N. 161
SENTENZA 25-31 MAGGIO 2000
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Francesco GUIZZI;
Giudici: Cesare MIRABELLI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI,
Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI,
Annibale MARINI, Franco BILE;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 11, commi 8
e 9, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell'immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero), ora trasfuso nell'art. 13
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), dell'art. 13, comma 10, del
decreto legislativo n. 286 del 1998, nonché del combinato disposto
degli articoli 7, comma 3, del decreto-legge 17 maggio 1996, n. 269
(Disposizioni urgenti in materia di politica dell'immigrazione e per
la regolamentazione dell'ingresso e soggiorno nel territorio
nazionale dei cittadini dei Paesi non appartenenti all'Unione
europea), e 1 della legge 9 dicembre 1996, n. 617 (Salvaguardia degli
effetti prodotti dal decreto-legge 18 novembre 1995, n. 489, e
successivi decreti adottati in materia di politica dell'immigrazione
e per la regolamentazione dell'ingresso e soggiorno nel territorio
nazionale dei cittadini dei paesi non appartenenti all'Unione
europea), promossi con le seguenti ordinanze emesse il 27 aprile 1998
dal pretore di Ancona, sezione distaccata di Senigallia, l'11 giugno
1998 dal pretore di Padova, il 17 ottobre 1998 dal pretore di Palermo
e il 13 febbraio 1998 (con quattro ordinanze) dal Tribunale
amministrativo regionale della Toscana, rispettivamente iscritte ai
numeri 554, 687 e 870 del registro ordinanze 1998 e ai numeri 185,
186, 187 e 188 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 34, 40 e 49, prima serie
speciale, dell'anno 1998 e n. 14, prima serie speciale, dell'anno
1999.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2000 il giudice
relatore Francesco Guizzi.
Ritenuto in fatto
1. - Un cittadino extracomunitario, espulso in via amministrativa
con decreto del Prefetto, proponeva opposizione dinanzi al pretore di
Ancona, sezione di Senigallia, ai sensi dell'art. 11, comma 8, della
legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), successivamente confluito nel decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero).
Riservata la decisione, il pretore ha sollevato, in riferimento
all'art. 24 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale della norma sopra indicata, rilevando che essa non
prevede l'instaurazione del contraddittorio nei confronti
dell'autorità amministrativa che ha emanato il provvedimento. Il
comma 9 del citato articolo 11 rinvia infatti, per le norme
procedurali, agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura
civile, i quali prevedono, come obbligatoria, l'audizione del solo
interessato, sì che la decisione sul ricorso dovrebbe essere presa -
osserva il rimettente - senza la partecipazione della pubblica
amministrazione al processo, con lesione del diritto di difesa.
2. - Chiamato a provvedere sul reclamo, presentato da una
cittadina extracomunitaria, avverso un decreto di espulsione emesso
dal Prefetto di Pordenone ai sensi della citata norma, il pretore di
Padova ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 11,
commi 8 e 9, della legge n. 40 del 1998 (ora art. 13 del decreto
legislativo n. 286 dello stesso anno), individuando tre distinti
profili di illegittimità costituzionale.
In primo luogo, sostiene il giudice a quo il ricorso doveva
ritenersi, nel caso di specie, proposto dinanzi a un giudice
incompetente per territorio, risultando dal decreto di espulsione che
la ricorrente era domiciliata a Firenze o, più probabilmente, senza
fissa dimora. La norma in esame stabilisce che il Pretore, anche
quando sia incompetente per territorio, possa soltanto rigettare il
ricorso, non prevedendo alcun meccanismo di translatio iudicii con
conseguente riassunzione della causa dinanzi al giudice competente.
Sistema, questo, che inciderebbe sull'esercizio del diritto di
difesa, in quanto - ove la declaratoria di incompetenza sia
pronunciata dopo la scadenza del termine - il successivo ricorso
dinanzi al giudice competente dovrebbe essere dichiarato
inammissibile. Al contrario, la disciplina della riassunzione, ai
sensi dell'art. 50 del codice di procedura civile, garantendo la
conservazione dell'efficacia degli atti compiuti, consentirebbe la
prosecuzione del processo dinanzi al giudice competente.
In secondo luogo, l'obbligo di rigettare il ricorso anche nei
casi di incompetenza del giudice adito è tanto più grave - ad
avviso del pretore - in quanto la legge prevede termini brevissimi
sia per la proposizione che per la decisione (rispettivamente cinque
giorni dalla comunicazione del decreto e dieci giorni dal deposito
del ricorso). Tale disciplina priverebbe di fatto il ricorrente
dell'esercizio del diritto di difesa e di quello alla trun 923
"permanenza nel territorio dello Stato", anche perché la
disposizione in esame non permetterebbe di sospendere l'efficacia del
provvedimento impugnato.
Subordinatamente, il pretore indica un ulteriore profilo di
illegittimità, sostenendo che il procedimento di cui all'art. 11,
comma 9, avrebbe natura contenziosa e sarebbe quindi assimilabile a
quello di opposizione alle ordinanze-ingiunzioni, di cui alla legge
n. 689 del 1981. Secondo la giurisprudenza di legittimità nei
procedimenti camerali a carattere contenzioso il giudice competente
andrebbe individuato in base al criterio generale di cui all'articolo
18 del codice di procedura civile, sì che l'omessa previsione d'uno
specifico criterio per la individuazione del giudice competente -
nell'ipotesi in cui il ricorrente non abbia fissa dimora - creerebbe
una ingiustificata disparità di trattamento, con violazione degli
articoli 3 e 24 della Costituzione.
Con riguardo alla rilevanza, conclude il rimettente, si sarebbe
dovuto rigettare il ricorso, ai sensi dell'art. 11, comma 9, con la
conseguente impossibilità di riproposizione dinanzi al giudice
competente, data l'esiguità del termine di cinque giorni.
3. - Il pretore di Palermo, chiamato a decidere del reclamo
presentato da un cittadino extracomunitario avverso un provvedimento
di espulsione, ha sollevato, in riferimento all'art. 24 della
Costituzione, sotto tre distinti profili, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 13, commi 8, 9 e 10, del decreto legislativo
n. 286 del 1998. La violazione dell'art. 24 sarebbe determinata dalla
eccessiva brevità di entrambi i termini: quello per l'impugnativa,
che - sebbene rispettato nel caso di specie - non consentirebbe
l'articolazione di una più ampia e completa difesa, e quello per la
decisione, che impedirebbe al giudice di svolgere un'adeguata
istruttoria.
Anche il pretore di Palermo lamenta la mancata previsione della
possibilità di sospendere l'efficacia del decreto di espulsione; e
in proposito osserva che esso è eseguito coattivamente qualora
l'espulso non abbandoni volontariamente l'Italia entro quindici
giorni dalla comunicazione, sì che l'esecuzione coattiva del
provvedimento potrebbe anche precedere la pronuncia sul reclamo.
Aspetto di particolare evidenza nel giudizio a quo, essendo stato
sospeso il procedimento pretorile a causa dell'incidente di
costituzionalità, mentre analoga sospensione non si sarebbe potuta
disporre con riferimento al decreto di espulsione.
4. - Nel maggio del 1996 quattro cittadini extracomunitari erano
espulsi con decreto prefettizio, ai sensi dell'allora vigente art. 7,
comma 3, del decreto-legge 17 maggio 1996, n. 269 (Disposizioni
urgenti in materia di politica dell'immigrazione e per la
regolamentazione dell'ingresso e soggiorno nel territorio nazionale
dei cittadini dei Paesi non appartenenti all'Unione europea), che
aveva introdotto un articolo aggiuntivo, l'art. 7-quinquies nella
legge 28 febbraio 1990, n. 39 (Norme urgenti in materia di asilo
politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di
regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già
presenti nel territorio dello Stato). Gli interessati, con distinti
ricorsi, secondo quanto previsto dalla citata normativa, impugnavano
il provvedimento dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della
Toscana, competente per territorio.
Il giudice adito rilevava, preliminarmente, che i ricorsi erano
stati presentati fuori termine; nondimeno, sospesa in via cautelare
l'efficacia dei provvedimenti impugnati, sollevava questione di
legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 3, del decreto-legge
17 maggio 1996, n. 269, che aveva introdotto il menzionato
art. 7-quinquies. Nella prospettazione del rimettente, il termine di
sette giorni per l'impugnativa era ritenuto eccessivamente breve,
tale da pregiudicare il corretto esercizio di difesa.
Questa Corte, con ordinanza n. 252 del 1997, restituiva gli atti
al giudice a quo con l'invito a verificare la perdurante rilevanza
della questione, essendo decaduto, nelle more, il decreto che
conteneva la norma censurata. Ma nel maggio del 1998 il TAR ha
sollevato nuovamente, in riferimento agli articoli 10, 24 e 113 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale con quattro
ordinanze di identico contenuto. Nel dispositivo di queste si invoca,
senza però alcun cenno in motivazione, anche l'art. 3 della
Costituzione.
Con riguardo alla rilevanza il rimettente osserva che l'art. 1
della legge n. 617 del 1996 fa salvi gli effetti che si sono prodotti
sulla base di una serie di decreti-legge (tutti conformi e reiterati)
decaduti per mancata conversione; e fra questi effetti rientrerebbe
la "irricevibilità" del ricorso per essere stato presentato oltre il
termine di sette giorni previsto dal decreto-legge n. 269 del 1996.
Con riferimento alla non manifesta infondatezza il Collegio
ribadisce la lesione del diritto di difesa arrecato dalla brevità
del termine, aggiungendo che esso potrebbe risultare ulteriormente
pregiudicato dalla facoltà attribuita all'amministrazione di
notificare i provvedimenti di espulsione, alternativamente, in una
lingua conosciuta dal destinatario, oppure in inglese, francese o
spagnolo.
La norma impugnata sarebbe inoltre in contrasto, ad avviso del
rimettente, sia con l'art. 10 della Costituzione, il quale riconosce
allo straniero i diritti civili, ivi compreso quello alla tutela
giurisdizionale delle situazioni giuridico-soggettive; sia con
l'art. 113, il quale garantisce la tutela giurisdizionale nei
confronti degli atti della pubblica amministrazione, senza
distinguere tra cittadini e stranieri.
In relazione ai medesimi parametri sopra indicati il TAR
denuncia, inoltre, la norma di sanatoria degli effetti del decreto
non convertito, l'art. 1 della legge 9 dicembre 1996, n. 617
(Salvaguardia degli effetti prodotti dal decreto-legge 18 novembre
1995, n. 489, e successivi decreti adottati in materia di politica
dell'immigrazione e per la regolamentazione dell'ingresso e soggiorno
nel territorio nazionale dei cittadini dei Paesi non appartenenti
all'Unione europea), dalla quale discenderebbe "la perdurante
rilevanza della questione".
5. - Nel giudizio promosso dal pretore di Palermo è intervenuto
il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura dello Stato, nel senso della infondatezza della
questione, perché il breve termine posto dall'art. 13 del decreto
legislativo n. 286, citato, non violerebbe il diritto di difesa,
tant'è che termini altrettanto brevi sono previsti dagli
articoli 386 e seguenti del codice di procedura penale per la
convalida dell'arresto. I presupposti dell'espulsione amministrativa
sono inoltre predeterminati, ciò che rende agevole (e celere) il
controllo sulla regolarità del provvedimento; e, infine, andrebbe
infine considerato che l'espulso è informato, in una lingua a lui
nota, delle modalità di impugnazione.
Il legislatore ha imposto termini contenuti - conclude
l'Avvocatura - per far sì che la decisione sul reclamo intervenga
prima che l'espulsione amministrativa divenga esecutiva; sarebbe
quindi infondata la doglianza mossa dal giudice a quo in ordine alla
impossibilità di sospendere l'efficacia della misura espulsiva,
giacché il meccanismo in esame risulterebbe conforme al protocollo
n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.
Considerato in diritto
1. - Le questioni sollevate dalle sette ordinanze di cui in
epigrafe possono, in ragione della parziale coincidenza, essere
esaminate e decise congiuntamente.
2. - Il pretore di Ancona, sezione di Senigallia, denuncia, per
violazione dell'art. 24 della Costituzione, l'art. 11 della legge
n. 40 del 1998, nella parte in cui non prevede l'instaurazione del
contraddittorio nei confronti della pubblica amministrazione che ha
emesso il provvedimento impugnato.
Preliminarmente bisogna prendere atto che tale articolo, in
attuazione della delega contenuta nell'art. 47 della legge n. 40 del
1998, è stato recepito nell'art. 13 del decreto legislativo n. 286
del 1998, sì che la questione di legittimità costituzionale deve
intendersi riferita a quest'ultimo. E sempre in via preliminare si
deve rilevare che la disposizione oggetto di censura è stata
modificata - successivamente al deposito dell'ordinanza di rimessione
- dall'art. 4, comma 1, del decreto legislativo 13 aprile 1999,
n. 113, che ha introdotto nel testo unico il nuovo art. 13-bis ai
sensi del quale il ricorso avverso il provvedimento di espulsione,
unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, va notificato, a
cura della cancelleria del giudice adìto, all'autorità che ha
emesso il provvedimento.
Il mutamento del quadro normativo impone, dunque, la restituzione
degli atti al giudice a quo il quale soltanto potrà valutare, da un
lato, se il ius superveniens possa applicarsi al giudizio in corso e,
dall'altro, se il nuovo art. 13-bis del menzionato decreto
legislativo n. 286 costituisca effettivamente ius superveniens ovvero
non rappresenti esplicazione di un principio, quello del
contraddittorio, da reputarsi già in precedenza immanente nel nostro
ordinamento processuale.
3. - Il pretore di Padova dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 11, commi 8 e 9, della legge n. 40 del 1998
(ora art. 13, commi 8 e 9, del decreto legislativo n. 286 del 1998),
per lesione degli articoli 3 e 24 della Costituzione, nella parte in
cui non prevede l'applicabilità dell'art. 50 del codice di procedura
civile al procedimento di impugnazione del decreto prefettizio di
espulsione, e quindi non impedisce la decadenza ove il reclamo sia
proposto dinanzi al giudice incompetente.
Tale questione è inammissibile per difetto di rilevanza.
Il rimettente si dichiara incompetente a decidere, giacché il
reclamante risultava risiedere a Firenze. Una volta ritenuta dal
giudice la propria incompetenza, la questione risulta però
prematura, poiché - quand'anche la norma fosse dichiarata
illegittima - il rimettente non potrebbe comunque assumere un
provvedimento diverso dalla pronuncia di incompetenza. Come
prospettata, la questione sarebbe stata rilevante se sollevata, in
seguito alla pronuncia di incompetenza per territorio, dal giudice
successivamente adìto. Solo in quella sede, infatti, si sarebbe
potuto stabilire se il ricorso, tempestivamente presentato dinanzi al
giudice incompetente, aveva prodotto l'effetto di impedire la
decadenza, non estinguendosi l'azione. Sì che, in caso affermativo,
il secondo giudice avrebbe dovuto provvedere nel merito o rigettare
la domanda perché intervenuta la decadenza, a meno che la norma non
fosse stata dichiarata costituzionalmente illegittima.
4. - Sia il pretore di Padova che quello di Palermo dubitano,
poi, della legittimità costituzionale dell'art. 11, commi 8 e 9
della legge n. 40 del 1998 (trasfuso nell'art. 13, commi 8 e 9, del
decreto legislativo n. 286 del 1998), nella parte in cui stabilisce
termini ritenuti eccessivamente brevi sia per l'impugnativa del
provvedimento di espulsione, sia per la definizione del procedimento
(rispettivamente, cinque e dieci giorni).
Entrambe le questioni sono inammissibili.
Con riguardo alla prima censura, si deve osservare che nei due
giudizi a quibus il suddetto termine è stato rispettato. La
questione è dunque priva di rilevanza, giacché l'asserita brevità
non ha impedito l'esercizio del diritto, e l'eventuale declaratoria
di illegittimità non modificherebbe l'esito del giudizio. Né tale
difetto è sanato dal rilievo svolto dal pretore di Palermo, secondo
il quale un termine più lungo avrebbe consentito la preparazione di
una più efficace difesa; e ciò perché egli non indica quali atti
(o attività) avrebbe consentito al reclamante un termine più lungo,
né sotto quale aspetto la difesa doveva ritenersi carente.
Considerazioni analoghe valgono per l'altra doglianza (in
relazione alla brevità del termine stabilito per la definizione del
procedimento), poiché nelle ordinanze dei pretori di Palermo e di
Padova non si segnalano le attività istruttorie, il cui espletamento
sarebbe stato precluso dalla necessità di decidere entro dieci
giorni dal reclamo.
5. - I pretori di Padova e Palermo dubitano altresì -
rispettivamente - dell'art. 11, commi 8 e 9, della legge n. 40 del
1998 (ora art. 13 del decreto legislativo n. 286), e 13, commi 8, 9 e
10, del decreto legislativo n. 286 del 1998, nella parte in cui non
consentono di sospendere, in via cautelare, l'efficacia del
provvedimento impugnato.
La questione non è fondata.
Il procedimento avverso il decreto prefettizio di espulsione,
come disciplinato dalla normativa censurata, è caratterizzato da
particolare speditezza. Esso si inizia infatti sul ricorso
dell'interessato, da proporsi entro cinque giorni dalla notifica del
provvedimento, e deve essere deciso - come si è già fatto cenno -
entro dieci giorni dal deposito. Orbene, posto che la sospensione
costituisce una forma di tutela cautelare, anticipatoria dell'esito
della decisione, la necessità di essa viene meno - è il caso di
specie - quando sia la stessa legge a imporre che la pronuncia
definitiva intervenga entro un termine breve dalla formulazione della
domanda. Non vi è quindi lesione dell'art. 24 della Costituzione, in
quanto si garantisce comunque all'interessato di ottenere entro un
certo giorno un provvedimento definitivo senza far ricorso
all'anticipazione, in via cautelare, degli effetti della pronuncia di
merito (sentenza n. 427 del 1999). La norma censurata, altrimenti
detto, non è "mutila" nella parte in cui non prevede strumenti di
sospensione cautelare: semplicemente, non li prevede, essendo
superflui, se e in quanto il procedimento segua il suo iter normale.
Quanto sin qui esposto induce a ritenere che, non essendo
necessaria la tutela cautelare anticipatoria, là dove per il
procedimento siano stabiliti tempi talmente rapidi da far sì che la
decisione sia temporalmente contigua alla introduzione del
procedimento stesso, essa è possibile allorché, patologicamente
deviando dallo schema normativo astratto, il procedimento non possa
concludersi nei dieci giorni fissati: ciò che potrebbe accadere ad
esempio nelle ipotesi di legittimo impedimento del giudice, o di sua
astensione o ricusazione, o per interruzione necessitata del
procedimento.
D'altra parte, non va dimenticato che il procedimento di
opposizione al decreto prefettizio di espulsione dello straniero, il
quale versi in condizioni di irregolarità, è strutturato in modo
tale che la mera proposizione del reclamo non impedisce il decorso
del termine di quindici giorni stabilito dall'art. 13, comma 6, del
menzionato decreto legislativo n. 286, scaduto il quale l'espulsione
è eseguita, ai sensi dell'art. 13, comma 4, lettera a) coattivamente
dal questore. Sì che, contrariamente a quanto disposto in tema di
impugnazione delle misure cautelari de libertate nel procedimento
penale, il ritardo o l'impedimento da parte del giudice nella
definizione del procedimento non comporta la caducazione del
provvedimento impugnato, bensì la sua esecutività. In questi casi
particolari ed eccezionali, venendo meno la contiguità temporale fra
l'introduzione del giudizio e la sua definizione, la tutela cautelare
non sarebbe superflua, per cui non è inibito al giudice
dell'opposizione di individuare lo strumento più idoneo, nell'ambito
dell'ordinamento, per sospendere l'efficacia del decreto prefettizio
impugnato.
6. - In subordine, il pretore di Padova dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 11, comma 9, della legge n. 40 (ora art. 13,
comma 9, del decreto legislativo n. 286), nella parte in cui non
individua il giudice competente, qualora il reclamante sia senza
fissa dimora.
La questione è inammissibile, per difetto di rilevanza, in
ragione degli stessi motivi esposti, retro 1/2 3. E infatti, prima
ancora di prendere in esame le conseguenze che si sono prodotte in
seguito alla modifica dell'art. 13, comma 9, del decreto legislativo
n. 286 del 1998 (disposta dall'art. 3 del decreto legislativo n. 113
del 1999), per effetto della quale la competenza per territorio è
attribuita al giudice ove ha sede l'autorità che ha emesso il
provvedimento di espulsione, si deve osservare che il rimettente,
dichiarando preliminarmente la propria incompetenza, ha reso con ciò
irrilevante nel giudizio a quo la pronuncia additiva sollecitata.
7. - Il Tribunale amministrativo regionale della Toscana, infine,
chiamato a provvedere sui reclami avverso vari provvedimenti di
espulsione, ai sensi dell'art. 7-quinquies della legge n. 39 del
1990, introdotto dall'art. 7, comma 3, del decreto-legge n. 269 del
1996, non convertito, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3,
10, 24 e 113 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale del suddetto art. 7, comma 3, unitamente all'art. 1
della legge n. 617 del 1996, che ha fatto salvi gli effetti del
decreto non convertito.
Preliminarmente si deve rilevare che l'erronea indicazione degli
estremi della norma oggetto di censura (individuata
nell'art. 7-quinquies comma 5, del citato decreto-legge n. 269), non
lascia dubbi che oggetto del presente giudizio è il comma 3: ciò
sia alla luce della motivazione dell'ordinanza di rimessione, sia
perché l'equivoco appare spiegabile ove si consideri che l'art. 7,
comma 3, del decreto-legge intendeva inserire nella legge n. 39 del
1990 un articolo 7-quinquies che disciplinava, al comma 5, il reclamo
avverso il provvedimento di espulsione.
Sempre in via preliminare, si deve segnalare come nelle
fattispecie sottoposte all'esame del TAR la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 7, comma 3, del decreto-legge n. 269 è
rilevante, nonostante la mancata conversione, poiché i ricorrenti
avevano impugnato il provvedimento di espulsione quando era già
decorso il termine di sette giorni stabilito a pena di decadenza per
il deposito, sì che un'eventuale pronuncia di illegittimità -
rimuovendo la causa di decadenza - inciderebbe sul contenuto della
decisione demandata al rimettente.
Tuttavia la questione è inammissibile, in riferimento all'art. 3
della Costituzione, e infondata in relazione agli altri parametri
invocati.
7.1. - Con riguardo alla lesione dell'art. 3, è sufficiente
osservare che il giudice a quo, senza previa motivazione, richiama
tale parametro soltanto nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione.
Sussiste, quindi, un difetto di motivazione, nell'atto di
promovimento del giudizio di legittimità costituzionale, sul
requisito della non manifesta infondatezza, onde la inammissibilità
della questione (cfr. da ultimo l'ordinanza n. 317 del 1999).
7.2. - Con riferimento a tutti gli altri parametri invocati, la
questione non è fondata.
Per quanto attiene all'articolo 10 della Costituzione, la norma
censurata non appare in contrasto né con le norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute, né con quelle imposte da
trattati. Tanto meno, poi, essa derogava alla Convenzione di Ginevra
del 28 luglio 1951 sullo status di rifugiato (ratificata e resa
esecutiva con la legge n. 722 del 1954), e al Protocollo sullo
statuto dei rifugiati adottato a New York il 31 gennaio 1967 (reso
esecutivo con la legge n. 95 del 1970). Sia la Convenzione sia il
Protocollo costituiscono, infatti, corpi normativi in rapporto di
specialità con la legge n. 39 del 1990 e, quindi, con il
decreto-legge n. 269 del 1996 che mirava a modificarla: con la
conseguenza che l'accertamento sullo status di rifugiato avrebbe reso
non applicabile la disciplina di cui alla suddetta legge n. 39.
Con riferimento all'art. 113 della Costituzione è agevole
osservare, altresì, che la norma oggetto di censura - lungi
dall'escludere la tutela giurisdizionale - era proprio quella che
l'assicurava, prevedendo la facoltà di impugnare il provvedimento di
espulsione. Né ha pregio il rilievo secondo cui l'art. 113 "non
consente di distinguere tra italiani e stranieri", dal momento che il
cittadino italiano non può essere raggiunto da un provvedimento di
espulsione, sì che l'ordinario termine per l'impugnazione degli atti
amministrativi non può costituire, nel caso di specie, un valido
tertium comparationis.
7.3. - Con riguardo, infine, all'art. 24 della Costituzione, si
ricorda che, ad avviso del rimettente, il termine di sette giorni
sarebbe talmente breve da impedire il pieno esercizio del diritto di
difesa, trattandosi di straniero presumibilmente non inserito nel
contesto sociale del Paese ospitante e non padrone della lingua. Tale
assunto non può essere condiviso.
In proposito è opportuno premettere che, per valutare la
congruità di un termine in relazione al principio sancito
dall'art. 24, occorre comparare non soltanto l'interesse di chi è
onerato dal rispetto di esso, ma anche il generale interesse
dell'ordinamento al celere compimento dell'attività processuale
soggetta al termine di decadenza (sentenze numeri 138 del 1975, 10
del 1970, 93 del 1962). E nel caso di specie la necessità di una
sollecita definizione del procedimento di impugnazione risponde senza
dubbio all'interesse generale di un razionale ed efficiente controllo
dell'immigrazione da Paesi extracomunitari.
Ciò posto, va osservato che le determinazioni circa la
fissazione dei termini processuali rientrano nella piena
discrezionalità del legislatore, con il solo limite della
ragionevolezza (sentenze numeri 134 del 1985 e 121 del 1984). Né
l'intrinseca irrazionalità di un termine ritenuto eccessivamente
breve può essere stabilita in astratto, fissando una "soglia minima
generale", valida per tutti i procedimenti contenziosi, ma deve
essere valutata caso per caso, considerando le speciali
caratteristiche di ogni singolo procedimento (sentenza n. 126 del
1971).
Orbene, il procedimento di impugnazione già previsto dal citato
art. 7-quinquies comma 5, di natura contenziosa, aveva a oggetto la
legittimità del provvedimento di espulsione, cioè un atto che
poteva essere emesso nelle tassative ipotesi di cui al comma 2.
L'impugnazione e il successivo contenzioso non avrebbero comportato
lo svolgimento di indagini particolari, accertamenti complessi,
istruzioni copiose, escussioni testimoniali, richiedendo soltanto
l'individuazione della corrispondenza del provvedimento espulsivo
allo schema astratto prefigurato dalla legge.
Questa caratteristica induce a escludere che il termine di sette
giorni, allora previsto per l'impugnazione del provvedimento, fosse
irragionevolmente breve.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 11, commi 8 e 9, della legge 6 marzo 1998,
n. 40 (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), ora trasfuso nell'art. 13 del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), e dell'art. 13, comma 10, del decreto legislativo n. 286
del 1998, sollevate, con riferimento agli articoli 3 e 24 della
Costituzione, dai Pretori di Padova e Palermo, con le ordinanze
indicate in epigrafe;, dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7,
comma 3, del decreto-legge 17 maggio 1996, n. 269 (Disposizioni
urgenti in materia di politica dell'immigrazione e per la
regolamentazione dell'ingresso e soggiorno nel territorio nazionale
dei cittadini dei Paesi non appartenenti all'Unione europea), nella
parte in cui introduceva l'art. 7-quinquies nella legge 28 febbraio
1990, n. 39 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso
e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei
cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio
dello Stato), e 1 della legge 9 dicembre 1996, n. 617 (Salvaguardia
degli effetti prodotti dal decreto-legge 18 novembre 1995, n. 489, e
successivi decreti adottati in materia di politica dell'immigrazione
e per la regolamentazione dell'ingresso e soggiorno nel territorio
nazionale dei cittadini dei Paesi non appartenenti all'Unione
europea), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione,
dal Tribunale amministrativo regionale della Toscana con l'ordinanza
in epigrafe;, dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 11, commi 8 e 9, della legge 6 marzo 1998,
n. 40 (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), ora trasfuso nell'art. 13 del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), e dell'art. 13, comma 10, del decreto legislativo n. 286
del 1998, nella parte in cui non consentono di sospendere in via
cautelare l'efficacia del provvedimento impugnato, sollevate, con
riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dai Pretori di
Padova e Palermo, con le ordinanze indicate in epigrafe;, dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato
disposto dei citati articoli 7, comma 3, del decreto-legge n. 269 del
1996, e 1 della legge n. 617 del 1996, sollevata, in riferimento agli
articoli 10, 24 e 113 della Costituzione, dal Tribunale
amministrativo regionale della Toscana con l'ordinanza in epigrafe;,
ordina la restituzione degli atti al pretore di Ancona, sezione di
Senigallia.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 maggio 2000.
Il presidente e redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 31 maggio 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola
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