Newsletter periodica
d’informazione
(aggiornata alla data del
07 febbraio 2012)
o
Dipartimento Politiche
Migratorie: appuntamenti pag. 2
o
Sindacato: ritirare
l’ingiusta “tassa di soggiorno” pag. 2
o
Cgil, Cisl e UIL: “il
governo mantenga le promesse” pag. 2
o
Decreto flussi: Il
Ministero del Lavoro risponde alla UIL pag. 3
o
Mercato del Lavoro
– L’effetto sostituzione degli stranieri
pag. 3
o
Società –
Napoli: baby sitter per i figli stranieri pag. 4
o
Discriminazioni
– RC auto, lo straniero paga di più pag. 6
o
Rifugiati – In
aumento i richiedenti asilo nella UE pag. 7
o Foreign Press: Gulag
for Gaijin pag. 7
A cura del
Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento
Politiche Migratorie
Rassegna ad
uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL
Tel.
064753292- 4744753- Fax: 064744751
Dipartimento
Politiche Migratorie: appuntamenti
Roma, 11 febbraio 2012, ore 10.00, sede
Ambasciata Filippina
Meeting on Developing a System of
Linkages, Cooperation and Coordination between Philippine and Italian Service
Providers towards Improved Service Delivery for Migrant Workers
(Giuseppe Casucci)
Roma, 16 febbraio 2012, ore 09.00, Sala Polifunzionale della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Via di Santa Maria 37
UNAR: Conferenza “contrasto della
discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”
(Angela Scalzo)
Roma, 16 febbraio 2012, ore 11.00, sede
CNEL
ONC: Presentazione alla stampa dell’
VIII° Rapporto su indici di integrazione sociale degli stranieri in Italia”
(Giuseppe Casucci)
Venerdì manifestazioni
in tutta Italia davanti alle Prefetture
Roma, 06 febbraio
2012 - La UIL è fortemente
contrariata per il mancato ritiro o almeno la revisione della tassa sul
permesso di soggiorno, promessi in un primo momento dal Ministro del Lavoro
Fornero. Si tratta di un nuovo balzello, entrato in vigore lo scorso 1°
febbraio, che appesantisce il diritto a rimanere in Italia dei cittadini
stranieri. Una tassa iniqua ed esosa (da 80 a 200 € ), cui non corrisponde né
la certezza dei tempi di fruizione, né la qualità del servizio, né alcun
principio di equità.
Non la vogliamo per molti motivi:
a)
perché è uno dei prodotti nefasti del pacchetto
sicurezza i cui contenuti sono stati censurati dalla stessa Europa;
b)
perché è sproporzionata rispetto al reddito medio di
una famiglia straniera;
c)
perché è illogico un aumento dei costi per un servizio
che lo Stato non è in grado di fornire nei tempi stabiliti dalla legge (20
giorni): quindi, oltre al danno di ritardi insopportabili, si infligge ai
cittadini stranieri la beffa di pagare di più per favorire, non l’integrazione,
ma ordine pubblico e rimpatri.
La UIL considera ingiusto che il
Governo faccia cassa sulla pelle dei più deboli in una logica punitiva
dell’immigrazione. Si possono recuperare risorse combattendo il lavoro nero e
permettendo percorsi di emersione nello spirito della direttiva 52 della CE. Per
queste ragioni invitiamo tutte le nostre strutture a promuove – assieme a
Cisl e Cgil – presidi di protesta in tutte le prefetture d'Italia nella
giornata del 10 febbraio 2012
Invitiamo tutti gli immigrati e tutte
le associazioni ad aderire a questa protesta di Cgil-Cisl-Uil.
“Va
rimodulata, così com’è è inaccettabile per il peso sulle famiglie immigrate e
per la sua finalizzazione”. Il 10 febbraio sit-in di protesta davanti alle
Prefetture
Roma – 3
febbraio 2012 - ''Siamo in attesa che il governo passi dalle parole ai fatti,
sulla base di quanto dichiarato dalla ministra Cancellieri che ha annunciato la
volonta' di intervenire in tempi brevi sulla normativa relativa ai permessi di
soggiorno, ed in particolare sulla sovrattassa gia' entrata in vigore''. Lo
dichiarano i segretari confederali di Cgil, Vera Lamonica, Cisl, Liliana Ocmin
e Uil, Guglielmo Loy. ''La sovrattassa va quanto meno rimodulata- si legge in
una nota congiunta - poiche' cosi' com'e' non e' accettabile, ne' per il peso
sulle famiglie immigrate, ne' per la sua finalizzazione. Inoltre e' urgente che
il governo intervenga rapidamente sulla durata del permesso di soggiorno per
coloro che hanno perso il lavoro, concretizzando quanto piu' volte annunciato
dai ministri Riccardi e Cancellieri”. “Riconfermiamo la richiesta al governo di
aprire su questo, come sul complesso delle norme sull'immigrazione, a partire
dal recepimento della direttiva 2009/52/CE [che introduce norme minime relative
a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano
cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare n.d.r.], un confronto di
merito che porti a soluzioni efficaci e condivisibili''. ''A sostegno delle
richieste sindacali- concludono i tre sindacalisti - Cgil-Cisl-Uil promuovono
per il giorno 10 febbraio iniziative e sit-in davanti alle Prefetture in tutta
Italia''.
Caro Segretario Confederale,
Colgo l'occasione di riscontrare la Vs. del 16 gennaio u.s., per
ringraziare la UIL ed, in particolare, la Segreteria Confederale nazionale, per
il lavoro prezioso che state svolgendo in favore della integrazione dei
lavoratori immigrati e la costante collaborazione rivolta alla Direzione
Generale dell'Immigrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Nel merito della programmazione dei nuovi flussi di ingresso ritengo che buona
parte delle riflessioni, dei rilievi e dei suggerimenti, che ci rivolgete siano
già state recepite dalla programmazione in corso. L'assenza del decreto flussi
per l'anno in corso, per le ragioni rammentate nella Vs. lettera, non ha
significato l'impedimento per nuovi ingressi di lavoratori stranieri in Italia.
E' necessario tener presente che, oltre la disponibilità di un consistente
bacino dei disoccupati stranieri, sussiste la libera circolazione dei
lavoratori comunitari, agevolata dalla scelta di non proIungare il regime
transitorio di delimitazione per i Rumeni e i Bulgari. A questi devono
essere aggiunti gli ingressi degli extracomunitari per ricongiunzione familiare
ed i permessi rilasciati per ragioni di protezione o asilo, che rinforzano la
disponibilità di offerta di lavoro sul territorio italiano.
Le quote di ingressi per i lavoratori formati nei paesi di
origine [ex art. 231, di conversione in lavoro subordinato per i lavoratori
agricoli e per i tirocini e gli stages, quelle per il lavoro autonomo, gli
italiani all'estero e dei lungo soggiornati, saranno introdotte nel decreto
flussi per il lavoro stagionale, di prossima emanazione, come anticipazione di
quello generale per il lavoro subordinato. Ricordo che per l'art. 23 la quota è
ampliabile in via amministrativa, e stiamo prevedendo negli accordi diplomatici
l'utilizzo di queste quote come modalità privilegiata di ingresso di nuovi
lavoratori. Segnalo infine le novità, che sono state introdotte nel recente
decreto governativo sulle semplificazioni, per il lavoro stagionale che agevolano
notevolmente le modalità di ingresso dei lavoratori stranieri che abbiano già
lavorato in Italia nel passato, con la possibilità di un loro utilizzo da parte
di altre imprese nel corso dei 9 mesi del permesso massimo di soggiorno. Sono
altrettanto fiducioso che la richiesta, più volte avanzata dalle Organizzazioni
Sindacali, di allungare la durata del permesso di soggiorno per attesa
occupazione possa trovare riscontro in uno degli imminenti provvedimenti
governativi. Credo che il complesso di questi interventi vada nella direzione
auspicata nella Vostra missiva, nella convinzione che molto lavoro debba ancora
essere fatto per migliorare la gestione dei flussi migratori.
Un cordiale saluto Natale Forlani
Roma, 1° febbraio 2012
Immigrazione
e lavoro
Esiste un effetto sostituzione dei lavoratori
stranieri a quelli italiani? L’analisi della Fondazione della presenza degli
stranieri nei settori di attività e nelle professioni
Fondazione
Leone Moressa. Comunicato del 06/02/2012
Dinamiche
occupazionali. Dal 2007 al 2010 la presenza di manodopera straniera
nel mercato del lavoro nazionale si è fatta sempre più evidente: da 1,5 milioni
di occupati di nazionalità straniera si è passati a poco più di due milioni.
Questo ha inoltre determinato nel medesimo periodo di tempo un aumento del peso
della componente straniera che dal 6,5% ha raggiunto il 9,1% del totale dei
lavoratori in Italia. In termini di variazioni percentuali, se l’occupazione
degli italiani è calata del -4,3% (pari a quasi un milione di unità in meno),
gli stranieri sono invece aumentati con un ritmo del 38,5% (+578 mila persone).
Per settore di attività. L’occupazione straniera si
distribuisce in tre settori principali: i servizi sociali e alla persona (in
cui si concentra il 24,7% del totale dell’occupazione straniera), le
costruzioni (16,7%) e la manifattura (19,4%). Ma sono i primi due i settori nel
quale la presenza di stranieri si fa più evidente: infatti se nei servizi
sociali e alla persona su cento occupati quasi 30 sono immigrati, nelle
costruzioni si tratta di 18 persone. Anche il settore degli alberghi e della
ristorazione mostra una preferenza nell’assunzione di manodopera straniera, dal
momento che il 15,8% di tutti gli occupati in questo settore è straniero,
quando in media a livello nazionale si contano 9,1 stranieri su cento
lavoratori.
Per
professione ricoperta. Gli stranieri sono occupati prevalentemente
in lavori dalla media e bassa qualifica. In particolare oltre un terzo degli
immigrati (37,7%) è occupato in professioni non qualificate, anche considerando
il fatto che su 100 occupati con queste caratteristiche 33 sono stranieri. Il
28,3% degli stranieri ricopre funzioni da operaio specializzato e il 14,5% è un
professionista qualificato. Dal 2007 al 2010 il numero di stranieri è cresciuto
maggiormente proprio tra le professioni meno qualificate, dal momento che si
contano 356mila immigrati in più in questa professione e 33mila italiani in
meno. Un vero e proprio effetto sostituzione si è verificato nelle fila degli
artigiani e degli operai specializzati dove a fronte di una riduzione di
174mila italiani, la crescita degli immigrati è stata di 132mila unità.
Effetto
sostituzione. In quasi tutte le 25 professioni qui considerate si
osserva un avvicendamento tra manodopera italiana e straniera tra il 2007 e il
2010. Sembra infatti che molte professioni “manuali” siano state “snobbate”
dagli italiani, che hanno lasciato progressivamente il posto agli stranieri. In
molte categorie professionali si è infatti assistito ad un vero e proprio
effetto sostituzione. L’intensità però di tale sostituzione non è però univoca.
Per alcune professioni si osserva un “over sostituzione”, ossia
i nuovi ingressi di stranieri hanno di gran lunga superato gli abbandoni degli
italiani: si tratta in questo caso di categorie professionali legate alla
ristorazione (cuochi, camerieri, baristi), ai lavori non qualificati
nell’industria e alle figure di saldatori, montatori e lattonieri.
…
Società
di ANNA
LAURA DE ROSA
Napoli, 7
febbraio 2012 - Inal in Italia è diventato un re. È un bimbo russo di un anno
con i capelli neri e gli occhi castani, e ha un nome arabo che nella sua lingua
significa, appunto, “re”. I genitori, arrivati nel 2001 da Nalchik, nel
Caucaso, sono di religione musulmana. Inal è nato al Borgo Orefici e già da sei
mesi sgambetta in casa di Antonella, casalinga trentaduenne con tre figli. Una
delle tante napoletane che lavora come baby sitter per gli immigrati. Per la
donna il lavoro comincia alle 10 del mattino e finisce alle 20, tutti i giorni
(domenica esclusa) per 400 euro al mese. «All'inizio
avevo preso una ragazza ucraina — racconta Marianna, madre di Inal
— ma mi sono accorta che trascurava il bambino. Con la famiglia di Antonella
mio figlio sta bene. Inoltre, mentre con me parla russo, con loro impara
napoletano e italiano». Non si
può dire lo stesso della balia, che sa dire solo “picenie” e “si-ta” in
dialetto russo (“biscotto” e “cosa”). E mentre le due donne si contendono il
racconto delle abitudini del bambino, Inal gioca con i figli di Antonella. La
confidenza è fraterna, tanto che i ragazzi temono l’ipotesi che il piccolo
possa tornare in Russia prima o poi. La crisi non risparmia i lavoratori
dell’Est creando un circolo vizioso. «Marianna sta guadagnando di meno —
confida la baby sitter — in questo periodo tengo Inal solo tre giorni a
settimana e lo stipendio è dimezzato». Ecco
dove sono i figli degli stranieri
che lavorano dalle 12 alle 14 ore al giorno. Non nel paese d’origine o in
scuole multietniche. Hanno trovato baby sitter napoletane. I neonati delle
comunità russe, senegalesi e cinesi compiono un piccolo miracolo economico,
risolvono in parte dal basso lo “scontro occupazionale” tra poveri: dal rione
Sanità al Mercato ai Quartieri spagnoli, gli immigrati pagano — spesso in
nero visto che lavorano in nero a loro volta — dai 300 agli 800 euro al
mese per avere una balia napoletana a tempo pieno. Spesso si denunciano “gli effetti
indesiderati” dell’immigrazione: dall’imprenditoria campana messa in ginocchio
dai prezzi competitivi di prodotti indiani e cinesi, alle donne partenopee
sostituite da quelle dell’Est per il lavoro di colf e badanti. Ma che cosa
prendono i napoletani dagli stranieri con cui dividono la città? Quali i
vantaggi di una società multietnica? Ci sono 75.943 immigrati nella provincia
di Napoli, 164.268 in Campania, senza contare la grossa fetta di irregolari
(rapporto Migrantes 2011). È però nei quartieri popolari che si mostrano gli
effetti inaspettati dell’integrazione, che si accenna un’inversione della curva
economica. Nei bazar a basso costo che guardiamo attraversando la Stazione c’è
di tutto. Tutto, tranne i bambini immigrati che affollano le case dei
napoletani. Una volta consolidato
il rapporto di lavoro, in alcuni casi i genitori chiedono alla balia di
abbassare la retta mensile senza diminuire i giorni lavorativi, rafforzati
nella trattativa sul compenso dal legame affettivo creato dalla frequentazione.
In altri, il rapporto di lavoro assume i tratti di un’adozione a termine. «È stata una pazzia. Il bambino sta
con me notte e giorno, gli voglio bene, ma se la madre lo porterà via come dice
non ripeterò mai più quest’esperienza» racconta Maria, 47 anni. La donna di
piazza Mercato sta tirando su un bimbo cinese da un anno e mezzo, si chiama
Daniele: «Aveva sei mesi quando è arrivato — spiega — la madre ha
un negozio di bigiotteria, me l’ha affidato per 550 euro mensili ma da qualche
mese è scesa a 400. Anche le mie vicine fanno da baby sitter a bambini
stranieri, si guadagnano fino a 800 euro con la famiglia giusta. I genitori
sono presenti, però sono io ad accompagnare il piccolo dal medico, a comprare
cibo e vestiti italiani». Daniele
intanto si arrampica sul divano, la guarda dalla tutina azzurra strappandole un
sorriso con qualche parola napoletana. «Si fanno sacrifici — aggiunge la
baby sitter — però ha riportato in casa le gioie della maternità». Arriva
la madre di Daniele, Maria la istruisce sull’orario della pappa e sul cappotto
da mettere. L’unico “scontro” è sulle abitudini, troppo rilassate quelle
napoletane per una coppia di orientali: i genitori del piccolo vogliono che
Daniele si svegli all’alba ed esca anche con la pioggia. Rosaria si occupa alla Sanità di un
bimbo senegalese di un anno, Fallov. Lei lo chiama Falù. «Non prendo soldi
— dice — la madre non ha i soldi per mantenerlo. Mi chiama mamma,
gli sono spuntati i dentini con me, è come un figlio. Il bambino è stato con me
anche a luglio e agosto, quando i genitori sono partiti per lavoro. E quando a
volte lo riprendono mi preoccupo, penso chissà se ha freddo nella casa in cui
vivono. I genitori mi hanno detto che verso i 4 anni lo manderanno a Parigi e
non so come sarà il non potere vederlo più». Luisa
invece può già raccontare gli effetti del fenomeno balia sulla lunga durata:
per 10 anni si è presa cura di una bimba orientale, Daniela Ye. Seicento euro
il compenso previsto. «La bambina è arrivata da noi all’età di 8 mesi —
racconta Luisa — ora ha 15 anni e frequenta ancora casa nostra. L’abbiamo
portata in vacanza, alle feste, va allo stadio con i miei figli». Maria frequenta tuttora i genitori
della ragazza che vivono in zona Garibaldi e hanno condiviso con la famiglia
partenopea 45 giorni a Pechino. «Da qualche mese — aggiunge —
stiamo accudendo un altro bambino straniero per 450 euro, Samuele. Ma il
confine tra lavoro e affetto è più nitido adesso». Samuele intanto stacca le
calamite dal frigo. Luisa cerca di stargli dietro, lo prende in braccio e gli
tocca le manine fredde: «Gli devo comprare una canottiera di lana, la madre non
mi sta mai a sentire». È come un figlio molto amato.
Discriminazioni
L'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) della presidenza
del Consiglio le chiama polizze etniche: Rc auto più costose per gli stranieri, in particolare romeni e
polacchi. Un fenomeno che riguarderebbe un quarto delle Compagnie e che l'Unar
denuncia a gran voce: "La problematica, relativa a un ambito particolarmente complesso come
quello delle assicurazioni auto, è nata da segnalazioni ricevute dal contact
center dell'Unar da parte di cittadini stranieri che hanno lamentato premi assicurativi differenziali in relazione alla cittadinanza". In
sostanza, a parità di altre caratteristiche (come residenza, età, classe di
merito, auto), il solo fatto di essere stranieri comporta un rincaro della Rca.
MOTIVI SEMPLICI - Che cosa c’è alla base della scelta delle
Assicurazioni? L'ufficio antidiscriminazioni ha aperto un tavolo tecnico con ANIA (la Confindustria delle Assicurazioni) e Isvap (vigila sulle Compagnie) per lo studio del fenomeno.
Dall’analisi conclusiva dell'Isvap, è emerso che il 25% del campione applica
premi assicurativi maggiorati in relazione alla nazionalità. Ed ecco la
risposta dell’ANIA: le Imprese che hanno adottato il parametro del rischio
legato alla nazionalità ai fini delle rispettive tariffazioni, si sono avvalse
di dati interni aziendali, perché non esiste un’analisi associativa in merito.
Quindi se, in base alle statistiche di una Compagnia, emerge che gli
automobilisti di una certa nazionalità causano più incidenti, il cliente di quella nazionalità si vedrà offrire
una Rca più costosa. Maggiore il rischio incidenti e più salata la tariffa.
“L'ANIA - spiega l’UNAR - ha sempre ribadito che la differenziazione tariffaria
in base alla nazionalità non ha mai avuto un obiettivo discriminatorio”. Zero
razzismo, insomma: solo freddi numeri, semplicemente.
SEGNALETICA - Stando all'UNAR, fra le Compagnie interpellate, una ha
motivato le tariffe
differenziate con
la segnaletica stradale diversa nel Paese di origine dello straniero, rispetto
a quella italiana. Idem per abitudini di guida, densità di traffico e
viabilità. Un’altra Compagnia ha precisato che “ai fini della formazione della
tariffa vengono presi in considerazione una
serie di fattori tra
i quali la cittadinanza, ma non la nazionalità”.
COSA CHIEDE L’UNAR - L’Ufficio antidiscriminazioni raccomanda di mantenere
ferma l’attenzione sulle situazioni segnalate, evitando un comportamento discriminatorio. L’auspicio è che “tutte le Compagnie offrano la
stipula dei contratti Rc auto applicando ai contraenti con cittadinanza non
italiana le medesime tariffe previste, a parità di ogni altra condizione, per i
cittadini italiani, e comunque tariffe
indipendenti dalla
cittadinanza dei richiedenti”. Non solo: “Un trattamento di sfavore per il non
cittadino potrebbe apparire come una deroga a un principio di parità posto a
tutela di un valore fondamentale della persona umana”.
DUBBI - Ma la domanda che è lecito porsi è: davvero una Rca più costosa per un
automobilista straniero rappresenta una deroga
al principio di parità?Allora,
ragionando in questo modo (senza che si voglia difendere l’operato delle
Assicurazioni, da noi criticate in altre occasioni), anche un automobilista del Sud Italia può considerarsi discriminato: a Napoli, si pagano
7.000 euro l'anno di Rca, in certi casi.
CAPRO ESPIATORIO? - Ci va giù ancora più pesante Filippo Miraglia,
responsabile Immigrazione Arci (Associazione ricreativa e culturale italiana):
“Modificare i prezzi in nome di rischi
inesistenti dimostra ancora una
volta che il senso comune negativo diffuso in Italia sugli immigrati consente
non solo di usarli come capro espiatorio ogni volta che c'è un problema, ma
anche di sfruttarli chiedendo sovrapprezzi”.
Rifugiati
In aumento
i richiedenti asilo nell’Ue.
Roma, 7 febbraio 2012 - Nel secondo
semestre del 2011 nell’Unione europea vi sono state 69 mila richieste di asilo
provenienti da 142 Paesi. Sono i dati diffusi ieri da Eurostat, l’istituto
statistico dell’Ue, che ha pubblicato le statistiche ufficiali che i ministeri
degli Interni degli Stati membri, o le loro agenzie nazionali, sono tenuti a
trasmettere a Bruxelles ogni tre mesi, in applicazione del Regolamento europeo
862/2007 concernente le statistiche sulla migrazione e la protezione
internazionale. Ad influire sono state, anche nella seconda metà dell’anno, le
crisi civili e politiche del Nord Africa, che hanno visto aumentare, nella sola
isola di Malta, il numero di richiedenti asilo di oltre 60 volte rispetto
all’anno precedente (1.600 richieste nel secondo trimestre 2011, contro appena
25 nel 2010). Per le medesime ragioni, i Paesi da cui proviene il maggior incremento
di richieste sono Libia e Tunisia, rispettivamente sei e cinque volte più
numerose dell’anno precedente. In termini assoluti, il maggior numero di
richieste d’asilo sono giunte da Afghanistan (6.460), Iraq (3.900) e Russia
(3.465). In Italia invece, le richieste di asilo provengono soprattutto da
Nigeria (1.280), Ghana (820), Costa d’Avorio (530), Tunisia (520) e Mali (495).
La metà delle tutte le domande di asilo nell’Ue sono state accolte da tre
Paesi: Francia (14.505), Germania (10.820) e Belgio (7.160). Al quarto posto
l’Italia, con 6.875 richieste.
Quasi 8 richiedenti asilo su 10 hanno meno di 35 anni e 1 su 4 è minorenne. Tra
i richiedenti asilo serbi, afghani e russi, circa l’80% sono minorenni. Il 30%
dei richiedenti asilo sono donne. I richiedenti asilo provenienti da Bangladesh
e Tunisia sono per il 95% maschi. Quelli provenienti da Congo e Russia sono 50%
maschi e 50% donne.
Complessivamente sono state emesse circa 57 mila decisioni di prima istanza,
mediamente una su quattro con esito positivo. Francia, Germania e Svezia ha
emesso il più alto numero di decisioni di prima istanza: rispettivamente
11.090, 9.620 e 6.570. Germania e Svezia hanno anche concesso il maggior numero
di decisioni positive. Per quanto riguarda più da vicino l’Italia, in totale
sono state emesse 4.990 decisioni: 71% con esito negativo (respinte), 8%
accordando lo status di rifugiato, 8% con una protezione sussidiaria e 13% per
ragioni umanitarie. (Red.)
Foreign Press
Jan 18th 2012, 12:29 by K.N.C. |
TOKYO
AN
EXTRAORDINARY story is making the rounds among the hacks and other expats in Japan. A Canadian
freelance journalist who has lived in Japan for
years fell into the ugly whirlpool of Japan’s immigration-and-detention system.
For years human-rights monitors have cited Japan’s responsible agencies for
awful abuses; in their reports the system looks like something dark, chaotic
and utterly incongruous with the country’s image of friendly lawfulness. Still
the case of Christopher Johnson beggars belief. Returning to Tokyo after a
short trip on December 23rd he was ushered into an examination room, where his
nightmare began. Over the next 24 hours he was imprisoned and harassed. Most of
his requests to call a lawyer, the embassy or friends were denied, he says.
Officials falsified statements that he gave them and then insisted that he sign
the erroneous testimony, he says. Guards tried to extort money from him and at
one point even threatened to shoot him, he says—unless he purchased a
wildly expensive ticket for his own deportation, including an overt kick-back
for his tormentors. Once he was separated from his belongings, money was stolen
from his wallet and other items removed from his baggage (as he has reported to
the Tokyo police). The problems to do with Japan’s immigration bureau have been
known for years. Detainees regularly protest the poor conditions. They have
staged hunger strikes and a few have committed suicide. A Ghanaian who
overstayed his visa died
in the custody of guards during a rough deportation in 2010. (In that case, the prosecutor
has delayed deciding whether to press charges against the guards or to drop the
case. A spokesperson refuses even to discuss the matter with media outlets that
are not part of the prosecutor’s own “press club”.)
Mr Johnson’s ordeal
closely matches the abuses exposed in a 22-page report by Amnesty International
in 2002, “Welcome to Japan?”, suggesting that even the
known problems have not been fixed. One reason why the practices may be
tolerated is that the Japanese government apparently outsources its
airport-detention operations to a private security firm. It is a mystery to Mr
Johnson why he was called aside for examination, but he suspects it is because
of his critical coverage of Japan. (Mr Johnson’s visa status is unclear: in an
interview, he said his lawyer advised him not to discuss it.) Reached by The Economist, Japan’s
immigration bureau said it cannot discuss individual cases, but that its
detentions and deportations follow the law, records of hearings are archived
and the cost of deportation is determined by the airline. The justice ministry
declined to discuss the matter and referred all questions to the immigration
bureau. Canada’s department of foreign affairs confirmed to The Economist that a citizen was detained and that
it provided “consular assistance” and “liaised with local authorities”. Mr Johnson’s own rambling account of his saga appeared on
his blog, “Globalite Magazine”. It
must be considered as unverified, despite The
Economist’s attempts to check relevant facts with the Japanese and
Canadian governments. As a result, we cannot endorse its accuracy. We present
edited excerpts, below, because they are deeply troubling if true.
On my way home to
Tokyo after a three-day trip to Seoul, I was planning to spend Christmas with
my partner, our two dogs, and her Japanese family. I had flight and hotel
reservations for ski trips to Hokkaido and Tohoku, and I was planning—with
the help of regional government tourism agencies—to do feature stories to
promote foreign tourism to Japan. While taking my fingerprints, an
immigration officer saw my name on a computer watch list. Without even looking
through my passport, where he might find proper stamps for my travels, he
marked a paper and gave it to another immigration officer. ”Come with me,”
he said, and I did. He led me to an open room. Tired after three hours’
sleep overnight in Seoul, I nodded off. Officers woke me up and insisted
we do an “interview” in a private room, “for your privacy.” Sensing something
amiss, I asked for a witness and a translator, to make sure they couldn’t
confuse me with legal jargon in Japanese. An employee of Asiana Airlines came
to witness the “interview.” The immigration officers provided a
translator—hired by immigration. She turned out to be the
interpreter from hell. ”Hi, what’s your name?” I asked, introducing myself
to her. “I don’t have to tell you anything,” she snapped at me. She was backed
up by four uniformed immigration officials.
Q: “What are the
names of the hotels where you stayed in April in the disaster zone? What are
the names of people you met in Fukushima?”
A: “Well, I stayed
at many places, I met hundreds of people.”
Q: “What are their
names?”
A: “Well, there are
so many.”
Q: “You are
refusing to answer the question! You must say exactly, in detail.”
(Before I could answer, next question.)
Q: “What were you
doing in May 2010? Who did you meet then?”
A: “That was a long
time ago. Let me think for a moment.”
The interpreter
butted in: “See, you are refusing to answer. You are lying.”
The “interpreter”,
biased toward her colleagues in the immigration department, intentionally
mistranslated my answers, and repeatedly accused me of making unclear
statements. I understood enough of their conversation in Japanese to realise
she totally got my story wrong.
Without hesitation,
he wrote on a document: “No proof. Entry denied.”
“But I do have proof,” I said.
But he refused to
acknowledge it. “You must sign here. You cannot refuse.”
For about four
hours, I sat in limbo, unable to properly communicate with the outside world.
Starving and tired, I couldn’t think clearly. Various people in various
uniforms aggressively shoved various documents in my face for me to sign. I
simply said “wait” to everything and zoned out into a world of denial that this
nightmare wasn’t happening.
At about 4 pm, the
security guards came to take me away. Two haggard old men probably in their 60s
or 70s, were like dogs barking at my heels. They were constantly shaking me
down for money. They demanded 28,000 yen as a “service fee” for taking me to
buy rice balls and cold noodles at the convenience store.
What is going on
here, I wondered. I started to get worried when they took me deep into a cold
tunnel below the airport. Away from [ordinary travellers in the airport], they
got more aggressive with demands of now 30,000 yen for a “hotel” fee. I was
feeling threatened. (I would later find Amnesty International accounts of rogue
guards working for the airlines beating up airline customers in the tunnel
until they paid up.)
Well, at least I’m
going to a hotel, I thought. I’ll make some phone calls there, go online, and
get higher-ranking officials to help me out of this big
misunderstanding. The “hotel” was in fact a jail. A prison, a detention
facility, a dungeon. ”The police just told me I could make a call from
here,” I said in Japanese. A guard told me flat out in Japanese: “You have
no rights here.” A sign, in English, Japanese, and other languages, lists phone
numbers for United Nations organisations dedicated to helping victims of state
brutality.
“It says right here
that I can call these numbers.”
“No you can’t.”
They led me into a
locked off area with at least two sleeping cells. The room was cold, with no
windows. Lying under thin blankets, using my parka (down jacket) as a pillow, I
stared at the ceiling and walls.Later that night, I was ordered into the common
room. A man, probably in his 50s, was waiting to see me. His tie said
“immigration.” He was warm and compassionate. He tried his best in English and
Japanese to explain what was happening. He said, to my surprise, that the other
officers were “idiots”. He said they had no business putting foreigners—tourists
or expats—in jail like this. “It is a shame for Japan,” he said.
“Embarrassing.” After talking to me, he went out for a few minutes and came
back to give me more documents to sign. One was titled “Waiving the Right to
Appeal”, meaning, “We are kicking you out of the country.” The other was an
“appeal form”. It said I had three days to appeal to “the Minister of Justice.”
This at least gave me hope that someone would recognise their mistake, and let
me go home
After he left, the
guards granted me a privilege—the right to take a shower. My show of
respect, and polite language toward them, was reciprocated. They let me make a
phone call. They gave me a form to fill out—this is Japan, after
all—listing the nationality, name, phone number and relation of that
person. I tried to milk it. While pretending to check my phone messages
(technically not a phone call), I sent messages on Facebook. I wrote short, and
sent quickly, in case they caught me: (In jail now … Narita … No rights …
Innocent … Help me.) I went back to my cell dejected. I lay under blankets
in my winter clothes, tormented. I chased away dark thoughts—suicide,
protest, escape—from my mind. I cried for myself, and for the tortured
souls of the previous tenants. I was so exhausted from the ordeal that I did
fall asleep, shortly after they turned off the lights at 11pm. When I woke
up at 10 am on Saturday morning, December 24, my cell was unlocked. [From] the
jail’s common room, I was allowed to call my partner. “Don’t worry,” I said,
“They’re going to let me go home soon. It’s all been a big mistake.”
The guards now let
me make a second call, to my embassy representative. Though helpful and
genuinely concerned, she said, “only Japan has authority. There’s nothing we
can do.” She said my worried family and friends, who saw my messages on
Facebook, had been calling her to offer assistance. She also had faxed a list
of lawyers and legal assistance agencies in Japan to the immigration
officers.It was a smart move, because it showed them that powerful people in
Canada—the department of foreign affairs, the Canadian embassy, media
people—were indeed watching what they were doing with me, a human, with a
name, family and supportive friends. It was a way to humanise me. [But] the
papers were useless. How could I contact a legal website, if I wasn’t allowed
internet? How could I call a lawyer, if I wasn’t allowed phone calls?There was
another call for me. This time from someone at Asiana Airlines. ”How are
you doing this morning?” she asked, cheerfully. She said they had been calling
my partner at home, asking her to pay 170,000 yen for my one-way ticket to
Canada. I wasn’t pleased to hear that. “I’m not going home to Canada,” I
scolded her. “My home is in Tokyo. I live here, in Japan.” “This is a good offer,
you should take it,” the airline employee insisted. “If you don’t, the price
will go up. The normal price is 400,000 yen. If you wait, you will pay 400,000
yen.” “That’s crazy,” I said. “I paid 25,000 yen for a round trip ticket to
Seoul on your airline. And now you want me to pay 170,000 yen, or 400,000 yen?
That’s $5,000, for a one-way ticket. That’s more than five times the normal
rate, because I’m in jail.” The airline employee hung up. I was worried.
“This is a scam,” I thought. The airline guards are shaking us down for money,
and now the airline is price gouging me, and even harassing my partner to
pay. But I was cheered about an hour later, when the guards told me, “Pack
up your bags. Don’t leave anything behind.” It was good news. They were going to
let me out of here. My appeal worked, I thought. They’re going to release
me and let me go home.
A Special Inquiry
Officer sat me down in his office, across from the Special Examination Room
where everything had gone wrong a day earlier. He showed me a document from the
Ministry of Justice. It was an “Exclusion Order”, with my name on it, next to
the details of a flight leaving for Canada. I was crestfallen. “No, that’s
not right,” I said, confused. “There is a plane leaving for Canada at 7pm. You
must take that plane.” “But I live
in Tokyo. I have a life here.” “If
you do not take that plane, you could end up in jail for months, years. And
you’ll never be allowed back into Japan.” Next, the airline employees came
around to hit me up for money. They now wanted 200,000 yen for a one-way
ticket on Air Canada. I told them it was a rip-off. I knew that a round
trip ticket at HIS travel agency in Tokyo was 50,000 yen plus tax. “OK. 170,000
yen, plus 30,000 for the hotel fee and the security guards,” they said. “This
is outrageous,” I said. I grabbed my phone from them, since they still had
my passport and bags. I called a friend. “Quick, call the police. Tell them I’m
in the immigration office, Narita terminal one.” The immigration officers
derided me. “Police do not have jurisdiction to come in here,” they laughed.
“Narita is a special legal area.” The airline employee and the [private
security guards] were alone with me in a room. ”You must hurry up and buy
this ticket,” the Asiana employee said. “Can you pay 150,000 yen?” He went out
to negotiate with another airline. When he came back, he said, “The best
I can do is 130,000 yen, plus 30,000 yen for the [guards].” “No,” I said. “This
is wrong. This is a scam. You are just trying to profit off someone in a weak
position, a victim of human rights abuses.” Again, he went out, and came back
with a new offer. ”I have asked for special prices. I can do it for
100,000 yen. Anything lower is absolutely impossible. I’m really trying to help
you. Please get on this flight.” It was already after 5 o’clock. People were
checking in for the 7 pm flight. I was really sweating now. This time, he
came back with a young, stocky guy. He was wearing a blue uniform. “Do you see
this gun?” he said in Japanese, turning around to show me a weapon in its
holster. “I have the legal authority to use this if you refuse to get on that
flight. Now are you going to buy that ticket?” I was angry now. They are
forcing me at gunpoint to buy an overpriced ticket. The [guards] ushered me out
of the room and through the airport. They still had my bag, my passport, my
wallet, credit cards, everything. I had no choice. They whisked me through
the airport like a criminal. I didn’t have to line-up for x-ray machines or
immigration. [They] pushed me through VIP lines, ahead of pilots and flight
attendants. As we walked to the departure gate, they continued to badger
me for money. I told them flat out, “This is wrong. Have some pride. I am a
working man just like you.” The older guys backed off. They sensed I
wasn’t going to give in to their pressure. But a hideous older bulldog of a
woman was much more relentless. Even the Asiana officers were taken aback by
her uncultured onslaught. She raised the demand in increments—30,000 yen,
35,000 yen, 38,900 yen—the tactic of a third world market haggler, trying
to pressure you to buy before the price goes higher. Still holding my
passport, she dogged me all the way to the gate. “I’m going to fly with him all
the way to Canada,” she said to another [guard], in Japanese so that I could
hear it. At the departure gate, I sat down amongst ordinary people happy
to be going home for Christmas or on a ski holiday to Canada. I made several
last phone calls to loved ones in Japan. My partner cried so heavily, she made
me cry. I told her to hug our dogs for me. At that point, I realised I might
never see our 15-year-old dog ever again.My heart burst open like a seawall
against a tsunami. Flowing with tears, I ran to the bathroom—to hell
with asking the guards. I returned to my seat near the gate. I didn’t even look
at anyone. I just covered my face in my hands and cried. Finally, the
[female guard] gave up. The two male [guards] escorted me onto the plane, and
finally gave me back my passport. As the Pacific coastline came into view,
I gazed perhaps one last time at the street lights and dark rice fields below.
It was a feeling I had never considered before: what it would be like to leave
Japan, and not return. I could only notice that the vast majority of
space below was filled with a deep and utter darkness. Somewhere out there, in
the gulag of detention centres dotting the land like black holes in the heart
of Japan, were the cries of innocent people who would not be heard.