23 aprile 2012

Un primo passo: disoccupato non vuol dire clandestino
l'Unità, 22-04-2012
SALEH ZAGHLOUL
Il decreto Salva-Italia era intervenuto positivamente sull’immigrazione trasformando in provvedimento legislativo la buona prassi amministrativa sulla validità della ricevuta del permesso di soggiorno ai fini della permanenza e del lavoro. Ora con la riforma delle norme sul mercato del lavoro, il governo Monti interviene ancora positivamente in materia: l’art.58 del Disegno di legge in materia, raddoppia la durata minima del periodo di disoccupazione che garantisce la regolarità del permesso di soggiorno riportandola da sei mesi ad un anno. E nel caso che il lavoratore straniero percepisca una prestazione di sostegno al reddito (indennità di disoccupazione, ecc.), tale periodo si estende per tutto il tempo di durata della prestazione. Inoltre, terminato questo periodo è prevista la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno anche in assenza di contratto di lavoro a condizione che lo straniero dimostri la disponibilità di un reddito sufficiente proveniente da fonte lecita.
Ciò è quanto andavamo proponendo come associazioni, movimenti e sindacati negli ultimi mesi per un efficace contrasto alla clandestinità ed il lavoro nero attraverso la tutela ed il consolidamento della regolarità del permesso di soggiorno. Si tratta di provvedimenti positivi razionali e di buon governo dopo molti anni di irrazionalità, demagogia e malgoverno. Infatti, la norma di legge che viene emendata dall’art.58 ha prodotto 684.413 permessi di soggiorno non rinnovati nel solo 2010 (Dossier Caritas 2011). Ogni anno centinaia di migliaia di persone regolarmente soggiornanti vengono costretti alla clandestinità  ed al lavoro nero dopo sei mesi di disoccupazione in un paese a corto di risorse e già fortemente colpito dall’evasione fiscale e contributiva.

 

Immigrati rimpatriati, Algeri protesta con Roma
Convocato ambasciatore italiano,'modi inaccettabili'
(ANSAmed) - ROMA, 23 APR - L'Algeria protesta con Roma per come sono stati trattati i due immigrati rimpatriati la settimana scorsa, su un volo Alitalia Roma-Tunisi, le cui foto - imbavagliati con lo scotch sulla bocca - hanno fatto il giro del web, scatenando non poche polemiche anche in Italia. Il ministero degli Esteri algerino ha convocato oggi l'ambasciatore d'Italia nel paese, Michele Giacomelli, per rappresentare la "protesta veemente delle autorità algerine" contro un trattamento che Algeri definisce - ha fatto sapere il portavoce della diplomazia algerina - "violento, umiliante e inaccettabile". Un episodio, quello rimbalzato alle cronache - con i due seduti all'ultimo posto in fondo all'aereo, le mani legate con una fascetta di plastica, la bocca tappata con un pezzo di scotch da pacchi e una mascherina protettiva abbassata - su cui Roma, comunque, ha già annunciato di voler andare fino in fondo. Così come ha ricordato anche ieri il capo della diplomazia italiana. Il ministro Giulio Terzi, scrivendo alla blogger tunisina Lina Ben Mhenni - che aveva espresso "profonda costernazione" sul caso - ha spiegato che il governo italiano ha già aperto un'indagine amministrativa sulla vicenda e, contemporaneamente, la magistratura ne ha aperto una giudiziaria. In linea con quanto spiegato dal ministro dell' Interno Anna Maria Cancellieri che, riferendo alla Camera in un'informativa sui fatti, aveva rimarcato come l'uso di "misure coercitive", come lo scotch sulla bocca, è un comportamento "estemporaneo" e, soprattutto "offensivo della dignità della persona". "La Polizia ha tutto l'interesse" affinché la vicenda venga chiarita in tutti i suoi aspetti, aveva spiegato la responsabile del Viminale annunciando accertamenti. Una vicenda su cui oggi Algeri ha voluto saperne di più, chiamando l'ambasciatore Giacomelli al ministero degli Esteri. Dove ha incontrato il segretario di Stato per la comunità nazionale con sede all'estero, Benattallah Halim. A riferirlo è stato lo stesso portavoce del dicastero algerino, spiegando che nel corso dell'incontro è stata espressa la "protesta" per un trattamento, quello riservato "ai nostri due connazionali", definito "violento, umiliante e inaccettabile". E invitando l'ambasciatore - spiega la stessa fonte - a "trasmettere alle autorità italiane" la posizione di Algeri in attesa di ricevere "spiegazioni".(ANSA). PEN/



Schengen: si riparla della modifica del Trattato. Francia e Germania chiedono “la possibilità della reintroduzione dei controlli alle frontiere per una durata di 30 giorni”.
La misura era stata già proposta in passato ma non è contenuta nel testo di modifica proposto dalla Commissione Ue. Atto di forza o campagna elettorale per Sarkozy?
Immigrazioneoggi, 23-04-2012
“La possibilità della reintroduzione dei controlli alle frontiere per una durata di 30 giorni” nel caso di forte ondate migratorie. È questa la modifica al Trattato di Schengen che hanno chiesto, con una lettera alla presidenza di turno danese della Ue, i ministri degli Interni tedesco Hans-Peter Friedrich e francese Claude Gueant.
A rivelare l’iniziativa – che molti commentatori attribuiscono più a una “cortesia” della Germania al presidente transalpino Sarkozy alla vigilia del voto – è stato venerdì scorso il quotidiano Sueddeutsche Zeitung.
La Sueddeutsche, in possesso della lettera datata 17 aprile, scrive che la proposta verrà esaminata già nella riunione di giovedì prossimo dei Ministri dell’interno dell’Ue, anche se una decisione definitiva non dovrebbe essere presa prima di giugno, quando scadrà la presidenza di turno dell’Ue da parte della Danimarca.
Si tratta comunque di un’iniziativa che i due governi avevano già proposto in passato nell’ambito del dibattito seguito agli sbarchi di immigrati sulle coste italiane a seguito della “primavera araba”. Dalla sollecitazione dei due Paesi era emersa una proposta della Commissione Ue, Governance Schengen – Rafforzare lo spazio senza controlli alle frontiere interne, ancora all’esame del Parlamento, che prevede la possibilità della sospensione di Schengen solo su decisione della Commissione stessa e non con lasciando la scelta al singolo Stato.
Il portavoce del Governo tedesco Steffen Seibert, commentando la notizia, ha precisato che “la lettera non contiene niente di nuovo. Da anni si discute della necessità di riformare Schengen, per rafforzarlo e la posizione tedesca è nota”.



La voliera degli immigrati
Il Cie di Palazzo San Gervasio e una lunga storia
A breve il passaggio da "temporaneo" a "definitivo"
Barlettalife.it, 22-04-2012    
EMANUELE PORCELLUZZI
Il centro-voliera di Palazzo San Gervasio, in cui non ci sono uccelli bensì uomini, è sorto sul territorio di uno stabile confiscato alla mafia, ai fini di farne un centro di accoglienza per i migranti stagionali, che, in estate, affluiscono nella zona per lavorare come braccianti agricoli stagionali nella raccolta dei pomodori: l'oro "rosso" di queste zone. Ungolo Gervasio, ex assessore comunale e tuttofare dell'Osservatorio migranti della Basilicata - precisa - che tale centro ha funzionato dal 1999 per dieci anni, e, nel 2009, il sindaco lo ha chiuso. Nell' aprile del 2011, hanno cominciato a portare i tunisini, poi è stato deciso di utilizzarlo come Cie (centro di identificazione ed espulsione) e a Gervasio gli fa eco, Giovanni Ricchiuti, arcivescovo di Acerenza: "Hanno deciso di creare una sorta di carcere e questo non è il modo di fare accoglienza". Al di là delle proteste del prelato, gli abitanti di Palazzo San Gervasio non sono apparsi, particolarmente, toccati dalla nascita del Cie. Per di più, la presenza di questa nuova struttura ha creato in una comunità, segnata dalla crisi e lacerata dall'emigrazione, quel minimo di indotto che qui non è trascurabile, tanto è vero che l'unico hotel del paese,è, al completo, grazie all'arrivo dei carabinieri che devono garantire la sicurezza nel centro; poi, i ristoratori del paese si sono divisi la fornitura dei pasti per i reclusi e i lavori, all'interno del centro, sono stati affidati a ditte edili di Palazzo San Gervasio.
Nel giro di pochi giorni è stata innalzata la rete all'interno del centro e costruito un muro di cinta di tre metri per impedire non solo le fughe degli "ospiti" ma per rendere il campo non visibile da fuori. Sull'onda degli arrivi a Lampedusa, il governo Berlusconi ha cercato di fare il tutto esaurito nella tendopoli, allestita vicino ad una città tarantina, il cui sindaco ha minacciato le dimissioni, seguìto da quelle intimate dal sottosegretario all'interno dell'epoca, Alfredo Mantovano. In Basilicata, quando è stato istituito il Cie, nessuno si è mosso, neppure il sindaco di Palazzo San Gervasio, che si è trincerato sul classico: l'aver dovuto accettare una decisione, proveniente dall'alto. Il centro-voliera della cittadina lucana, a parte qualche voce isolata, non ha suscitato alcuna polemica tra i suoi abitanti, per cui tutto lascia credere che l'esperimento stia andando bene e che, nel 2012, un decreto possa eliminate la "t" di temporaneo, al fine di istituire, a tutti gli effetti, un Cie in un lembo di terra, bellissima e fascinosa, culla di storie di civiltà e di solidarietà umana.



Milano: gli immigrati al centro del Piano di sviluppo del welfare.
Iniziate sabato scorso le consultazioni con le comunità straniere.
Immigrazioneoggi, 23-04-2012
Sono oltre 240mila, circa il 18% del totale dei residenti, i cittadini stranieri appartenenti a 167 comunità regolarmente iscritti all’anagrafe di Milano. È da questo dato che l’Assessorato alle politiche sociali e cultura della salute del Comune di Milano, partendo proprio dai temi dell’immigrazione e dell’inclusione, ha voluto porre le basi per ripensare il Piano di sviluppo del welfare del capoluogo lombardo.
L’assessore Pierfrancesco Majorino ha avviato sabato scorso il percorso di incontri con la cittadinanza, con i rappresentanti delle associazioni e del Terzo settore e le rappresentanze consolari, dedicato ai diversi ambiti di intervento delle politiche socio assistenziali e socio sanitarie. Sul tema immigrazione è emersa la necessità per gli Enti locali di riappropriarsi di un ruolo da protagonisti, in linea anche con le indicazioni dell’Unione europea, che permetta di continuare a gestire le fasi emergenziali (rifugiati, richiedenti asilo politico) e allo stesso tempo di poter investire su progetti di medio e lungo periodo di inclusione sociale.
“Oggi abbiamo ascoltato tante storie di persone che vivono nel nostro Paese. Milano – ha detto l’Assessore alle politiche sociali – deve creare, e lo sta facendo, una forte sinergia con le comunità internazionali presenti sul nostro territorio, perché è in questo modo che si combatte la paura del diverso”.



Migranti tunisini dispersi, ancora silenzio Madre si dà fuoco: "Vogliamo verità"
Una  delegazione di donne rappresentanti delle famiglie di migranti scomparsi è stata ricevuta dal consigliere del primo ministro Hamadi Jebali. Ma le ricerche sui clandestini che potrebbero essere sbarcati sul nostro territorio non vanno avanti. Si teme che molti di loro siano morti in mare
la Repubblica, 21-04-2012
SABINA AMBROGI
ROMA - Si chiama Jannet Rhimi, abita a Tunisi, nel quartiere popolare di Ennour. Alle 4 di giovedì pomeriggio si è data fuoco e ha ustioni gravissime sul torace e sulla gola. E' stata la cognata a salvarla da morte certa.
La mamma di Oussam, 19 anni, ha voluto così drammaticamente protestare contro le autorità tunisine e, indirettamente, contro le autorità italiane che dopo un anno non hanno dato né a lei né alle altre famiglie informazioni di alcun genere sulla sorte dei migranti dispersi.
Oussam voleva raggiungere il fratello in Europa.  E' partito la notte del 29 marzo  2011 per l'Italia assieme ad altri 35 ragazzi su un'imbarcazione di fortuna da una spiaggia vicino Sfax, a sud della Tunisia. Da allora, né lui né i suoi compagni di viaggio hanno più dato notizie  di sé.
Jannet è ora ricoverata nell'ospedale di Ben Arous, lo stesso in cui tentarono invano di salvare  il venditore ambulante Mohamed Bouazizi  avvolto nelle fiamme che accesero  la rivoluzione dei Gelsomini.
In seguito a questo avvenimento, ieri mattina, una  delegazione  di madri rappresentanti delle famiglie di migranti (molti dei quali protagonisti della rivoluzione) è stata ricevuta dal consigliere del primo ministro Hamadi Jebali. Si dicono deluse da questo incontro (“ancora promesse”), e deluse dalla vaghezza con cui Houcine Jaziri, sottosegretario agli Affari Sociali, sta gestendo le informazioni che in Tunisia sembrerebbero arrivate - solo parzialmente - dal nostro paese, generando però  confusione e maggiore angoscia, fino a  reazioni radicali come quelle di Jannet, che si può anche temere vengano emulate visto il livello di esasperazione dopo un anno di attese.
Il primo ministro tunisino Hamadi Jebali, durante il suo viaggio in Italia, il 15 marzo scorso, ha incontrato la delegazione dei rappresentanti dei familiari dei dispersi che si trova a Roma da qualche mese. Jebali ha dato la massima disponibilità a collaborare con le nostre autorità per dare buon esito alle ricerche. Anche il presidente del Consiglio, Mario Monti si è impegnato a fare il possibile. Così come il ministro Riccardi e la ministra Cancellieri che si sono impegnati in questo senso durante il loro recenti viaggi a Tunisi. C'è perfino una commissione al Senato per i diritti umani che se ne sta occupando. Di sicuro ci sono dei tempi burocratici e delle procedure da rispettare, ma di fatto è da ormai un anno che le famiglie tunisine attendono di sapere qualcosa circa la sorte dei propri figli.
Solo prossimamente saranno resi noti i risultati complessivi dell'esame che sta effettuando il Servizio Immigrazione del ministero degli Interni. Si tratta dei raffronti tra le impronte digitali che in Italia si prendono all'arrivo dei migranti, o nei Cie, o nelle carceri, e quelle mandate dalla Tunisia, rilevate al momento del rilascio della carta di identità. Anche se i dispersi sarebbero molti di più, si parla di 250 impronte digitali disponibili. Solo dopo lunghe attese, le autorità tunisine hanno mandato in Italia le impronte dei connazionali sui supporti adatti per essere “lavorate”. E, dato di non poco conto, nel periodo di cui stiamo parlando, molto spesso in Italia  non sono state prese affatto le impronte digitali dei migranti. Il mese di Marzo  2011, quello dello “tsunami umano” come lo chiamò  Berlusconi,  la parola d'ordine era svuotare Lampedusa. Portati in massa dentro le navi, i migranti, furono allora trasferiti nelle strutture allestite ad hoc, tra cui quella di Manduria, da dove in molti sono fuggiti.
Di certo, le impronte confrontate restano la traccia più sicura (anche se non l'unica)  per sapere se le persone cercate sono arrivate vive sul suolo italiano, giacché la maggior parte dei migranti, se identificati, dà nomi falsi al momento dello sbarco. Per questo sono chiamati  “harraga”, dall'arabo “bruciare”, per indicare che, bruciando le loro identità,  bruciano, metaforicamente,  le barriere tra paesi. Per estensione, ciò significherebbe allora riaffermare la prerogativa di essere umano, a prescindere dalla provenienza. Una questione  profondissima che viene rilanciata di continuo sul tappeto della politica, tunisina e italiana, dalle madri dei dispersi: queste donne di origini umili e di condizioni economiche disperate,  vogliono sapere  quale sia stato il destino dei loro  figli, in quanto esseri umani. E  lo vogliono sapere anche se  vengono considerati  “clandestini” perché avrebbero agito illegalmente secondo le leggi di entrambi i paesi. Vogliono  saperlo anche se alcuni di loro erano dei pregiudicati evasi dalle carceri e vogliono sapere  cosa  hanno fatto i due stati con le loro politiche migratorie.
Va sottolineato che trovare un solo passeggero, di una sola imbarcazione significa  essere informati sul destino di tutti i compagni di viaggio. Pertanto le stime, per quanto riguarda la parte italiana, si  sarebbero potute fare più in fretta: basta  trovare un solo  membro di una sola imbarcazione per sapere della vita o della morte degli altri. Si tratta in particolare delle imbarcazioni  partite l'1, il 14 e  29 marzo 2011 (quella che portava anche il figlio di Jannet Rhimi).
La  delegazione di famiglie tunisine in Italia ha portato con sé una serie di “prove” che hanno tenuto in vita e continuano a tenere in vita le speranze. Si tratta di  telefonate dal mare nella notte;  cellulari che  hanno suonato a vuoto per lungo tempo; immagini catturate dai video dei tg; foto sgranate con volti familiari, chiamate ricevute una sola volta dopo gli sbarchi presunti, e non andate mai a buon fine, notizie di sbarchi che si accavallano con quelle dei naufragi. Sono i frammenti di un' illusione collettiva o indizi da seguire?  Di certo mostrano tutta la loro fragilità perché non trovano  né conforto né smentita da parte di chi avrebbe i mezzi e i poteri per verificare.
E di nuovo allora  tutto torna alle madri e alle loro richieste, con i sit-in non autorizzati davanti alle sede diplomatiche di entrambi i paesi, sostenute da alcune donne italiane: il collettivo femminista “2511” e l’associazione Pontes, che hanno dato vita  alla campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano”.
E chiedono alle autorità italiane e tunisine: "Perché non fate tutto quello che è in vostro potere fare? Quali risorse state stanziando realmente per verificare gli indizi che vi portiamo?"  E' una posizione radicale che le madri dei migranti tunisini  pongono  di continuo anche di fronte alla sola vera prova che oggi fa pensare il peggio, e che è poi quella più ovvia e evidente: da un anno a questa parte nessuno dei dispersi ha mai veramente parlato con i familiari.



Diciottenni figli di immigrati Il diritto (ignorato) di essere italiani
Ma ora una lettera spedita dai Comuni più virtuosi glielo ricorda, sono  sempre più numerosi a sceglierlo. Dal 2011 succede a Milano (è stata una delle prime iniziative della giunta Pisapia), ma anche a Padova, San Benedetto del Tronto, Cremona, Grosseto, Pordenone. Nel 2012 le lettere saranno 642 e il risultato atteso è ancora più alto. Ecco quattro storie che raccontano di giovani che hanno maturato la loro decisione.
la Repubblica, 20-04-2012
ZITA DAZZI e CARLOTTA MISMETTI CAPUA foto di ALFREDO D'AMATO
MILANO - Sono circa un milione, i ragazzi nati in Italia da famiglie immigrate. A loro una legge del '92 garantisce il "beneficio" della cittadinanza con procedura accelerata: dal diciottesimo compleanno, per 12 mesi, questi "nuovi italiani" hanno diritto al passaporto semplicemente provando la loro residenza anagrafica qui fin dalla nascita: vanno bene certificati amministrativi, scolastici, medici, vaccinazioni. Poi un appuntamento all'anagrafe, una verifica che in genere dura appena qualche settimana e il giuramento sulla Costituzione.
La lettera ai diciottenni. Questa semplificazione ancora non basta, come notano, dal Presidente Napolitano in giù, quanti invocano una legislazione più aperta all'integrazione. Ma nel pieno del dibattito sullo "ius solis" e lo "ius sanguinis", mentre la campagna "L'italia sono anch'io 2'" ha raccolto e presentato in Parlamento 100 mila firme per una nuova legge, diversi Comuni hanno intanto deciso di fare una concreta mossa, suggerita dall'Anci 3in collaborazione con Save the children 4 e la Rete G2 5delle seconde generazioni, per aiutare a cogliere le opportunità che ci sono: spedire una lettera a casa ai neodiciottenni figli di stranieri, per ricordare loro che possono scegliere.
Nelle città dov'è successo. Dal 2011 succede a Milano (è stata una delle prime iniziative della giunta Pisapia), ma anche a Padova, San Benedetto del Tronto, Cremona, Grosseto, Pordenone. E le lettere hanno successo: a Milano, su 479  spedite nel 2011, le risposte positive sono state 458, il 39 per cento più dell'anno prima. Nel 2012 le lettere saranno 642 e il risultato atteso è ancora più alto. Perché restano difficoltà, resistenze e a volte perfino conflitti in famiglia (dato che in genere diventare italiani implica la rinuncia, concreta e simbolica, alla nazionalità d'origine), ma come dimostrano le quattro storie che abbiamo raccolto, la vita è spesso più semplice e saggia delle ideologie. Se si crede alla possibilità di migliorarla.
Monica: "un passaporto per il mio futuro". Si chiama Monica Rou Rou, ma il secondo nome cinese, che vuol dire dolce, intende abbandonarlo. Appena presa la cittadinanza italiana. "Suona ridicolo, non mi chiamano così neppure i miei genitori" dice. Ha anche un soprannome, ma su Facebook usa un altro nickname ancora, coreano. Perché la Corea è la Swinging London dell'Asia e Monica va pazza della sua musica, della moda, dei cartoni. Detto questo, vive a Padova, dove è nata e studia. "Incontrerete altri cinesi?", chiede.
Allora ti senti cinese?
"Così così, qui ho messo radici. Anche se mia sorella Alessia è in Cina a studiare e mio fratello è nato lì. Non li vedo mai".
E come comunicate?
"In chat, nonostante i fusi orari. Quando torno da scuola loro si sono appena svegliati. Usiamo l'alfabeto pinpyn, che ha i caratteri occidentali, altrimenti non potremmo capirci. Abbiamo avuto vite diverse, loro di italiano hanno solo il nome, io ho studiato qui".
E cosa vorresti fare?
"Un mestiere che mi faccia viaggiare, forse il reporter o l'interprete. Ma non in Cina, non parlo bene e non leggo gli ideogrammi: tutti mi dicono che è un peccato, ora che la Cina è tanto importante".
La tua migliore amica dov'è?
"Qui a Padova, l'ho chiamata prima di incontrarvi per dirle che ero un po' nervosa. Davvero metterete la mia fotografia?".
Sì. Mi fai vedere quella della tua carta d'identità?
"È questa, l'ho fatta da poco. Ma tra poco, appena mi danno la cittadinanza la cambio. Vedi, sul documento c'è  scritto "non valido per l'espatrio". E che sono cinese. Quando sono andata a Parigi con le mie amiche ho dovuto fare la fila per gli stranieri...".
È importante questa cosa per te?
"Sì, a casa abbiamo un sacco di faldoni pieni di documenti. Se ne occupa mia madre, è anche dovuta andare a Torino dove sono nata a fare i certificati. È da qualche anno che ne parliamo, i miei genitori mi hanno chiesto che volevo fare. In Cina la doppia cittadinanza non è ammessa, e un po' mi dispiace. I miei preferiscono pagare le tasse di soggiorno anche se sono qui da venti anni. I miei cugini sono in Francia, e ho già un sacco di nipoti".
 Non sono molti i ragazzi che come te possono chiedere in Comune la cittadinanza e ottenerla senza troppe complicazioni. Ci pensi a questo?
"Che siamo nuovi, vuole dire?".
 Diciamo così.
"Ora che mi ci fa pensare, è una cosa bella".
Marco, rockabilly e Rumeno nato qui. Come tutti i ragazzi, Marco parla il minimo sindacale, perché quando si è ragazzi tutto è ovvio che parlarne è una noia. Ma non stavolta. Infatti da poco ha ricevuto dal suo sindaco una lettera per presentarsi in Comune a fare la pratica di cittadinanza e quando è arrivata gli è preso un colpo. Di più a sua madre. Lui minimizza: "Vabbe', è una lettera che ha mandato a migliaia di persone, mica è personale" dice.  Per il resto ha una zazzera da rockabilly che è uno spettacolo della statica e una storia, complicata come tante.
È una lettera importante, comunque.
"Come no. C'è scritto qui, legga legga: che riguarda il mio diritto di lavorare, di votare, di viaggiare. Queste cose le avevo studiate a scuola, a lezione di diritto. Ius soli, si chiama così".
Tu sei nato a Salerno, ma al Comune una prima volta ti avevano detto di no, che tua madre era arrivata clandestina e che anche se per lei c'era stata una sanatoria tu non ne avevi diritto. Che è successo?
"Un impiegato, è stato. Ha detto che non andava bene e non ci ha fatto presentare la domanda. Ci sono rimasto malissimo. Quando mia mamma ha fatto la sanatoria io avevo già due anni. Poi ci siamo spostati qui, lei lavora in fabbrica. Da quando sono piccolo mi dice "vedrai, a diciotto anni avrai la cittadinanza, vedrai". Lei è rimasta qui per me e mio fratello più piccolo, Roberto. Ma lui è ortodosso, perché è nato in Romania, e io cattolico. Io ho fatto tutte le scuole, sono battezzato, pure i vaccini ho fatto. Adesso con questa lettera forse cambia qualcosa".
Ma per i tuoi amici, per la tua vita a Padova, cambia qualcosa avere la cittadinanza o non averla? Come rumeno sei cittadino Europeo.
"Penso per il lavoro, sono ragioniere, potrei fare dei concorsi. E poi mia madre si preoccupa dei mie figli, dice che se mi sposo è meglio essere italiano. A scuola in classe ci sono altre tre ragazzi stranieri, ma solo io sono nato qui. Abbiamo fatto la lezione di diritto, ma la professoressa non ci ha chiesto niente. Ma ho capito che lo ius soli in Italia non c'è, mi pare ci sia solo in Francia, dei paesi europei".
Come vorresti  cambiasse, la legge?
"Vorrei che si potesse fare la cosa più semplice, magari un po' "ius soli" e  un po' "ius sangunis". I miei amici dicono scherzando che io, nato a Maddaloni coi genitori della Romania, sono "terrumeno", una nuova razza.
E tu ti senti nuovo?
"Forse no, tranne che non parlo il dialetto padovano. Ma quelli che a scuola parlano il dialetto è perché hanno un nonno. A me piace la musica rumena, ma quando vado a casa d'estate anche loro mi trovano un po' strano, dicono che mi vesto da italiano".
Quando finisce la scuola che farai, a parte il concorso?
"Mi piacerebbe viaggiare. Per ora so quattro lingue, insomma due bene e due le studio a scuola, inglese e spagnolo. Ma ho girato poco. Non sono mai stato a Roma".
Nur: "La mia famiglia musulmana mi appoggia". "La Siria mi piace, ma per andarci in vacanza. Io lì non mi sento più a casa, mi sento una specie di turista. E lì le donne non sono libere, io non potrei viverci". Ha le idee chiare Nur Kekati, 18 anni compiuti a novembre, diventata cittadina italiana a gennaio.
Non hai mai avuto dubbi sulla decisione da prendere?
"A essere sincera, proprio no. Io sono italiana di formazione, di gusti, di abitudini. Penso che resterò qui tutta la vita, che avrò una famiglia italiana e che qui costruirò il mio futuro. Studio da ragioniera all'istituto Zappa, magari lavorerò in un ufficio, anche se mi piace tanto leggere e sarebbe bello poter fare qualcosa di letterario. E ora con la cittadinanza potrò fare i concorsi, andare avanti con la mia vita".
Vieni da una famiglia tradizionale. I tuoi come hanno preso la tua scelta?
"Benissimo. Anzi sono stati loro a informarsi per le pratiche e ad accompagnarmi al giuramento. È vero che la nostra è una famiglia musulmana, ma la religione l'intendiamo in modo aperto. A mio padre forse piacerebbe se indossassi il velo islamico, ma non me l'ha mai imposto. Io non mi sento di metterlo. Mi vesto come le mie amiche, magari solo un po' più attenta alla lunghezza di maniche e gonne".
E il Ramadan?
"Quello lo faccio, è una tradizione. Ma non mi pesa".
Altri legami col tuo paese d'origine?
"A casa parliamo siriano, perché la mamma non è molto pratica con l'italiano, ma anche italiano, perché i miei fratelli più piccoli non parlano la nostra lingua d'origine. Prima in Siria ci andavamo ogni due anni per trovare i parenti. ma dal 2010 non ci siamo più stati. Anche perché ora c'è la guerra, non sarebbe certo il momento giusto. Mia mamma telefona una volta alla settimana ai famigliari, stanno tutti bene, ma è un brutto momento".
Stefano, che non si è mai sentito diverso
La lettera del Comune è arrivata ai primi di gennaio, ma Stefano Avenido, 18 anni compiuti a dicembre, figlio di cittadini filippini residenti a Lambrate da 20 anni, sapeva già tutto. Anche sua cugina, nata a Milano come lui, ha ottenuto la cittadinanza italiana l'anno scorso, approfittando della stessa opportunità concessa dalla legge.
 L'aspettavi, quella lettera, Stefano?
"Si, e sapevo che sarei stato il primo della mia famiglia a cambiare passaporto. Da piccolo, quando andavo nelle Filippine dai nonni, i miei genitori sono sempre stati attenti a rinnovare il mio certificato di residenza, perché non perdessi la continuità della presenza in Italia".
Che cosa hai provato il giorno del giuramento in Comune?
"Ero molto nervoso, temevo che mi facessero domande, che qualcosa all'ultimo non andasse per il verso giusto. Ma c'era mia mamma con me, che mi tranquillizzava. E funzionari gentili".
Scegliere fra le due nazionalità è stato difficile?
"Io sento forti anche le mie radici asiatiche, ma sono cresciuto a Milano, ho frequentato l'asilo, le elementari e le medie del mio quartiere. I miei amici sono i miei compagni di scuola, i figli dei vicini di casa, i ragazzi che ho conosciuto all'istituto tecnico Maxwell. Esco spesso con un ragazzo ucraino e con un salvadoregno, anche loro nati a Milano, anche loro in attesa di fare il giuramento per avere la cittadinanza. D'ora in poi, quando andrò nelle Filippine dovrò fare il visto come se fossi un turista? Poco male. Mi basta pensare a come si semplificherà la mia vita: basta burocrazia, basta code per rinnovare il permesso di soggiorno".
Ti capiterà di fare paragoni fra la vita a Milano e quella nelle Filippine...
"I miei vengono da un piccolo villaggio dove, a dire la verità, siamo tutti imparentati fra noi. Non ci sono strade d'asfalto, non esistono i tram e la neve si vede solo in tv. Qui a Milano io tanti quartieri nemmeno li conosco. È una grande metropoli, che un po' ti sfugge un po' ti prende. Ma dove hai la sensazione di poter costruire qualcosa".



















 

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