di Ancona. Depressioni, fisiche e psicologiche, sono diffuse tra tutti. Pur se il regime di trattenimento nel Cara prevede che i richiedenti asilo possano circolare e svolgere attività all’esterno, il Residence di Mineo sorge nella piana catanese, a dieci chilometri dal piccolo centro abitato, in un contesto di totale isolamento. La navetta che dovrebbe garantire i collegamenti con la cittadina è a pagamento e a nessun profugo viene garantito il pocket money previsto. Secondo i report curati da Medici senza frontiere, finora sono stati almeno sette i casi di tentato suicidio documentabili.
E la denuncia più frequente tra i richiedenti asilo riguarda la scarsa qualità del cibo, che sarebbe all’origine di molti malesseri. Con un accesso limitato ai telefoni e i tempi lunghissimi per l’avvio delle procedure d’asilo, l’atmosfera che si respira è di completo abbandono. I due parlamentari dell’Idv, Giambrone e Messina, hanno assicurato che chiederanno in un’interrogazione «l’implementazione delle sub commissioni esaminatrici»: le settanta pratiche al giorno valutate non sono sufficienti a smaltire l’arretrato.
 Prima delle proteste spontanee dei migranti, che hanno bloccato ripetutamente la statale Catania Gela, venivano infatti considerate appena due domande al giorno. I richiedenti asilo aspettano da troppo tempo una risposta che, in un numero frequente di casi, è negativa. Il limbo per le 1.800 persone trattenute a Mineo continua nella più assoluta incertezza. Quello che accadrà tra poche settimane, quando anche la Croce rossa farà le valigie, rischia di non essere raccontato.
 
 
 
«Se l'immigrato dev'essere per forza cattivo»  
l'Unità, 26-07-2011
Roberto Natale, presidente Fnsi
Di loro si deve parlare associandoli a reati, meglio se efferati. Immigrati= criminali è l’equazione non dichiarata che regola larga parte della politica, dunque dell’informazione. Tutti le ricerche scientifiche sull’atteggiamento dei media dicono che il tema dei migranti viene trattato quasi esclusivamente come un problema giudiziario o di ordine pubblico. Devono suscitare paura, così da permettere alla speculazione politica di incassare i profitti elettorali. È questa la ragione vera della circolare Maroni, che tiene noi giornalisti fuori dai Centri di Identificazione ed Espulsione. Con strafottente ipocrisia, il ministro ha scritto che nondobbiamo «intralciare» le attività rivolte agli immigrati. In realtà, è a lui che il nostro lavoro è d’intralcio: al ministro che del «finalmente cattivi» ha fatto la linea-guida della sua azione. Perché, se potessimo raccontare, la produzione di paura, di ostilità, di xenofobia, di razzismo, rischierebbe seriamente di incepparsi. Perché mai si dovrebbe aver paura di chi non ha commesso alcun reato, e ciò nonostante vive in gabbia come chi abbia una meritata pena da scontare? E come si fa ad aizzare l’odio, se la storia che ascolti è quella di una famiglia spezzata, perché lui immigrato è ingiustamente trattenuto lì anche se, come marito di una cittadina europea, avrebbe tutti i diritti di star fuori? E come si può incrementare una redditizia diffidenza, quando fai vedere che i ragazzi che oggi gridano «libertà» dai tetti dei Cie sono a volte quegli stessi che appena pochi mesi fa gridavano «libertà» nelle piazze in rivolta del nord-Africa, suscitando in noi commozione e solidarietà? Conle manifestazioni di ieri - e con una mobilitazione che andrà avanti fino a che Maroni non avrà ritirato il divieto - l’informazione italiana ha fatto un passo in più per sottrarsi all’ingranaggio politico- mediatico che negli anni recenti ha rischiato di stritolarla. Ha affermato di non voler essere usata per spargere veleni nel corpo della comunità nazionale. Ha reclamato il più elementare e basilare dei suoi diritti-doveri: vedere, e poi raccontare quello che ha visto. E quando una rivendicazione non è corporativa, il diritto che difende si incontra e si rafforza coi diritti di altri: il diritto dei migranti ad un trattamento dignitoso; il diritto dei cittadini a formarsi un proprio consapevole giudizio, anziché restare in ostaggio di campagne populiste. Ma i giornalisti e le giornaliste davanti ai Cie fanno capire anche che la cronaca non è soltanto, necessariamente, quella dei delitti privati raccontati fino al dettaglio estremo: Meredith e Amanda, Sarah e zio Michele, Melania e Salvatore. Hanno assunto come metro professionale quello della rilevanza sociale, del valore pubblico di certi fatti, magari sfidando le leggi dell’audience e della tiratura. Così facendo, rendono un servizio non solo alla credibilità dell’informazione, ma persino alla credibilità delle istituzioni italiane. Perché Maroni, impedendo gli ingressi, si è assunto la grave responsabilità di far pensare che in quei luoghi vietati siano brutalmente calpestati i diritti di migliaia di esseri umani. Chi chiede di entrare ha davvero a cuore, senza alcuna retorica, il prestigio dell’Italia.
 
 
 
"Il centro immigrati peggio del carcere"
I parlamentari Pd in corso Brunelleschi
La Stampa, 26-07-2011 
PAOLA ITALIANO
Ognuno dei 125 immigrati che si trovano nel Cie dì Torino ha un telefonino. Ma a ogni cellulare, al momento dell'ingresso nella struttura, è stato sfondato l'obiettivo della fotocamera. Comunicare con l'esterno sì, documentare no. E' uno dei paradossi che fa dire a Pietro Marcenaro, presidente della Commissione speciale diritti umani del Senato, che «i Cie sono peggio del carcere: perché nei Cie il tempo è vuoto e la vita non ha valore».
Sono le conclusioni al termine di due ore di visita nella struttura di corso Brunelleschi che Marcenaro ha fatto ieri con i colleghi di partito
del Pd Anna Rossomando (Commissione giustizia), Mauro Marino, Giorgio Merlo e Magda Negri.
«Libertà, libertà!», hanno urlato alcuni immigrati alla vista dei parlamentari, che hanno aderito a «LasciateCie entrare», mobilitazione indetta della Federazione nazionale della Stampa e dell'Ordine dei giornalisti per chiedere il ritiro della circolare ministeriale che, da aprile, restringe l'accesso ai centri. Mobilitazione che arriva alla vigilia del passaggio al Senato (oggi) del decreto espulsioni che triplica il tempo di permanenza massima nei Cie, da 6 a 18 mesi.
Nei centri vengono portati gli stranieri non identificati che hanno commesso reati. La permanenza dovrebbe servire ad accertarne le generalità prima dell'espulsione. Se restano senza nome dopo 18 mesi, vengono rimessi in libertà.
Delle 125 persone ora nel Cie di Torino, la maggior parte è tunisina (75) e Marocchina (23). Sette le donne. Circa il 50% ha precedenti penali, soprattutto per spaccio, furti e rapine. La capienza massima è di 130 persone: sarebbe di 180, ma parte della struttura è inagibile per l'incendio di febbraio.
Ad attendere i parlamentari all'uscita, dal lato su via Santa Maria Mazzarello, c'era un presidio di esponenti dell'area antagonista che chiedono la chiusura dei centri. «Nel '98 li avete inventati, ora li volete più umani: i Cie devono essere distrutti» si leggeva sullo striscione che hanno appeso in mezzo alla strada, sullo spartitraffico. Il riferimento è ai Cpt, Centri di permanenza temporanea (poi diventati Cie), istituiti con la legge Turco-Napolitano. I contestatori, una quarantina, scandivano slogan, battevano con cacciaviti sui pali e un paio di volte hanno bloccato il traffico: la delegazione ha preferito spostare l'incontro con i giornalisti, previsto all'uscita, in una sede del Pd in centro.
Sul merito delle accuse, Anna Rossomando sottolinea: «Un conto è immaginare i Cie come centri in cui portare chi ha commesso un crimine, così come aveva fatto il centrosinistra; altra faccenda è servirsene per detenere immigrati irregolari: è immorale e inefficace». Usare i centri come strumento di politica di immigrazione «inadeguato e costoso» (50 euro al giorno a persona) è l'accusa mossa al Governo. Specie da quando la clandestinità è diventata reato, con la legge Bossi-Fini. «Nei Cie - osserva Marcenaro - ci sono persone che non hanno fatto nulla e di cui nessuno si prende cura. Non è un problema di chi fa assistenza e fa il suo dovere al meglio, ma un problema di leggi. In carcere, al di là dei molti problemi, almeno ci si occupa delle persone, si pensa a un reinserimento». Per Marcenaro, si vede anche dai dettagli: sei letti per stanza, due lavabo e due gabinetti, un televisore al muro. E basta. Tutto spoglio, nessuna personalizzazione, non una foto o un ritaglio alle pareti, come succede in cella. Nel limbo del Cie la vita è sospesa. Lo sono anche i diritti, che è difficile farli valere quando pure gli avv¬cati preferiscono evitare cause senza speranza.
 
 
 
E con i Cie come la mettiamo? Perchè sull'arresto di Papa il pannelliano Turco ha ragione 
Il Foglio, 26-07-2011
Luigi Manconi
1. Ho preso in affitto un bilocale in un quartiere trendy di Milano, vicino alla chicchissima via Tortona: un sobrio ufficio di rappresentanza, una modesta dependence, un discreto pied -à- terre (vedi mai). Non ho ancora la linea telefonica e il computer e, per il bagno mi devo accontentare di quello comune, di ringhiera (a Milano usa ancora così). Pensavo a una simpatica festicciola d’inaugurazione per i primi di settembre, qualcosa di molto semplice. Non posso certo contare sulla presenza dei ministri Bossi, Calderoli e Tremonti, ma spero almeno che trovino il tempo di fare un salto un paio di vice-ministri nulla facenti, tipo Carlo Giovanardi e Roberto Castelli.  (Alla fine verranno offerte in omaggio delle coccarde colorate e quelle trombette di carta che, a soffiarci dentro, si srotolano e suonano allegramente).
2. Diciamolo francamente: Maurizio Turco, deputato radicale eletto nelle liste del Pd, non è la persona più simpatica del mondo. Ma è un parlamentare  assai serio e preparato. D’altra parte Turco non sembra avere avuto una giovinezza attraversata, come è stata la mia, da suggestioni populiste. Dunque, sentirlo ricordare – dopo il si all’arresto di  Alfonso Papa- che  quanti oggi si stracciano le vesti , hanno protratto, d’un colpo solo, la permanenza degli stranieri nei Centri di identificazione e di espulsione (Cie) da sei a diciotto mesi, mi ha scaldato il cuore. E, infatti, il voto di mercoledì scorso, al di là delle problematiche più strettamente politiche  (ruolo della Lega, contraddizioni del Pd), solleva due importanti questioni di diritto. La prima richiama il garantismo come sistema. La seconda, il livello dove quel sistema di garanzie si colloca. L’interpretazione sbrigativa del centrodestra vorrebbe la sinistra esercitare il garantismo solo a favore dei propri esponenti (si all’arresto per Papa, no all’arresto per Tedesco), ma l’affermazione così ineludibile di Maurizio Turco ripristina un principio di verità (e se qualcuno la trova demagogica, si arrangi). L’idea che la coerenza e la sistematicità di una impostazione autenticamente garantista dell’amministrazione della giustizia valga innanzitutto, se non esclusivamente, a livello orizzontale (per la destra come per la sinistra, per i vicini come per i lontani, per gli alleati come per gli avversari) è corretta ma parziale, parzialissima. Una impostazione compiutamente garantista si manifesta nel momento in cui essa funziona anche a livello verticale: ovvero nell’applicarsi coerentemente e sistematicamente oltre le sperequazioni di classe, di censo, di etnia. Non si deve sottovalutare quel livello orizzontale (guai a farlo, anzi), ma l’obbligo di non discriminare tra amici e nemici e tra destra e sinistra, si colloca all’interno di una più ampia esigenza di universalità delle garanzie: nei confronti del parlamentare Papa così come dell’immigrato irregolare. Quel decreto legge che prolunga la permanenza nei Cie fino a diciotto mesi, approvato dal Consiglio dei ministri successivo alla sconfitta nelle elezioni amministrative, rivela nitidamente la propria miseria: e quanto sia autentica la vocazione garantista del centrodestra. Tanto più che le persone trattenute nei Cie, in gran parte dei casi,non sono responsabili di alcun reato: e devono rispondere al più, di una fattispecie penale (ingresso e soggiorno irregolari nel territorio italiano) che, appena due anni fa, si riduceva a un illecito amministrativo. Per questo possono rimanere all’interno di un luogo orrendo come il Cie per un anno e mezzo. Senza che l’ottimo Maurizio Paniz tradisca un dubbio e riveli un rossore. Anche la seconda questione rimanda al fondamento universalistico del sistema delle garanzie. Stante che il 40%della popolazione detenuta è composta da reclusi in attesa di sentenza definitiva, chi si trovi a decidere della libertà di Papa o di Tedesco, a quale livello di uguaglianza deve tendere? spingere i due parlamentari sul “livello più basso”  della custodia cautelare generalizzata o battersi perché quel 40% in attesa  di sentenza definitiva sia “sollevato” al livello delle tutele di cui godono i parlamentari? La mia risposta –tranne che per i casi di documentata pericolosità sociale- è inequivocabile:  si deve ricorrere il meno possibile alla custodia cautelare, limitandola tassativamente alle circostanze indicate dal codice. In altre parole, più garanzie per tutti. D’altra parte, il voto del parlamento di mercoledì scorso concerneva altro: ovvero la sussistenza o meno del fumus persecutionis. Non stupisce per tanto che i radicali, per i quali la forma è sostanza e il rispetto delle regole è  assoluto, abbiano votato per il si all’arresto, limitando la loro decisione al solo merito del quesito. Fossi stato parlamentare, non sono certo di quale sarebbe stata la mia scelta. Da senatore mi è capitato di assumere posizioni, su tali questioni, scarsamente apprezzate da quella che era e resta la mia parte politica (la sinistra). Questo per dire quanto il tema sia controverso: ma  un conto è discuterne con il Foglio, un altro -e assai diverso-  è prendere lezioni di garantismo da Ignazio La Russa o, peggio mi sento, da  Michela Vittoria Brambilla.
 
 
 
Storie di straordinario razzismo 
Osservatorio balcani e caucaso, 26-07-2011
Božidar Stanišić 
Il fenomeno dell'immigrazione in Italia viene spesso descritto in bianco e nero. Božidar Stanišić, scrittore e drammaturgo bosniaco da anni residente in Italia, si addentra nello spazio grigio arrivando a conclusioni amare
Non credo di poter né voler dimenticare: il giorno di Pasqua del 2010, a Spilimbergo, città friulana nota in Italia e nel mondo per la lavorazione dei mosaici, un episodio di razzismo ha suscitato l’interesse nazionale. Nel bar Commercio, nel centro storico, un cittadino del Burkina Faso ha pagato il suo caffè 10 centesimi in più. Quel bar spilimberghese era gestito da un anno da un'esercente cinese, la quale ha spiegato ai giornalisti, con una chiarezza tagliente, che non appartiene alle cronache di ordinario ma di straordinario razzismo, che “non si tratta di razzismo, sono i clienti italiani a dirmi di scoraggiare l’ingresso delle persone che non curano la propria igiene personale. Me l'hanno insegnato a Padova, dove ho lavorato in un bar di italiani. Maggiorare le ordinazioni di chi non si comporta bene. D’altronde i miei clienti sono italiani, ed è loro che intendo tutelare”. Anche l’immigrato del Burkina Faso è stato chiaro: “Mi è stato detto: tu paghi un euro perché hai la pelle nera, e ringrazia che ti facciamo entrare”.
Grazie alla denuncia dello stesso negro alle autorità, è emerso uno degli ennesimi comportamenti razzisti nei confronti dell’altro e diverso. Lui stesso, da molti anni in Italia, ha raccontato sia ai giornalisti che ai carabinieri, che si sono recati al bar per fare i controlli degli scontrini, che “quello che mi ha fatto arrabbiare è che ad essere razzisti siano stati degli immigrati.” Ed ha aggiunto di non aver mai vissuto un attacco razzista così forte. Per quel motivo si era recato direttamente dai carabinieri, chiedendo il loro intervento.
Tragicommedia?
Un giornale, commentando l’episodio di Spilimbergo, ha sottolineato l'aspetto tragicomico della vicenda: un immigrato è stato razzista nei confronti di un altro immigrato! Credo che queste parole siano state scritte in buona fede, per invitare gli stessi immigrati ad una maggiore solidarietà e comprensione reciproca. Però mi hanno spinto ad un'osservazione più complessa del fenomeno dell’immigrazione in Italia. In realtà, nelle numerose analisi e ricerche sul tema, sia recenti che del passato, manca quasi del tutto la questione dei rapporti sociali e culturali all’interno della popolazione immigrata. Ciò vale anche per la maggior parte della narrativa scritta dagli stranieri in Italia (che ormai i professionisti della tematica amano definire soltanto letteratura migrante). Le descrizioni sono quasi sempre in bianco e nero. Immigrato: buono, povero, nostalgico; italiano: cattivo, quasi-buono o indifferente. Per i miei atteggiamenti critici nei riguardi di questa letteratura è da anni che vengo marginalizzato: niente inviti ai festival o a serate letterarie “migranti”… Certo, c’è un prezzo da pagare, per tutto.
Un’altra parentesi: alla fine degli anni novanta, un amico d’infanzia mi scrisse una lunga lettera. Lui, fuggito dalla guerra in Bosnia, aspettava la risposta dell’ambasciata del Canada in una città della Vojvodina. Appassionato del risveglio di numerosi giovani nella Serbia anti Milošević, frequentava degli incontri organizzati presso le università aperte, il cui contributo alla resistenza civile era di notevole importanza. Una sera ascoltò la relazione di un professore polacco (di cui, purtroppo, non notò il nome) sul razzismo nei paesi slavi (nota: slavi nel senso più ampio, quindi russi, cechi, polacchi, ex jugoslavi ed altri…) Avendo ascoltato la relazione, il mio amico rimase stupefatto di fronte ai fatti presentati e alle descrizioni precise esposte dal professore, a partire dall’antisemitismo, per arrivare a razzismo, xenofobia e progetti vari su come liberarsi dagli zingari.
Malgrado la mia conoscenza dei fatti non fosse limitata, dato che avevo avuto occasione di trovarmi in circostanze in cui emergevano sia xenofobia che razzismo e antisemitismo da parte di immigrati provenienti dell’ex Jugoslavia presenti in Italia e in altri Paesi dell'Unione, capii che i fenomeni che facevano parte della ricerca di quel professore polacco, esperto in materia, fossero molto più ampi e radicati di quanto non pensassi nel tessuto sociale di ogni singola società dell’ex Est Europa, inclusi i nuovi Stati del mio ex Paese.
Dall’inizio del mio, ormai lunghissimo, soggiorno in Italia, in primis grazie alle attività di mediazione linguistico-culturale, poi agli incontri di vario genere in tutta l’Italia, non mi ero mai staccato dalla realtà della vita degli immigrati, non solo di provenienza dell’ex Jugoslavia. Già da tempo mi era chiaro cosa fossero il razzismo e la xenofobia striscianti presenti negli atteggiamenti e nel modo di pensare dei croati, bosniaci, serbi, macedoni, kosovari ed altri sugli altri e sui diversi.
Certo, la cosa non è piacevole, ma io la riporto sia nei miei discorsi pubblici che nella narrativa. Purtroppo non si tratta di casi isolati, ma frequenti, presenti non solo nell’immigrazione ex jugoslava proveniente dalle periferie urbane o dalle campagne, ma pure da una parte della cosiddetta gente colta oppure almeno formalmente scolarizzata.
La forza delle parole
Mi è capitato chissà quante volte di sentire i termini e le espressioni: crnčuga (negrone); mrki (di colore); žuta njuška (muso giallo); zašto ih je toliko ovdje? (perché ce ne sono così tanti?); trebalo bi im postaviti zabranu ulaska! (bisognerebbe non farli entrare); oni nisu kao mi! (loro non sono come noi!); prljavi su (sono sporchi); legisti imaju pravo (i leghisti hanno ragione); ne znaju stanovati u kučama (non sanno abitare nelle case), ecc… Chi, come me, è ancora memore della crisi profonda a cavallo fra gli anni ottanta e novanta in cui era sorto il linguaggio dell’odio come ouverture alla pazzia bellica fratricida del 1991-95, chi ancora ricorda le parole dell’amico scrittore Filip David, che scrisse che prima delle pallottole da noi si incominciò a sparare con le parole, non può sottovalutare questi fenomeni, anche se finora prevalentemente limitati all’uso di questo linguaggio.
Che cosa spinge, ad esempio, un sindacalista bosniaco (non importa di che etnia) in una cittadina fra Udine e Trieste a dirmi che i mrki (stavolta bengalesi) sono privilegiati e lui, che per gli aspetti somatici assomiglia agli italiani, è un residente di serie B? E un’altra persona, un ex profugo del mio ex Paese, a chiedersi, in compagnia di un friulano doc, quanti mali ci porterà la gente fuggita dall’inferno libico? E una dottoressa a dire che deve vendere l’appartamento perché l’edificio pullula di stranieri? E lo dice perché ormai ha ottenuto la cittadinanza italiana? E un giovane che ha comprato la macchina da una persona di colore, a dirmi, mentre firmavano l’atto di passaggio, che quel mrki faceva troppe domande?
In gran parte queste parole vengono dette in presenza dei figli. Che, per fortuna, nei banchi di scuola, vivono un’altra realtà, molto più positiva. Ieri, ad esempio, ho ascoltato un bambino afgano, un bambino bosniaco e uno di origine honduregna parlare e giocare insieme… Sono loro che risvegliano delle speranze coraggiose, credo non solo in me.
Credo sia giusto che ognuno di noi immigrati rifletta su questi fenomeni, a partire dal contesto che sente più vicino. Compresi i cosiddetti “scrittori migranti” e “buonisti” di tutte le parti, disinteressati da questi fenomeni di una realtà, quella dell’immigrazione, in cui esistono anche lo sfruttamento e l'assenza di solidarietà.
 
 
 
Imprenditori stranieri, i nuovi distretti
Il rapporto Cerved: i casi Genova e Torino e il boom dell'edilizia romena
Corriere della sera, 26-07-2011 
Dario Di Vico
La maggiore concentrazione di piccole imprese gestite in Italia da stranieri non la si trova a Prato, come saremmo portati a pensare, bensì in un quartiere di Genova. Attorno alla piazza Principe della città ligure ben il 43% degli imprenditori è di origine straniera e in testa alla classifica per nazionalità di provenienza spiccano i senegalesi, che da soli rappresentano il 16% delle micro imprese della zona. Se questo è il dato che sorprende di più, la ricerca che Cerved Group ha realizzato sulla dinamica delle imprese gestite da stranieri negli ultimi dieci anni (dal 1 gennaio 2000 al 1 gennaio 2011) fornisce molti spunti e suggerisce altrettante riflessioni. Anche perché in questi dieci anni c'è stato un mutamento straordinario, ancora agli albori del secolo gli stranieri-imprenditori erano cittadini della Ue o svizzeri mentre oggi vengono in maggioranza dall'Asia e dall'Africa. 
Dopo Genova Principe la maggiore concentrazione di imprese condotte da stranieri la troviamo a Torino nel quartiere Aurora: ha toccato quota 42% e sono i marocchini i leader di mercato. Nella zona di Palazzo Reale a Palermo il 38% dei piccoli non è italiano e in questo caso la nazionalità che spicca è la cingalese. I migranti dallo Sri Lanka rappresentano anche la maggioranza relativa delle aziende straniere che operano nei quartieri Termini e Casilino a Roma mentre a Firenze, nel quartiere Quaracchi, a predominare sono i cinesi.
Il dato generale riferito a tutta l'Italia parla di 442 mila piccoli imprenditori stranieri regolarmente iscritti alle Camere di commercio sotto la forma giuridica di ditta individuale (334 mila) oppure di società di persone (119 mila). In totale nel 2000 erano solo 134 mila e si tratta quindi di un settore ad elevato dinamismo con un tasso di crescita annuo stimato al 23%. Ogni cinque ditte individuali che si costituiscono in Italia ormai una è gestita da un neoimprenditore proveniente da un Paese in via di sviluppo. Per lo più sono imprese poco strutturate dove l'onere amministrativo e burocratico è tutto in capo a un singolo. Le aziende che superano la soglia di 10 milioni di euro di capitale sono ancora una rarità: una romena, quattro egiziane e una decina cinesi. Come è risaputo gli asiatici godono della maggiore predisposizione al rischio ma hanno anche una tendenza quasi nulla a integrarsi con il tessuto economico italiano. I loro settori a maggiore vocazione sono il commercio, la ristorazione e la produzione di abbigliamento low cost. I romeni amano il rischio imprenditoriale molto meno dei cinesi, sono addensati nell'edilizia e molto integrati con le imprese italiane, di cui probabilmente hanno cominciato a costituire una sorta di indotto. E le regioni in cui sono più presenti sono Lombardia e Piemonte. Il mattone, del resto, è l'attività imprenditoriale prevalente anche per i tunisini, i polacchi, i peruviani e gli albanesi.
Per far sì che un migrante possa .diventare imprenditore in Italia occorrono, secondo i dati Cerved, in media dieci anni di permanenza nel nostro Paese, solo dopo due lustri evidentemente si produce un tasso di integrazione sufficiente per poter organizzare un'attività economica. I cinesi sono sicuramente i più versati, seguiti dagli egiziani segnalati molto attivi nella zona di Milano. Con alta propensione al rischio sono catalogati anche tunisini e marocchini. Mentre gli asiatici sono autosufficienti, gli indiani cercano un partner italiano prima di avviare un'impresa sul mercato. Grosso modo analogo è il comportamento dei filippini.
Un fenomeno che il Cerved ha messo in luce è che spesso l'integrazione imprenditoriale segue matrimoni misti tra italiani e stranieri. Un caso limite è quello dell'Ucraina, il Paese in cui è maggiore la presenza di donne tra gli imprenditori e i soci presenti in Italia. Molte società italo-ucraine sono aziende familiari. Distanziati anche i filippini e i polacchi però sembrano adottare lo stesso modello. Tra i nuovi imprenditori stranieri i più giovani risultano essere romeni, moldavi e albanesi con un'età media compresa tra i 37 e i 38 anni. Molti immigrati quando decidono di avviare una società lo fanno soprattutto per aprire un ristorante: è il caso dei cinesi (il 52% delle società di
persone con soci solo cinesi è attiva nel campo della ristorazione) ma anche degli egiziani e degli indiani. Da segnalare una crescente specializzazione di marocchini e bengalesi nel campo della distribuzione.
Il rapporto del Cerved non si sofferma sul caso di Prato, tutto sommato abbastanza conosciuto e portato addirittura all'onore delle cronache letterarie grazie alla vittoria dello scrittore Edoardo Nesi al recente Premio Strega. Nella città del Bisenzio i cinesi non hanno solo fatto massa critica ma hanno messo in piedi un distretto produttivo parallelo del pronto moda. Questo modello per ora non ha prodotto repliche anche se nella zona attorno a Carpi viene segnalato un forte attivismo di ditte cinesi. Le concentrazioni segnalate dal Cerved a Genova, Torino, Palermo e Roma non hanno le stesse caratteristiche, sono lontane dal diventare dei distretti e comunque ne sappiamo ancora troppo poco. Non conosciamo come si rapportino in termini di fornitura al sistema produttivo locale, che tipo di clientela abbiano (solo etnica 0 mista) e soprattutto quante di queste attività vivano nel sommerso. È necessario quindi un salto di qualità, non possiamo continuare a considerare la popolazione extracomunitaria e le imprese da essa create al di fuori delle dinamiche dell'eco¬nomia italiana.
Da parte delle organizzazioni di rap-presentanza, segnatamente la Cna, c'è un interesse crescente a fotografare la nuova realtà, si tratta però fino a questo punto di analisi quantitative. Con qualche eccezione: è uscito, per esempio, di recente un libro di Domenico Perrotta («Vite in cantiere») dedicato alla presenza dei romeni nell'edilizia. Le considerazioni di carattere economico conducono poi a una riflessione più generale, alla possibilità che proprio in virtù dell'attività imprenditoriale si possa formare una «classe dirigente etnica» più interessata a collaborare alla gestione delle dinamiche civili e culturali legate all'immigrazione. Una considerazione, questa, che tira in ballo immediatamente l'attività delle Camere di commercio.
 
 
 
ROM, SE L'UNICA ISTRUZIONE POSSIBILE È IN CARCERE
l'Unità, 26-07-2011 
Federica Fantozzi
Mamma, smetteremo mai di essere zingari?","Noi sì, ma ne verranno altri". È recente la sentenza choc della Corte d'Appello di Bologna sulla 12enne rom che salta la scuola dell'obbligo: non subisce "un pregiudizio" perché "è il suo normale modo di vita" e dunque non va tolta ai genitori né al campo nomade.
Bambini rom e scuola: tema difficile, scomodo, a rischio di pregiudizio se non razzismo o di buonismo velleitario. I giudici di Bologna hanno torto o sono meno ipocriti degli altri? I piccoli nomadi in classe imparano o ritagliano giornali in ultimo banco perché la legge impone la presenza ma non si cura dell'effettivo apprendimento? E quali sbocchi riserva loro il mondo del lavoro? Toglie molti alibi il bel libro coraggioso di Bianca Stancanelli "La vergogna e la fortuna" (Marsilio). C'è Marta, mendicante col terrore di incontrare i genitori dei suoi compagni, "tonda e dura come pietra, un ciottolo di bambina". Baraba, adolescente italiano di terza generazione: voleva fare il servizio civile ma non aveva la terza media. "Mi hanno detto: fai le scuole serali e ti accetteremo. Bello, ma so che dopo quest'anno non mi prenderanno da nessuna parte. Andrò con mio padre a vendere pentolini".
Come lui, tanti. Un popolo rassegnato a una vita minore. Maria che parla il "romanesco delle borgate" e si vergogna "degli zingari". Padri amari: "Quando vado a parlare di mia figlia, la maestra sembra che vede una bestia". A Roma non un solo rom all'università. I borsisti della Fondazione Ruggiu, talentuosi giovani che parlano quattro lingue, inviano curriculum nel vuoto. In Calabria la percentuale di scolari rom con necessità di sostegno per ritardo mentale è del 30% contro la media nazionale del 2,5%. Per gonfiare le assunzioni di insegnanti quanti bimbi passano mattine nei corridoi e sono "certificati deficienti"?
I rom più fieri considerano la scuola il luogo dove i loro figli imparano la vergogna: promossi "per malintesa bontà o perché non li rivogliono tra i piedi". A 13 anni "calci in culo e via" al campo. Ragazzi "bruciati", intimiditi dai coetanei strafottenti "che hanno sputato sulla scuola". Loro sono saliti sulla giostra, scoprendo le Nike, ma non hanno soldi per un altro giro. "In classe misurano la distanza tra la propria vita e quella degli altri". Molto dopo l'abolizione delle classi Lacio Drom, l'integrazione resta senza contenuti. Stancanelli descrive la gita al campo di una piccola venditrice di rose, con i compagni in processione muta "eccitati all'idea di trovarsi davanti alla sua cuccia e delusi perché dormiva in un letto". E fa rabbia scoprire che l'unica forma di istruzione per le ragazze gitane è il carcere. Dove curano orto e lavanderia, fanno corsi di ceramica e vanno in palestra. 
 
 
 
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