Newsletter periodica d’informazione

(aggiornata alla data del  07 febbraio 2012)

 

  Ritirare l’ingiusta tassa per i permessi di soggiorno 

 

Cgil, Cisl, Uil promuovono sit – in davanti le prefetture in tutta Italia per venerdì 10 febbraio

 

Sommario

 

o      Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti                                                                              pag. 2

o      Sindacato: ritirare l’ingiusta “tassa di soggiorno”                                                                  pag. 2

o      Cgil, Cisl e UIL: “il governo mantenga le promesse”                                                             pag. 2

o      Decreto flussi: Il Ministero del Lavoro risponde alla UIL                                                                   pag. 3

o      Mercato del Lavoro – L’effetto sostituzione degli stranieri                                                       pag. 3

o      Società – Napoli: baby sitter per i figli stranieri                                                                                 pag. 4

o      Discriminazioni – RC auto, lo straniero paga di più                                                               pag. 6

o      Rifugiati – In aumento i richiedenti asilo nella UE                                                                pag. 7

o      Foreign Press: Gulag for Gaijin                                                                                                        pag. 7 

 

A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil

Dipartimento Politiche Migratorie

Rassegna ad uso esclusivamente interno e gratuito, riservata agli iscritti UIL

Tel. 064753292- 4744753- Fax: 064744751

E-Mail polterritoriali2@uil.it                                                                                                      Anno X           n. 5



Dipartimento Politiche Migratorie: appuntamenti


Roma, 11 febbraio 2012, ore 10.00, sede Ambasciata Filippina

Meeting on Developing a System of Linkages, Cooperation and Coordination between Philippine and Italian Service Providers towards Improved Service Delivery for Migrant Workers

(Giuseppe Casucci)

Roma, 16 febbraio 2012, ore 09.00, Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Via di Santa Maria 37

UNAR: Conferenza “contrasto della discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”

(Angela Scalzo)

Roma, 16 febbraio 2012, ore 11.00, sede CNEL

ONC: Presentazione alla stampa dell’ VIII° Rapporto su indici di integrazione sociale degli stranieri in Italia”

(Giuseppe Casucci)


 

Sindacato


Mobilitazione indetta da Cgil, Cisl,Uil

Ritirare l’ingiusta tassa sui permessi di soggiorno

Venerdì manifestazioni in tutta Italia davanti alle Prefetture


ventimiglia - Foto N.8Roma, 06 febbraio 2012 -  La UIL è fortemente contrariata per il mancato ritiro o almeno la revisione della tassa sul permesso di soggiorno, promessi in un primo momento dal Ministro del Lavoro Fornero. Si tratta di un nuovo balzello, entrato in vigore lo scorso 1° febbraio, che appesantisce il diritto a rimanere in Italia dei cittadini stranieri. Una tassa iniqua ed esosa (da 80 a 200 € ), cui non corrisponde né la certezza dei tempi di fruizione, né la qualità del servizio, né alcun principio di equità.

Non la vogliamo per molti motivi:

a)        perché è uno dei prodotti nefasti del pacchetto sicurezza i cui contenuti sono stati censurati dalla stessa Europa;

b)       perché è sproporzionata rispetto al reddito medio di una famiglia straniera;

c)        perché è illogico un aumento dei costi per un servizio che lo Stato non è in grado di fornire nei tempi stabiliti dalla legge (20 giorni): quindi, oltre al danno di ritardi insopportabili, si infligge ai cittadini stranieri la beffa di pagare di più per favorire, non l’integrazione, ma ordine pubblico e rimpatri.

La UIL considera ingiusto che il Governo faccia cassa sulla pelle dei più deboli in una logica punitiva dell’immigrazione. Si possono recuperare risorse combattendo il lavoro nero e permettendo percorsi di emersione nello spirito della direttiva 52 della CE. Per queste ragioni invitiamo tutte le nostre strutture a promuove – assieme a Cisl e Cgil – presidi di protesta in tutte le prefetture d'Italia nella giornata del 10 febbraio 2012

Invitiamo tutti gli immigrati e tutte le associazioni ad aderire a questa protesta di Cgil-Cisl-Uil.


 

Politiche dell’Immigrazione


Tassa sui permessi. Cgil, Cisl e Uil: “Il governo mantenga le promesse”

“Va rimodulata, così com’è è inaccettabile per il peso sulle famiglie immigrate e per la sua finalizzazione”. Il 10 febbraio sit-in di protesta davanti alle Prefetture


Roma – 3 febbraio 2012 - ''Siamo in attesa che il governo passi dalle parole ai fatti, sulla base di quanto dichiarato dalla ministra Cancellieri che ha annunciato la volonta' di intervenire in tempi brevi sulla normativa relativa ai permessi di soggiorno, ed in particolare sulla sovrattassa gia' entrata in vigore''. Lo dichiarano i segretari confederali di Cgil, Vera Lamonica, Cisl, Liliana Ocmin e Uil, Guglielmo Loy. ''La sovrattassa va quanto meno rimodulata- si legge in una nota congiunta - poiche' cosi' com'e' non e' accettabile, ne' per il peso sulle famiglie immigrate, ne' per la sua finalizzazione. Inoltre e' urgente che il governo intervenga rapidamente sulla durata del permesso di soggiorno per coloro che hanno perso il lavoro, concretizzando quanto piu' volte annunciato dai ministri Riccardi e Cancellieri”. “Riconfermiamo la richiesta al governo di aprire su questo, come sul complesso delle norme sull'immigrazione, a partire dal recepimento della direttiva 2009/52/CE [che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare n.d.r.], un confronto di merito che porti a soluzioni efficaci e condivisibili''. ''A sostegno delle richieste sindacali- concludono i tre sindacalisti - Cgil-Cisl-Uil promuovono per il giorno 10 febbraio iniziative e sit-in davanti alle Prefetture in tutta Italia''.


  

 

Decreto flussi


Il Ministero del Lavoro risponde alla UIL:

“Le preoccupazioni, le riflessioni ed i suggerimenti  della UIL sono stati recepiti nell’ambito della programmazione in corso”

Natale Forlani risponde ad una lettera della UIL sul mancato decreto flussi 2012


Caro Segretario Confederale,

Colgo l'occasione di riscontrare la Vs. del 16 gennaio u.s., per ringraziare la UIL ed, in particolare, la Segreteria Confederale nazionale, per il lavoro prezioso che state svolgendo in favore della integrazione dei lavoratori immigrati e la costante collaborazione rivolta alla Direzione Generale dell'Immigrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Nel merito della programmazione dei nuovi flussi di ingresso ritengo che buona parte delle riflessioni, dei rilievi e dei suggerimenti, che ci rivolgete siano già state recepite dalla programmazione in corso. L'assenza del decreto flussi per l'anno in corso, per le ragioni rammentate nella Vs. lettera, non ha significato l'impedimento per nuovi ingressi di lavoratori stranieri in Italia. E' necessario tener presente che, oltre la disponibilità di un consistente bacino dei disoccupati stranieri, sussiste la libera circolazione dei lavoratori comunitari, agevolata dalla scelta di non proIungare il regime transitorio di delimitazione per i Rumeni e i Bulgari. A questi devono essere aggiunti gli ingressi degli extracomunitari per ricongiunzione familiare ed i permessi rilasciati per ragioni di protezione o asilo, che rinforzano la disponibilità di offerta di lavoro sul territorio italiano.

Le quote di ingressi per i lavoratori formati nei paesi di origine [ex art. 231, di conversione in lavoro subordinato per i lavoratori agricoli e per i tirocini e gli stages, quelle per il lavoro autonomo, gli italiani all'estero e dei lungo soggiornati, saranno introdotte nel decreto flussi per il lavoro stagionale, di prossima emanazione, come anticipazione di quello generale per il lavoro subordinato. Ricordo che per l'art. 23 la quota è ampliabile in via amministrativa, e stiamo prevedendo negli accordi diplomatici l'utilizzo di queste quote come modalità privilegiata di ingresso di nuovi lavoratori. Segnalo infine le novità, che sono state introdotte nel recente decreto governativo sulle semplificazioni, per il lavoro stagionale che agevolano notevolmente le modalità di ingresso dei lavoratori stranieri che abbiano già lavorato in Italia nel passato, con la possibilità di un loro utilizzo da parte di altre imprese nel corso dei 9 mesi del permesso massimo di soggiorno. Sono altrettanto fiducioso che la richiesta, più volte avanzata dalle Organizzazioni Sindacali, di allungare la durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione possa trovare riscontro in uno degli imminenti provvedimenti governativi. Credo che il complesso di questi interventi vada nella direzione auspicata nella Vostra missiva, nella convinzione che molto lavoro debba ancora essere fatto per migliorare la gestione dei flussi migratori.

Un cordiale saluto Natale Forlani

Roma, 1° febbraio 2012


 

 

Immigrazione e lavoro


Mercato del lavoro. L’effetto sostituzione degli stranieri

Esiste un effetto sostituzione dei lavoratori stranieri a quelli italiani? L’analisi della Fondazione della presenza degli stranieri nei settori di attività e nelle professioni

Fondazione Leone Moressa. Comunicato del 06/02/2012


Dinamiche occupazionali. Dal 2007 al 2010 la presenza di manodopera straniera nel mercato del lavoro nazionale si è fatta sempre più evidente: da 1,5 milioni di occupati di nazionalità straniera si è passati a poco più di due milioni. Questo ha inoltre determinato nel medesimo periodo di tempo un aumento del peso della componente straniera che dal 6,5% ha raggiunto il 9,1% del totale dei lavoratori in Italia. In termini di variazioni percentuali, se l’occupazione degli italiani è calata del -4,3% (pari a quasi un milione di unità in meno), gli stranieri sono invece aumentati con un ritmo del 38,5% (+578 mila persone). Per settore di attività. L’occupazione straniera si distribuisce in tre settori principali: i servizi sociali e alla persona (in cui si concentra il 24,7% del totale dell’occupazione straniera), le costruzioni (16,7%) e la manifattura (19,4%). Ma sono i primi due i settori nel quale la presenza di stranieri si fa più evidente: infatti se nei servizi sociali e alla persona su cento occupati quasi 30 sono immigrati, nelle costruzioni si tratta di 18 persone. Anche il settore degli alberghi e della ristorazione mostra una preferenza nell’assunzione di manodopera straniera, dal momento che il 15,8% di tutti gli occupati in questo settore è straniero, quando in media a livello nazionale si contano 9,1 stranieri su cento lavoratori.

Per professione ricoperta. Gli stranieri sono occupati prevalentemente in lavori dalla media e bassa qualifica. In particolare oltre un terzo degli immigrati (37,7%) è occupato in professioni non qualificate, anche considerando il fatto che su 100 occupati con queste caratteristiche 33 sono stranieri. Il 28,3% degli stranieri ricopre funzioni da operaio specializzato e il 14,5% è un professionista qualificato. Dal 2007 al 2010 il numero di stranieri è cresciuto maggiormente proprio tra le professioni meno qualificate, dal momento che si contano 356mila immigrati in più in questa professione e 33mila italiani in meno. Un vero e proprio effetto sostituzione si è verificato nelle fila degli artigiani e degli operai specializzati dove a fronte di una riduzione di 174mila italiani, la crescita degli immigrati è stata di 132mila unità.

Effetto sostituzione. In quasi tutte le 25 professioni qui considerate si osserva un avvicendamento tra manodopera italiana e straniera tra il 2007 e il 2010. Sembra infatti che molte professioni “manuali” siano state “snobbate” dagli italiani, che hanno lasciato progressivamente il posto agli stranieri. In molte categorie professionali si è infatti assistito ad un vero e proprio effetto sostituzione. L’intensità però di tale sostituzione non è però univoca. Per alcune professioni si osserva un “over sostituzione”, ossia i nuovi ingressi di stranieri hanno di gran lunga superato gli abbandoni degli italiani: si tratta in questo caso di categorie professionali legate alla ristorazione (cuochi, camerieri, baristi), ai lavori non qualificati nell’industria e alle figure di saldatori, montatori e lattonieri.

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Società


Repubblica NapoliCosì le baby sitter napoletane
crescono i figli degli immigrati

Dal rione Sanità al Mercato ai Quartieri Spagnoli gli extracomunitari pagano, spesso in nero visto che lavorano in nero, dai  300 agli 800 euro al mese per avere una balia a tempo pieno

di ANNA LAURA DE ROSA


Così le baby sitter napoletane crescono i figli degli immigratiNapoli, 7 febbraio 2012 - Inal in Italia è diventato un re. È un bimbo russo di un anno con i capelli neri e gli occhi castani, e ha un nome arabo che nella sua lingua significa, appunto, “re”. I genitori, arrivati nel 2001 da Nalchik, nel Caucaso, sono di religione musulmana. Inal è nato al Borgo Orefici e già da sei mesi sgambetta in casa di Antonella, casalinga trentaduenne con tre figli. Una delle tante napoletane che lavora come baby sitter per gli immigrati. Per la donna il lavoro comincia alle 10 del mattino e finisce alle 20, tutti i giorni (domenica esclusa) per 400 euro al mese. «All'inizio avevo preso una ragazza ucraina — racconta Marianna, madre di Inal — ma mi sono accorta che trascurava il bambino. Con la famiglia di Antonella mio figlio sta bene. Inoltre, mentre con me parla russo, con loro impara napoletano e italiano». Non si può dire lo stesso della balia, che sa dire solo “picenie” e “si-ta” in dialetto russo (“biscotto” e “cosa”). E mentre le due donne si contendono il racconto delle abitudini del bambino, Inal gioca con i figli di Antonella. La confidenza è fraterna, tanto che i ragazzi temono l’ipotesi che il piccolo possa tornare in Russia prima o poi. La crisi non risparmia i lavoratori dell’Est creando un circolo vizioso. «Marianna sta guadagnando di meno — confida la baby sitter — in questo periodo tengo Inal solo tre giorni a settimana e lo stipendio è dimezzato». Ecco dove sono i figli degli stranieri che lavorano dalle 12 alle 14 ore al giorno. Non nel paese d’origine o in scuole multietniche. Hanno trovato baby sitter napoletane. I neonati delle comunità russe, senegalesi e cinesi compiono un piccolo miracolo economico, risolvono in parte dal basso lo “scontro occupazionale” tra poveri: dal rione Sanità al Mercato ai Quartieri spagnoli, gli immigrati pagano — spesso in nero visto che lavorano in nero a loro volta — dai 300 agli 800 euro al mese per avere una balia napoletana a tempo pieno. Spesso si denunciano “gli effetti indesiderati” dell’immigrazione: dall’imprenditoria campana messa in ginocchio dai prezzi competitivi di prodotti indiani e cinesi, alle donne partenopee sostituite da quelle dell’Est per il lavoro di colf e badanti. Ma che cosa prendono i napoletani dagli stranieri con cui dividono la città? Quali i vantaggi di una società multietnica? Ci sono 75.943 immigrati nella provincia di Napoli, 164.268 in Campania, senza contare la grossa fetta di irregolari (rapporto Migrantes 2011). È però nei quartieri popolari che si mostrano gli effetti inaspettati dell’integrazione, che si accenna un’inversione della curva economica. Nei bazar a basso costo che guardiamo attraversando la Stazione c’è di tutto. Tutto, tranne i bambini immigrati che affollano le case dei napoletani. Una volta consolidato il rapporto di lavoro, in alcuni casi i genitori chiedono alla balia di abbassare la retta mensile senza diminuire i giorni lavorativi, rafforzati nella trattativa sul compenso dal legame affettivo creato dalla frequentazione. In altri, il rapporto di lavoro assume i tratti di un’adozione a termine. «È stata una pazzia. Il bambino sta con me notte e giorno, gli voglio bene, ma se la madre lo porterà via come dice non ripeterò mai più quest’esperienza» racconta Maria, 47 anni. La donna di piazza Mercato sta tirando su un bimbo cinese da un anno e mezzo, si chiama Daniele: «Aveva sei mesi quando è arrivato — spiega — la madre ha un negozio di bigiotteria, me l’ha affidato per 550 euro mensili ma da qualche mese è scesa a 400. Anche le mie vicine fanno da baby sitter a bambini stranieri, si guadagnano fino a 800 euro con la famiglia giusta. I genitori sono presenti, però sono io ad accompagnare il piccolo dal medico, a comprare cibo e vestiti italiani». Daniele intanto si arrampica sul divano, la guarda dalla tutina azzurra strappandole un sorriso con qualche parola napoletana. «Si fanno sacrifici — aggiunge la baby sitter — però ha riportato in casa le gioie della maternità». Arriva la madre di Daniele, Maria la istruisce sull’orario della pappa e sul cappotto da mettere. L’unico “scontro” è sulle abitudini, troppo rilassate quelle napoletane per una coppia di orientali: i genitori del piccolo vogliono che Daniele si svegli all’alba ed esca anche con la pioggia. Rosaria si occupa alla Sanità di un bimbo senegalese di un anno, Fallov. Lei lo chiama Falù. «Non prendo soldi — dice — la madre non ha i soldi per mantenerlo. Mi chiama mamma, gli sono spuntati i dentini con me, è come un figlio. Il bambino è stato con me anche a luglio e agosto, quando i genitori sono partiti per lavoro. E quando a volte lo riprendono mi preoccupo, penso chissà se ha freddo nella casa in cui vivono. I genitori mi hanno detto che verso i 4 anni lo manderanno a Parigi e non so come sarà il non potere vederlo più». Luisa invece può già raccontare gli effetti del fenomeno balia sulla lunga durata: per 10 anni si è presa cura di una bimba orientale, Daniela Ye. Seicento euro il compenso previsto. «La bambina è arrivata da noi all’età di 8 mesi — racconta Luisa — ora ha 15 anni e frequenta ancora casa nostra. L’abbiamo portata in vacanza, alle feste, va allo stadio con i miei figli». Maria frequenta tuttora i genitori della ragazza che vivono in zona Garibaldi e hanno condiviso con la famiglia partenopea 45 giorni a Pechino. «Da qualche mese — aggiunge — stiamo accudendo un altro bambino straniero per 450 euro, Samuele. Ma il confine tra lavoro e affetto è più nitido adesso». Samuele intanto stacca le calamite dal frigo. Luisa cerca di stargli dietro, lo prende in braccio e gli tocca le manine fredde: «Gli devo comprare una canottiera di lana, la madre non mi sta mai a sentire». È come un figlio molto amato.


 

 

 

 

 

 

 

 

Discriminazioni


Rc auto, lo straniero paga di più: ingiusto?

Infuria la polemica sulle Rca degli stranieri, molto care


Rc auto, lo straniero paga di più: ingiusto?L'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) della presidenza del Consiglio le chiama polizze etniche: Rc auto più costose per gli stranieri, in particolare romeni e polacchi. Un fenomeno che riguarderebbe un quarto delle Compagnie e che l'Unar denuncia a gran voce: "La problematica, relativa a un ambito particolarmente complesso come quello delle assicurazioni auto, è nata da segnalazioni ricevute dal contact center dell'Unar da parte di cittadini stranieri che hanno lamentato premi assicurativi differenziali in relazione alla cittadinanza". In sostanza, a parità di altre caratteristiche (come residenza, età, classe di merito, auto), il solo fatto di essere stranieri comporta un rincaro della Rca.
MOTIVI SEMPLICI - Che cosa c’è alla base della scelta delle Assicurazioni? L'ufficio antidiscriminazioni ha aperto un tavolo tecnico con ANIA (la Confindustria delle Assicurazioni) e Isvap (vigila sulle Compagnie) per lo studio del fenomeno. Dall’analisi conclusiva dell'Isvap, è emerso che il 25% del campione applica premi assicurativi maggiorati in relazione alla nazionalità. Ed ecco la risposta dell’ANIA: le Imprese che hanno adottato il parametro del rischio legato alla nazionalità ai fini delle rispettive tariffazioni, si sono avvalse di dati interni aziendali, perché non esiste un’analisi associativa in merito. Quindi se, in base alle statistiche di una Compagnia, emerge che gli automobilisti di una certa nazionalità causano più incidenti, il cliente di quella nazionalità si vedrà offrire una Rca più costosa. Maggiore il rischio incidenti e più salata la tariffa. “L'ANIA - spiega l’UNAR - ha sempre ribadito che la differenziazione tariffaria in base alla nazionalità non ha mai avuto un obiettivo discriminatorio”. Zero razzismo, insomma: solo freddi numeri, semplicemente.
SEGNALETICA - Stando all'UNAR, fra le Compagnie interpellate, una ha motivato le tariffe differenziate con la segnaletica stradale diversa nel Paese di origine dello straniero, rispetto a quella italiana. Idem per abitudini di guida, densità di traffico e viabilità. Un’altra Compagnia ha precisato che “ai fini della formazione della tariffa vengono presi in considerazione una serie di fattori tra i quali la cittadinanza, ma non la nazionalità”. 
COSA CHIEDE L’UNAR - L’Ufficio antidiscriminazioni raccomanda di mantenere ferma l’attenzione sulle situazioni segnalate, evitando un comportamento discriminatorio. L’auspicio è che “tutte le Compagnie offrano la stipula dei contratti Rc auto applicando ai contraenti con cittadinanza non italiana le medesime tariffe previste, a parità di ogni altra condizione, per i cittadini italiani, e comunque tariffe indipendenti dalla cittadinanza dei richiedenti”. Non solo: “Un trattamento di sfavore per il non cittadino potrebbe apparire come una deroga a un principio di parità posto a tutela di un valore fondamentale della persona umana”.
DUBBI - Ma la domanda che è lecito porsi è: davvero una Rca più costosa per un automobilista straniero rappresenta una deroga al principio di parità?Allora, ragionando in questo modo (senza che si voglia difendere l’operato delle Assicurazioni, da noi criticate in altre occasioni), anche un automobilista del Sud Italia può considerarsi discriminato: a Napoli, si pagano 7.000 euro l'anno di Rca, in certi casi.
CAPRO ESPIATORIO? - Ci va giù ancora più pesante Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione Arci (Associazione ricreativa e culturale italiana): “Modificare i prezzi in nome di rischi inesistenti dimostra ancora una volta che il senso comune negativo diffuso in Italia sugli immigrati consente non solo di usarli come capro espiatorio ogni volta che c'è un problema, ma anche di sfruttarli chiedendo sovrapprezzi”.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rifugiati


In aumento i richiedenti asilo nell’Ue.


 Roma, 7 febbraio 2012 - Nel secondo semestre del 2011 nell’Unione europea vi sono state 69 mila richieste di asilo provenienti da 142 Paesi. Sono i dati diffusi ieri da Eurostat, l’istituto statistico dell’Ue, che ha pubblicato le statistiche ufficiali che i ministeri degli Interni degli Stati membri, o le loro agenzie nazionali, sono tenuti a trasmettere a Bruxelles ogni tre mesi, in applicazione del Regolamento europeo 862/2007 concernente le statistiche sulla migrazione e la protezione internazionale. Ad influire sono state, anche nella seconda metà dell’anno, le crisi civili e politiche del Nord Africa, che hanno visto aumentare, nella sola isola di Malta, il numero di richiedenti asilo di oltre 60 volte rispetto all’anno precedente (1.600 richieste nel secondo trimestre 2011, contro appena 25 nel 2010). Per le medesime ragioni, i Paesi da cui proviene il maggior incremento di richieste sono Libia e Tunisia, rispettivamente sei e cinque volte più numerose dell’anno precedente. In termini assoluti, il maggior numero di richieste d’asilo sono giunte da Afghanistan (6.460), Iraq (3.900) e Russia (3.465). In Italia invece, le richieste di asilo provengono soprattutto da Nigeria (1.280), Ghana (820), Costa d’Avorio (530), Tunisia (520) e Mali (495). La metà delle tutte le domande di asilo nell’Ue sono state accolte da tre Paesi: Francia (14.505), Germania (10.820) e Belgio (7.160). Al quarto posto l’Italia, con 6.875 richieste.
Quasi 8 richiedenti asilo su 10 hanno meno di 35 anni e 1 su 4 è minorenne. Tra i richiedenti asilo serbi, afghani e russi, circa l’80% sono minorenni. Il 30% dei richiedenti asilo sono donne. I richiedenti asilo provenienti da Bangladesh e Tunisia sono per il 95% maschi. Quelli provenienti da Congo e Russia sono 50% maschi e 50% donne.
Complessivamente sono state emesse circa 57 mila decisioni di prima istanza, mediamente una su quattro con esito positivo. Francia, Germania e Svezia ha emesso il più alto numero di decisioni di prima istanza: rispettivamente 11.090, 9.620 e 6.570. Germania e Svezia hanno anche concesso il maggior numero di decisioni positive. Per quanto riguarda più da vicino l’Italia, in totale sono state emesse 4.990 decisioni: 71% con esito negativo (respinte), 8% accordando lo status di rifugiato, 8% con una protezione sussidiaria e 13% per ragioni umanitarie. (Red.)
  


 

Foreign Press


The EconomistJapan's immigration control

Gulag for gaijin

Jan 18th 2012, 12:29 by K.N.C. | TOKYO


AN EXTRAORDINARY story is making the rounds among the hacks and other expats in Japan. A Canadian freelance journalist who has lived in Japan for years fell into the ugly whirlpool of Japan’s immigration-and-detention system. For years human-rights monitors have cited Japan’s responsible agencies for awful abuses; in their reports the system looks like something dark, chaotic and utterly incongruous with the country’s image of friendly lawfulness. Still the case of Christopher Johnson beggars belief. Returning to Tokyo after a short trip on December 23rd he was ushered into an examination room, where his nightmare began. Over the next 24 hours he was imprisoned and harassed. Most of his requests to call a lawyer, the embassy or friends were denied, he says. Officials falsified statements that he gave them and then insisted that he sign the erroneous testimony, he says. Guards tried to extort money from him and at one point even threatened to shoot him, he says—unless he purchased a wildly expensive ticket for his own deportation, including an overt kick-back for his tormentors. Once he was separated from his belongings, money was stolen from his wallet and other items removed from his baggage (as he has reported to the Tokyo police). The problems to do with Japan’s immigration bureau have been known for years. Detainees regularly protest the poor conditions. They have staged hunger strikes and a few have committed suicide. A Ghanaian who overstayed his visa died in the custody of guards during a rough deportation in 2010. (In that case, the prosecutor has delayed deciding whether to press charges against the guards or to drop the case. A spokesperson refuses even to discuss the matter with media outlets that are not part of the prosecutor’s own “press club”.)

Mr Johnson’s ordeal closely matches the abuses exposed in a 22-page report by Amnesty International in 2002, “Welcome to Japan?”, suggesting that even the known problems have not been fixed. One reason why the practices may be tolerated is that the Japanese government apparently outsources its airport-detention operations to a private security firm. It is a mystery to Mr Johnson why he was called aside for examination, but he suspects it is because of his critical coverage of Japan. (Mr Johnson’s visa status is unclear: in an interview, he said his lawyer advised him not to discuss it.) Reached by The Economist, Japan’s immigration bureau said it cannot discuss individual cases, but that its detentions and deportations follow the law, records of hearings are archived and the cost of deportation is determined by the airline. The justice ministry declined to discuss the matter and referred all questions to the immigration bureau. Canada’s department of foreign affairs confirmed to The Economist that a citizen was detained and that it provided “consular assistance” and “liaised with local authorities”. Mr Johnson’s own rambling account of his saga appeared on his blog, “Globalite Magazine”. It must be considered as unverified, despite The Economist’s attempts to check relevant facts with the Japanese and Canadian governments. As a result, we cannot endorse its accuracy. We present edited excerpts, below, because they are deeply troubling if true.

On my way home to Tokyo after a three-day trip to Seoul, I was planning to spend Christmas with my partner, our two dogs, and her Japanese family. I had flight and hotel reservations for ski trips to Hokkaido and Tohoku, and I was planning—with the help of regional government tourism agencies—to do feature stories to promote foreign tourism to Japan. While taking my fingerprints, an immigration officer saw my name on a computer watch list. Without even looking through my passport, where he might find proper stamps for my travels, he marked a paper and gave it to another immigration officer. ”Come with me,” he said, and I did. He led me to an open room. Tired after three hours’ sleep overnight in Seoul, I nodded off. Officers woke me up and insisted we do an “interview” in a private room, “for your privacy.” Sensing something amiss, I asked for a witness and a translator, to make sure they couldn’t confuse me with legal jargon in Japanese. An employee of Asiana Airlines came to witness the “interview.” The immigration officers provided a translator—hired by immigration. She turned out to be the interpreter from hell. ”Hi, what’s your name?” I asked, introducing myself to her. “I don’t have to tell you anything,” she snapped at me. She was backed up by four uniformed immigration officials.

Q: “What are the names of the hotels where you stayed in April in the disaster zone? What are the names of people you met in Fukushima?”

A: “Well, I stayed at many places, I met hundreds of people.”

Q: “What are their names?”

A: “Well, there are so many.”

Q: “You are refusing to answer the question! You must say exactly, in detail.”

 (Before I could answer, next question.)

Q: “What were you doing in May 2010? Who did you meet then?”

A: “That was a long time ago. Let me think for a moment.”

The interpreter butted in: “See, you are refusing to answer. You are lying.” 

The “interpreter”, biased toward her colleagues in the immigration department, intentionally mistranslated my answers, and repeatedly accused me of making unclear statements. I understood enough of their conversation in Japanese to realise she totally got my story wrong. 

Without hesitation, he wrote on a document: “No proof. Entry denied.” 

 “But I do have proof,” I said.

But he refused to acknowledge it. “You must sign here. You cannot refuse.” 

For about four hours, I sat in limbo, unable to properly communicate with the outside world. Starving and tired, I couldn’t think clearly. Various people in various uniforms aggressively shoved various documents in my face for me to sign. I simply said “wait” to everything and zoned out into a world of denial that this nightmare wasn’t happening. 

At about 4 pm, the security guards came to take me away. Two haggard old men probably in their 60s or 70s, were like dogs barking at my heels. They were constantly shaking me down for money. They demanded 28,000 yen as a “service fee” for taking me to buy rice balls and cold noodles at the convenience store.

What is going on here, I wondered. I started to get worried when they took me deep into a cold tunnel below the airport. Away from [ordinary travellers in the airport], they got more aggressive with demands of now 30,000 yen for a “hotel” fee. I was feeling threatened. (I would later find Amnesty International accounts of rogue guards working for the airlines beating up airline customers in the tunnel until they paid up.)

Well, at least I’m going to a hotel, I thought. I’ll make some phone calls there, go online, and get higher-ranking officials to help me out of this big misunderstanding. The “hotel” was in fact a jail. A prison, a detention facility, a dungeon. ”The police just told me I could make a call from here,” I said in Japanese. A guard told me flat out in Japanese: “You have no rights here.” A sign, in English, Japanese, and other languages, lists phone numbers for United Nations organisations dedicated to helping victims of state brutality. 

“It says right here that I can call these numbers.”

 “No you can’t.”

They led me into a locked off area with at least two sleeping cells. The room was cold, with no windows. Lying under thin blankets, using my parka (down jacket) as a pillow, I stared at the ceiling and walls.Later that night, I was ordered into the common room. A man, probably in his 50s, was waiting to see me. His tie said “immigration.” He was warm and compassionate. He tried his best in English and Japanese to explain what was happening. He said, to my surprise, that the other officers were “idiots”. He said they had no business putting foreigners—tourists or expats—in jail like this. “It is a shame for Japan,” he said. “Embarrassing.” After talking to me, he went out for a few minutes and came back to give me more documents to sign. One was titled “Waiving the Right to Appeal”, meaning, “We are kicking you out of the country.” The other was an “appeal form”. It said I had three days to appeal to “the Minister of Justice.” This at least gave me hope that someone would recognise their mistake, and let me go home

After he left, the guards granted me a privilege—the right to take a shower. My show of respect, and polite language toward them, was reciprocated. They let me make a phone call. They gave me a form to fill out—this is Japan, after all—listing the nationality, name, phone number and relation of that person. I tried to milk it. While pretending to check my phone messages (technically not a phone call), I sent messages on Facebook. I wrote short, and sent quickly, in case they caught me: (In jail now … Narita … No rights … Innocent … Help me.) I went back to my cell dejected. I lay under blankets in my winter clothes, tormented. I chased away dark thoughts—suicide, protest, escape—from my mind. I cried for myself, and for the tortured souls of the previous tenants. I was so exhausted from the ordeal that I did fall asleep, shortly after they turned off the lights at 11pm. When I woke up at 10 am on Saturday morning, December 24, my cell was unlocked. [From] the jail’s common room, I was allowed to call my partner. “Don’t worry,” I said, “They’re going to let me go home soon. It’s all been a big mistake.”

The guards now let me make a second call, to my embassy representative. Though helpful and genuinely concerned, she said, “only Japan has authority. There’s nothing we can do.” She said my worried family and friends, who saw my messages on Facebook, had been calling her to offer assistance. She also had faxed a list of lawyers and legal assistance agencies in Japan to the immigration officers.It was a smart move, because it showed them that powerful people in Canada—the department of foreign affairs, the Canadian embassy, media people—were indeed watching what they were doing with me, a human, with a name, family and supportive friends. It was a way to humanise me. [But] the papers were useless. How could I contact a legal website, if I wasn’t allowed internet? How could I call a lawyer, if I wasn’t allowed phone calls?There was another call for me. This time from someone at Asiana Airlines. ”How are you doing this morning?” she asked, cheerfully. She said they had been calling my partner at home, asking her to pay 170,000 yen for my one-way ticket to Canada. I wasn’t pleased to hear that. “I’m not going home to Canada,” I scolded her. “My home is in Tokyo. I live here, in Japan.” “This is a good offer, you should take it,” the airline employee insisted. “If you don’t, the price will go up. The normal price is 400,000 yen. If you wait, you will pay 400,000 yen.” “That’s crazy,” I said. “I paid 25,000 yen for a round trip ticket to Seoul on your airline. And now you want me to pay 170,000 yen, or 400,000 yen? That’s $5,000, for a one-way ticket. That’s more than five times the normal rate, because I’m in jail.” The airline employee hung up. I was worried. “This is a scam,” I thought. The airline guards are shaking us down for money, and now the airline is price gouging me, and even harassing my partner to pay. But I was cheered about an hour later, when the guards told me, “Pack up your bags. Don’t leave anything behind.” It was good news. They were going to let me out of here. My appeal worked, I thought. They’re going to release me and let me go home. 

A Special Inquiry Officer sat me down in his office, across from the Special Examination Room where everything had gone wrong a day earlier. He showed me a document from the Ministry of Justice. It was an “Exclusion Order”, with my name on it, next to the details of a flight leaving for Canada. I was crestfallen. “No, that’s not right,” I said, confused. “There is a plane leaving for Canada at 7pm. You must take that plane.”  “But I live in Tokyo. I have a life here.”  “If you do not take that plane, you could end up in jail for months, years. And you’ll never be allowed back into Japan.” Next, the airline employees came around to hit me up for money. They now wanted 200,000 yen for a one-way ticket on Air Canada. I told them it was a rip-off. I knew that a round trip ticket at HIS travel agency in Tokyo was 50,000 yen plus tax. “OK. 170,000 yen, plus 30,000 for the hotel fee and the security guards,” they said. “This is outrageous,” I said. I grabbed my phone from them, since they still had my passport and bags. I called a friend. “Quick, call the police. Tell them I’m in the immigration office, Narita terminal one.” The immigration officers derided me. “Police do not have jurisdiction to come in here,” they laughed. “Narita is a special legal area.” The airline employee and the [private security guards] were alone with me in a room. ”You must hurry up and buy this ticket,” the Asiana employee said. “Can you pay 150,000 yen?” He went out to negotiate with another airline.  When he came back, he said, “The best I can do is 130,000 yen, plus 30,000 yen for the [guards].” “No,” I said. “This is wrong. This is a scam. You are just trying to profit off someone in a weak position, a victim of human rights abuses.” Again, he went out, and came back with a new offer. ”I have asked for special prices. I can do it for 100,000 yen. Anything lower is absolutely impossible. I’m really trying to help you. Please get on this flight.” It was already after 5 o’clock. People were checking in for the 7 pm flight. I was really sweating now. This time, he came back with a young, stocky guy. He was wearing a blue uniform. “Do you see this gun?” he said in Japanese, turning around to show me a weapon in its holster. “I have the legal authority to use this if you refuse to get on that flight. Now are you going to buy that ticket?” I was angry now. They are forcing me at gunpoint to buy an overpriced ticket. The [guards] ushered me out of the room and through the airport. They still had my bag, my passport, my wallet, credit cards, everything. I had no choice. They whisked me through the airport like a criminal. I didn’t have to line-up for x-ray machines or immigration. [They] pushed me through VIP lines, ahead of pilots and flight attendants. As we walked to the departure gate, they continued to badger me for money. I told them flat out, “This is wrong. Have some pride. I am a working man just like you.” The older guys backed off. They sensed I wasn’t going to give in to their pressure. But a hideous older bulldog of a woman was much more relentless. Even the Asiana officers were taken aback by her uncultured onslaught. She raised the demand in increments—30,000 yen, 35,000 yen, 38,900 yen—the tactic of a third world market haggler, trying to pressure you to buy before the price goes higher. Still holding my passport, she dogged me all the way to the gate. “I’m going to fly with him all the way to Canada,” she said to another [guard], in Japanese so that I could hear it. At the departure gate, I sat down amongst ordinary people happy to be going home for Christmas or on a ski holiday to Canada. I made several last phone calls to loved ones in Japan. My partner cried so heavily, she made me cry. I told her to hug our dogs for me. At that point, I realised I might never see our 15-year-old dog ever again.My heart burst open like a seawall against a tsunami. Flowing with tears, I ran to the bathroom—to hell with asking the guards. I returned to my seat near the gate. I didn’t even look at anyone. I just covered my face in my hands and cried. Finally, the [female guard] gave up. The two male [guards] escorted me onto the plane, and finally gave me back my passport. As the Pacific coastline came into view, I gazed perhaps one last time at the street lights and dark rice fields below. It was a feeling I had never considered before: what it would be like to leave Japan, and not return.  I could only notice that the vast majority of space below was filled with a deep and utter darkness. Somewhere out there, in the gulag of detention centres dotting the land like black holes in the heart of Japan, were the cries of innocent people who would not be heard.