03 ottobre 2012

Regolarizzazione: ancora due settimane; poi, per chi non si adegua, sanzioni pesantissime.
I datori di lavoro che non approfitteranno della regolarizzazione rischiano grosso, soprattutto se il rapporto di lavoro presenta indici di sfruttamento.
Immigrazioneoggi, 03-10-2012
Certamente questa regolarizzazione sarà ricordata per l’onerosità della procedura e la poca chiarezza nello stabilire i criteri di valutazione della presenza del lavoratore in Italia alla data del 31 dicembre 2011, e cioè l’attestazione da parte di un “organismo pubblico”.
Questi due elementi di criticità non dovrebbero però offuscare l’altro aspetto, di cui si parla poco ma che, una volta concluse le operazioni di regolarizzazione, procurerà non pochi problemi a quei datori di lavoro che non hanno voluto o potuto presentare la domanda di emersione.
Infatti, a partire dal 16 ottobre, saranno pienamente operative le nuove sanzioni a carico dei datori di lavoro che impiegano stranieri in condizione di irregolarità (senza permesso di soggiorno o con permesso scaduto, revocato o annullato). Se il rapporto di lavoro non sarà caratterizzato da condizioni di particolare sfruttamento, il datore rischia le pene già previste dal testo unico immigrazione e cioè la reclusione da sei mesi a tre anni, la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato ed in più, ora, anche il pagamento delle spese di rimpatrio dello straniero (nel caso di persone giuridiche, società e associazioni anche prive di personalità giuridica, si aggiunge una sanzione pecuniaria che può arrivare a 150mila euro, come prevista dal d.lgs. 231/2001). Nei casi di sfruttamento, invece, le pene potranno arrivare a quattro anni e mezzo di reclusione e 7.500 euro di multa. Il lavoratore, in questi casi, potrà presentare una denuncia a carico del datore di lavoro ed ottenere un permesso di soggiorno per tutta la durata del processo.
Quando si può parlare di particolare sfruttamento? Quando sussiste anche una sola delle seguenti condizioni: 1) la sistematica retribuzione dei lavoratori è palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque è sproporzionata rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.



Immigrati dietro le sbarre Un sistema da ripensare
​Avvenire, 03-10-2012
Vito Salinaro
Una galassia sempre più in agitazione. Un limbo giuridico e amministrativo sempre più difficile da gestire. È la realtà dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), strutture dislocate in varie parti d’Italia (vedi grafico qui sotto) in grado di ospitare fino a duemila persone e sulle quali più di una volta sono stati sollevati polemiche e interrogativi. I Cie, con il Cara (Centri accoglienza richiedenti asilo) e i Cda (Centri di prima accoglienza) costituiscono la rete dell’«accoglienza» statale per gli immigrati che arrivano nel nostro Paese. Una "camera di compensazione" indispensabile per verifiche e accertamenti, ma che oggi va completamente ripensata.
«La denuncia sulle pessime condizioni in cui si trovano i detenuti, gli internati e gli stranieri nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), come nelle carceri, è ormai unanime». Piero Innocenti ha da poco lasciato la Polizia di Stato, dove ha ricoperto incarichi di alto profilo (questore a Teramo, Piacenza e Bolzano, prima di diventare consulente del capo della Polizia); non ha invece abbandonato la passione per gli studi legati ai flussi migratori, alle moderne forme di schiavitù, alle narcomafie.
Il fatto di aver servito lo Stato con incarichi dirigenziali non significa per lui adottare una linea "diplomatica" per giudicare la «carcerazione amministrativa» degli stranieri irregolari. In fondo, «che qualcosa non va nei Cie dove, alla data del 18 settembre 2012, sono trattenuti, in stato di "detenzione amministrativa", 901 stranieri irregolari (uomini e donne), è sotto gli occhi di tutti». E in questi primi 9 mesi del 2012 le rivolte e le proteste, talvolta violentissime, sfociate spesso in suicidi e tentati suicidi, si sono susseguite con insolita frequenza rispetto al pur problematico 2011.
In tutta la Penisola si contano 13 Cie, per un totale di 1.901 posti, a cui si aggiungono 9 Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), strutture che con il villaggio degli immigrati di Mineo, in cui vivono duemila persone, offrono in totale 5.744 posti letto.
La situazione di disagio è stata denunciata più volte. Il 17 aprile scorso è stato presentato al ministro della Giustizia, Paola Severino, il "Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia". «Il documento - spiega Innocenti - era stato approvato, all’unanimità, il 6 marzo 2012, dalla "Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato".
Nelle 278 pagine del rapporto (sono inclusi anche i disegni di legge presentati nel tempo per introdurre il reato di tortura e il garante nazionale dei detenuti), c’è la radiografia del sistema carcerario e della penosa situazione in cui si trovano gli oltre 66mila detenuti in strutture da circa 46mila posti». Ancor prima di quel rapporto, rileva l’ex dirigente della Polizia, «sarebbe stato opportuno (ri)leggersi quello stilato nel 2007 dalla Commissione De Mistura (dal nome dell’ambasciatore Staffan De Mistura che presiedette la commissione) e le raccomandazioni conclusive formulate che "...ancorché possano apparire di complessa attuazione...", avrebbero potuto consentire di affrontare il "problema della irregolarità" degli stranieri in maniera "più creativa ed efficace"».
Ma anche in quella occasione, «poco o nulla fu fatto». Proprio come alcuni anni dopo, nel 2010, quando, a seguito di un altro corposo rapporto-denuncia di Medici senza Frontiere (MsF), «la classe politica - dichiara Innocenti - non ebbe il "coraggio" di affrontare i temi delle condizioni socio sanitarie nei centri, lo stato precario delle strutture, le modalità di gestione, il rispetto dei diritti degli immigrati». Già il primo studio del 2004, "Cpta: anatomia di un fallimento", sempre curato da MsF, «non aveva lasciato alcun margine di dubbio sul malfunzionamento dei vari centri e sul profondo malessere fra i trattenuti», evidenziato da gravi episodi: risse, rivolte, autolesionismi, somministrazione di sedativi.
Il problema, dice l’ex questore, è che «l’immigrazione irregolare non si può risolvere con norme penali, costruendo "muri" o trattenendo nei Cie persone per una "detenzione" ingiustificata» che può arrivare sino a 18 mesi. «Un tempo di restrizione così prolungato, senza aver commesso alcun reato – aggiunge –, non può non causare conseguenze sulla salute fisica e mentale dei trattenuti».
Nonostante ciò la situazione non è migliorata. Anzi. La Commissione senatoriale che ha stilato il Rapporto 2012, nella parte introduttiva, ricorda che «…le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione (..) sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri».

 

Cie, il sindaco di Lamezia Terme al Viminale "Trasformatelo in centro d'accoglienza"
Il sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza, è intervenuto sulla esistenza di un (Centro di identificazione ed espulsione) nella sua città, dopo il rapporto di Medu (Medici per i diritti umani) 1 pubblicato nei giorni scorsi su Repubblica.it e ripreso da altri organi d'informazione
la Repubblica.it, 03-10-2012
LAMEZIA TERME - Il sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza, è intervenuto nuovamente sulla esistenza di un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) nella nostra città, dopo il recente rapporto di Medu (Medici per i diritti umani) 2 pubblicato nei giorni scorsi su Repubblica.it e ripreso da altri organi d'informazione. "Le denunce di questi giorni - ha detto il sindaco di Lamezia - sono molto preoccupanti. L'esistenza dei Cie non dipende dai Comuni ma è il Ministero dell'Interno, che ha deciso e istituito queste strutture di detenzione in tempi ormai lontani e senza chiedere neanche un parere agli enti locali interessati".
Lamezia è contraria. "Più volte, in passato - ha detto ancora il sindaco - l'Amministrazione comunale si era occupata del Cie (al tempo queste strutture erano chiamate Cpt. Purtroppo sono cambiati i nomi, ma non la sostanza..) di Lamezia, sottolineando la propria contrarietà, tant'è che in una lettera scritta nel 2007 all'allora ministro dell'interno Amato, all'indomani del drammatico suicidio di un cittadino bulgaro all'interno del Centro di permanenza temporanea, si era riproposta la questione dell'esistenza e del superamento dei Cpt".
E non è la prima volta. "Purtroppo non è la prima volta che nel Cpt lametino succedono drammi simili, gesti dettati dalla disperazione - si leggeva nella lettera scritta dal sindaco in quel frangente e nella quale si fa riferimento anche ad un altro suicidio di un immigrato marocchino avvenuto due anni prima. "La questione dei Cpt - scriveva ancora il sindaco - è stata un punto importante del programma elettorale, inserito anche negli indirizzi di Governo. I Cpt sono luoghi di detenzione dove "non si vive", dove si assiste purtroppo al dramma di tanti immigrati che cercano disperatamente un futuro nel nostro paese lasciando a malincuore le loro terre di origine. Non tutti, anzi moltissimi di loro non hanno la fortuna di poter costruire un futuro qui e si imbattono in queste strutture dove vengono richiusi prima di essere espulsi".
Il "reato" di essere senza documenti. "Ci sono persone che hanno commesso reati e vengono sottoposti ad un'ulteriore pena, persone che non hanno commesso alcun reato se non quello di trovarsi senza documenti e che vengono chiamati "clandestini". Là dentro ci sono persone. Esseri umani. Che hanno come unica colpa quello di fuggire da paesi poveri e disperati, fuggire dalle persecuzioni che subiscono nelle loro terre. Per molti di loro rientrare nel paese d'origine significa morire.  Per questo motivo dovremmo favorire politiche di accoglienza affinché nel nostro Paese possano trovare la salvezza e non la reclusione".
Da centro di reclusione a luogo d'accoglienza. Per questi motivi e di fronte a quanto nuovamente denunciato, il sindaco di Lamezia Terme ha scritto ancora una volta al ministro dell'Interno. Rivolgendosi ad Annamaria Cancellieri ha chiesto di trasformare il Centro di permanenza temporanea di Lamezia Terme da centro di reclusione in centro di prima accoglienza, di solidarietà e di integrazione degli immigrati, ricordando che la nostra città è già parte del Programma nazionale per richiedenti asilo e profughi.  
"Tenete conto della nostra volontà". "Essendo il Cie ubicato su un terreno di proprietà comunale - ha evidenziato il sindaco - la prego di voler tener conto di questa nostra volontà. Tale soluzione rappresenterebbe un ulteriore tassello nella creazione di una rete locale di intervento e di sostegno alle politiche dell'immigrazione su cui la nostra amministrazione è da tempo impegnata.".



I «Cie» sono inevitabili ma così non funzionano
Avvenire, 03-10-2012
Paolo Borgna
È vero, come si sente spesso ripetere, che "non possiamo fare a meno dei Cie", i centri di identificazione ed espulsione in cui vengono condotti gli immigrati irregolari in attesa di identificazione.
È altrettanto vero che i Cie potrebbero essere usati diversamente. Non possiamo farne a meno anzitutto perché ce lo impongono le normative europee. Da ultimo la direttiva 115 del 2008, che impegna gli Stati membri all’effettivo rimpatrio degli stranieri irregolari e prevede che, a tal fine, gli Stati possano «trattenere» le persone da espellere per «prepararne il rimpatrio».
Che cosa significa «preparare il rimpatrio» di una persona irregolare? Significa che se uno Stato deve espellere, con le complesse procedure previste dalla legge, uno straniero irregolare di cui (non essendovi documenti) non si conoscono l’identità anagrafica e la provenienza nazionale, deve in primo luogo accertare in quale Paese inviare il cittadino straniero.
Pena, il rischio di inviare nel Paese X una persona proveniente dal Paese Y. E dunque bisogna stabilirne perlomeno la nazionalità (con la collaborazione dei consolati e con un percorso non breve). Inoltre, bisogna trovare i mezzi di trasporto per l’accompagnamento nella patria di origine. Tutto ciò richiede tempo, nel corso del quale la persona da espellere viene, appunto, «trattenuta al Cie». Apparentemente tutto semplice e chiaro. Ma, come spesso accade, la realtà è più complessa delle regole astratte.
In primo luogo non è semplice fare accettare a uno straniero che non ha commesso alcun reato se non quello di "clandestinità", il fatto che lo si priva della libertà personale per un periodo che, proprio a seguito della direttiva Ue 115/2008, può oggi raggiungere i diciotto mesi (possibilità che le questure tendono a non utilizzare). In secondo luogo i Cie non hanno alcune strutture (biblioteche, laboratori, palestre, ecc.) di cui dispongono le carceri. Per certi aspetti, quindi, la "detenzione amministrativa" in un Cie può risultare più afflittiva della detenzione in carcere. Ne sono conseguenza le rivolte e i frequenti atti di autolesionismo. Inoltre le collaborazioni dei consolati lasciano spesso a desiderare. Soprattutto, l’estensione enorme del fenomeno dell’immigrazione irregolare fa sì che qualunque strumento predisposto per eseguire le espulsioni risulta alla fine inadeguato.
Questo giornale lo scrive da tempo: l’area della cosiddetta "clandestinità" è "drogata". Si è estesa a macchia d’olio in conseguenza del fatto che lo straniero che chiede di venire in Italia per cercare lavoro deve affrontare procedure troppo lente e farraginose, che spingono all’irregolarità anche chi non vorrebbe essere irregolare (e magari ha già trovato un’occupazione e un datore di lavoro che lo vorrebbe regolarizzare).
Se non riusciamo a regolarizzare i cittadini stranieri che il nostro "mercato del lavoro" richiede, se li facciamo lavorare in nero e non rendiamo regolare la loro presenza in Italia, se poi li marchiamo con l’etichetta di "clandestini" e tendiamo ad espellerli, mettiamo in moto un meccanismo costosissimo e imbelle. Le nostre prefetture emetteranno decine di migliaia di decreti di espulsione, destinati spesso a non essere eseguiti: spauracchio di onesti lavoratori irregolari e acqua fresca per coloro che davvero meriterebbero d’essere rimandati al Paese di origine.
L’unico modo per contrastare la "clandestinità" è avere procedure di ingresso semplici, snelle e veloci. A quel punto ci si potrà concentrare, in modo selettivo, sull’espulsione effettiva (non solo proclamata sulla carta) degli irregolari che hanno commesso reati gravi. Perché il paradosso dell’attuale situazione è proprio questo: è più facile espellere una badante irregolare piuttosto che un rapinatore o uno spacciatore che, non dichiarando mai le loro vere generalità, riescono a sfruttare le lentezze della nostra macchina amministrativa e a rimanere in Italia.



Cie, ombre sugli appalti. Ora partono le inchieste
​la Repubblica, 03-10-2012
Nello Scavo
Mancava solo la consegna delle chiavi e il Centro di identificazione ed espulsione di Bologna avrebbe avuto un nuovo gestore. Invece, la prefettura ha bloccato tutto. Qualcosa non torna: un appalto vinto al ribasso sbaragliando la concorrenza, una girandola di nomi dalla fedina penale con qualche macchia, almeno due inchieste aperte a Trapani e Modena.
Abbastanza perché dall’ufficio territoriale del governo decidessero di sospendere la sottoscrizione della convenzione con la cooperativa siciliana “Oasi”, a causa «della necessità di completare accertamenti istruttori». Le verifiche, fanno sapere fonti della Prefettura, riguardano anche il nuovo presidente dell’Oasi, subentrato ad appalto oramai vinto, che di mestiere fa l’avvocato a Siracusa, città nella quale risulta aver ricevuto una condanna per falso in atto pubblico.
A Bologna e Modena i centri di identificazione erano affidati alle Misericordie. A Trapani se ne occupava il consorzio Connecting People, che gestisce anche altre strutture, come quella di Gradisca d’Isonzo.
Un caso che sta suscitando interrogazioni parlamentari trasversali. Rita Bernardini (Pd) ricorda come alcuni dei nomi ai vertici dell’Oasi, fossero a capo di “Alma Mater”, associazione «che gestiva il Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Cassibile (Siracusa)», poi chiuso dal Viminale. Nel 2008 la cooperativa «era finita sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato – scrive Bernardini –, per una serie di fatture gonfiate per l’acquisto di arredamenti, lavori di ristrutturazione e servizi di lavanderia». L’indagine venne poi archiviata, ma a Cassibile “Alma Mater” non rimise più piede.
C’è poi un’altra sfortunata coincidenza. Il presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante del consorzio che attualmente gestisce il Cie modenese e attende di fare ingresso in quello di Bologna, al momento dell’affidamento era il commercialista Giuseppe Burgio, ma i dipendenti «vengono pagati – scrive in un’altra interrogazione il senatore Carlo Giovanardi (Pdl), fratello del medico Daniele Giovanardi, presidente delle Misercordie modenesi – con bonifici ordinati dal signor Emanuele Midolo», che risulta condannato il 19 ottobre 2011 «alla pena di mesi quattro di reclusione per i reati di cui agli artt. 476 (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) e 482 (falsità materiale commessa dal privato) del codice penale». Midolo, nel frattempo subentrato a Burgio, è un avvocato piuttosto noto nella città di Archimede. «Si tratta – assicura il legale in riferimento al suo precedente penale – di una questione professionale, una banale diatriba che ho avuto con un magistrato di Siracusa durante un processo. Una vicenda che ho preferito chiudere con un patteggiamento, ma che non ha niente a che vedere e non può avere ripercussioni sul consorzio e sulla gestione dei Cie».
Nella prefettura bolognese, però, vogliono essere sicuri che il cambio in corsa delle cariche direttive sia perfettamente in regola e che i precedenti giudiziari dei responsabili dell’Oasi non siano incompatibili con la gestione di una struttura pagata dallo Stato.
Per il Cie di Bologna, finora costato 72 euro al giorno per immigrato, il nuovo appalto è stato vinto dalla cooperativa siracusana alla tariffa di 28,50 euro al giorno (base d’asta 30 euro), con un “risparmio” per il Viminale superiore al 60%. Cifre analoghe anche nel Centro immigrati di Modena. Il bando prefettizio prevede che si rispettino i contratti di lavoro nazionali e la fornitura di una lunga serie di servizi: registrazione ospiti, tenuta magazzino, controllo utenze, beni di consumo, mediazione linguistica, fornitura pasti, servizio lavanderia e barberia, servizi di assistenza infantile, screening medico, primo soccorso sanitario, trasferimenti ospedalieri, pulizie, disinfezione, vestiario, prodotti per igiene personale e molto altro.
«Quale impresa sana e che agisce nella normale regolarità fiscale e del lavoro potrà "star dentro" a tale base d’asta di 30 euro al giorno? Siamo di fronte a bandi di appalto nel merito davvero poco credibili», denuncia Franco Zavatti, coordinatore legalità e sicurezza della Cgil emiliana. Il Tar dell’Emilia Romagna, però, aveva già respinto un ricorso delle Misericordie. I giudici amministrativi hanno sancito la correttezza della gara, condannando il ricorrente a risarcire la controparte, cioè l’Oasi.
«Delle due l’una: o al Ministero pensano si sia finora sperperato (o peggio, regalato) nelle attuali gestioni dei Cie – insistono dalla Cgil –, o si prefigurano tagli insopportabili nei servizi essenziali».



Immigrati, accolti 18mila profughi Arrivarono dalla Libia in fiamme
Nessuno dei profughi arrivati via mare dalla Libia (ma non di nazionalità libica) rimarrà senza protezione. Anche chi ha visto rifiutata la domanda d'asilo, non sarà espulso. Lo ha deciso il governo. Lo Stato paga per ogni profugo 46 euro ogni giorno. Il 31 dicembre scade lo stato di emergenza dichiarato dal governo Berlusconi. A quel punto salta la copertura finanziaria per i profughi che rischieranno la clandestinità.
la Repubblica.it, 03-10-2012
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Una pioggia di permessi umanitari in arrivo. Nessuno dei 18mila profughi arrivati via mare dalla Libia rimarrà senza protezione. Anche chi ha visto rifiutata la propria domanda d'asilo, avrà uno scudo contro le procedure d'espulsione. È la decisione presa dal governo in queste ore, che aspetta ancora di essere formalizzata.
Un passo indietro. Dopo l'emergenza dei tunisini sbarcati in massa sulle coste italiane, nel 2011 sono stati circa 18mila i profughi scappati dalla Libia (ma non di nazionalità libica). Giunti in Italia, sono stati affidati alla Protezione Civile e hanno presentato richiesta di asilo. Come è andata a finire? Molti sono ancora in attesa della risposta, altri hanno incassato un rifiuto, altri ancora hanno presentato ricorso. "Lo Stato - ha spiegato Christopher Hein, presidente del Comitato italiano per i rifugiati 1 (CIR) al Redattore Sociale 2 - sta pagando per ogni profugo 46 euro ogni giorno. Il tempo stringe: il conto con il passare del tempo diventa sempre più salato". Non solo. Il 31 dicembre prossimo scade lo stato di emergenza dichiarato dal governo il 12 febbraio 2011. A quel punto rischia di saltare la copertura finanziaria per l'accoglienza dei profughi in tutta Italia (qui il loro numero e la ripartizione tra Regioni 3. Che ne sarà allora dei 18mila "libici"? Rischieranno di finire in clandestinità?
Per tutti un ombrello di protezione. Il 26 settembre scorso è stato approvato in Conferenza Unificata 4 (dove siedono ministero dell'Interno e del Lavoro, Anci, Conferenza delle Regioni e UPI) il documento di indirizzo per il superamento dell'emergenza Nord Africa. Nel documento si chiede tra l'altro l'applicazione di una procedura per il rilascio di una "forma di protezione destinata a ricorrenti e richiedenti protezione internazionale ancora in attesa di audizione, rientranti nei flussi di arrivo del 2011 dalla Libia". Due saranno le possibilità: il singolo migrante potrà chiedere alle Commissioni territoriali competenti una nuova audizione affinché venga riconsiderato il suo caso, oppure rinunciare alla propria domanda d'asilo e "accontentarsi" di un permesso umanitario concesso dal questore dietro accordo con le Commissioni.  Insomma, in un caso o nell'altro, nessuno sarà espulso.



Immigrati: Vescovi, preoccupati per sorte rifugiati e Rom
(ASCA) - Roma, 2 ott - La Chiesa cattolica e' preoccupata per la sorte di rifugiati e Rom. In una nota diffusa dalla Fondazione Migrantes e dai vescovi della CEMi (la Commissione della Cei per le Migrazioni) riunitasi oggi a Roma, hanno espresso ''preoccupazione per la ripresa degli sgomberi dei campi rom in alcune citta' italiane, senza - sottolineano - un preciso progetto abitativo futuro, annullando la prospettiva indicate dall'Europa e recepite in un recente Piano integrazione nazionale''.
''La ripresa degli sgomberi - affermano i vescovi - porta anche con se' l'annullamento dei progetti scolastici per i minori presenti nei campi, mettendo a rischio un diritto/dovere fondamentale''.
Dal mondo cattolico si esprime uguale preoccupazione per l'avvicinarsi della data del 31 dicembre 2012 che vedra' la fine del permesso umanitario per quanti sono sbarcati nel corso del 2011 in Italia, in seguito alla cosiddetta ''primavera araba'.
''La mancanza ancora di un piano europeo che permetta la libera circolazione delle persone con un titolo di protezione umanitaria, cosi' da raggiungere i familiari e le proprie comunita' e sfruttare piu' possibilita' lavorative, come anche di progetti di cooperazione internazionale e per il rimpatrio assistito rendono precaria la situazione di oltre 20.000 persone, - si sottolinea - che rischiano cosi' di cadere nell'irregolarita' e essere vittime di un nuovo sfruttamento. I disagi e le numerose difficolta' burocratiche, economiche e sociali vissute dai centri e dalle comunita' di accoglienza, molti dei quali nelle nostre diocesi, parrocchie e negli istituti religiosi, in questo tempo di accoglienza di quasi due anni, chiedono di far uscire da forme occasionali ed emergenziali la tutela delle persone che hanno un titolo di protezione umanitaria. La prospettiva realistica di nuove ondate di arrivi di persone che vivono il dramma della fuga per ragioni politiche e religiose - si conclude - chiedono di non lasciare ancora nella precarieta' strutture e percorsi di accoglienza e protezione umanitaria''.

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