Newsletter periodica d’informazione

(aggiornata alla data del 7 novembre 2011)

 

Società: un alunno "straniero" su due è nato in Italia (42,1%)

 

 

 

Sommario

 

o      Dipartimento Politiche Migratorie – Appuntamenti                                                                      pag. 2

o      Società – Un alunno straniero su due è nato in Italia                                                                   pag. 2

o      Sanità – Anche tra stranieri è boom di donne medico                                                                  pag. 3

o      Società – Espulsione amministrativa, un caso pratico                                                                  pag. 3

o      Sentenze – Carta di soggiorno: per i familiari non servono 5 anni di residenza                           pag. 5

o      Discriminazioni – Denuncia contro le compagnie assicurative                                                      pag. 6

o      Dai Territori – Bari, il lavoro etnico resta nei campi; Lombardia: immigrati oltre il milione       pag. 9

o      DIIS -  Fighting irregular migration                                                                                                        pag. 10

 

A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil

Dipartimento Politiche Migratorie

Rassegna ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL

Tel. 064753292- 4744753- Fax: 064744751

E-Mail polterritoriali2@uil.it    

                                                                                             n. 321



Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti


Bergamo, 10 novembre 2011

Incontro con UILTA su immigrazione

Guglielmo Loy)

Roma, 10 novembre 2011, ore 11 Largo Chigi, 19

Unar: riunione cabina di regia delle parti sociali

(Giuseppe Casucci, Angela Scalzo)

Bruxelles, 10 novembre 2011, ore 09.00

CES - Riunione Gruppo Migrazione e Inclusione  

(Giuseppe Casucci)

Varsavia, 21 – 22 novembre 2011

Fundamental Rights Conference 2011:  'Rights and Dignity of irregular migrants'

(Giuseppe Casucci)

Mercoledì 30 novembre 2011, ore 10.00, via Avignone, 10

UNAR – Convegno Diversità Lavoro di Roma

(Angela Scalzo)

Roma, 13 dicembre 2011, Camera dei Deputati, sala della Mercede, via Poli 19

CIR – Nessun Luogo è Lontano Onlus - Workshop: “immigrazione e diritti di cittadinanza”

(Guglielmo Loy, Giuseppe Casucci, Angela Scalzo)


 

Società


Un alunno "straniero" su due è nato in Italia (42,1%)

Di Alessandra Coppola, http://www.corriere.it/


MILANO, 25 ottobre 2011 — Alla Casa del Sole, elementari e medie nel parco Trotter che a Milano è il ritrovo di molte nazionalità, lo sanno dai registri di classe: sono sempre di più gli alunni stranieri nati in Italia. «Un elemento decisivo — sottolinea lo storico, battagliero, preside Francesco Cappelli (appena andato in pensione) —: se i bambini parlano bene l’italiano e crescono in situazioni di stabilità familiare, crollano tutte le differenze che potevano creare difficoltà».  Lo dicono adesso con il timbro dell’ufficialità anche i dati elaborati dalla Fondazione Ismu per il ministero dell’Istruzione: nell’ultimo anno scolastico il 42,1 per cento degli studenti che non ha la cittadinanza italiana è nato qui. Un bel salto rispetto a tre anni fa, quando erano il 34,7. Nelle scuole dell’infanzia, poi, il numero quasi raddoppia: 78,3. «Diventa sempre più difficile usare la parola "stranieri" — osserva Vinicio Ongini, della Direzione generale dello studente al ministero, uno dei responsabili del rapporto —: in Lombardia il dato sale addirittura al 48 per cento». Sorridono i ragazzi della Rete G2-Seconde generazioni: un argomento in più a sostegno della campagna in corso per una legge sulla cittadinanza che riconosca come italiano chi è nato nei nostri confini, introducendo lo ius soli.Non si parla di boom di alunni stranieri, però, avverte Ongini. Al contrario, l’aumento complessivo frena, in modo anche più visibile di quanto si era già registrato per gli adulti. Gli studenti non italiani sono 711.064 (il 7,9 per cento del totale), dieci volte di più rispetto a 15 anni fa. Ma se fino al 2008 si sono moltiplicati al ritmo di 60-70 mila all’anno, nell’ultima tornata i nuovi ingressi sono stati «solo» 38 mila. Significa meno arrivi e più partenze: «Da una parte è effetto della crisi — continua il ricercatore — dall’altra alcuni nuclei familiari tornano ai Paesi d’origine, per esempio in Romania o in Albania, dove c’è una leggera ripresa». Romeni e albanesi restano comunque i più numerosi in classe, seguiti da marocchini e cinesi. A sorpresa, però, subito dopo arrivano i bambini moldavi, effetto dei ricongiungimenti chiesti da colf e badanti. Li tallonano al sesto posto gli indiani, che alle superiori vengono scavalcati dai ragazzini ucraini ed ecuadoriani (anche loro spesso hanno raggiunto le mamme al lavoro nelle case italiane). Gli ultimi iscritti, quelli che arrivano in Italia in fasi delicate come l’adolescenza, inseriti spesso in classi inferiori all’età anagrafica, sono il segmento più fragile — avvertono i ricercatori — quello che avrebbe bisogno di maggiore attenzione: ma sono solo il 5 per cento. Un dato assorbito nel conto degli alunni stranieri con ritardo scolastico: il 70 per cento alle superiori contro il 20 degli italiani. «Fenomeno spesso legato al percorso migratorio più che a una cattiva riuscita» spiega Mariagrazia Santagati, curatrice del rapporto per l’Ismu. Certo, il divario con i figli di italiani è significativo, anche nelle promozioni: «I bocciati stranieri sono il doppio, il 30 per cento». La professoressa Santagati s’è dedicata soprattutto ai dati che riguardano la scuola secondaria di secondo grado, traendone due considerazioni essenziali. La prima: i figli dei migranti stanno crescendo, in un anno 10 mila si sono iscritti alle superiori, anche se sono ancora solo il 5,8 per cento del totale (restano quindi concentrati tra elementari e medie). La seconda: la grande maggioranza frequenta un istituto tecnico o professionale, solo il 18,7 per cento (soprattutto ragazze) va al liceo (contro il 43,9 degli italiani). Spesso su consiglio dei docenti, in molti casi nella speranza di un più rapido accesso al mondo del lavoro. Infine, qualche sorpresa dalla distribuzione geografica. Se il record nei numeri è della Lombardia (il 24,3 per cento degli studenti non ha la cittadinanza italiana), guardando alle province le incidenze maggiori (cioè le percentuali più alte sul totale) si registrano a Piacenza, Prato, Mantova, Asti e Reggio Emilia. «Cè una tendenza a parlare dei quartiere delle grandi città — riflette Ongini —: questo rapporto sposta l’attenzione su un’altra Italia, fatta di paesi anche piccoli. E aiuta a dare un quadro più equilibrato».



Sanita': anche tra stranieri e' boom di donne medico, 10% e' dentista


Roma, 2 nov. (Adnkronos Salute) - La medicina si tinge sempre più di rosa. Cresce infatti in Italia il numero delle donne medico. Non solo tra i camici bianchi italiani, ma anche tra quelli stranieri, dove il gentil sesso rappresenta ormai il 45%, di cui il 10% è dentista. La maggior parte delle dottoresse proviene dai Paesi dell'Europa dell'Est (Russia, Ucrania, Romania, Albania, Moldavia, ex Jugoslavia). Ma anche da Iran, Camerun Congo, Somalia, Egitto, Libia. E' quanto emerge da un'analisi dell'Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi). Il fenomeno è in linea con quanto già accade con le dottoresse nate in Italia. Anzi, si può dire che nel nostro Paese il futuro della professione sembra segnato: sarà donna. Negli ultimi dieci anni - secondo i dati del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, elaborati dal Ced (Centro elaborazioni dati) della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo) - il sorpasso tra gli specializzati si è già consumato: su 67.980 specialisti, 35.986 sono donne e 31.994 uomini. Soprattutto pediatre, psichiatre dell'infanzia e genetiste. Ancora poche, pochissime, sono invece le specialiste in oncologia e chirurgia. Dall'indagine dell'Amsi emerge un quadro professionale variegato, a seconda della provenienza delle professioniste. "Ad esempio - spiega Foad Aodi, presidente dell'Amsi, all'Adnkronos Salute - sono tante le specialiste che non sono riuscite a farsi riconoscere il loro titolo di specializzazione in Italia, in particolare quelle che arrivano dai Paesi dell'Europa dell'Est, e che finiscono per esercitare come medici generici dopo il riconoscimento del diploma della loro laurea. Molte di quelle che arrivano dagli altri Paesi, si sono invece laureate e hanno fatto la specializzazione in Italia. Le discipline più frequentate sono ginecologia, pediatria, fisiatria, medicina d'urgenza". La maggior parte delle donne medico straniere - circa il 65% - risulta sposata, o con italiani o con loro connazionali. Perlopiù si tratta di camici rosa che lavorano all'interno di strutture private. "Parliamo - sottolinea Aodi - di cliniche convenzionate, centri di fisioterapia, laboratori di analisi. Questo - spiega il numero uno dell'Amsi - perché non hanno la cittadinanza italiana". C'è pure chi, giocoforza, finisce per abbandonare il camice. "Un numero considerevole di donne medico provenienti dai Paesi dell'Europa dell'Est - afferma il presidente dell'Associazione - non è riuscito a farsi riconoscere il titolo di laurea, e per difficoltà economiche ha optato per il lavoro di badante". Nell'ultimo periodo si sta registrando un cambiamento legato al flusso degli arrivi. "Negli ultimi cinque anni - spiega Aodi - si è ridotto molto il numero dei medici che arriva dai Paesi dell'Europa dell'Est rispetto ai primi anni Novanta. Adesso - conclude - si registrano soprattutto arrivi di camici bianchi dall'Egitto e dai Paesi arabi in generale".



Aduc Immigrazione

L'espulsione amministrativa del cittadino extracomunitario clandestino. Un caso pratico

Articolo di Anna Jennifer Christiansen, Immigrazione.Aduc.it


Roma, 31 ottobre 2011 - Abbiamo visto come il legislatore italiano, in seguito alla graduale disapplicazione da parte della giurisprudenza nazionale e comunitaria di gran parte delle disposizioni del pacchetto Sicurezza del 2009, ha rivisto il Testo Unico Immigrazione per adeguarlo agli standard imposti agli Stati europei da parte della Direttiva Rimpatri. Il nuovo testo della legge è in vigore ormai da qualche mese: vediamo come la riforma ha influito in concreto sulla gestione del problema dell’immigrazione clandestina in Italia. Lo facciamo esaminando un decreto di espulsione tipo, ove il Prefetto e' chiamato ad applicare la nuova disciplina e ad utilizzare i nuovi strumenti che essa mette a disposizione. La prima cosa che si nota, paragonando il nuovo “foglio di via” alle espulsioni emesse prima della riforma, é che gli stranieri irregolari espulsi prima dell’estate ricevevano un ordine di lasciare il territorio dello stato entro 5 giorni, mentre a quello accompagnato in Questura dopo il 6 agosto viene ordinato di andarsene entro 7 giorni. Inoltre cambiano le pene minacciate in caso di inottemperanza a tale ordine: prima la sanzione consisteva nella reclusione da 1 a 4 anni, adesso in una multa da 10.000 a 20.000 €. Lo straniero fermato dopo il 6 agosto deve quindi ritenersi fortunato: ha a disposizione 2 giorni in più per lasciare lo Stato, e se non adempie non va più in galera, ma deve “solo” pagare allo Stato una somma fra 10.000 e 20.000 €. Il ricorso al rimpatrio volontario rimane –nella prassi – ipotesi solo residuale contravvenendo quindi alla norma e ai principi della direttiva comunitaria. Ne e' esempio la stessa formulazione standard del decreto di espulsione: “rilevato che nel caso in esame si esclude la possibilità di far ricorso alla facolta' del rimpatrio volontario in quanto ricorrono le condizioni per accompagnamento immediato alla frontiera”. E' lampante la forzatura operata, che ribalta l’ordine di applicazione delle misure previste a livello europeo, disattendendo completamente lo spirito della Direttiva, che impone agli Stati di adottare un provvedimento di rimpatrio volontario ogni qualvolta sia possibile, preferendolo alle misure coercitive, più lesive dei diritti dello straniero. Nella “nuova” formulazione del decreto di espulsione l'ordine e' inverso: si esclude il rimpatrio volontario poiché ci sono le condizioni per l'accompagnamento immediato. Seppur nella sostanza cambi poco, e se anche la pubblica amministrazione esaminera' la sussistenza dei requisiti per il rimpatrio, cio' nondimeno una simile formulazione rende chiaro lo scopo della PA: osteggiare la direttiva, mantenere il sistema delle espulsioni uguale al precedente cercando di non incorrere nella violazione delle norme europee. Lo stesso spirito della circolare Manganelli (Circolare del Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza, del 17 dicembre 2010), emessa nel periodo di diretta efficacia della direttiva –quando ancora l'Italia non aveva provveduto al recepimento– in cui si suggerisce agli operatori una serie di “trucchetti” per aggirare le preclusioni comunitarie.

Le conseguenze sono di non poco rilevo

In primo luogo, la mancata concessione di un termine che consenta allo straniero di rimpatriare di propria volontà, implica (per mezzo di altra norma ben poco conforme alla Direttiva) che l’espulsione viene automaticamente corredata di un divieto di fare reingresso in Italia per 5 anni, pena la reclusione da 1 a 4 anni. Anche qui la differenza con la direttiva e' eloquente: secondo la direttiva il divieto di reingresso va da 0 a 5 anni; per il legislatore italiano va da 3 a 5 anni; le prefetture dispongono quasi sempre il divieto di reingresso per il periodo massimo, di 5 anni.

In secondo luogo, l'esclusione del rimpatrio volontario comporta il trattenimento dello straniero in un CIE ogni qualvolta non sia possibile eseguire immediatamente l’accompagnamento coattivo, ad es. per mancanza dei documenti per l’espatrio o di un mezzo di trasporto col quale accompagnare lo straniero in aeroporto. Si consideri che la mancanza del mezzo di trasporto è, purtroppo, la norma nel nostro Paese.

Ma il circolo vizioso non si interrompe qui. Altra circostanza disciplinata dalla Direttiva europea come ”situazione d’emergenza”, ma che da noi costituisce ormai la regola e non l'eccezione, è infatti la mancanza di disponibilità di posti nei CIE.

Ed è questa circostanza che porta all’ordine di lasciare il territorio, intimato dal Prefetto in applicazione dell’art. 14, comma 5-bis del Testo Unico, il quale recita come segue: “Allo scopo di porre fine al soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione […] il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di 7 giorni”. La soluzione individuata dal legislatore italiano per gestire la cronica emergenza e' l'ordine di lasciare il territorio entro sette giorni, cioè esattamente quanto accadeva prima della riforma (rectius, lo straniero ora ha ben due giorni in più per organizzarsi!).

Nonostante questo rimedio sia, a nostro avviso, assolutamente privo di legittimazione ai sensi della direttiva europea, esso finisce così per trovare applicazione nella stragrande maggioranza dei casi di rimpatrio di stranieri irregolari in Italia.

Chi riceve un decreto di espulsione come quello in esame, ha quindi una settimana di tempo per lasciare il Paese, procurandosi quanto serve al rimpatrio. Un’impresa praticamente impossibile per uno straniero che, in quanto irregolare, non può lavorare.

In realtà sarebbe prevista nel Testo Unico la possibilità per il Prefetto di fornire allo straniero documenti e denaro ai fini del rimpatrio. Così come sarebbe prevista l’attuazione, da parte del Ministero dell’Interno, di ”programmi di rimpatrio assistito” che dovrebbero garantire allo straniero il ritorno in patria in condizioni più umane e dignitose. Ma tutto ciò resta, al momento, un bel miraggio.

La risposta al nostro quesito iniziale, su come la riforma del Testo Unico abbia influito sulla gestione da parte della P.A. del fenomeno dell’immigrazione clandestina, non può quindi che essere la seguente: non ha praticamente influito, se non nel senso di abolire la reclusione e prevedere invece la pena pecuniaria per il caso di impossibilità di adempiere all’ordine del Prefetto.

Ancora una volta il legislatore italiano ha insomma optato per una riforma di facciata, che lascia pressoché inalterate le precedenti procedure di gestione del fenomeno immigratorio, rinunciando anche in questa occasione al tentativo di riassumere il controllo di una situazione ormai da tempo sfuggitagli di mano. Una situazione che non consente ne’ di garantire il rispetto dei diritti umani, ne’ di esercitare alcun controllo effettivo sui flussi migratori che interessano il nostro Paese.


 

Sentenze

 


Carta di soggiorno. Per i familiari non servono cinque anni di residenza

Il Tar del Piemonte ribalta l'intepretazione data finora da alcune Questure: l'anzianità quinquennale del permesso di soggiorno non risulta espressamente richiesto dalla norma. Leggi la sentenza


(www.stranieriinitalia.it) Roma 3 novembre 2011 - Le fonti normative. L’articolo 9 del T.U. immigrazione (d.lgs. 286 del 1998), che disciplinava in passato la carta di soggiorno, è stato modificato, a seguito del recepimento da parte dell’Italia della direttiva europea n. 109 del 2003 (mediante il D.Lgs. n. 3 del 2007), che ha introdotto il Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, e prevede che “lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell'articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, per sè e per i familiari di cui all'articolo 29, comma 1.” L’articolo 29, richiamato dal citato articolo, regola il ricongiungimento familiare. Tra i familiari indicati al primo comma è indicato anche il coniuge non legalmente separato e  di eta' non inferiore ai diciotto anni.
Il comma 3 lettera b) dell’articolo 29 considera il reddito necessario ai fini del ricongiungimento familiare disponendo che questo deve essere non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale aumentato della metà dell'importo dell'assegno sociale per ogni familiare da ricongiungere.

L’interpretazione dell’Amministrazione

In alcuni casi, l’Amministrazione, anche se la norma di legge lo prevede espressamente, interpretando la direttiva in maniera restrittiva non rilascia, al familiare dello straniero che ha maturato il requisito per ottenere il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, lo stesso titolo di soggiorno se, anche il familiare non risiede legalmente in Italia da almeno cinque anni. Il requisito della permanenza in Italia per almeno 5 anni ha origine dalla stessa direttiva europea che al punto sei del preambolo prevede che “La condizione principale per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe essere la durata del soggiorno nel territorio di uno Stato membro. Dovrebbe trattarsi di un soggiorno legale ed ininterrotto, a testimonianza del radicamento del richiedente nel paese in questione.”

L’interpretazione del Tribunale Amministrativo

Una recente sentenza del Tribunale Amministrativo del Piemonte (sentenza n. 1129 del 27 ottobre 2011), ribalta però tale interpretazione restrittiva. Nel caso di specie, si trattava di una richiesta di rilascio del permesso di soggiorno di cui all’articolo 9 del T.U. da parte di una cittadina albanese coniugata con un cittadino extracomunitario, che aveva richiesto ed ottenuto il permesso CE per soggiornanti di lungo periodo, per se e per i suoi figli. La Questura, aveva rigettato l’istanza motivando che la signora, non presentava il fondamentale requisito della permanenza regolare in Italia per almeno 5 anni. Inoltre, ad avviso della Questura, il rilascio del titolo di soggiorno di ex articolo 9 T.U. non sarebbe stato possibile in virtù dell’abrogazione del comma 4 dell’articolo 30 dello stesso T.U. ad opera del D.Lgs. 30 del 2007 (Il comma 4 abrogato prevedeva che “Allo straniero che effettua il ricongiungimento con il cittadino italiano o di uno Stato membro dell'Unione europea, ovvero con straniero titolare della carta di soggiorno di cui all'articolo 9, è rilasciata una carta di soggiorno”).
Presentato il ricorso avverso il provvedimento di rigetto, la ricorrente non contestava il fatto che non risiedesse in Italia da un quinquennio, ma che, avendo il coniuge raggiunto il requisito per ottenere il permesso di soggiorno CE soggiornanti di lungo periodo, anch’essa, in qualità di familiare come previsto dall’articolo 29, ne avesse diritto.
I Giudici amministrativi, richiamando ulteriori pronunce (in particolare il Tar Emilia Romagna, sentenza n. 253 del 2009 e il Tar Umbria, sentenza n. 263 del 2009), in contrasto con l’interpretazione dell’Amministrazione, hanno ritenuto che, ferma restando la verifica dei requisiti da riferire al nucleo familiare (reddito sufficiente e alloggio adeguato), l'anzianità quinquennale del permesso di soggiorno non risulta espressamente richiesta dalla norma, per il coniuge o i figli minori conviventi per i quali pure sia stato richiesto il titolo.
Inoltre, per quanto riguarda l’abrogazione del comma 4 dell’articolo 30, è stata ritenuta norma comunque non in contraddizione con la previsione della possibilità, per chi ne abbia i requisiti, di chiedere detto titolo "per sé e per i familiari di cui all'art. 29, comma 1"
La conseguenza di tale assunti, è stata l’accoglimento del ricorso e l’annullamento del provvedimento del Questore da parte del Tribunale Amministrativo.

Avv. Andrea De Rossi

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Discriminazioni


Tariffe maggiorate a stranieri

Denuncia per discriminazione contro le compagnie assicurative


Roma, 4 novembre 2011 - Una denuncia per discriminazione a due delle maggiori compagnie assicurative per le polizze auto perché applicano premi maggiorati per gli stranieri. È quanto hanno presentato al Tribunale civile di Milano l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Avvocati per Niente nei confronti dei gruppi assicurativi Zurich Italia e Quixa. I legali Alberto Guariso e Livio Neri hanno provato a calcolare i preventivi on line dai siti web delle due compagnie. A parità di condizioni, se con la Zurich la tariffa per un italiano è di 465 euro, per un ecuadoriano o un cinese sale a 632 euro e se si è rumeni, senegalesi, albanesi o camerunesi a 665 euro. Idem con Quixa, che sembra temere soprattutto i camerunesi, tanto che il preventivo di 414 euro per gli italiani schizza a 625 euro nel caso in cui al volante ci siano persone originarie del Paese africano.
Secondo gli avvocati si tratta di una discriminazione perché le due assicurazioni violano l’articolo 43 del Testo unico sull’immigrazione che vieta di imporre “condizioni più svantaggiose ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero”. Non solo, il criterio della cittadinanza per stabilire le polizze auto è fuorviante perché “come è noto si può essere cittadini italiani e essere nati, vissuti e aver appreso la guida in Argentina – si legge nel ricorso – e si può essere cittadini ecuadoriani ed essere nati, vissuti e aver appreso la guida a Milano”. Asgi e Avvocati per Niente chiedono al Tribunale civile di Milano di accertare la discriminazione, di imporre alle due compagnie assicurative di eliminare il requisito della cittadinanza nel calcolo delle Rc auto e, soprattutto, di risarcire i loro assicurati stranieri della maggiorazione tariffaria finora applicata.
(Red.)


 


Razzismo: per Lunaria sono ancora i giornalisti sul banco degli imputati
“Cronache di ordinario razzismo” da Rosarno a Lampedusa in 861 casi della  stampa e sul web.


(Immigrazione Oggi) Roma, 2 novembre 2011 - L’omicidio di Sanaa Dafani, la giovane 23enne di origine marocchina uccisa dal padre nel settembre 2009; la ribellione di Rosarno del 7 gennaio 2010; la vicenda della mensa scolastica di Adro dell’aprile 2010; l’omicidio di Maricica Hahaianu, 33enne romena uccisa a seguito di un litigio nella stazione della metro Anagnina di Roma l’8 ottobre 2010. Sono alcuni degli avvenimenti che hanno caratterizzato il dibattito pubblico sull’immigrazione e su cui si è concentrato il secondo “Libro bianco sul razzismo” realizzato da Lunaria e presentato sabato 29 ottobre a Roma.
Cronache di ordinario razzismo
è il titolo del rapporto che ha analizzato i media dal 15 luglio 2009 al 31 agosto 2011 e da cui emerge, secondo gli autori, “l’intolleranza, la xenofobia e il razzismo che abitano le nostre città, attraversano il mondo della politica e le pagine dei media, ispirano sempre più spesso le scelte istituzionali”.
A distanza di due anni dalla pubblicazione del suo primo libro bianco, Lunaria propone una selezione degli 861 casi di discriminazione e di razzismo monitorati sulla stampa e sul web per ricostruire l’evoluzione del razzismo quotidiano in Italia nelle diverse sfere della vita pubblica.
Un viaggio nell’orrore da nord a sud, senza dimenticare il lavoro nero e lo sfruttamento delle braccia straniere in agricoltura, le violazioni dei diritti umani nei Centri di identificazione ed espulsione, le navi prigione allestite per “liberare” Lampedusa dai tunisini, il divieto di accesso per la stampa e le associazioni non accreditate ai Cie e ai Cara. Il “pacchetto sicurezza” fa da cornice a quello che i curatori del volume definiscono senza mezzi termini “razzismo istituzionale”. Ma anche in queste vicende, i mass media, i giornalisti e gli opinionisti sono la nota dolente, accusati di usare categorie arbitrarie, di fare confusione fra orientamenti religiosi e nazionalità, di ignorare i termini corretti o, peggio, di malizia, sciatteria e sbavature razziste. Alcuni esempi riportati nel secondo Libro bianco sul razzismo riguardano i principali quotidiani e le agenzie di stampa nazionali. Si parte dal Corriere della Sera
del 20 dicembre 2010 che pubblica un editoriale di Giovanni Sartori L’integrazione degli islamici che ripropone “la vecchia tesi – un’autentica ossessione – della radicale inintegrabilità degli immigrati musulmani”. A questo proposito, si legge nel volume: “Oltre a perpetuare l’abituale confusione grossolana fra nazionalità e orientamento religioso, non degna di un politologo, oltre a far finta d’ignorare che si può essere indiani e musulmani, cinesi e musulmani, marocchini e cristiani, tunisini ed ebrei, maghrebini e agnostici, iracheni e atei, e così via, egli mostra di non conoscere dati empirici basilari. Fra questi, un dato che in base ai suoi criteri dovrebbe essere indice di scarsa integrazione proprio degli “asiatici”: secondo stime della Fondazione Ismu (relative al 2008 ma ancor oggi tendenzialmente valide), in Italia la maggior parte degli immigrati irregolari proviene infatti da paesi asiatici, in testa la Cina”.
Torna in auge nei titoli e negli articoli anche il termine “vù cumprà”. Una notizia Ansa del 18 aprile 2011 titola: Protesta venditori souvenir contro vu’ cumprà
. Lo stesso giorno Il Gazzettino informa che Massimo Cacciari, intervistato in proposito, ha dichiarato: “A me non danno fastidio: qualsiasi città italiana è piena di vu’ cumprà”. Repubblica.it in un servizio del 28 agosto 2011, usa “vu’ cumprà” per riferire dell’azione meritoria compiuta da alcuni migranti: la pulizia volontaria di alcune strade a Napoli. Anche nell’uso dei termini, i giornalisti della carta stampata sono accusati di ignoranza. Scambiano spesso i nigeriani per ‘nordafricani’ e confondono i Centri di detenzione per stranieri irregolari con quelli di accoglienza per richiedenti asilo. In quest’ultimo caso viene citato come cattivo esempio l’articolo di Alberto Custodero e Corrado Zunino, Guerriglia nei Cie, è strategia della violenza, su la Repubblica del 3 agosto 2011. Invece su Le Monde Salvatore Aloise non parla mai di ‘clandestini’ e sa distinguere correttamente le diverse tipologie di centri. Per quanto riguarda gli sbarchi a Lampedusa, “il linguaggio è biblico, bellicoso, catastrofico (fino all’infelice espressione “tsunami umano”), e induce i lettori/spettatori a sentirsi sotto assedio, profondamente minacciati e in stato di pericolo”.
“Scenario apocalittico” ed “esodo biblico senza precedenti” sono termini usati anche dal Governo, in particolare dal ministro dell’Interno Roberto Maroni che crea allarmismo. Alcuni esempi di titoli delle principali testate italiane: Clandestini fuori controllo. E l’Italia teme l’invasione
(La Stampa), Una marea di profughi (Il Giornale); Dalla Libia può arrivare un’ondata di immigrazione di proporzioni catastrofiche (Il Sole 24ore); Navi, aerei e paura: Lampedusa pronta come a una guerra (La Stampa).
Informazioni: www.lunaria.org.
(Al. Col.)


 


 

Sul lavoro chi muore di più è straniero

Di Carlo Soricelli, Osservatorio Indipendente di Bologna sulle morti per infortuni sul lavoro.


Bologna, 2 novembre 2011 - Le tragedie delle morti sul lavoro sono una miniera inesauribile di dati per capire l'evoluzione di una società e di un paese. In questo caso la “fotografia” è inerente agli stranieri morti sui luoghi di lavoro in Italia dall'inizio dell'anno. Gli stranieri morti sui luoghi di lavoro sono dal 1 gennaio sono 57 su un totale di 549; se si tolgono le 34 vittime di cui non siamo a conoscenza della nazionalità la percentuale di stranieri morti è dell'11% sul totale. E oltre il 40% sono romeni. Se ai 549 morti togliamo le vittime dell'agricoltura, che sono oltre il 33% di tutti i morti sul lavoro, e per quasi la totalità pensionati italiani, si arriva alla spaventosa percentuale del 15% degli stranieri morti sul totale. Praticamente più di un lavoratore su sette morto sui luoghi di lavoro è straniero. Gli stranieri eseguono i lavori più pericolosi e sono quasi tutti precari. E' la condizioni a cui aspira questo governo per tutto il mondo del lavoro, con l'articolo 8 dell'ultima manovra e la libertà di licenziamento con l'ultima "promessa" all'Europa. Se ai 549 morti togliamo le vittime dell'agricoltura, che sono oltre il 33% di tutti i morti sul lavoro, e per quasi la totalità pensionati italiani, si arriva alla spaventosa percentuale del 15% degli stranieri morti sul totale. Praticamente più di un lavoratore su sette morto sui luoghi di lavoro è straniero. Gli stranieri eseguono i lavori più pericolosi e sono quasi tutti precari. E' la condizioni a cui aspira questo governo per tutto il mondo del lavoro, con l'articolo 8 dell'ultima manovra e la libertà di licenziamento con l'ultima "promessa" all'Europa. Gli industriali sono finalmente contenti: ma hanno una visione poco lungimirante. Nelle fabbriche sindacalizzate i morti sul lavoro si contano sulle dita di una mano. In un luogo dove non c'è più contrattazione e controllo sulla Sicurezza inesorabilmente ci sarà un aumento dei morti sul lavoro e una caduta anche della qualità del prodotto.

Le aziende che hanno una percentuale alta di precari sono quelle che hanno più difficoltà a reggere la concorrenza. Invece di spingere per far dotare il paese di tecnologie avanzate pensano di risollevarsi dalla crisi umiliando il mondo del lavoro e comprimendo i salari e i diritti acquisiti. Ma sono solo illusioni, i problemi nei prossimi anni si moltiplicheranno e nelle fabbriche dove non c'è crisi, e negli enti pubblici si scatenerà un conflitto insanabile che riporterà l'Italia indietro di 50 anni.


 

Territori

 


Stranieri, il lavoro resta nei campi

Di Gabriele Miceli, La Repubblica - Bari


Bari, 3 novembre 2011 - DIMMI da dove vieni e ti dirò che lavoro fai. Anche in Puglia, il tipo di impiego dei lavoratori stranieri è legato al Paese di provenienza. E così, tra le oltre 150 nazionalità presenti, se i senegalesi lavorano prevalentemente nel settore della pesca, spetta a cinesi, filippini e indiani contendersi quello dei trasporti. Ciò che li unisce, però,è un mercato del lavoro poco favorevole per i cittadini nati all' estero: retribuzioni più basse, contratti ambigui, licenziamenti. L' unica certezza arriva dall' agricoltura, settore trainante per chi cerca lavoro: nel 2010 uno straniero su due in Puglia è impiegato nei campi. Non da meno il lavoro domestico, dove negli ultimi dieci anni è triplicato il numero degli occupati. I dati forniti alle segreterie regionali di Anolf-Cisl, Cigl-Immigrazione e Ital-Uil hanno confermato lo stretto legame tra Paese di origine e occupazione. I nordafricani, per esempio, lavorano principalmente nell' agricoltura, edilizia e commercio. I cinesi nel turismo, ristorazione, commercio e trasporti. Bengalesi, indiani e marocchini si dividono il settore dei servizi avanzati e finanziari. Nei servizi alle persone, invece, tra badanti e domestici, le nazionalità prevalenti sono Georgia, Ucraina, Romania, Polonia, Filippine, Mauritius, Eritrea, Albania e Senegal. Mentre tra chi lavora il marmo ci sono soprattutto albanesi e marocchini. Secondo i dati pubblicati nell' ultimo "Dossier immigrazione" di Caritas/Migrantes, tra gli operai a tempo indeterminato è particolarmente significativa la presenza dei rumeni: con oltre 15mila 492 lavoratori, sono la principale comunità straniera della categoria nel Mezzogiorno. Per quanto riguarda invece gli operai con contratto a tempo determinato, le comunità più diffuse sono gli albanesi (oltre 4mila) e marocchini (più di mille). Dati negativi arrivano sul fronte assunzioni. In Puglia, nel corso del 2010 sono stati assunti poco più di 10mila lavoratori nati all' estero. Sempre secondo il rapporto della Caritas, se l' agricoltura si è dimostrata il settore con il maggior numero di ingressi, al secondo posto troviamo i servizi: tra alberghi, ristoranti e commercio il numero delle assunzioni tra gli immigrati ha superato le 3mila unità. Un dato interessante arriva dal mondo dell' informatica e servizi alle imprese, dove sono stati assunti 400 stranieri. Il mercato del lavoro per i cittadini immigrati riflette comunque le attuali difficoltà. Dal 2009 al 2010 gli occupati stranieri sono diminuiti del 6,1 per cento e se si guarda la variazione annuale degli assunti (meno 11,9 per cento) la Puglia è la seconda per record negativo in Italia, dietro al Friuli Venezia Giulia. Sembrano avvantaggiati coloro che risiedono a Bari. Nel rapporto Puglia in cifre 2010 pubblicato dall' Ipres, emerge che nella provincia barese c' è il più alto livello regionale di occupazione tra gli stranieri con il 38,3 per cento. Sempre a Bari c' è il maggior numero di immigrati titolari di impresa: poco meno della metà dei 2mila 640 iscritti in Puglia.


 


Caritas/ Migrantes

Oltre un milione di immigrati in Lombardia

Rispetto al 2009 il numero degli stranieri all'interno della regione e' aumentato dell'8,4%


Milano, 31 ottobre 2011 - I residenti stranieri in Lombardia continuano a crescere e per la prima volta superano il milione. In aumento sia per nuovi ingressi che per le nascite. Sul fronte lavorativo si conferma, invece, una diminuzione degli immigrati occupati e per la prima volta calano anche le rimesse. La stima arriva dall'elaborazione dei dati contenuti nel dossier statistico Immigrazione 2011. Rispetto al 2009, il numero degli stranieri all'interno della regione e' aumentato dell'8,4%. Anche perchè le donne straniere fanno in media il doppio dei figli rispetto alle italiane e in Lombardia un neonato su tre e' partorito da una madre non italiana. Diminuiscono invece, come conseguenza alla crisi economica, gli immigrati occupati, con un calo dell'1,9% rispetto al 2009. E in controtendenza rispetto agli scorsi anni le rimesse hanno avuto una flessione del 7,2%. ''La crisi ha impoverito anche gli stranieri - ha spiegato Roberto Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana, ma non li ha spinti a tornare in patria o a dissuadere i propri connazionali dal raggiungerli“. Secondo Davanzo gli ultimi dati dimostrano che l'Italia e' ormai un paese strutturalmente multietnico, multiculturale e multi religioso e la Lombardia, in particolare, si trova all'avanguardia di questa trasformazione. "Prenderne atto significa allora - ha continuato - fare i conti con questa realtà.


 

 

Foreign Press

 


Danish Institute for International Studies. Policy brief - Europe

Fighting Irregular

Migration – Consequences

for West African Mobility

In collaboration with African countries, the

EU is fighting irregular migration to Europe

through border control and deportations.

However, rather than halting irregular migration, such policies reconfigure mobility flows and make migration routes more dangerous and difficult.


25 October 2011 - The arrival of over 40,000 African migrants and asylum seekers to the Italian island of Lampedusa this year has caused Denmark and other EU countries to reconsider their policies in relation to African migration. Images of ramshackle boats crossing the Mediterranean from North Africa have caused public and political anxiety around the perceived high number of Africans waiting to enter Europe, sometimes described as an ‘invasion’ or ‘flood’. Such apocalyptic metaphors imply a potentially uncontrollable catastrophe that Europe must counter. Indeed, one response to the ‘boat migration crisis’ has been a call for more intensive control of Europe’s external borders and return of irregular migrants to their countries of origin or transit. This DIIS Brief explores the consequences of EU migration policies for West African migration, particularly irregular migration, and calls for consideration of their human consequences. While the admission of skilled and temporary circular migrants is being furthered, the combating of irregular migration is reinforced through tightening visa and asylum legislation, externalisation of border control, and deportations. The overall policy tendency is thus a differentiation of African migration flows, making mobility easier for educated and privileged groups and more difficult and dangerous for the large majority. This not only applies for migration to Europe but also for migration within Africa, with grave consequences for migrants and their families.

The Euro pean fight against irregular migration

The large majority of undocumented African migrants in Europe entered legally as students, labour migrants or tourists but have subsequently overstayed their visas. A smaller number have entered irregularly with forged papers or by clandestine crossing of European borders. It is important to emphasise that irregular entry migration is first and foremost a consequence of lack of access to legal migration and is often more expensive, dangerous and difficult. Since the early 1990s and the 1995 introduction of free mobility within the Schengen Area, the EU has tightened its visa legislation for third country citizens and increased control and patrol of its external borders. Irregular crossings of the Straits of Gibraltar and of Sicily followed the introduction of visa requirements for North Africans in Italy and Spain in 1990 and 1991. From 2000 North African migrants were joined by sub-Saharans. European border control and patrol has subsequently been extended to the high seas and African territories and territorial waters, conducted by European states or the European border agency FRONTEX. This externalisation is combined with strengthening of African coastguards, migration management and border control systems as well as the stationing of European immigration liaison officers and police and military personnel in some African countries. Voluntary repatriation and enforced removal of irregular migrants have also become an important policy priority for the EU and its member states. An EU return directive (2008/115/EC) was passed in 2008, obliging member states to remove irregular stayers following common procedures. While transpositions to member state legislations have not yet been implemented, forced removals are likely to become an even more prominent policy and practice area. So far the EU has entered into a range of readmission agreements, mainly with third countries bordering the EU and also, recently, with Pakistan. Currently there are no readmission agreements with African countries at EU level but the European Commission is negotiating with Cape Verde and Morocco. A joint EU-Tunisia operational project is also being launched to address irregular migration in the Mediterranean region. In addition, there are a range of bilateral agreements between European countries and countries of migrant origin and transit, linked to readmission of deported nationals or third country nationals. Often readmission agreements go hand in hand with financial and logistical support to migration management systems, migration- development schemes, favourable visa arrangements  and quotas for admission of temporary labour migrants. Finally, the EU is engaged in risk awareness campaigns in countries of origin and transit, often in collaboration with IOM, UNHCR, FRONTEX and immigration authorities in the involved states. The aim is to warn would-be migrants against the dangers of irregular migration through outreach seminars, telephone hotlines, YouTube videos, radio and television announcements, posters, and migration information  offices. The underlying expectation seems to be that if Africans without legal means of migration are properly educated about the risks and dangers of irregular migration, they will – or should – stop moving and simply ‘stay home’.

African migration regimes

Together these measures can be classified as non-entry policies based on differentiation of access to Europe. The mobility of some (desired) migrants thus comes at the expense of the immobility of others. Similar policy tendencies can be seen in African countries where the battle against irregular migration has become an important part of general migration policies and migration management. This not only has implications for African migration towards Europe but also for intra-African mobility. ECOWAS provides an example. Since 1979 the Economic Community of West African States has promoted free mobility and residence of member state nationals within ECOWAS. Bordering the Maghreb countries of Mauritania, Algeria and Libya, this implies that ECOWAS nationals have the right to move legally to the southern borders of these countries. However, inspired by the 2006 joint EU-Africa Tripoli Declaration on Migration and Development, ECOWAS adopted a ‘common approach to migration’ in Ouagadougou in 2008. While this approach emphasises free mobility, it also sets the combating of irregular migration as one of the

main objectives and commits ECOWAS member states to strengthening migration management and control as well as to returning irregular migrants. In addition, a number of Maghreb states – being countries of migration exit, transit and settlement – have tightened their migration legislation and started to enforce immigration control and deport undocumented migrants. In Morocco, for instance, immigration legislation has been enforced since the early 2000s; resulting in increased border controls, frequent checks of migrants’ status and reports of deportations of migrants to neighbouring Algeria, where they are abandoned in the desert. Concurrently Libya was offered and received development aid – such as the now repudiated Treaty of Friendship, Partnership and Cooperation signed by Berlusconi and Qaddafi in 2008 – to curb African migration towards Europe and to receive irregular migrants apprehended in Italy. Following the recent political changes in North Africa and Libya, this and other agreements between EU member states and North African states have been suspended but new ones are underway. While the stated aim of such measures is to manage migration and, in particular, prevent irregular migration, non entry policies and deportations have a range of side effects. Rather than simply stopping migration, they make it more dangerous and more expensive as established routes are closed and the means of legal migration are diminished. This development is further spurred by changes of regional migration systems where common destinations for West African migrants – notably Côte d’Ivoire and Libya – have experienced political and economic crises, prompting deportations of migrants and furthering the reconfiguration of mobility flows.

The transformation of the West Africa-Maghreb migration system

West Africa-Maghreb migration offers an example of the reconfiguration of an established migration system. Migration between these regions dates back to pre-colonial times when ancient trade and caravan routes traversed the Sahel and the Sahara. The routes were impeded by the imposition of colonial and later national borders but regained importance from the early 1960s with migrant workers from the Sahel belt working in development projects in Algeria and in Libya’s oil industry. From the 1990s a larger number of sub-Saharan Africans (and migrants from elsewhere in the world) started to migrate to Libya and, from the late 1990s, also to Morocco, Algeria, and Tunisia. West African migration to the Maghreb countries is very diverse, ranging from labour migrants to students pursuing higher education or Islamic studies. While some have migrated for economic reasons, others have fled conflict and violence in their countries of origin or (former) residence, and some hope to move on to Europe. The journeys from West Africa to the Maghreb often prove to be longer and more costly than anticipated, taking from a few weeks to several years, because of prolonged waiting times at transit points where migrants take up informal work to finance the onward journey, or wait for money to be wired from family or friends. Some migrants get ‘stuck’ en route, unable to move on or go back. There are now sizable and growing communities of sub-Saharan migrants living in cities like Nouakchott in Mauritania, Rabat and Oujda in Morocco, Algiers in Algeria, Tunis in Tunisia, and Tripoli and Benghazi in Libya (although many sub- Saharan migrants have fled Libya due to the civil war). While some migrants have entered these countries without the necessary documents, others have entered legally but overstayed. Undocumented migrants mainly find work in the informal labour market, often living under very difficult circumstances without opportunities for mobility or legalisation of their stay, and hence without any legal protection from economic exploitation and other kinds of abuse. Some of these migrants have been caught, detained or returned to a country of transit; some have tried to re emigrate several times – whether across the Sahara or the Mediterranean – and plan to do so again, given the opportunity or finances. Other migrants have come to work in the Maghreb countries, or resigned themselves to do so, given the difficulties, dangers and cost of onward  migration to Europe. In all cases, the majority of sub-Saharan African migrants end up staying in the Maghreb countries with only a minority reaching Europe.

Social and political consequences of non-entry policies

Situations of confinement and irregularity are not only difficult for migrants but also for their families. West African migration is often part of family livelihood strategies, financed by the pooling of family resources with ensuing expectations of remittances or of support for the migration of other family members. Failing to ‘succeed’ as a migrant and fulfil such expectations can have economic consequences for households expecting or depending on remittances. Deportation is often seen as extremely shameful and sometimes results in exclusion from the family and local community as well as risky attempts at re-migration. The emphasis on managing migration and combating irregular migration has thus made migration for the majority of African migrants more difficult, dangerous and expensive. Rather than bringing irregular migration to a halt, non-entry policies interrupt, decelerate and reconfigure mobility flows, often conflating intra-African migration with irregular migration to Europe. In addition to the problem of being based on alarmist perceptions rather than facts, these policies ignore the reality that the bulk of African migration takes place within the continent rather than to Europe. Finally, the European fight against irregular migration in African countries of exit and transit often comes at the price of collaborating with undemocratic regimes and authorities, and of violating human rights. The rise in boat migrants and asylum seekers from North Africa to Lampedusa this year is a lesson in the fragile and problematic nature of such strategies and an urgent signal for EU member states to reconsider the human consequences of their migration policies.