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Sentenza n. 5336 del 11 ottobre 2007 Consiglio di Stato

Rigetto della domanda di regolarizzazione (ex art. 33, legge n. 189/2002) di rapporto di lavoro subordinato

     

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 11030/2004, proposto da: ***** , rappresentato e difeso dagli avv.ti Antonella Pirro e Giannino Caracciolo ed elettivamente domiciliato presso la Segreteria sezionale del Consiglio di Stato, in piazza Capo di Ferro n. 13, Roma;

c o n t r o

- il Ministero dell’interno, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria per legge in via dei Portoghesi n. 12, Roma;
- la Prefettura di Milano, in persona del Prefetto in carica, non costituita;
per annullamento e/o riforma, previa sospensione dell’efficacia,
della sentenza breve del T.a.r. Lombardia, Milano, sezione I, n. 4989/2003, resa inter partes e concernente il decreto 14 agosto 2003 del Prefetto di Milano, recante rigetto della domanda di regolarizzazione (ex art. 33, legge n. 189/2002) di rapporto di lavoro subordinato per condanna con sentenza 19 ottobre 2000 del Tribunale penale di Brescia (per omicidio colposo: art. 589, c.p.).
    Visto il ricorso in appello con i relativi allegati.
    Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero appellato.
Visti gli atti tutti della causa.
Relatore, alla pubblica udienza del 26 giugno 2007, il Consigliere Aldo SCOLA.
Uditi, per le parti, l’avv. Buccellato (per delega dell’avv. Giannino Caracciolo) e l’avvocato dello Stato Melania Nicoli.                                       
Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

F A T T O

L’attuale appellante impugnava quanto in epigrafe, dinanzi al T.a.r. Lombardia, chiedendone l’annullamento.
Con l’impugnato decreto si respingeva la domanda di regolarizzazione del rapporto di lavoro subordinato instaurato dal ricorrente (così aderendo alle tesi della p.a. costituita in giudizio con la difesa erariale), per la riscontrata presenza di una condanna in sede penale per omicidio colposo (dovuto ad incidente su strada ghiacciata, con un deceduto e gravi traumi anche per il *****, all’epoca ventenne), come precisato in epigrafe: tale circostanza veniva ritenuta ostativa.
I primi giudici consideravano manifestamente infondatoil gravame introduttivo, rientrando nella discrezionalità del legislatore (nel determinare le condizioni soggettive necessarie per  poter fruire di un beneficio accordato in via eccezionale - sanatoria delle immigrazioni illegali - con corrispondente decurtazione delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato di cui all'articolo 3, comma 4, d.lgs n. 286/1998) la possibilità di valutare negativamente la condotta attiva del soggetto con certi precedenti penali.
L’interessato impugnava detta sentenza per varie forme di violazione di legge  (difetto di motivazione, omesso preavviso procedimentale, pur in un procedimento iniziato ad istanza di parte, e mancato rispetto del principio dell’unità familiare, ex art. 2, 29 e 31, Cost.) e di eccesso di potere (ingiustizia manifesta e disparità di trattamento).
    Il Ministero appellato si costituiva in giudizio e resisteva al gravame.
    All’esito della pubblica udienza di discussione la vertenza passava in decisione, dopo l’accoglimento (per il ritenuto pregiudizio grave ed irreparabile) dell’istanza cautelare con ordinanza n. 617/2005 della sezione IV di questo Consiglio di Stato.

D I R I T T O

L’appello è fondato e va accolto, ma prima di affrontare il merito del presente ricorso, appare opportuno delineare brevemente i principii cui si è ispirato il legislatore nel disciplinare l’ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari in Italia, in particolare con la legge 6 marzo 1998 n. 40.
Va, innanzitutto, rilevato che la scelta è stata quella di individuare una strada intermedia tra l’apertura incondizionata al flusso migratorio e la chiusura totale, sulla scia di quanto è avvenuto nel corso della storia in quasi tutti i Paesi democratici.
La normativa italiana si ispira conseguentemente al principio del cosiddetto flusso regolato, tendente cioè ad ammettere l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel limite di un numero massimo accoglibile, tale da assicurare loro un adeguato lavoro, mezzi idonei di sostentamento, in una parola un livello minimo di dignità e di diritti, e tra questi, quelli alla casa ed allo studio.
Quale corollario alla decisione di porre un limite all’ingresso dei cittadini extracomunitari, si pone l’obbligo di espulsione per quelli che non sono in regola, sia in relazione all’ingresso, sia al soggiorno.
Due sono i limiti esterni all’impostazione sopra esposta: uno è dato dalle ragioni di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, per cui, quando sono in gioco tali valori, uno straniero può sempre essere espulso, anche ove si trovi regolarmente in Italia.
L’altro limite, questa volta di segno opposto, è dato da particolari esigenze umanitarie, che consentono una deroga alle norme sull’ingresso; si tratta, infatti, di dare priorità ai principii dei diritti dell’uomo fatti propri dalla Costituzione ed introdotti nell’ordinamento italiano con la ratifica di molti accordi internazionali.
Viene in rilievo, in particolare, la tutela della famiglia e dei minori (donde le deroghe all’ingresso per favorire il ricongiungimento familiare), di coloro che si trovano in particolari situazioni di difficoltà (per cui si concede l’asilo per straordinari motivi umanitari, come è avvenuto per gli sfollati dalla ex Jugoslavia), fino a giungere, in caso di persecuzioni dovute a ragioni etniche, religiose o politiche, alla concessione dello status di rifugiato politico.
E’ evidente quindi che, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza 21 novembre 1997 n. 353), le ragioni della solidarietà umana non possono essere sancite al di fuori di un bilanciamento dei valori in gioco: tra questi, vi sono indubbiamente la difesa dei diritti umani, la tutela dei perseguitati ed il diritto di asilo, ma altresì, di non minore rilevanza, il presidio delle frontiere (nazionali e comunitarie), la tutela della sicurezza interna del Paese, la lotta alla criminalità, lo stesso principio di legalità, per cui chi rispetta la legge non può trovarsi in una posizione deteriore rispetto a chi la elude.
Il bilanciamento dei vari interessi in gioco è stato effettuato dal legislatore, che ha graduato le varie situazioni: in alcuni casi, ad esempio, ha disposto l’espulsione dello straniero in via quasi automatica, al semplice verificarsi di determinati presupposti, mentre, in altri, ha ammesso una certa discrezionalità in capo all’amministrazione, nella valutazione e ponderazione dei fatti.
Naturalmente, anche nell’applicazione della normativa sui cittadini extracomunitari trovano ingresso i principi generali dell’ordinamento, in specie quelli regolanti l’attività della p.a., tra cui basterà menzionare quello relativo all’obbligo della motivazione dell’atto amministrativo (più attenuato qualora si tratti di un atto dovuto, più stringente qualora la discrezionalità dell’amministrazione sia più estesa), quello dell’economicità dell’azione amministrativa, per cui determinate irregolarità si considerano sanate qualora l’atto abbia raggiunto il suo scopo, ed infine la potestà dell’amministrazione di revocare in ogni tempo un atto amministrativo ad effetti permanenti, qualora vengano meno i presupposti per la sua concessione.
    Nella specie, risulta di intuitiva evidenza che, anche sotto il profilo della violazione delle norme invocate, ogni prospettata questione si configura fornita di adeguato fondamento, giacché la tutela del diritto al lavoro nei confronti dei cittadini stranieri è necessariamente subordinata al possesso di un idoneo permesso di soggiorno (Corte cost., 30 dicembre 1998 n. 454), nella specie assente, per la ritenuta ostatività di un precedente penale che, peraltro, non denota alcuna specifica pericolosità sociale, trattandosi di delitto colposo del tipo di quello già descritto.
    Ne deriva che le questioni sollevate avverso l’atto di diniego emesso dalla Prefettura di Milano sono risultate indebitamente disattese dai primi giudici, dato che il provvedimento risulta illegittimo in quanto non adeguatamente motivato, poiché, ai sensi dell’art. 1, comma 8, lett. c), d.l. n. 195/2002, convertito in legge n. 222/2002, il diniego di regolarizzazione si configura come atto doveroso e vincolato (a parte ogni indagine sull’obiettivo inserimento sociale dello straniero, nella specie, agevolmente verificabile) solo in presenza di un precedente penale assolutamente ostativo, come non è quello di cui in epigrafe, per le ragioni appena esposte (non riscontrata pericolosità sociale).
Il presente appello va, dunque, accolto, con contestuale riforma dell’impugnata sentenza, accoglimento del ricorso di prime cure ed annullamento degli atti ivi gravati (fatti salvi quelli ulteriori della p.a., che li adotterà nel pieno rispetto dei principii di diritto qui enunciati), mentre le spese del doppio grado di giudizio possono integralmente compensarsi per giusti motivi tra le parti costituite, tenuto anche conto del loro reciproco impegno difensivo e delle peculiarità della vertenza, nonché delle alterne vicende processuali.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta,
-    accoglie  l’appello;
-    riforma l’impugnata sentenza;
-    accoglie il ricorso di primo grado;
-    annulla gli atti ivi impugnati;
-    compensa spese ed onorari del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
    Così deciso in Roma, Palazzo Spada, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 26 giugno 2007

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il....11/10/2007
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
Maria Rita Oliva

 

Venerdì, 30 Dicembre 2011

 
 
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