Newsletter periodica
d’informazione
(aggiornata alla data del
7 novembre 2011)
o
Dipartimento Politiche
Migratorie – Appuntamenti pag. 2
o
Società – Un
alunno straniero su due è nato in Italia pag. 2
o
Sanità – Anche
tra stranieri è boom di donne medico pag. 3
o
Società –
Espulsione amministrativa, un caso pratico
pag. 3
o
Sentenze – Carta
di soggiorno: per i familiari non servono 5 anni di residenza pag. 5
o
Discriminazioni
– Denuncia contro le compagnie assicurative pag. 6
o
Dai Territori – Bari,
il lavoro etnico resta nei campi; Lombardia: immigrati oltre il milione pag. 9
o
DIIS - Fighting
irregular migration
pag. 10
A
cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento
Politiche Migratorie
Rassegna
ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL
Tel.
064753292- 4744753- Fax: 064744751
n. 321
Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti
Bergamo, 10 novembre 2011
Incontro con UILTA su
immigrazione
Guglielmo Loy)
Roma, 10 novembre 2011, ore 11
Largo Chigi, 19
Unar: riunione cabina di
regia delle parti sociali
(Giuseppe Casucci, Angela Scalzo)
Bruxelles, 10 novembre 2011, ore
09.00
CES - Riunione Gruppo
Migrazione e Inclusione
(Giuseppe Casucci)
Varsavia, 21 – 22 novembre 2011
Fundamental Rights Conference 2011: 'Rights and
Dignity of irregular
migrants'
(Giuseppe Casucci)
Mercoledì 30 novembre 2011, ore
10.00, via Avignone, 10
UNAR – Convegno
Diversità Lavoro di Roma
(Angela Scalzo)
Roma, 13 dicembre 2011, Camera
dei Deputati, sala della Mercede, via Poli 19
CIR – Nessun Luogo è
Lontano Onlus - Workshop: “immigrazione e diritti di cittadinanza”
(Guglielmo Loy, Giuseppe Casucci,
Angela Scalzo)
Roma,
2 nov. (Adnkronos Salute) - La medicina si tinge sempre più di rosa. Cresce
infatti in Italia il numero delle donne medico. Non solo tra i camici bianchi
italiani, ma anche tra quelli stranieri, dove il gentil sesso rappresenta ormai
il 45%, di cui il 10% è dentista. La maggior parte delle dottoresse proviene
dai Paesi dell'Europa dell'Est (Russia, Ucrania, Romania, Albania, Moldavia, ex
Jugoslavia). Ma anche da Iran, Camerun Congo, Somalia, Egitto, Libia. E' quanto
emerge da un'analisi dell'Associazione medici di origine straniera in Italia
(Amsi). Il fenomeno è in linea con quanto già accade con le dottoresse nate in
Italia. Anzi, si può dire che nel nostro Paese il futuro della professione
sembra segnato: sarà donna. Negli ultimi dieci anni - secondo i dati del
ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, elaborati dal Ced
(Centro elaborazioni dati) della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo)
- il sorpasso tra gli specializzati si è già consumato: su 67.980 specialisti,
35.986 sono donne e 31.994 uomini. Soprattutto pediatre, psichiatre
dell'infanzia e genetiste. Ancora poche, pochissime, sono invece le specialiste
in oncologia e chirurgia. Dall'indagine dell'Amsi emerge un quadro
professionale variegato, a seconda della provenienza delle professioniste.
"Ad esempio - spiega Foad Aodi, presidente dell'Amsi, all'Adnkronos Salute
- sono tante le specialiste che non sono riuscite a farsi riconoscere il loro
titolo di specializzazione in Italia, in particolare quelle che arrivano dai
Paesi dell'Europa dell'Est, e che finiscono per esercitare come medici generici
dopo il riconoscimento del diploma della loro laurea. Molte di quelle che
arrivano dagli altri Paesi, si sono invece laureate e hanno fatto la
specializzazione in Italia. Le discipline più frequentate sono ginecologia,
pediatria, fisiatria, medicina d'urgenza". La maggior parte delle donne
medico straniere - circa il 65% - risulta sposata, o con italiani o con loro
connazionali. Perlopiù si tratta di camici rosa che lavorano all'interno di
strutture private. "Parliamo - sottolinea Aodi - di cliniche
convenzionate, centri di fisioterapia, laboratori di analisi. Questo - spiega
il numero uno dell'Amsi - perché non hanno la cittadinanza italiana". C'è
pure chi, giocoforza, finisce per abbandonare il camice. "Un numero
considerevole di donne medico provenienti dai Paesi dell'Europa dell'Est - afferma
il presidente dell'Associazione - non è riuscito a farsi riconoscere il titolo
di laurea, e per difficoltà economiche ha optato per il lavoro di
badante". Nell'ultimo periodo si sta registrando un cambiamento legato al
flusso degli arrivi. "Negli ultimi cinque anni - spiega Aodi - si è
ridotto molto il numero dei medici che arriva dai Paesi dell'Europa dell'Est
rispetto ai primi anni Novanta. Adesso - conclude - si registrano soprattutto
arrivi di camici bianchi dall'Egitto e dai Paesi arabi in generale".
Articolo
di Anna Jennifer Christiansen, Immigrazione.Aduc.it
Roma, 31
ottobre 2011 - Abbiamo visto come il legislatore italiano, in seguito alla
graduale disapplicazione da parte della giurisprudenza nazionale e comunitaria
di gran parte delle disposizioni del pacchetto Sicurezza del 2009, ha rivisto
il Testo Unico Immigrazione per adeguarlo agli standard imposti agli Stati
europei da parte della Direttiva Rimpatri. Il nuovo testo della legge è
in vigore ormai da qualche mese: vediamo come la riforma ha influito in
concreto sulla gestione del problema dell’immigrazione clandestina in Italia.
Lo facciamo esaminando un decreto di espulsione tipo, ove il Prefetto e'
chiamato ad applicare la nuova disciplina e ad utilizzare i nuovi strumenti che
essa mette a disposizione. La prima cosa che si nota, paragonando il nuovo
“foglio di via” alle espulsioni emesse prima della riforma, é che gli stranieri
irregolari espulsi prima dell’estate ricevevano un ordine di lasciare il
territorio dello stato entro 5 giorni, mentre a quello accompagnato in Questura
dopo il 6 agosto viene ordinato di andarsene entro 7 giorni. Inoltre
cambiano le pene minacciate in caso di inottemperanza a tale ordine: prima la
sanzione consisteva nella reclusione da 1 a 4 anni, adesso in una multa da
10.000 a 20.000 €. Lo straniero fermato dopo il 6 agosto deve quindi ritenersi
fortunato: ha a disposizione 2 giorni in più per lasciare lo Stato, e se
non adempie non va più in galera, ma deve “solo” pagare allo Stato una somma
fra 10.000 e 20.000 €. Il ricorso al rimpatrio volontario rimane
–nella prassi – ipotesi solo residuale contravvenendo quindi alla
norma e ai principi della direttiva comunitaria. Ne e' esempio la stessa
formulazione standard del decreto di espulsione: “rilevato che nel caso in
esame si esclude la possibilità di far ricorso alla facolta' del rimpatrio
volontario in quanto ricorrono le condizioni per
accompagnamento immediato alla frontiera”. E' lampante la forzatura
operata, che ribalta l’ordine di applicazione delle misure previste a livello
europeo, disattendendo completamente lo spirito della Direttiva, che impone
agli Stati di adottare un provvedimento di rimpatrio volontario ogni qualvolta
sia possibile, preferendolo alle misure coercitive, più lesive dei diritti
dello straniero. Nella “nuova” formulazione del decreto di espulsione l'ordine
e' inverso: si esclude il rimpatrio volontario poiché ci sono le
condizioni per l'accompagnamento immediato. Seppur nella sostanza
cambi poco, e se anche la pubblica amministrazione esaminera' la sussistenza dei
requisiti per il rimpatrio, cio' nondimeno una simile formulazione rende chiaro
lo scopo della PA: osteggiare la direttiva, mantenere il sistema delle
espulsioni uguale al precedente cercando di non incorrere nella violazione
delle norme europee. Lo stesso spirito della circolare Manganelli (Circolare del Ministero dell'Interno - Dipartimento della
Pubblica Sicurezza, del 17 dicembre 2010), emessa nel periodo di
diretta efficacia della direttiva –quando ancora l'Italia non aveva
provveduto al recepimento– in cui si suggerisce agli operatori una serie
di “trucchetti” per aggirare le preclusioni comunitarie.
Le
conseguenze sono di non poco rilevo
In primo
luogo, la mancata concessione di un termine che consenta allo straniero di
rimpatriare di propria volontà, implica (per mezzo di altra norma ben poco
conforme alla Direttiva) che l’espulsione viene automaticamente corredata di un
divieto di fare reingresso in Italia per 5 anni, pena la reclusione da 1 a 4
anni. Anche qui la differenza con la direttiva e' eloquente: secondo la
direttiva il divieto di reingresso va da 0 a 5 anni; per il legislatore
italiano va da 3 a 5 anni; le prefetture dispongono quasi sempre il divieto di
reingresso per il periodo massimo, di 5 anni.
In secondo
luogo, l'esclusione del rimpatrio volontario comporta il trattenimento dello
straniero in un CIE ogni qualvolta non sia possibile eseguire immediatamente
l’accompagnamento coattivo, ad es. per mancanza dei documenti per l’espatrio o
di un mezzo di trasporto col quale accompagnare lo straniero in aeroporto. Si
consideri che la mancanza del mezzo di trasporto è, purtroppo, la norma nel
nostro Paese.
Ma il
circolo vizioso non si interrompe qui. Altra
circostanza disciplinata dalla Direttiva europea come ”situazione d’emergenza”,
ma che da noi costituisce ormai la regola e non l'eccezione, è infatti la
mancanza di disponibilità di posti nei CIE.
Ed è questa
circostanza che porta all’ordine di lasciare il territorio, intimato dal
Prefetto in applicazione dell’art. 14, comma 5-bis del Testo Unico, il quale
recita come segue: “Allo scopo di porre fine al soggiorno illegale dello
straniero e di adottare le misure necessarie per eseguire immediatamente il
provvedimento di espulsione […] il questore ordina allo straniero di lasciare
il territorio dello Stato entro il termine di 7 giorni”. La soluzione
individuata dal legislatore italiano per gestire la cronica emergenza e'
l'ordine di lasciare il territorio entro sette giorni, cioè esattamente
quanto accadeva prima della riforma (rectius, lo straniero ora ha ben
due giorni in più per organizzarsi!).
Nonostante
questo rimedio sia, a nostro avviso, assolutamente privo di legittimazione ai
sensi della direttiva europea, esso finisce così per trovare applicazione nella
stragrande maggioranza dei casi di rimpatrio di stranieri irregolari in Italia.
Chi riceve un
decreto di espulsione come quello in esame, ha quindi una settimana di tempo
per lasciare il Paese, procurandosi quanto serve al rimpatrio. Un’impresa
praticamente impossibile per uno straniero che, in quanto irregolare, non può
lavorare.
In realtà
sarebbe prevista nel Testo Unico la possibilità per il Prefetto di fornire allo
straniero documenti e denaro ai fini del rimpatrio. Così come sarebbe prevista
l’attuazione, da parte del Ministero dell’Interno, di ”programmi di rimpatrio
assistito” che dovrebbero garantire allo straniero il ritorno in patria in
condizioni più umane e dignitose. Ma tutto ciò resta, al momento, un bel
miraggio.
La risposta
al nostro quesito iniziale, su come la riforma del Testo Unico abbia influito
sulla gestione da parte della P.A. del fenomeno dell’immigrazione clandestina,
non può quindi che essere la seguente: non ha praticamente influito,
se non nel senso di abolire la reclusione e prevedere invece la pena pecuniaria
per il caso di impossibilità di adempiere all’ordine del Prefetto.
Ancora
una volta il legislatore italiano ha insomma optato per una riforma di facciata, che
lascia pressoché inalterate le precedenti procedure di gestione del fenomeno
immigratorio, rinunciando anche in questa occasione al tentativo di riassumere
il controllo di una situazione ormai da tempo sfuggitagli di mano. Una
situazione che non consente ne’ di garantire il rispetto dei diritti umani, ne’
di esercitare alcun controllo effettivo sui flussi migratori che interessano il
nostro Paese.
Sentenze
Il Tar del Piemonte ribalta
l'intepretazione data finora da alcune Questure: l'anzianità quinquennale del
permesso di soggiorno non risulta espressamente richiesto dalla norma. Leggi la
sentenza
(www.stranieriinitalia.it) Roma 3
novembre 2011 - Le fonti normative. L’articolo 9 del T.U.
immigrazione (d.lgs. 286 del 1998), che disciplinava in passato la carta di
soggiorno, è stato modificato, a seguito del recepimento da parte dell’Italia
della direttiva europea n. 109 del 2003 (mediante il D.Lgs. n. 3 del 2007), che
ha introdotto il Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, e
prevede che “lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di
soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non
inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta
relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati
nell'articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei
parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia
residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità
igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per
territorio, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno CE
per soggiornanti di lungo periodo, per sè e per i familiari di cui all'articolo
29, comma 1.” L’articolo 29, richiamato dal citato articolo, regola il
ricongiungimento familiare. Tra i familiari indicati al primo comma è indicato
anche il coniuge non legalmente separato e di eta' non inferiore ai diciotto anni.
Il comma 3 lettera b) dell’articolo 29 considera il reddito necessario ai fini
del ricongiungimento familiare disponendo che questo deve essere non inferiore
all’importo annuo dell’assegno sociale aumentato della metà dell'importo
dell'assegno sociale per ogni familiare da ricongiungere.
L’interpretazione
dell’Amministrazione
In alcuni
casi, l’Amministrazione, anche se la norma di legge lo prevede espressamente,
interpretando la direttiva in maniera restrittiva non rilascia, al familiare
dello straniero che ha maturato il requisito per ottenere il permesso di
soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, lo stesso titolo di soggiorno
se, anche il familiare non risiede legalmente in Italia da almeno cinque anni.
Il requisito della permanenza in Italia per almeno 5 anni ha origine dalla
stessa direttiva europea che al punto sei del preambolo prevede che “La
condizione principale per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo
dovrebbe essere la durata del soggiorno nel territorio di uno Stato membro.
Dovrebbe trattarsi di un soggiorno legale ed ininterrotto, a testimonianza del
radicamento del richiedente nel paese in questione.”
L’interpretazione
del Tribunale Amministrativo
Una recente
sentenza del Tribunale Amministrativo del Piemonte (sentenza n. 1129 del 27
ottobre 2011), ribalta però tale interpretazione restrittiva. Nel caso di
specie, si trattava di una richiesta di rilascio del permesso di soggiorno di
cui all’articolo 9 del T.U. da parte di una cittadina albanese coniugata con un
cittadino extracomunitario, che aveva richiesto ed ottenuto il permesso CE per
soggiornanti di lungo periodo, per se e per i suoi figli. La Questura, aveva
rigettato l’istanza motivando che la signora, non presentava il fondamentale
requisito della permanenza regolare in Italia per almeno 5 anni. Inoltre, ad
avviso della Questura, il rilascio del titolo di soggiorno di ex articolo 9
T.U. non sarebbe stato possibile in virtù dell’abrogazione del comma 4
dell’articolo 30 dello stesso T.U. ad opera del D.Lgs. 30 del 2007 (Il comma 4
abrogato prevedeva che “Allo straniero che effettua il ricongiungimento con il
cittadino italiano o di uno Stato membro dell'Unione europea, ovvero con
straniero titolare della carta di soggiorno di cui all'articolo 9, è rilasciata
una carta di soggiorno”).
Presentato il ricorso avverso il provvedimento di rigetto, la ricorrente non
contestava il fatto che non risiedesse in Italia da un quinquennio, ma che,
avendo il coniuge raggiunto il requisito per ottenere il permesso di soggiorno
CE soggiornanti di lungo periodo, anch’essa, in qualità di familiare come
previsto dall’articolo 29, ne avesse diritto.
I Giudici amministrativi, richiamando ulteriori pronunce (in particolare il Tar
Emilia Romagna, sentenza n. 253 del 2009 e il Tar Umbria, sentenza n. 263 del
2009), in contrasto con l’interpretazione dell’Amministrazione, hanno ritenuto
che, ferma restando la verifica dei requisiti da riferire al nucleo familiare
(reddito sufficiente e alloggio adeguato), l'anzianità quinquennale del
permesso di soggiorno non risulta espressamente richiesta dalla norma, per il
coniuge o i figli minori conviventi per i quali pure sia stato richiesto il titolo.
Inoltre, per quanto riguarda l’abrogazione del comma 4 dell’articolo 30, è
stata ritenuta norma comunque non in contraddizione con la previsione della
possibilità, per chi ne abbia i requisiti, di chiedere detto titolo "per
sé e per i familiari di cui all'art. 29, comma 1"
La conseguenza di tale assunti, è stata l’accoglimento del ricorso e
l’annullamento del provvedimento del Questore da parte del Tribunale
Amministrativo.
Avv.
Andrea De Rossi
Discriminazioni
Tariffe
maggiorate a stranieri
Denuncia per
discriminazione contro le compagnie assicurative
Roma, 4
novembre 2011 - Una denuncia per discriminazione a due delle maggiori compagnie
assicurative per le polizze auto perché applicano premi maggiorati per gli
stranieri. È quanto hanno presentato al Tribunale civile di Milano
l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Avvocati per Niente
nei confronti dei gruppi assicurativi Zurich Italia e Quixa. I legali Alberto
Guariso e Livio Neri hanno provato a calcolare i preventivi on line dai siti
web delle due compagnie. A parità di condizioni, se con la Zurich la tariffa
per un italiano è di 465 euro, per un ecuadoriano o un cinese sale a 632 euro e
se si è rumeni, senegalesi, albanesi o camerunesi a 665 euro. Idem con Quixa,
che sembra temere soprattutto i camerunesi, tanto che il preventivo di 414 euro
per gli italiani schizza a 625 euro nel caso in cui al volante ci siano persone
originarie del Paese africano.
Secondo gli avvocati si tratta di una discriminazione perché le due
assicurazioni violano l’articolo 43 del Testo unico sull’immigrazione che vieta
di imporre “condizioni più svantaggiose ad uno straniero soltanto a causa della
sua condizione di straniero”. Non solo, il criterio della cittadinanza per
stabilire le polizze auto è fuorviante perché “come è noto si può essere
cittadini italiani e essere nati, vissuti e aver appreso la guida in Argentina
– si legge nel ricorso – e si può essere cittadini ecuadoriani ed
essere nati, vissuti e aver appreso la guida a Milano”. Asgi e Avvocati per
Niente chiedono al Tribunale civile di Milano di accertare la discriminazione,
di imporre alle due compagnie assicurative di eliminare il requisito della
cittadinanza nel calcolo delle Rc auto e, soprattutto, di risarcire i loro
assicurati stranieri della maggiorazione tariffaria finora applicata.
(Red.)
Razzismo: per
Lunaria sono ancora i giornalisti sul banco degli imputati
“Cronache
di ordinario razzismo” da Rosarno a Lampedusa in 861 casi della stampa e sul web.
(Immigrazione
Oggi) Roma, 2 novembre 2011 - L’omicidio di Sanaa Dafani, la giovane 23enne di
origine marocchina uccisa dal padre nel settembre 2009; la ribellione di
Rosarno del 7 gennaio 2010; la vicenda della mensa scolastica di Adro
dell’aprile 2010; l’omicidio di Maricica Hahaianu, 33enne romena uccisa a
seguito di un litigio nella stazione della metro Anagnina di Roma l’8 ottobre
2010. Sono alcuni degli avvenimenti che hanno caratterizzato il dibattito
pubblico sull’immigrazione e su cui si è concentrato il secondo “Libro bianco
sul razzismo” realizzato da Lunaria e presentato sabato 29 ottobre a Roma.
Cronache di ordinario razzismo è il titolo del rapporto che
ha analizzato i media dal 15 luglio 2009 al 31 agosto 2011 e da cui emerge,
secondo gli autori, “l’intolleranza, la xenofobia e il razzismo che abitano le
nostre città, attraversano il mondo della politica e le pagine dei media,
ispirano sempre più spesso le scelte istituzionali”.
A distanza di due anni dalla pubblicazione del suo primo libro bianco, Lunaria
propone una selezione degli 861 casi di discriminazione e di razzismo
monitorati sulla stampa e sul web per ricostruire l’evoluzione del razzismo quotidiano
in Italia nelle diverse sfere della vita pubblica.
Un viaggio nell’orrore da nord a sud, senza dimenticare il lavoro nero e lo
sfruttamento delle braccia straniere in agricoltura, le violazioni dei diritti
umani nei Centri di identificazione ed espulsione, le navi prigione allestite
per “liberare” Lampedusa dai tunisini, il divieto di accesso per la stampa e le
associazioni non accreditate ai Cie e ai Cara. Il “pacchetto sicurezza” fa da
cornice a quello che i curatori del volume definiscono senza mezzi termini
“razzismo istituzionale”. Ma anche in queste vicende, i mass media, i
giornalisti e gli opinionisti sono la nota dolente, accusati di usare categorie
arbitrarie, di fare confusione fra orientamenti religiosi e nazionalità, di
ignorare i termini corretti o, peggio, di malizia, sciatteria e sbavature
razziste. Alcuni esempi riportati nel secondo Libro bianco sul razzismo
riguardano i principali quotidiani e le agenzie di stampa nazionali. Si parte
dal Corriere della Sera del 20 dicembre 2010 che pubblica un
editoriale di Giovanni Sartori L’integrazione degli islamici che
ripropone “la vecchia tesi – un’autentica ossessione – della
radicale inintegrabilità degli immigrati musulmani”. A questo proposito, si
legge nel volume: “Oltre a perpetuare l’abituale confusione grossolana fra
nazionalità e orientamento religioso, non degna di un politologo, oltre a far
finta d’ignorare che si può essere indiani e musulmani, cinesi e musulmani,
marocchini e cristiani, tunisini ed ebrei, maghrebini e agnostici, iracheni e
atei, e così via, egli mostra di non conoscere dati empirici basilari. Fra
questi, un dato che in base ai suoi criteri dovrebbe essere indice di scarsa
integrazione proprio degli “asiatici”: secondo stime della Fondazione Ismu
(relative al 2008 ma ancor oggi tendenzialmente valide), in Italia la maggior
parte degli immigrati irregolari proviene infatti da paesi asiatici, in testa
la Cina”.
Torna in auge nei titoli e negli articoli anche il termine “vù cumprà”. Una
notizia Ansa del 18 aprile 2011 titola: Protesta venditori souvenir contro
vu’ cumprà. Lo stesso giorno Il Gazzettino informa che Massimo Cacciari,
intervistato in proposito, ha dichiarato: “A me non danno fastidio: qualsiasi
città italiana è piena di vu’ cumprà”. Repubblica.it in
un servizio del 28 agosto 2011, usa “vu’ cumprà” per riferire dell’azione
meritoria compiuta da alcuni migranti: la pulizia volontaria di alcune strade a
Napoli. Anche nell’uso dei termini, i giornalisti della carta stampata sono
accusati di ignoranza. Scambiano spesso i nigeriani per ‘nordafricani’ e
confondono i Centri di detenzione per stranieri irregolari con quelli di
accoglienza per richiedenti asilo. In quest’ultimo caso viene citato come
cattivo esempio l’articolo di Alberto Custodero e Corrado Zunino, Guerriglia
nei Cie, è strategia della violenza, su la Repubblica del
3 agosto 2011. Invece su Le Monde Salvatore Aloise non parla
mai di ‘clandestini’ e sa distinguere correttamente le diverse tipologie di
centri. Per quanto riguarda gli sbarchi a Lampedusa, “il linguaggio è biblico,
bellicoso, catastrofico (fino all’infelice espressione “tsunami umano”), e
induce i lettori/spettatori a sentirsi sotto assedio, profondamente minacciati
e in stato di pericolo”.
“Scenario apocalittico” ed “esodo biblico senza precedenti” sono termini usati
anche dal Governo, in particolare dal ministro dell’Interno Roberto Maroni che
crea allarmismo. Alcuni esempi di titoli delle principali testate italiane: Clandestini
fuori controllo. E l’Italia teme l’invasione (La Stampa),
Una marea di profughi (Il Giornale); Dalla Libia può
arrivare un’ondata di immigrazione di proporzioni catastrofiche (Il
Sole 24ore); Navi, aerei e paura: Lampedusa pronta come a una guerra (La
Stampa).
Informazioni: www.lunaria.org.
(Al. Col.)
Di Carlo Soricelli, Osservatorio
Indipendente di Bologna sulle morti per infortuni sul lavoro.
Bologna,
2 novembre 2011 - Le tragedie delle morti sul lavoro sono una miniera
inesauribile di dati per capire l'evoluzione di una società e di un paese. In
questo caso la “fotografia” è inerente agli stranieri morti sui luoghi di
lavoro in Italia dall'inizio dell'anno. Gli stranieri morti sui luoghi di
lavoro sono dal 1 gennaio sono 57 su un totale di 549; se si tolgono le 34
vittime di cui non siamo a conoscenza della nazionalità la percentuale di
stranieri morti è dell'11% sul totale. E oltre il 40% sono romeni. Se ai 549
morti togliamo le vittime dell'agricoltura, che sono oltre il 33% di tutti i
morti sul lavoro, e per quasi la totalità pensionati italiani, si arriva alla
spaventosa percentuale del 15% degli stranieri morti sul totale. Praticamente
più di un lavoratore su sette morto sui luoghi di lavoro è straniero. Gli stranieri
eseguono i lavori più pericolosi e sono quasi tutti precari. E' la condizioni a
cui aspira questo governo per tutto il mondo del lavoro, con l'articolo 8
dell'ultima manovra e la libertà di licenziamento con l'ultima
"promessa" all'Europa. Se ai 549 morti togliamo le vittime
dell'agricoltura, che sono oltre il 33% di tutti i morti sul lavoro, e per
quasi la totalità pensionati italiani, si arriva alla spaventosa percentuale
del 15% degli stranieri morti sul totale. Praticamente più di un lavoratore su
sette morto sui luoghi di lavoro è straniero. Gli stranieri eseguono i lavori
più pericolosi e sono quasi tutti precari. E' la condizioni a cui aspira questo
governo per tutto il mondo del lavoro, con l'articolo 8 dell'ultima manovra e
la libertà di licenziamento con l'ultima "promessa" all'Europa. Gli
industriali sono finalmente contenti: ma hanno una visione poco lungimirante.
Nelle fabbriche sindacalizzate i morti sul lavoro si contano sulle dita di una
mano. In un luogo dove non c'è più contrattazione e controllo sulla Sicurezza
inesorabilmente ci sarà un aumento dei morti sul lavoro e una caduta anche
della qualità del prodotto.
Le aziende
che hanno una percentuale alta di precari sono quelle che hanno più difficoltà
a reggere la concorrenza. Invece di spingere per far dotare il paese di
tecnologie avanzate pensano di risollevarsi dalla crisi umiliando il mondo del
lavoro e comprimendo i salari e i diritti acquisiti. Ma sono solo illusioni, i
problemi nei prossimi anni si moltiplicheranno e nelle fabbriche dove non c'è
crisi, e negli enti pubblici si scatenerà un conflitto insanabile che riporterà
l'Italia indietro di 50 anni.
Territori
Bari, 3 novembre 2011 - DIMMI
da dove vieni e ti dirò che lavoro fai. Anche in Puglia, il tipo di impiego dei
lavoratori stranieri è legato al Paese di provenienza. E così, tra le oltre 150
nazionalità presenti, se i senegalesi lavorano prevalentemente nel settore
della pesca, spetta a cinesi, filippini e indiani contendersi quello dei
trasporti. Ciò che li unisce, però,è un mercato del lavoro poco favorevole per
i cittadini nati all' estero: retribuzioni più basse, contratti ambigui,
licenziamenti. L' unica certezza arriva dall' agricoltura, settore trainante
per chi cerca lavoro: nel 2010 uno straniero su due in Puglia è impiegato nei
campi. Non da meno il lavoro domestico, dove negli ultimi dieci anni è
triplicato il numero degli occupati. I dati forniti alle segreterie regionali
di Anolf-Cisl, Cigl-Immigrazione e Ital-Uil hanno confermato lo stretto legame
tra Paese di origine e occupazione. I nordafricani, per esempio, lavorano
principalmente nell' agricoltura, edilizia e commercio. I cinesi nel turismo,
ristorazione, commercio e trasporti. Bengalesi, indiani e marocchini si
dividono il settore dei servizi avanzati e finanziari. Nei servizi alle
persone, invece, tra badanti e domestici, le nazionalità prevalenti sono
Georgia, Ucraina, Romania, Polonia, Filippine, Mauritius, Eritrea, Albania e
Senegal. Mentre tra chi lavora il marmo ci sono soprattutto albanesi e
marocchini. Secondo i dati pubblicati nell' ultimo "Dossier
immigrazione" di Caritas/Migrantes, tra gli operai a tempo indeterminato è
particolarmente significativa la presenza dei rumeni: con oltre 15mila 492
lavoratori, sono la principale comunità straniera della categoria nel
Mezzogiorno. Per quanto riguarda invece gli operai con contratto a tempo
determinato, le comunità più diffuse sono gli albanesi (oltre 4mila) e marocchini
(più di mille). Dati negativi arrivano sul fronte assunzioni. In Puglia, nel
corso del 2010 sono stati assunti poco più di 10mila lavoratori nati all'
estero. Sempre secondo il rapporto della Caritas, se l' agricoltura si è
dimostrata il settore con il maggior numero di ingressi, al secondo posto
troviamo i servizi: tra alberghi, ristoranti e commercio il numero delle
assunzioni tra gli immigrati ha superato le 3mila unità. Un dato interessante
arriva dal mondo dell' informatica e servizi alle imprese, dove sono stati
assunti 400 stranieri. Il mercato del lavoro per i cittadini immigrati riflette
comunque le attuali difficoltà. Dal 2009 al 2010 gli occupati stranieri sono
diminuiti del 6,1 per cento e se si guarda la variazione annuale degli assunti
(meno 11,9 per cento) la Puglia è la seconda per record negativo in Italia,
dietro al Friuli Venezia Giulia. Sembrano avvantaggiati coloro che risiedono a
Bari. Nel rapporto Puglia in cifre 2010 pubblicato dall' Ipres, emerge che
nella provincia barese c' è il più alto livello regionale di occupazione tra
gli stranieri con il 38,3 per cento. Sempre a Bari c' è il maggior numero di
immigrati titolari di impresa: poco meno della metà dei 2mila 640 iscritti in
Puglia.
Rispetto
al 2009 il numero degli stranieri all'interno della regione e' aumentato
dell'8,4%
Milano, 31
ottobre 2011 - I residenti stranieri in Lombardia continuano a crescere e per
la prima volta superano il milione. In aumento sia per nuovi ingressi che per
le nascite. Sul fronte lavorativo si conferma, invece, una diminuzione degli
immigrati occupati e per la prima volta calano anche le rimesse. La stima
arriva dall'elaborazione dei dati contenuti nel dossier statistico Immigrazione
2011. Rispetto al 2009, il numero degli stranieri all'interno della regione e'
aumentato dell'8,4%. Anche perchè le donne straniere fanno in media il doppio
dei figli rispetto alle italiane e in Lombardia un neonato su tre e' partorito
da una madre non italiana. Diminuiscono invece, come conseguenza alla crisi
economica, gli immigrati occupati, con un calo dell'1,9% rispetto al 2009. E in
controtendenza rispetto agli scorsi anni le rimesse hanno avuto una flessione
del 7,2%. ''La crisi ha impoverito anche gli stranieri - ha spiegato Roberto
Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana, ma non li ha spinti a tornare in
patria o a dissuadere i propri connazionali dal raggiungerli“. Secondo Davanzo
gli ultimi dati dimostrano che l'Italia e' ormai un paese strutturalmente
multietnico, multiculturale e multi religioso e la Lombardia, in particolare,
si trova all'avanguardia di questa trasformazione. "Prenderne atto
significa allora - ha continuato - fare i conti con questa realtà.
Foreign Press
Danish
Institute for International Studies. Policy brief - Europe
Fighting Irregular
Migration – Consequences
for West African Mobility
In collaboration with African countries, the
EU is fighting irregular migration to Europe
through border control and deportations.
However, rather than halting irregular migration, such policies
reconfigure mobility flows and make migration routes more dangerous and
difficult.
25 October 2011 - The arrival of over 40,000 African migrants and asylum seekers to the
Italian island of Lampedusa this year has caused Denmark and other EU countries
to reconsider their policies in relation to African migration. Images of
ramshackle boats crossing the Mediterranean from North Africa have caused
public and political anxiety around the perceived high number of Africans
waiting to enter Europe, sometimes described as an ‘invasion’ or ‘flood’. Such
apocalyptic metaphors imply a potentially uncontrollable catastrophe that
Europe must counter. Indeed, one response to the ‘boat migration crisis’ has been
a call for more intensive control of Europe’s external borders and return of
irregular migrants to their countries of origin or transit. This DIIS Brief
explores the consequences of EU migration policies for West African migration,
particularly irregular migration, and calls for consideration of their human
consequences. While the admission of skilled and temporary circular migrants is
being furthered, the combating of irregular migration is reinforced through
tightening visa and asylum legislation, externalisation of border control, and
deportations. The overall policy tendency is thus a differentiation of African
migration flows, making mobility easier for educated and privileged groups and
more difficult and dangerous for the large majority. This not only applies for
migration to Europe but also for migration within Africa, with grave
consequences for migrants and their families.
The Euro pean fight against irregular
migration
The large majority of undocumented
African migrants in Europe entered legally as students, labour migrants or
tourists but have subsequently overstayed their visas. A smaller number have
entered irregularly with forged papers or by clandestine crossing of European
borders. It is important to emphasise that irregular entry migration is first
and foremost a consequence of lack of access to legal migration and is often
more expensive, dangerous and difficult. Since the early 1990s and the 1995
introduction of free mobility within the Schengen Area, the EU has tightened
its visa legislation for third country citizens and increased control and
patrol of its external borders. Irregular crossings of the Straits of Gibraltar
and of Sicily followed the introduction of visa requirements for North Africans
in Italy and Spain in 1990 and 1991. From 2000 North African migrants were
joined by sub-Saharans. European border control and patrol has subsequently
been extended to the high seas and African territories and territorial waters,
conducted by European states or the European border agency FRONTEX. This
externalisation is combined with strengthening of African coastguards,
migration management and border control systems as well as the stationing of
European immigration liaison officers and police and military personnel in some
African countries. Voluntary repatriation and enforced removal of irregular
migrants have also become an important policy priority for the EU and its
member states. An EU return directive (2008/115/EC) was passed in 2008,
obliging member states to remove irregular stayers following common procedures.
While transpositions to member state legislations have not yet been
implemented, forced removals are likely to become an even more prominent policy
and practice area. So far the EU has entered into a range of readmission
agreements, mainly with third countries bordering the EU and also, recently,
with Pakistan. Currently there are no readmission agreements with African countries
at EU level but the European Commission is negotiating with Cape Verde and
Morocco. A joint EU-Tunisia operational project is also being launched to
address irregular migration in the Mediterranean region. In addition, there are
a range of bilateral agreements between European countries and countries of
migrant origin and transit, linked to readmission of deported nationals or
third country nationals. Often readmission agreements go hand in hand with
financial and logistical support to migration management systems, migration- development
schemes, favourable visa arrangements
and quotas for admission of temporary labour migrants. Finally, the EU
is engaged in risk awareness campaigns in countries of origin and transit,
often in collaboration with IOM, UNHCR, FRONTEX and immigration authorities in
the involved states. The aim is to warn would-be migrants against the dangers
of irregular migration through outreach seminars, telephone hotlines, YouTube
videos, radio and television announcements, posters, and migration
information offices. The
underlying expectation seems to be that if Africans without legal means of
migration are properly educated about the risks and dangers of irregular
migration, they will – or should – stop moving and simply ‘stay
home’.
African migration regimes
Together these measures can be
classified as non-entry policies based on differentiation of access to Europe.
The mobility of some (desired) migrants thus comes at the expense of the
immobility of others. Similar policy tendencies can be seen in African
countries where the battle against irregular migration has become an important
part of general migration policies and migration management. This not only has
implications for African migration towards Europe but also for intra-African
mobility. ECOWAS provides an example. Since 1979 the Economic Community of West
African States has promoted free mobility and residence of member state
nationals within ECOWAS. Bordering the Maghreb countries of Mauritania, Algeria
and Libya, this implies that ECOWAS nationals have the right to move legally to
the southern borders of these countries. However, inspired by the 2006 joint
EU-Africa Tripoli Declaration on Migration and Development, ECOWAS adopted a
‘common approach to migration’ in Ouagadougou in 2008. While this approach
emphasises free mobility, it also sets the combating of irregular migration as
one of the
main objectives and commits ECOWAS
member states to strengthening migration management and control as well as to
returning irregular migrants. In addition, a number of Maghreb states –
being countries of migration exit, transit and settlement – have
tightened their migration legislation and started to enforce immigration
control and deport undocumented migrants. In Morocco, for instance, immigration
legislation has been enforced since the early 2000s; resulting in increased
border controls, frequent checks of migrants’ status and reports of deportations
of migrants to neighbouring Algeria, where they are abandoned in the desert.
Concurrently Libya was offered and received development aid – such as the
now repudiated Treaty of Friendship, Partnership and Cooperation signed by
Berlusconi and Qaddafi in 2008 – to curb African migration towards Europe
and to receive irregular migrants apprehended in Italy. Following the recent
political changes in North Africa and Libya, this and other agreements between
EU member states and North African states have been suspended but new ones are
underway. While the stated aim of such measures is to manage migration and, in
particular, prevent irregular migration, non entry policies and deportations
have a range of side effects. Rather than simply stopping migration, they make
it more dangerous and more expensive as established routes are closed and the
means of legal migration are diminished. This development is further spurred by
changes of regional migration systems where common destinations for West African
migrants – notably Côte d’Ivoire and Libya – have experienced
political and economic crises, prompting deportations of migrants and
furthering the reconfiguration of mobility flows.
The transformation of the West Africa-Maghreb
migration system
West Africa-Maghreb migration offers an
example of the reconfiguration of an established migration system. Migration
between these regions dates back to pre-colonial times when ancient trade and
caravan routes traversed the Sahel and the Sahara. The routes were impeded by
the imposition of colonial and later national borders but regained importance from
the early 1960s with migrant workers from the Sahel belt working in development
projects in Algeria and in Libya’s oil industry. From the 1990s a larger number
of sub-Saharan Africans (and migrants from elsewhere in the world) started to
migrate to Libya and, from the late 1990s, also to Morocco, Algeria, and
Tunisia. West African migration to the Maghreb countries is very diverse, ranging
from labour migrants to students pursuing higher education or Islamic studies.
While some have migrated for economic reasons, others have fled conflict and
violence in their countries of origin or (former) residence, and some hope to
move on to Europe. The journeys from West Africa to the Maghreb often prove to
be longer and more costly than anticipated, taking from a few weeks to several
years, because of prolonged waiting times at transit points where migrants take
up informal work to finance the onward journey, or wait for money to be wired
from family or friends. Some migrants get ‘stuck’ en route, unable to move on
or go back. There are now sizable and growing communities of sub-Saharan
migrants living in cities like Nouakchott in Mauritania, Rabat and Oujda in
Morocco, Algiers in Algeria, Tunis in Tunisia, and Tripoli and Benghazi in
Libya (although many sub- Saharan migrants have fled Libya due to the civil
war). While some migrants have entered these countries without the necessary documents,
others have entered legally but overstayed. Undocumented migrants mainly find
work in the informal labour market, often living under very difficult circumstances
without opportunities for mobility or legalisation of their stay, and hence
without any legal protection from economic exploitation and other kinds of abuse.
Some of these migrants have been caught, detained or returned to a country of
transit; some have tried to re emigrate several times – whether across
the Sahara or the Mediterranean – and plan to do so again, given the
opportunity or finances. Other migrants have come to work in the Maghreb
countries, or resigned themselves to do so, given the difficulties, dangers and
cost of onward migration to
Europe. In all cases, the majority of sub-Saharan African migrants end up
staying in the Maghreb countries with only a minority reaching Europe.
Social and political consequences of
non-entry policies
Situations of confinement and
irregularity are not only difficult for migrants but also for their families.
West African migration is often part of family livelihood strategies, financed
by the pooling of family resources with ensuing expectations of remittances or
of support for the migration of other family members. Failing to ‘succeed’ as a
migrant and fulfil such expectations can have economic consequences for
households expecting or depending on remittances. Deportation is often seen as
extremely shameful and sometimes results in exclusion from the family and local
community as well as risky attempts at re-migration. The emphasis on managing
migration and combating irregular migration has thus made migration for the
majority of African migrants more difficult, dangerous and expensive. Rather
than bringing irregular migration to a halt, non-entry policies interrupt,
decelerate and reconfigure mobility flows, often conflating intra-African
migration with irregular migration to Europe. In addition to the problem of
being based on alarmist perceptions rather than facts, these policies ignore
the reality that the bulk of African migration takes place within the continent
rather than to Europe. Finally, the European fight against irregular migration
in African countries of exit and transit often comes at the price of
collaborating with undemocratic regimes and authorities, and of violating human
rights. The rise in boat migrants and asylum seekers from North Africa to
Lampedusa this year is a lesson in the fragile and problematic nature of such
strategies and an urgent signal for EU member states to reconsider the human
consequences of their migration policies.