In data 11.10.2012 veniva disposto dalla Questura di Torino il trattenimento presso il locale C.I.E. “Brunelleschi” del signor B.B., cittadino marocchino privo di titolo di soggiorno.

All’udienza di convalida fissata il giorno successivo presso il medesimo C.I.E., il suo legale, Avv. Ornella Fiore, produceva copiosa documentazione al Giudice di Pace, Dott.ssa C., dalla quale emergeva lo stato di grave disagio mentale del signor B.

In particolare, il legale citava espressamente alcuni passaggi della dichiarazione sottoscritta dal medico psichiatra che di lui si era occupato durante i tre mesi di ricovero presso una nota casa di cura torinese: “L’ipotesi diagnostica che è possibile formulare, dopo l’osservazione clinica, è quella di un quadro di psicosi mista (patologia caratterizzata dalla co-presenza di sintomi deliranti di tipo psicotico e di un disturbo del tono dell’umore, Disturbo schizoaffettivo cronico di classificazione ICD9)”.

Veniva altresì depositata copia integrale della cartella clinica relativa a quel ricovero, nonché ulteriore relazione del 14.2.2006, più datata ma altrettanto significativa, che evidenziava “una diagnosi di depressione maggiore grave in disturbo borderline di personalità, con elevato rischio suicidario”. Tale documento recava la firma di tre specialisti (una psichiatra e due psicologi).

Il delegato della Questura di Torino informava i presenti che le condizioni di salute complessive del trattenuto erano state ritenute dal medico (generico) di turno “compatibili con il trattenimento”, ma che, eventualmente, a fronte di consulto con uno specialista, la direzione sanitaria avrebbe potuto rivedere la precedente valutazione e che in tal caso la Questura avrebbe proceduto alle sue dimissioni.

Dal canto suo, il Giudice di Pace affermava di non essere una psichiatra e di non essere quindi in grado di valutare l’incidenza del trattenimento sulle condizioni mentali del signor B. 

Le dichiarazioni degli specialisti venivano formalmente acquisite, ma mai lette nel corso dell’udienza: la Dott.ssa C. non provvedeva in alcun momento alla loro consultazione ed, alla presenza delle parti, redigeva l’ordinanza di convalida del trattenimento senza neppure disporre un’integrazione d’indagine sull’effettivo stato di salute mentale dell’interessato.

Si sottolinea come un simile approfondimento fosse del tutto possibile (oltre che dovuto) sia per via dei poteri istruttori conferiti dalla legge al Giudice di Pace, sia in virtù del fatto che i termini previsti per provvedere alla convalida del trattenimento sarebbero scaduti il 15.10.2012, cioè tre giorni dopo.

Al termine dell’udienza, l’Avv. Fiore metteva a conoscenza la direzione sanitaria del C.I.E. della situazione del proprio assistito, fornendo ulteriore copia della documentazione clinica già citata, e le veniva comunicato che per il giorno successivo sarebbe stata fissata una visita psichiatrica; poco dopo, il legale contattava anche la Questura di Torino (Dott.ssa De Toma, per conto della Dott.ssa Fassone) per segnalare la necessità di procedere con urgenza ad un approfondimento della situazione del signor B.

Al mattino del giorno successivo, cioè il sabato 12, la direzione sanitaria del C.I.E. riferiva che la visita psichiatrica, pur disposta, non era ancora stata effettuata e che avrebbe avuto luogo presumibilmente il lunedì seguente.

Lunedì 14 ottobre l’Avv. Fiore contattava nuovamente la direzione sanitaria del centro e le veniva comunicato che, quella stessa mattina, il signor B. aveva lasciato la struttura: era stato rimpatriato.

L’Ufficio Immigrazione confermava la notizia ed il funzionario competente, Dott.ssa Fassone, si impegnava a verificare che prima di procedere alla sua espulsione lo straniero fosse stato effettivamente sottoposto a visita psichiatrica.

Ad oggi, 22.10.2012, nessuna comunicazione è giunta al riguardo.

Questi i fatti.

L’episodio risulta oltre modo censurabile: il punto non è affatto la decisione in sé di convalidare il provvedimento restrittivo assunto dalla Questura, giacché ciò costituisce espressione del potere discrezionale attribuito al Giudice di Pace.

Il problema è l’assoluta indifferenza manifestata da chi è chiamato a decidere della libertà personale di un individuo a fronte dei diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, in discussione.

A ciò si aggiunge la violazione del principio del contraddittorio: la mancata consultazione della documentazione clinica prodotta costituisce grave omissione nell’esercizio dei poteri attribuito al Giudicante, che – pur a fronte dell’evidente indizio di una seria patologia psichiatrica – ha incomprensibilmente tralasciato qualunque tipo di accertamento.

E ciò sebbene sulle certificazioni prodotte fossero oltretutto indicati i recapiti degli specialisti che le avevano firmate e nonostante vi fosse tutto il tempo per procedere ad un approfondimento prima della scadenza dei termini per la decisione.

L’accaduto non può che consolidare la sensazione degli operatori di uno sfasamento tra la previsione formale di principi e diritti fondamentali e quanto effettivamente applicato e riconosciuto all’interno dei C.I.E., dove regole altrove indiscutibili diventano per prassi evanescenti. 

L’approccio dei Giudici di Pace – non titolati ad occuparsi di detenzione penale, eppure competenti in tema di trattenimento amministrativo degli stranieri, misura restrittiva della libertà personale – risulta troppo spesso atecnico, talvolta orientato ad una semplicistica distinzione tra categorie manichee (buoni o cattivi, meritevoli o non meritevoli) che nulla hanno a che vedere con la valutazione dei presupposti che la legge, nazionale e comunitaria, individua per legittimare tale misura.

Il caso esposto non rappresenta un episodio isolato e dimostra una volta di più la necessità di riconsiderare l’attribuzione della competenza in materia di espulsioni e trattenimento dei cittadini stranieri a Giudici non professionali, istituiti al fine di dirimere cause minori tra le quali non possono rientrano quelle che coinvolgono la libertà personale degli individui.