Newsletter periodica d’informazione
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Rassegna ad uso
esclusivamente interno e gratuito, riservata agli
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Anno XI n.13 dell’11 aprile 2013 |
Consultate www.uil.it/immigrazione
Aggiornamento quotidiano sui temi di interesse di cittadini e lavoratori stranieri
Firmato il rinnovo del CC.NN.LL. per il lavoro domestico Dopo due anni di trattativa complicata, il 9 aprile 2013, le OO.SS. Filcams, Fisascat, UILTuCS e Federcolf hanno siglato l'intesa per il rinnovo del CCNL con le Associazioni Datoriali Fidaldo e Domina. L'intesa sancisce l'accordo sul complesso normativo dell'intero contratto e in particolare sui due temi cardine: l'aumento salariale e il delicato tema della tutela della lavoratrice madre. Gli aumenti previsti dall'intesa, a decorrere dal 1 gennaio 2014, vanno nella direzione di un recupero del potere d'acquisto come calcolato attraverso gli indici ISTAT. Sulla tutela delle lavoratrici madri si è ottenuto il raddoppio dei termini di preavviso in caso di licenziamento. Uiltucs, Filcams e Fisascat: “Pur in una stagione difficile, il rinnovo di un contratto è un segnale importante di responsabilità delle Parti Sociali, che ci auguriamo venga colto dal futuro Governo con l'obiettivo di valorizzare sempre più questa professione, così nascosta ma sempre più importante in una stagione di progressiva riduzione del welfare pubblico”.
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SOMMARIO
Appuntamenti pag. 2
CCNL lavoro domestico: siglata l’intesa pag. 2
Coordinamento Nazionale Immigrati pag. 4
Cittadinanza: si riparte da zero pag.12
Al via la direttiva UE sulla carta blu pag.12
2,4 milioni di lavoratori stranieri pag. 13
478 mila imprese etniche pag.14
Demografia: stiamo perdendo la sfida? pag.15
Penalisti: il CIE di Milano è peggio del carcere pag.16
Cgil, Cisl, Uil Mantova : “meno stagionali nei campi” pag.17 Notizie in breve: pag.17
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A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento Politiche Migratorie
Tel. 064753292- 4744753- Fax: 064744751
Dipartimento Politiche
Migratorie: appuntamenti
Roma,11 aprile 2013, ore 15.30, salone conferenze SIOI, piazza S. Marco 51
Dibattito: primavera araba, dopo 2 anni quali prospettive?
(Giuseppe Casucci)
Roma, 17 aprile 2013, ore 11, Largo Chigi 19
Incontro con Ministro Andrea Riccardi per verifica sulla procedura di regolarizzazione dei lavoratori stranieri (D.L. n.109 del 16 luglio 2012).
(Guglielmo Loy, Giuseppe Casucci)
Milano,19 aprile 2013, ore 10 sede UIL
Incontro UIL- Ital sul tema della riforma della legge sulla cittadinanza
(Giuseppe Casucci, Alberto Sera)
Roma, 08 maggio 2013, sede CIR, ore 14.30
Assemblea dei soci CIR
(Giuseppe Casucci)
CCNL Lavoro Domestico: siglata l'intesa per il rinnovo
Comunicato del 10 aprile 2013
Dopo quasi due
anni di trattativa, durante la quale si sono vissute fasi alterne e talvolta
complicate, il 9 aprile 2013, le Organizzazioni Sindacali Filcams, Fisascat,
UILTuCS e Federcolf hanno siglato l'intesa per il rinnovo del CCNL con le
Associazioni Datoriali Fidaldo e Domina. L'intesa sancisce l'accordo sul
complesso normativo che compone l'intero contratto e in particolare sui due
temi cardine discussi a lungo durante gli ultimi incontri di trattativa:
l'aumento salariale e il delicato tema della tutela della lavoratrice madre.
Gli aumenti previsti dall'intesa, a decorrere dal 1 gennaio 2014, vanno nella
direzione di un recupero del potere d'acquisto come calcolato attraverso gli
indici ISTAT: calcolati sulla paga mensile del livello BS convivente ammontano
a 19 Euro complessivi, erogati in tre tranche (gennaio 2014, 2015 e2016). Il
Ccnl del lavoro domestico prevede infatti un meccanismo di adeguamento annuale
delle retribuzioni minime che garantisce almeno il recupero dell' 80%
dell'inflazione, l'obiettivo era dunque quello di recuperare il 20% drenato di
anno in anno. Sulla tutela delle lavoratrici madri, le organizzazioni
sindacali, pur auspicando in tempi brevi un recepimento per via legislativa dei
contenuti della Convenzione Internazionale ILO n.189 sul lavoro domestico
dignitoso, colgono la disponibilità delle controparti a un prolungamento dei
tempi di preavviso per le lavoratrici madri, che pur a condizioni specifiche,
determina un miglioramento delle tutele. Le parti si sono impegnate a redigere
l'ipotesi definitiva del ccnl entro il 31 maggio, per poterla poi sottoporre
alle consultazioni nei territori nel mese di giugno, e giungere alla firma
definitiva a fine giugno 2013. Pur in una stagione difficile, il rinnovo di un
CCNL che coinvolge oltre 2 milioni di lavoratrici e lavoratori è un segnale
importante di responsabilità delle Parti Sociali, che ci auguriamo venga colto
dal futuro Governo con l'obiettivo di valorizzare sempre più questa
professione, così nascosta ma sempre più importante in una stagione di
progressiva riduzione del welfare pubblico.
Leggi il testo del verbale di accordo
Abbiamo chiesto un commento ad Ivana Veronese, Segr. Nazionale Uiltucs, che ha commentato: “è stata una trattativa durissima, con controparti addirittura intenzionate a peggiorare le condizioni già raggiunte nell’altro rinnovo contrattuale”.
A che ti riferisci?
Veronese: “Esiste una Commissione al Ministero del Lavoro che si riunisce ogni anno per adeguare le retribuzioni minime annuali, recuperando l’80% dell’inflazione. Le controparti volevano abolire questa commissione. Alla fine comunque abbiamo ottenuto il recupero salariale del 20% mancante, salvaguardando le retribuzioni dall’erosione inflattiva”.
Sul lavoro domestico l’Italia è l’unico Paese in Europa che ha ratificato la Convenzione ILO 189, sul tema delle lavoratrici – madri si poteva fare di più per eliminare le differenze con le lavoratrici degli altri settori?
Veronese: “Su questo aspetto ci siamo scontrati in tutti gli incontri che abbiamo avuto con Domina e Fidaldo. Gli abbiamo anche fatto notare che se il problema non verrà risolto contrattualmente (ad esempio il divieto di licenziamento fino all’età di un anno del bambino, limite che esiste in tutti i settori), sarà poi la legge sulla maternità ad obbligare le parti sociali ad adeguarci. A era in pratica un dialogo tra sordi”.
Che avete portato a casa?
Veronese: “l’accordo interviene sul tempo di preavviso in caso di licenziamento, preavviso che viene raddoppiato nel caso in cui <il datore di lavoro intimi il licenziamento prima del trentunesimo giorno successivo al termine del congedo di maternità>. Significa, ad esempio, che in questi casi le neomamme con almeno cinque anni di esperienza e occupate per almeno venticinque ore settimanali avranno diritto a un preavviso di due mesi, o a un’indennità pari alla retribuzione di quel periodo. C’è poi maggiore attenzione per le persone non autosufficienti”.
Quando entrerà in vigore il contratto?
Veronese: “nel verbale firmato ieri le parti si sono impegnate a redigere l'ipotesi del testo definitivo entro il 31 maggio, per poterla poi sottoporre alle consultazioni nei territori nel mese di giugno, e giungere alla firma definitiva a fine giugno 2013”.
Il commento di Uiltucs, Filcams e Fisascat al raggiungimento dell’accordo è stato: “Pur in una stagione difficile - affermano le organizzazioni sindacali - il rinnovo di un contratto nazionale che coinvolge oltre 2 milioni di lavoratrici e lavoratori è un segnale importante di responsabilità delle Parti Sociali, che ci auguriamo venga colto dal futuro Governo con l'obiettivo di valorizzare sempre più questa professione, così nascosta ma sempre più importante in una stagione di progressiva riduzione del welfare pubblico”.
Raggiunto l’accordo tra sindacati e rappresentanti dei datori. Prevede anche aumenti salariali e il raddoppio dei termini di preavviso se si licenzia una lavoratrice dopo il congedo di maternità. La firma definitiva a fine giugno
Di Elvio Pasca, http://www.stranieriinitalia.it/
Roma – 10 aprile 2013 - Alla fine l’intesa è arrivata. Sindacati e associazioni dei datori hanno messo il punto sul rinnovo del contratto collettivo del lavoro domestico, che tra colf, badanti, babysitter e altre figure riguarda oltre due milioni di lavoratrici e lavoratori, il più delle volte immigrati. Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs Uil e Federcolf hanno siglato ieri a Roma con Fidaldo e Domina un verbale d’accordo (ecco il testo integrale) che comprende anche gli ultimi due punti rimasti finora in sospeso, diventati cruciali dopo quasi due anni di trattativa: aumento dei minimi retributivi tutela della maternità. L’aumento sarà diviso in tre rate, che scatteranno all’inizio del 2014, del 2015 e del 2016, e varierà in base al livello di inquadramento del lavoratore (qui la guida su Colfebadantionline.it). Ad esempio, per i lavoratori conviventi che assistono bambini o anziani autosufficienti e svolgono anche mansioni connesse al vitto e alla pulizia della casa (livello B super) è previsto un aumento complessivo di 19 euro ( 7 + 6 + 6). “Gli aumenti previsti dall'intesa – spiega una nota congiunta dei sindacati - vanno nella direzione di un recupero del potere d'acquisto come calcolato attraverso gli indici ISTAT. Il Contratto nazionale del lavoro domestico prevede infatti un meccanismo di adeguamento annuale delle retribuzioni minime che garantisce almeno il recupero dell’ 80% dell'inflazione : l'obiettivo era dunque quello di recuperare il 20% drenato di anno in anno”. Per quanto riguarda la tutela della maternità, l’accordo interviene sul tempo di preavviso in caso di licenziamento. Viene raddoppiato nel caso in cui “il datore di lavoro intimi il licenziamento prima del trentunesimo giorno successivo al termine del congedo di maternità”. Significa, ad esempio, che in questi casi le neomamme con almeno cinque anni di esperienza e occupate per almeno venticinque ore settimanali avranno diritto a un preavviso di due mesi, o a un’indennità pari alla retribuzione di quel periodo. Tra le proposte messe sul tavolo dai sindacati c’era anche il divieto di licenziamento per un intero anno dopo il parto (tutela che copre tutte le altre lavoratrici in Italia), ma questo è il massimo che i datori hanno concesso. Il recepimento legislativo della Convenzione Internazionale ILO n.189 sul lavoro domestico dignitoso, che l’Italia ha già ratificato e che equipara il lavoro domestico a tutti gli altri lavori, potrebbe comunque, in un futuro prossimo, portare delle novità su questo fronte. La Federazione italiana dei datori di lavoro domestico ha fatto sapere che nel nuovo CCNL verrà anche data “massima attenzione all’assistenza prestata alle persone non autosufficienti. Si è pensato alla creazione di correttivi all’attuale sistema che permettano un’assistenza completa (7 giorni su 7), dando la facoltà al datore di lavoro di assumere – a costi contenuti – un ulteriore lavoratore con prestazioni limitate alla copertura dei giorni di riposo del lavoratore titolare dell’assistenza”. Ora che l’accordo c’è, il nuovo contratto va messo nero su bianco. Nel verbale firmato ieri le parti si sono impegnate a redigere l'ipotesi del testo definitivo entro il 31 maggio, per poterla poi sottoporre alle consultazioni nei territori nel mese di giugno, e giungere alla firma definitiva a fine giugno 2013. “Pur in una stagione difficile - affermano le organizzazioni sindacali - il rinnovo di un contratto nazionale che coinvolge oltre 2 milioni di lavoratrici e lavoratori è un segnale importante di responsabilità delle Parti Sociali, che ci auguriamo venga colto dal futuro Governo con l'obiettivo di valorizzare sempre più questa professione, così nascosta ma sempre più importante in una stagione di progressiva riduzione del welfare pubblico”.
Coordinamento Nazionale Immigrati
L’impegno del sindacato per combattere le discriminazioni razziali nei luoghi di lavoro
Il dibattito nell’Organizzazione sulle molteplici forme di discriminazione ancora esistenti nell’accesso e nell’ambito dei luoghi di lavoro, nei confronti di cittadini provenienti da Paesi terzi
A cura del Dipartimento Politiche Migratorie della UIL
Roma, 9 aprile 2013 - Si è tenuta lo scorso 28 marzo, presso la
sede della Uil nazionale a Roma, la riunione del Coordinamento nazionale UIL
immigrati. In questa occasione l’organismo di consultazione dei nostri quadri
e dirigenti impegnati in materia di immigrazione, ha promosso un dibattito sul
tema delle molteplici forme di discriminazione ancora esistenti nel mondo del
lavoro. Infatti, sono molti e frequenti i casi in cui Tribunali della
Repubblica sentenziano contro la natura discriminatoria di comportamenti tenuti
da amministrazioni pubbliche nella esclusione da concorsi e bandi di cittadini
privi della cittadinanza italiana. Sono anche molti i casi di discriminazioni
nell’accesso al lavoro privato o nei percorsi di carriera o, semplicemente nel
godimento di diritti, come ad esempio quelli previdenziali. Secondo molte
sentenze, sbarramenti nell’accesso al lavoro o discriminazioni nell’ambito
dello stesso, violano normative interne ed internazionali.
Esperti, giudici ed associazioni, nonché lo stesso Ufficio Antidiscriminazioni Razziali – UNAR, spesso ricordano che ogni forma di discriminazione nell’accesso al lavoro – nel pubblico come nel privato - ogni forma di sbarramento professionale interno alle aziende, motivato da ragioni etniche, linguistiche, religiose o di provenienza geografica, sono comportamenti illeciti che violano molteplici norme, tra cui:
1. internazionali: la Convenzione OIL n. 143 del 1975;
2. europee: le direttive 2003/109/CE sui soggiornanti di lungo periodo e la 2000/43/CE, sulle discriminazioni;
3. nazionali : T.U. sull’Immigrazione, Dlgs 30/2007; Dlgs 215/2003; Dlgs 251/2007 e Dlgs 3/2007).
Ci sono stati molti altri casi e molte sentenze che hanno messo in discussione le discriminazioni nell'accesso al lavoro pubblico a cittadini, anche di Paesi Terzi, specialmente lungo soggiornanti, per i quali la legge italiana, internazionale e direttive comunitarie impongono parità di condizioni nell'accesso al lavoro, di qualunque genere e in qualunque forma ed equo trattamento nelle condizioni di lavoro, di carriera e di retribuzione. Si sono registrati molti casi di discriminazione all’interno di imprese anche private, contro cui il sindacato spesso si scontra, che riguardano le assunzioni, l’assegnazione delle mansioni e qualifiche, le condizioni di lavoro, i trattamenti retributivi, i percorsi di carriera, i licenziamenti e finanche il trattamento previdenziale. Va ricordato che l’art. 44 del Testo Unico sull’immigrazione assegna anche alle “rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, la possibilità di presentare ricorsi davanti al giudice”, specie quando il lavoratore non sia in condizione di difendersi da solo per paura di ritorsioni. Il Dipartimento Politiche Migratorie della UIL si è proposto dunque l’apertura di un franco dibattito, anche all’interno della nostra Organizzazione, sulla scelta o meno di chiedere allo Stato l’abolizione degli sbarramenti discriminatori che ancora impediscono ai lavoratori stranieri lungo soggiornanti di accedere a certi settori del mercato del lavoro (pubblico soprattutto). Pensiamo anche che un diritto inalienabile della persona (indipendentemente dal proprio status) sia quello di godere delle stesse opportunità degli altri nei percorsi di carriera professionale o nella fruizione di diritti, come ad esempio quello previdenziale. Crediamo anche che la crisi economica diventi una concausa (e a volta l’alibi) per trattamenti differenziati nello svolgimento dello stesso lavoro, basati unicamente sul luogo di nascita o sul colore della pelle. Comportamenti esecrabili che producono dumping lavorativo e sociale e negano diritti sanciti dalle leggi e dai contratti di lavoro. Siamo convinti che, se il sindacato non affronta questi temi e non cerca soluzioni attraverso la contrattazione ed il confronto, corre il rischio di vedersi imporre decisioni dall'alto: dai tribunali italiani o dal Parlamento che dovrà comunque dar seguito ai contenuti delle direttive, pena il pagamento di pesanti sanzioni europee. Per questo motivo, il confronto realizzato in occasione del Coordinamento UIL Immigrati del 28 marzo scorso, è stato dedicato alle: <discriminazioni nell’accesso o nell’ambito del lavoro, di cittadini di Paesi terzi>. Il dibattito, tenuto nella sala Bruno Buozzi presso la UIL nazionale a Roma, si è svolto sotto forma di workshop tra esperti, anche a causa della complessità dell’argomento e della ponderazione con cui questo tema deve necessariamente essere trattato. Presenti all’incontro Marco Buemi di UNAR, Francesca Biondi dal Monte del Ministero del Lavoro, Daniela Consoli di ASGI, Antonio Fiamingo della Consulta legale di Ital, Piero Bombardieri di Ital e l’esperto Sergio Briguglio. Le conclusioni sono state affidate a Guglielmo Loy, Segr. Confederale UIL, mentre l’introduzione e la moderazione sono state curate da Giuseppe Casucci, Coord. Nazionale del Dipartimento Politiche Migratorie UIL. Nella sua introduzione, Casucci si è limitato a ricordare come, malgrado le molte norme di legge che combattono le discriminazioni, queste siano ancora presenti nelle pieghe delle stesse leggi, esemplificate dall’impossibilità per gli stranieri di partecipare a concorsi, essere assunti di ruolo nel pubblico impiego, a volte partecipare alle graduatorie per l’assegnazioni di abitazioni popolari, o godere – alla pari degli italiani – dei diritti previdenziali. “Sappiamo bene, ha detto l’oratore, che l'accesso al lavoro pubblico di lavoratori stranieri è un tema spinoso anche dentro la UIL (specie in periodo di gravissima crisi economica ed occupazionale)”. Il non parlarne, però, non è una soluzione e rimuovere il problema non eviterà misure che molti tribunali ormai considerano un’urgenza. “E' questo un argomento che va considerato anche dal lato culturale, che suscita posizioni differenziate all'interno della nostra - come altre - organizzazioni e che crediamo possa essere un utile oggetto di dibattito ed approfondimento”. “Il nostro timore – ha concluso Casucci - è che se il sindacato non prende in mano questi aspetti e non cerca soluzioni attraverso la contrattazione ed il confronto tra le parti, rischierà di vedersi imporre decisioni dall'alto: dai tribunali italiani o dal Parlamento che dovrà comunque dar seguito ai contenuti delle direttive, pena il pagamento di pesanti sanzioni europee”. Da qui la scelta di un confronto franco anche con chi non condivide la necessità di una completa trasparenza nelle norme e nelle prassi relative l’accesso al lavoro, come il riconoscimento dei titoli ed i percorsi di carriera. L’oratore ha indicato al dibattito una serie di ambiti in cui vengono registrati casi di discriminazione:
1. la discriminazione dei cittadini di paesi terzi nel mondo del lavoro del settore pubblico o che è diventato privato, essendo stato in passato pubblico;
2. i casi del reclutamento nel settore pubblico di competenza dei ministeri, delle regioni e degli enti locali;
3. i casi del reclutamento nel settore del trasporto pubblico locale;
4. la discriminazione nell’erogazione di prestazioni di sicurezza sociale (o welfare);
5. la discriminazione negli altri settori del lavoro di tipo privato, sia nei livelli retribuitivi, condizioni di lavoro ed accesso alla carriera;
6. Discriminazioni a livello di trattamenti previdenziali;
7. i diversi livelli di discriminazioni possibili, a seconda della condizione giuridica della persona (cittadino di paese terzo, cittadino di paese terzo in possesso dello status di soggiornante di lungo periodo, cittadino comunitario, cittadino italiano).
E’ seguita la comunicazione dell’avv. Francesca Biondi Del Monte, a nome del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, avente ad oggetto la legislazione italiana nell’accesso al lavoro pubblico. Dopo aver ricostruito il quadro costituzionale di riferimento in materia di lavoro e accesso agli uffici pubblici (si veda in particolare l’art. 51 Cost.), la relazione si è concentrata sull’analisi della legislazione nazionale sul pubblico impiego (art. 2 del d.P.R. 3/1957, art. 70 comma 13 del D. Lgs. 165/2001, l’art. 2 del Dpr, 487/1994), che limita l’accesso al lavoro nel pubblico impiego ai soli possessori della cittadinanza italiana, sebbene l’art. 2, comma 3, d.lgs. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione) garantisca (testuale) “a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”. Un trattamento differenziato che risulta non coerente con quanto previsto dalla Convenzione ILO n. 143 sui lavoratori migranti, ratificata dall’Italia nel 1981, che afferma la parità di trattamento dei lavoratori migranti rispetto ai lavoratori nazionali e prevede che gli Stati aderenti alla Convenzione possano respingere l’accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni, qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato. L’oratrice ha poi fatto riferimento agli articoli 43 e 44 del Testo unico sull’immigrazione che proibiscono ogni forma di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e norma l’azione civile sempre possibile contro le forme comprovate di discriminazione (azione da farsi anche attraverso il sindacato). Sono state poi analizzate le eccezioni previste dalla legislazione nazionale riguardo alla richiesta della cittadinanza italiana per l’accesso agli impieghi pubblici. Al riguardo è stato ricordato che i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano, però, esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale (dall’art. 24 del D.Lgs. n. 80 del 1998). L’oratrice ha poi elencato tipologie di funzioni delle amministrazioni pubbliche per il cui esercizio si richiede obbligatoriamente il requisito della cittadinanza italiana. Anche i cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: l’esercizio di un’attività lavorativa subordinata o autonoma, purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di retribuzione (si veda al riguardo l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE). Sempre per quanto riguarda il lavoro nel pubblico impiego, l’accesso è comunque sempre consentito al titolare dello status di rifugiato e ai suoi familiari. Biondi è poi passata a parlare delle molte sentenze che hanno contraddetto le norme che vietano l’accesso al pubblico impiego di chi non ha la cittadinanza italiana, ricordando che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza 139/2011, sembra aver avallato l’esistenza di un margine interpretativo dei giudici nazionali per offrire alla legislazione in materia di pubblico impiego una lettura conforme alla Costituzione italiana. In conclusione, per il Ministero del lavoro, in materia di accesso al pubblico impiego rimangono:
1. molte eccezioni che non confermano la regola della cittadinanza italiana per l’accesso agli impieghi pubblici nella sua interpretazione più restrittiva;
2. difficoltà interpretative nel coordinare le previsioni del testo unico in materia di immigrazione con la legislazione in materia di pubblico impiego;
3. dubbi sulla conformità tra legislazione interna e disposizioni internazionali, a cui lo Stato italiano deve necessariamente conformarsi ai sensi dell’art. 117 della Costituzione.
L’avv. Daniela Consoli di Asgi è intervenuta descrivendo le molteplici forme di discriminazione istituzionali che si realizzano in ambito lavorativo. “A titolo esemplificativo - ha detto l’oratore - si può denunciare l’accordo del 2009 in materia di pirateria sulle navi da carico nella parte in cui prevede un differente trattamento economico e diversi massimali assicurativi in sfavore dei cittadini extracomunitari rispetto ai cittadini italiani e comunitari che transitano in aree soggette a rischio pirateria, nonché il contratto collettivo nazionale del lavoro terziario del 2009 che dispone il prolungamento di dodici mesi del periodo di apprendistato solo per i cittadini extracomunitari al fine di consentire il miglior apprendimento della lingua italiana”. Tuttavia, tra le forme di discriminazione sul lavoro, la più conosciuta riguarda l’esclusione dei cittadini extracomunitari dalla possibilità di accedere al pubblico impiego. Ciò non perché sia la forma di discriminazione più diffusa, ma semplicemente perché a tale forma di impiego si accede per concorso “pubblico” e, quindi, le discriminazioni sono facilmente individuabili. “Invero – sottolineato Consoli - il diritto dei cittadini non comunitari a lavorare presso la pubblica amministrazione è stato più volte riconosciuto dalla giurisprudenza di merito che, chiamata a pronunciarsi in procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 44 del Testo Unico Immigrazione (azione civile contro la discriminazione), ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione dei cittadini non comunitari dai concorsi pubblici indetti dalla P.A. Nelle numerose pronunce la giurisprudenza, infatti, ha attribuito valore decisivo all’art. 2, comma 3, del testo unico immigrazione, che, in attuazione della Convenzione OIL 143/75, stabilisce il principio della “parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti” tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti per quanto riguarda l’accesso al lavoro, ritenendo che il requisito della cittadinanza italiana di cui al D.P.R. n. 487/94 sia ormai stato superato dalle previsioni contenute nella Convenzione OIL n. 143/75, ratificata in Italia con L. 158/81 e, pertanto, vincolante nel nostro ordinamento ex art. 117 della Costituzione”. Secondo tale orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito, secondo l’oratore, un’interpretazione costituzionalmente orientata consente di limitare l’accesso agli extracomunitari nei soli casi imposti da ragioni di “interesse nazionale” e dunque per quei “posti e funzioni” per i quali lo stesso interesse nazionale preclude l’accesso anche ai comunitari e che sono individuati dal D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174. “Tale interpretazione – ha continuato il legale di ASGI - è stata implicitamente confermata dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 139/2011 emessa a seguito della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Rimini in merito all’art. 38 comma 1 del d.lgs. n. 165/01 per contrasto con gli articoli 4 e 51 della Costituzione, nella parte in cui, contrariamente a quanto previsto per i cittadini appartenenti agli Stati membri dell’Unione Europea, “non consente di estendere l’accesso ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche anche ai cittadini extracomunitari”. In particolare, il Tribunale di Rimini ha adito la Corte sulla legittimità costituzionale dell’art 38 comma 1 del D.lgs 165/01, laddove consente l’accesso al pubblico impiego ai cittadini comunitari, riportando la tesi restrittiva sostenuta dall’amministrazione in giudizio, senza assumerne la paternità, e la Corte, di rimando, ha affermato che la norma “in sé non preclude l’accesso ai posti pubblici da parte di cittadini extracomunitari” e che la questione, “nei termini in cui è stata formulata… presenta un insuperabile profilo di inammissibilità, derivante dalla mancata sperimentazione da parte del remittente di una (pur doverosa) interpretazione della norma impugnata che la ponga al riparo dai prospettati dubbi di legittimità costituzionale”. Così Daniela Consoli: “L’art. 38 del d.lgs. 165/2001, quindi, laddove afferma che “I cittadini degli Stati membri dell'Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso te amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale”, non limita l’accesso al pubblico impiego ai soli cittadini italiani e comunitari. Vero è, infatti, che nel nostro ordinamento la “parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti” per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani è garantita dall’art. 2 del d.lgs. 286/98, il quale richiama espressamente la Convenzione OIL n. 143 del 24 giugno 1975”. “Il riferimento ai soli comunitari, d’altronde, trova la sua ragione storica nell'esigenza, da parte dell’Italia, di adempiere all’obbligo comunitario di garantire la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 54 TFUE e, pertanto, attribuire ulteriori significati alla norma in questione, in particolare quello di escludere i cittadini extracomunitari, va contro gli ordinari canoni di interpretazione”. La valenza della norma, nel senso auspicato nell’ordinanza della Corte richiamata, è data anche dal riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione - n. 24170 del 2006 - con la quale è stato affermato che i cittadini extracomunitari residenti in Italia non hanno diritto ad essere assunti dalla pubblica amministrazione. Ebbene, rispetto a detta affermazione, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la pronuncia deve considerarsi “allo stato isolata” e non invocabile come “diritto vivente” e, pertanto, ha sostenuto come il riferimento assunto dall’amministrazione non sia invalicabile da una differente (ed auspicabile sembra di comprendere) interpretazione consona alla costituzione. La pronuncia della Corte, a giudizio conclusivo di ASGI, “legittima l’interpretazione a sostegno del diritto alla parità di trattamento in materia di accesso al pubblico impiego, prova ne sia del resto il fatto che la giurisprudenza di merito, seguendo detto orientamento, afferma che l’art. 38 del d.lgs. n. 165/2001 non precluda l’accesso ai posti pubblici da parte dei cittadini extracomunitari (Trib. Roma, ord. n.150651 del 20.12.2012, Tribunale di Reggio Emilia, settore lavoro, decreto 19.12.2012 (R.G. n. 355/2012), Tribunale di Milano, sez. lavoro, ord. dd. 19.11.2012 (RG 5301/12), Corte di Appello di Firenze, sez. lavoro, ordinanza 03.05.2012, Tribunale di Trieste, giudice del lavoro, decreto 17.03.2012, Tribunale di Firenze, sentenza dd. 27.01.2012 proc. n. 5365/2011, Tribunale di Milano, sez. lavoro, sentenza n. 6287 dd. 20.12.2011, Tribunale di Trieste, sez. lavoro, ordinanza dd. 01.07.2011 (R.G. 408/11), Tribunale di Genova, ordinanza n. 1329/11 dd. 19 giugno 2011)”.
Marco
Buemi ha fatto un quadro delle discriminazioni in Italia e
dell’attività di UNAR: “le discriminazioni razziali in Italia sono un problema
crescente visto anche l’aumento degli stranieri residenti nel Paese, sia in
possesso di permesso di soggiorno che
irregolari”. L’Ufficio Nazionale Anti Discriminazioni Razziali è in grado di
tracciare per il 2012 un quadro di grande interesse rispetto a chi ha il
coraggio di denunciare le discriminazioni. Il numero del contact center di UNAR
(800901010) ha raccolto migliaia di testimonianze, delineando un profilo chiaro
della vittima: si tratta in buona parte persone con un titolo di studio, oltre
il 70% di chi denuncia ha un diploma di scuola superiore se non un titolo di
studio più elevato come
laurea universitaria o master. Si può facilmente vedere dunque come l’atto
della denuncia della discriminazione subita vada di pari passo con la
consapevolezza dei propri diritti, legata anche ad un’istruzione più elevata. Il posto di lavoro dove maggiormente si subiscono
discriminazioni è quello meno qualificato: sono
operai il 26% di chi denuncia, impiegati il 23%. Il dato si inverte per i
testimoni della discriminazione che sono invece quasi sempre italiani con un
titolo di studio. Gli uomini subiscono discriminazioni di tipo diretto mentre
per le donne in un caso su quattro alla semplice discriminazione si aggiunge
anche la molestia fisica che odiosamente sfrutta la condizione
di bisogno delle vittime. In qualche caso però le discriminazioni avvengono fuori dai
luoghi lavorativi e riguardano la fornitura dei servizi dove nel 20% dei casi
gli immigrati sono indebitamente sfavoriti. Uno straniero su quattro dichiara
anche di aver ricevuto trattamento di sfavore all’atto di acquistare o
affittare una casa.
La nazionalità dei più discriminati
segue l’entità delle comunità straniere: un denunciante su
quattro è dell’Europa dell’est, il 21% è di nativi dell’Africa settentrionale.
In uno studio realizzato da UNAR che ha preso in considerazione 1022 casi pertinenti di discriminazione, la parte maggiore 364) è risultata avvenire nei luoghi di lavoro, seguita dalla vita pubblica (156) e Mass Media (154), erogazione di servici da enti pubblici (118), e poi episodi avvenuti in casa (51) ed a scuola (49). Per quanto riguarda l’ambito del lavoro, su 364 casi di discriminazione, la maggioranza assoluta (275) ha a che vedere con l’accesso all’impiego e solo marginalmente le condizioni lavorative (11), atteggiamento dei colleghi (9) e condizioni di licenziamento (6). Le segnalazioni della discriminazione al numero verde di UNAR sono avvenute in 196 casi dalla vittima e 149 casi da testimoni, 14 casi da associazione o ente e in 5 casi dallo stesso UNAR. La discriminazione è stata per il 28,6% di tipo “etnico – razziale”, di cui solo in piccola parte di tipo indiretto.
Sul tema dei trattamenti previdenziali, e delle possibili discriminazioni verso gli stranieri, è intervenuto Piero Bombardieri, responsabile immigrazione per l’Ital Nazionale, che ha ricordato come in Italia vi siano “circa 2milioni e 750 mila lavoratori attivi che forniscono un gettito previdenziale stimato pari a 7 miliardi e mezzo di euro”. Come contropartita l’Inps (dati 2011) ha erogato circa 27 mila pensioni per vecchiaia invalidità e superstiti (0,18% sul totale) 316 mila assegni familiari (10,8%), 33 mila pensioni assistenziali(0,93%), 32 mila prestazioni per maternità(8%)”. Il principio generale è l’equiparazione tra il lavoratore straniero soggiornante e quello italiano nel godimento dei diritti previdenziali. “Per i lavoratori non più soggiornanti, ha spiegato l’oratore, nel tempo sono state previste norme speciali. Nel 1995 con la legge di riordino del sistema previdenziale(335/95) venne introdotto l’istituto del rimborso dei contributi previdenziali per i lavoratori extracomunitari che rimpatriavano a titolo definitivo. Ma nel 2002, con l’entrata in vigore della legge 189/02, l’istituto del rimborso dei contributi viene abrogato”.
Sistema vigente. Attualmente, ai lavoratori stranieri rimpatriati spetta la liquidazione di una prestazione pensionistica anche in mancanza del requisito minimo richiesto di 5 anni di contributi versati, previsto dal nostro ordinamento. I requisiti richiesti sono il compimento di 66 anni, per uomini e donne, ed aver abbandonato definitivamente il territorio italiano.
L’INPS, con la Circolare n.45 del 2003, ha fornito la propria interpretazione operativa che possiamo così sintetizzare: “La deroga al versamento minimo di 5 anni si applica solo per coloro che hanno versato il primo contributo previdenziale dal 1/1/1996 (regime contributivo). In caso di decesso anteriore al compimento dei 65 anni (ora 66) non spetta la pensione ai superstiti “poiché la posizione contributiva deve ritenersi efficace solo al raggiungimento della predetta età.” Per l’Ital “L’interpretazione della norma fornita dall’INPS non può essere accolta in quanto, in presenza di diritti previdenziali perfezionati, introdurrebbe un principio di ‘ territorialità ‘ per la loro liquidazione. Inoltre rappresenta lo stravolgimento del concetto consolidato “di conservazione dei diritti previdenziali e di sicurezza sociale” a cui fa espresso riferimento lo stesso testo della Bossi – Fini”.
I lavoratori provenienti da uno dei paesi con cui l’Italia ha sottoscritto una convenzione bilaterale in materia di sicurezza sociale possono sommare, per raggiungere il diritto alla pensione, i periodi di lavoro e i contributi previdenziali versati in Italia con quelli maturati nel paese di provenienza. Al raggiungimento del diritto alla prestazione, ciascuno degli Stati contraenti verserà al lavoratore la quota di pensione spettante in base ai contributi versati (cd. pro-rata). Ma: I Paesi con cui ha sottoscritto una Convenzione Internazionale sono in larga parte Paesi di Emigrazione Italiana: Argentina, Australia, Bosnia, Brasile, Canada, Capoverde, Croazia, Jersey e Isole del Canale, Macedonia, Principato di Monaco, Repubblica di San Marino, Serbia - Montenegro, Slovenia, Stati Uniti, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela. Ancora: dal 1° giugno 2003 è entrato in vigore il Regolamento comunitario 859/03, che prevede l’estensione e l’applicazione del Regolamento 1408/71 in materia di sicurezza sociale, ai cittadini di paesi terzi. Il requisito essenziale richiesto al cittadino di un paese terzo è quello di aver soggiornato e lavorato regolarmente in almeno due stati membri. Si applicano i principi generali di totalizzazione ed esportabilità delle prestazioni pensionistiche; nonché tutte le prestazioni garantite a tutela previste dalle norme comunitarie quali: Malattia, maternità, infortuni e malattie professionali, invalidità, prestazioni per i superstiti, prestazioni per la disoccupazione involontaria, prestazioni familiari. Ma: assolvere il requisito richiesto di aver soggiornato in almeno due Stati dell’Unione, stante la legislazione vigente, appare un ostacolo insormontabile. Ricordiamo che secondo l’interpretazione del Ministero dell’Interno Italiano, i titolari di permesso CE rilasciato da altro Paese membro UE possono far ingresso per lavoro solo su numero contigentato previsto nel Decreto Flussi d’Ingresso.
Nel sistema di Welfare italiano è elemento complementare fondamentale il ramo delle prestazioni assistenziali in materia di: assegno sociale; prestazioni di invalidità civile(pensione e indennità); prestazioni per soggetti con handicap.
Per i migranti:
La Legislazione italiana sostanzialmente ha legato la concessione delle provvidenze economiche in materia di assistenza sociale al possesso del permesso CE lungo soggiornanti (articolo 80, comma 19, Legge 388/2000). Pertanto solo formalmente è stata recepita la Direttiva Europea 109/2003 (Dlg 3 del 2007). Ma la nostra legislazione ha fissato per il rilascio del permesso CE soggiornanti di lungo periodo il possesso di alcuni requisiti che possono essere fonte di discriminazione diretta o indiretta per l’accesso alle prestazioni di assistenza sociale.
Inoltre successivi provvedimenti legislativi sono stati considerati “inapplicabili” in quanto discriminatori.
Il Caso dell’Assegno Sociale:
n L’assegno sociale è la prestazione assistenziale erogata in favore dei cittadini ultra sessantacinquenni sprovvisti di mezzi per il loro sostentamento.
n La legge 133/08 ha introdotto un termine ‘qualificato’ del requisito della residenza nel territorio nazionale,richiedendo almeno 10 anni continuativi di soggiorno legale.
Gli elementi discriminatori della legge 133/08.
n Il termine utilizzato dalla norma di “soggiorno legale” indirizzato esclusivamente verso cittadini non italiani, in quanto per definizione legale un cittadino italiano “risiede” o meno nel territorio italiano
n Inapplicabilità della norma per i cittadini appartenenti all’Unione Europea, in quanto in contrasto con il Regolamento 1408/71 che non detta limiti temporali di residenza per l’ottenimento delle prestazioni assistenziali
Le prestazioni di invalidità civile
La nostra legislazione prevede per il rilascio del Permesso Ce lungo soggiornanti, oltre al requisito di almeno 5 anni di regolare soggiorno, il possesso di un reddito minimo e la disponibilità di un alloggio con determinati requisiti di abitabilità
La Corte Costituzionale Italiana si è pronunciata più volte sancendo l’incostituzionalità delle norme.
Le sentenze della Corte Costituzionale
La recente Sentenza 40/2013 in materia d’indennità di accompagnamento e pensione d’inabilità.
Le Sentenze n.306/2008 (in materia di indennità di accompagnamento), n.11/2009(in materia di inabilità civile), n.187/2010 (in materia di invalidità civile)
La Corte ha ritenuto manifestamente irragionevole subordinare l'attribuzione di una prestazione assistenziale, al possesso di un titolo di soggiorno che richiede per il suo rilascio, tra l'altro, la titolarità di un reddito, ivi compresa la disponibilità alloggiativa.
Nelle Sentenze viene ribadito quanto sancito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che in materia di provvidenze destinate al sostentamento di un uomo, qualsiasi distinzione tra cittadini e stranieri soggiornanti, è da ritenersi in contrasto con il principio di non discriminazione, articolo 14 della Convenzione Europea.
Il Permesso CE lungo soggiornanti e la condizione abitativa. Un elemento di discriminazione indiretta?
In Italia su circa 4 milioni di cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti, circa l’80% soggiorna da almeno 5 anni ma solo il 40% possiede il permesso CE lungo soggiornanti. La condizione abitativa è, tra i requisiti richiesti, l’ostacolo maggiore che frena la richiesta di rilascio. Una discriminazione e una proposta. Il riscatto dei contributi previdenziali. Nel nostro Ordinamento è previsto che i lavoratori dipendenti possono richiedere il riscatto del lavoro prestato in Paesi non convenzionati. Tale facoltà è concessa solo per chi è in possesso della cittadinanza italiana. Superare questa fonte di discriminazione utilizzando lo strumento del riscatto oneroso dei contributi per ammortizzare gli effetti della riforma previdenziale.
Successivamente, nel suo intervento, l’esperto Sergio
Briguglio si è chiesto se la legislazione esistente in materia di
discriminazioni sia sufficiente a combatterle con efficacia. Per l’oratore “la
normativa antidiscriminatoria non pregiudica le differenze di trattamento,
adottate in base alla legge, fondate sulla condizione giuridica degli stranieri.
Rimane dunque legittimo il quesito se “le differenze di trattamento nel mercato
del lavoro derivino da discriminazione o dalla stessa legge. Tra gli esempi
l’oratore ha citato il gap retributivo salariale tra stranieri ed italiani (oltre
il 25%), maggiore nell’area delle piccole imprese dove la sindacalizzazione dei
lavoratori è oggettivamente più bassa. Un gap che cresce con il titolo di
studio, con l’età, il che porta uno sbilanciamento degli stranieri verso il
lavoro a bassa qualificazione (e retribuzione). Briguglio ha ricordato come i
lavoratori stranieri in Italia godano di maggiori tassi di partecipazione al
mercato e sovra istruzione. Nel confronto con gli italiani, la disoccupazione è
per loro di minor durata. Tutto ciò per l’oratore è dovuto a “un salario di
riserva basso e indipendente dal titolo di studio”, nonché “una minor forza
contrattuale sul posto di lavoro e minor carriera. Tra i motivi: l’assenza
protezione familiare (in ingresso) e l’esistenza di oneri supplementari ai
fini del soggiorno (contratto e reddito”.
A questo punto Briguglio si è chiesto se, per le seconde
generazioni, ci si possa aspettare un’evoluzione positiva. Per loro (15 –
24 anni) il gap retributivo con i coetanei italiani appare minore e più alto
risulta il tasso di attività lavorativa, a fronte di un minor tasso di
disoccupazione. Purtroppo lo sbilanciamento verso la bassa qualificazione
(malgrado il titolo di studio conseguito in Italia) appare mediamente alto,
come alto permane il tasso di sovra istruzione. In sintesi, per Briguglio, la
G2 sembra investire poco in capitale umano e sfruttare poco quello accumulato.
Inoltre la lettura sembra confermare i dati forniti dal MIUR secondo il quale
c’è una propensione degli studenti stranieri all’area di studio tecnico
professionale, aspirazioni modeste rispetto il titolo da conseguire. Inoltre il
tasso di abbandono per gli stranieri risulta molto più alto di quello dei loro
coetanei italiani. Tutto questo accompagnato da tassi di ritardo scolastico più
elevati e tassi di promozione più bassi. Tra i motivi l’oratore indica: insufficiente
sostegno scolastico da parte della famiglia (e della scuola); dopo i 18 anni
nessuna protezione rispetto al soggiorno (contratto e reddito, ovvero studi incorso
e sostentamento a carico dei genitori). Come conseguenza il gap
con i lavoratori italiani sembra destinato a riproporsi in termine di spreco di
capitale umano (attuale o potenziale); cattiva allocazione delle risorse;
riduzione della mobilità sociale (divisione in
ceti sociali su base etnica). Questa la terapia suggerita dall’oratore: “alleggerire i carichi strutturali che gravano in modo specifico sul lavoratore straniero; in particolare § rimuovere oneri relativi al soggiorno (restituzione della forza contrattuale); garantire l'accesso effettivo alle misure assistenziali (welfare in luogo della protezione familiare); stimolare i giovani a investire in capitale umano e favorire la mobilità sociale”. Per quanto riguarda i suggerimenti da dare al legislatore, citiamo il primo suggerito, e cioè: vanno rimossi gli oneri relativi al soggiorno legale (costi rinnovo permesso di soggiorno), in quanto vanificano la parità tutelata dall’ art. 12 Convenzione OIL 143/1975”.
L’avvocato Antonio Fiamingo della consulta legale Ital, ha detto: “In Italia, l’ambito del lavoro costituisce al momento attuale l’unico parametro di legittimità del percorso di cittadinanza previsto dalle politiche pubbliche per gli immigrati. Tuttavia, nell’ambito lavorativo, le discriminazioni <dirette ed indirette> sono così sistematiche, diffuse e acute, da rischiare di mettere a rischio questo fragile percorso di cittadinanza”. Fiamingo ha portato alcune testimonianze del lavoro svolto dalla Consulta legale di Ital, nel tutelare e difendere in sede giudiziaria le vittime di eclatanti discriminazioni nel luogo di lavoro. “Come evidenziano molte ricerche, ha detto l’oratore, le discriminazioni in ragione della provenienza, dell’origine nazionale o dell’appartenenza religiosa sono tutt’altro che superate”. “Nel mondo del lavoro, esse si intrecciano sovente con altre variabili, quella di genere innanzitutto, e si sommano, aggravandosi, con quelle spesso anche più pesanti vissute in contesti extra lavorativi. Quello della discriminazione dunque, lungi dall’essere un fenomeno marginale, e dall’attenuarsi a seguito delle evoluzioni legislative e delle indicazioni europee in tal senso, può innescare gravi processi di esclusione ed emarginazione rispetto alla società e al mercato del lavoro”.
Nel campo delle discriminazioni ‘istituzionali’, sono sempre più rari i casi di ‘discriminazioni dirette’, mentre prevalgono le ‘discriminazioni indirette’, fondate cioè su un criterio formale apparentemente neutro, applicabile a tutti, ma che in realtà, sul piano pratico, viene ad incidere sfavorevolmente su un gruppo sociale, producendo nei fatti e nei risultati una discriminazione (si pensi ad esempio al criterio dell’anzianità di residenza ai fini dell’accesso a prestazioni di welfare, che finisce per escludere in maniera proporzionalmente maggiore i migranti). Nell’ambito delle discriminazioni ‘fra privati’, sempre più rare sono le situazioni ove l’agente della discriminazione espressamente ammette e dichiara la
finalità discriminatoria, ma più spesso cela o ‘dissimula’ la discriminazione attuata, avvalendosi di
pretesti o giustificazioni neutre ovvero il fattore
discriminatorio agisce anche sul piano dell’inconscio nell’attore, il quale non
ne è apparentemente consapevole. Un secondo motivo di difficoltà risiede nella
difficoltà della vittima di discriminazioni di dimostrare la discriminazione
subita poiché, soprattutto nei ‘rapporti tra privati’, le informazioni
sull’agire di un fattore discriminatorio sono nell’esclusivo possesso
dell’attore della discriminazione. Per tale ragione, anche in Paesi ove il
diritto antidiscriminatorio e la sua pratica sono consolidati, come la Svezia,
la proporzione delle cause giudiziarie antidiscriminatorie nei rapporti tra
privati che va a buon fine è tutto sommato molto ridotta, nonostante il
principio del bilanciamento dell’onere della prova. Il principio del
bilanciamento dell’onere della prova nei procedimenti anti-discriminazione,
sancito dalle direttive europee, ha proprio il compito di aiutare la vittima di
discriminazione ad accedere a rimedi giudiziari effettivi, sancendo un percorso
a due livelli: nel primo passaggio, l’asserita vittima di discriminazione dovrà
fornire alcune evidenze che fondino, almeno a livello presuntivo e dunque con
un sufficiente livello di probabilità, che uno svantaggio è stato derivato da
una condotta o comportamento messo in atto in ragione di uno dei fattori
discriminatori vietati; soddisfatto questo passaggio, sarà onere della parte
convenuta dimostrare che la condotta o comportamento che ha determinato
all’attore uno svantaggio non è attribuibile ad un fattore discriminatorio
vietato, ma da ragioni obiettive e giustificate. Tuttavia, ai fini di ottenere
l’azionamento di tale meccanismo di bilanciamento dell’onere probatorio non è
sufficiente indicare che si appartiene ad una delle categorie ‘protette’ e che
si ha subito un trattamento svantaggioso, ma occorre fornire alcune evidenze,
aventi una valenza almeno a livello presuntivo, che dimostrino un nesso di
causalità tra lo status e la disparità di trattamento .
Nelle sue conclusioni, Guglielmo Loy ha ricordato come la UIL, non solo “non è indifferente al tema dell’inclusione lavorativa e sociale”, ma abbia dedicato da tempo molte delle sue energie “alla lotta ad ogni forma di discriminazione, sul lavoro come nella società”. Nel suo intervento, il segretario confederale Uil ha fatto un quadro della presenza in Italia dei nuovi cittadini: quasi 5 milioni di residenti regolari, 2,4 milioni di lavoratori stranieri (pari al 10% degli occupati), di cui quasi 1,6 milioni provenienti da Paesi Terzi. “Anche loro sono stati colpiti duramente dalla crisi – ha detto l’oratore – se è vero che oggi oltre 318 mila lavoratori non nati in Italia sono disoccupati. Eppure, malgrado le difficoltà, questi cittadini ancora <tengono duro> e continuano a scommettere sul futuro del nostro Paese”. L’oratore non si è nascosto che, anche nella UIL, il tema delle discriminazioni, ed in particolare dei limiti nell’accesso al pubblico impiego, “sia un problema delicato e di non facile soluzione, vista la contraddittorietà delle stesse norme in materia, come emerso da questo stesso dibattito”. E’ un argomento però che non si può continuare ad ignorare, vista la situazione di fatto della partecipazione degli stranieri al lavoro nel pubblico impiego: “non possiamo ignorare – ha detto Loy – le migliaia di medici e paramedici impegnati nelle corsie a curare i nostri ammalati, magari con un contratto precario – realizzato da una cooperativa, che a sua volta ha stipulato un accordo in convenzione con l’ospedale. Questa forma distorta di gestione della manodopera produce dumping sociale tra gli operatori (italiani e non), e probabilmente impedisce un vero monitoraggio della qualità delle prestazioni offerte”. Non possiamo dire che va bene, ha detto Loy, che gli stranieri lavorino in aziende esterne, pur offrendo servizi al settore pubblico, ma che non va più bene se il singolo lavoratore extra UE chiede legittimamente di partecipare ad un concorso pubblico. “Questa logica non impedisce la competizione sleale, e nello stesso tempo ignora ipocritamente le situazioni di sfruttamento di questi lavoratori”. Loy ha segnalato come anche dentro il sindacato vi siano punti di vista differenti su questa materia: “una ragione di più per confrontarci insieme, ha commentato l’oratore, con il fine della ricerca di soluzioni ragionevoli, contrattualmente concordate, prima che siano le leggi ed i tribunali ad imporcele”. Il dirigente UIL ha ribadito la necessità di ripulire la nostra normativa di quelle contraddizioni e “discriminazioni indirette”, che ancora impediscono una parità di trattamento sostanziale tra tutti i lavoratori. “Anche perché – ha concluso – quando è la magistratura a prendere il posto della politica e dell’azione sindacale, non è mai un bene”.
Cittadinanza
di VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Si riparte.
A poche settimane dall'inizio della nuova legislatura (che minaccia però di
avere il fiato corto) tornano ad affastellarsi nei cassetti di Camera e Senato
le proposte di riforma della vecchia
legge sulla cittadinanza. Il conto
per ora si ferma a quota 18 (comprendendo tutti i testi legislativi presentati
in questi giorni in materia d'immigrazione).
Un passo indietro. La speranza è che le cose vadano diversamente da
come sono andate finora: basta ricordare che nessuno dei 48 disegni di legge
presentati in Parlamento nella scorsa legislatura ha raccolto i consensi
necessari ad andare avanti. E così ancora oggi ci teniamo una legge del 1992,
che resta ancorata allo ius sanguinis, fondato sul principio secondo il quali si
acquista la stessa cittadinanza dei genitori e non prevede lo ius soli, che nasce da un principio diverso, quello
secondo il quale si è cittadini del Paese dove si nasce.
I 18 progetti nuovi in campo. Il gruppo più "produttivo" è il Pd, con otto
proposte. Segue la Lega Nord con tre proposte. Una ciascuna per Sel e Scelta
Civica e due di iniziativa popolare. Tre proposte di legge sono infine state
annunciate dal Gruppo Misto. A dare una qualche speranza a chi si batte,
affinché si riconosca la nazionalità italiana a chi nasce nel nostro Paese sono le parole della
neo-presidente della Camera. Laura Boldrini considera infatti una priorità la
cittadinanza ai figli degli immigrati: "E' una cosa sulla quale dovremo
lavorare prima possibile. Gli amici dei nostri figli non possono non essere
italiani. C'è un doppio canale che non è giusto e dovremo adoperarci per
cambiare ciò quanto prima". Anche perché - ha aggiunto la presidente della
Camera - "i migranti sono l'elemento umano della globalizzazione, sono
l'avanguardia del futuro. Non è il poveraccio che viene da noi, ma qualcuno che
mette a disposizione la sua esperienza nel Paese dove si trova a risiedere.
Sono l'espressione più contemporanea del nostro tempo".
Direttive UE
Nel caso in cui il nulla osta verrà negato lo straniero potrebbe essere espulso
(www.immigrazione.biz ) Roma, 2 aprile
2013 - Entra in vigore oggi il Decreto Legislativo 28 giugno 2012 , n.108 sulle
condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di Paesi terzi che intendano svolgerelavori
altamente qualificati. Questa
nuova forma di ingresso per periodi superiori a tre mesi, permetterà ai
lavoratori stranieri qualificati di chiedere il rilascio della nuova Carta Blu
UE. La novità sta nel fatto che
potranno entrare in Italia in qualsiasi momento, al di fuori delle quote e quindi
senza attendere l'emanazione di alcun decreto flussi. Ogni lavoratore straniero dovrà
dimostrare di avere una qualifica
professionale rilasciata
a seguito di un percorso di istruzione superiore di almeno tre anni e comunque
dovrà essere riconosciuta in Italia.
Non tutti però possono richiedere il rilascio della Carta Blu UE:
sono infatti esclusi gli stranieri che soggiornano per protezione temporanea o
per motivi umanitari, i beneficiari della protezione internazionale, i
richiedenti per ricerca scientifica (art. 27 testo unico), i familiari
stranieri di cittadini comunitari che possono circolare nell'Unione ai sensi
della direttiva 2004/38/CE, i lavoratori stagionali e gli espulsi. Potranno invece fare richiesta di
ingresso come lavoratori qualificati chi ha già ottenuto una Carta Blu UE in un
altro Paese dell'Unione, agli stranieri in possesso dei requisiti che vivono in
Italia o sono residenti in un
altro Paese dell'Unione. La proposta di contratto di lavoro
da parte del datore dovrà essere di almeno un anno e l'importo dello stipendio annuale lordo non potrà
essere inferiore al triplo del livello minimo previsto per l'esenzione dalla
partecipazione alla spesa sanitaria e quindi di24.789 euro.
Vedi la lista dei lavori altamente qualificati
Lavoro etnico
In quattro anni un milione di occupati italiani in meno, quasi mezzo milione di stranieri in più. Ma la crisi economica colpisce anche gli immigrati: aumentano disoccupati e inattivi
Roma,
27 marzo 2013. Nel terzo trimestre 2012 i lavoratori stranieri occupati
in Italia erano 2,357 milioni di cui 783 mila di nazionalità U.E. e 1,574
milioni di origine extracomunitaria, pari complessivamente al 10,2%
degli occupati. Rispetto al terzo trimestre del 2011 l’occupazione straniera è
aumentata di 81 mila unità (+3,5%) con una crescita di 37 mila lavoratori di
provenienza U.E. (+4,9%) e 44 mila extra UE (+2,8%).
È quanto si legge nel Rapporto semestrale sull’andamento del mercato del lavoro degli immigrati in Italia presentato stamattina a Roma dalla Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del Ministero del Lavoro. Basato sulle rilevazioni dell’Istat e del sistema delle Comunicazioni Obbligatorie gestito dal Ministero, precede la pubblicazione del Rapporto annuale sul mercato del lavoro degli immigrati in Italia, prevista nel mese di luglio. Nel lungo ciclo di crisi economica, tra il 3° trimestre 2008 e il 3° trimestre 2012, gli occupati stranieri, in Italia, sono aumentati di 480 mila unità, a fronte di un calo dell’occupazione italiana, nello stesso periodo di circa un 1,04 milioni di unità. L’incremento dell’occupazione straniera nel quadriennio, è stato significativo sia per la componente U.E. (+ 222 mila occupati con una crescita del 39,7%), sia per quella extracomunitaria (+259 mila occupati ed un aumento del 19,7%) anche se nell’ultimo anno la crescita si è notevolmente ridotta. Sempre nel terzo trimestre 2012 la distribuzione per settore vede una significativa presenza degli occupati stranieri sul totale, nelle costruzioni (18%), in agricoltura (13%), nei servizi (10,4%), nell’industria in senso stretto (9,2%) e nel commercio (6,2%), anche se va sottolineato, che nei servizi sociali ed alle persone si concentra il 28% di tutti gli occupati stranieri UE ed extra UE, in larga maggioranza donne. La distribuzione territoriale registra una presenza dominante nel Nord Italia dove si concentra il 59,8% degli occupati stranieri, seguito dal Centro con il 26,6%, mentre nel Sud e nelle Isole si concentra poco più del 13% degli occupati stranieri. La distribuzione tra maschi (46% ) e femmine (54%), si è nel tempo riequilibrata, per effetto del traino della domanda di lavoro nel settore domestico. Dall’analisi delle Comunicazioni Obbligatorie si assiste ad una stabilizzazione della domanda di lavoratori stranieri. Nel terzo trimestre del 2012 gli avviamenti sono stati il 20,6% del totale, in linea con i valori rilevati nello stesso trimestre dell’anno precedente e maggiori di un punto percentuale rispetto a quelli registrati nello stesso trimestre del 2010. In agricoltura i rapporti di lavoro riservati ai lavoratori stranieri sono stati il 14% del totale contro il 9% dell’industria ed il 7,3% nei servizi. In merito alle tipologie dei rapporti di lavoro aumentano i contratti a tempo determinato per i lavoratori stranieri. Per quanto riguarda i lavoratori di provenienza UE la percentuale di attivazioni con contratto a tempo determinato passa, infatti, dal 74% del terzo trimestre 2011 al 76,7% del terzo trimestre 2012 mentre per i lavoratori di provenienza extra UE la percentuale sale dal 55,4% al 58%. Le imprese continuano a privilegiare posizioni temporanee a discapito di quelle permanenti. Nel settore industriale e delle costruzioni la contrazione della domanda di lavoro riservata ai lavoratori stranieri è stata molto rilevante. In controtendenza il comparto dei servizi alla persona continua a manifestare una domanda nettamente in crescita. Sempre nel confronto tra il terzo trimestre 2012 e lo stesso periodo dell’anno precedente, infatti, gli occupati nei servizi domestici ed alle famiglie crescono di 75 mila unita considerando i lavoratori stranieri mentre diminuiscono di 12 mila unità considerando gli occupati di nazionalità italiana. La crisi ha colpito duro anche i lavoratori stranieri. Aumenta, in misura molto significativa, il numero di stranieri in cerca di lavoro, soprattutto nell’ultimo anno. I disoccupati stranieri, infatti, passano dai 264 mila nel terzo trimestre 2011 a 318 mila nel terzo trimestre 2012, con una crescita della componente Ue pari a +5 mila lavoratori, ma soprattutto di quella extra UE, con un aumento di circa 48 mila disoccupati. Negli ultimi di quattro anni, aumenta significativamente il numero degli stranieri inattivi (tra i 15e i 65 anni), che passano dai 765 mila del terzo trimestre 2008 a 1,25 milioni del terzo trimestre del 2012, con una crescita prevalentemente concentrata tra gli stranieri extra UE (+370 mila lavoratori). Le politiche del lavoro di breve-medio periodo, sottolinea il ministero del Lavoro, dovranno, quindi, essere orientate prioritariamente a riassorbire lo stock di disoccupazione straniera che si è accumulato in questi quattro anni .
>> Scarica la nota semestrale sull’andamento del mercato del lavoro degli immigrati
Giurisprudenza
(http://www.immigrazione.biz)
La direttiva europea n. 115/2008 ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'automatismo del diniego - La regolarizzazione voluta dal Governo nel 2009 puntava a far emergere rapporti lavorativi "in
nero" e le domande potevano
essere presentate dai datori di lavoro i quali erano immuni per qualsiasi
violazione delle norme realative all'ingresso e al soggiorno nel territorio
nazionale. Il decreto non
prevedeva quote, ma non tutti i
cittadini extracomunitari potevano accedere alla regolarizzazione. Fra questi
c'erano quelli colpiti da
provvedimento di espulsione per
motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Nel caso in esame, un cittadino
extracomunitario si è rivolto al Consiglio di Stato perchè il Tar per la
Lombardia di Brescia aveva respinto il suo ricorso, dopo che si era visto
presentare il diniego da parte della Prefettura prima e del Tribunale bresciano
poi in relazione alla sentenza di condanna per il reato previsto dall'art.14
comma 5-ter del Testo Unico dell'Immigrazione (violazione dell'ordine del
Questore). La sentenza
n.1331 del 5 marzo 2013 ben specifica che il reato non può più ritenersi ostativo ai
fini della procedura di emersione dal lavoro irregolare dei cittadini
extracomunitari dopo l'entrata in vigore della direttiva europea n. 115/2008. In aggiunta anche la Corte
Costituzionale ha ritenuto illeggittimo il diniego dell'istanze di regolarizzazione per uno dei reati
di cui all'art. 381 c.p.p.
Questa sentenza del Consiglio di Stato ci
insegna quindi che non può esserci l'automatismo del reato senza che venga
accertato che sia una reale
minaccia per l'ordine pubblico
o la sicurezza dello Stato.
Vedi la
sentenza n. 1331 del 5 marzo 2013 Consiglio di Stato
Demografia
Pubblicato il 20/03/2013 da © neodemos.it
Stiamo perdendo la “sfida
dell’invecchiamento”?
Cecilia Reynaud* & Sara Miccoli** & Sara Basso***
La Commissione Europea, il 12 ottobre 2006, proponeva le sue
linee guida su “Il futuro demografico
dell’Europa, trasformare una sfida in un’opportunità”, con
l’obiettivo di delineare le risposte politiche da dare alle tendenze della popolazione europea e, in particolare, alle
problematiche connesse all’invecchiamento.
Le linee guida della Commissione Europea
A tal fine, si delineavano le strategie che gli stati membri avrebbero dovuto perseguire per affrontare le numerose sfide connesse all’invecchiamento. Si affermava, tra l’altro, la necessità di adottare delle politiche tese a prevenire il declino demografico e a contrastare il calo della fecondità. La Commissione sottolineava la necessità di politiche finalizzate a ridurre le difficoltà incontrate dai giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e politiche di parità tra i generi in grado di facilitare la possibilità di avere figli. In linea con quanto stabilito nella strategia di Lisbona, si auspicavano interventi per favorire un aumento del tasso di occupazione. Si sottolineava, inoltre, la necessità di aumentare il tasso di attività femminile e di elaborare delle linee guida per attuare la cosiddetta flexecurity favorendo quindi, accanto alla flessibilità dei mercati del lavoro, l’elaborazione di provvedimenti relativi alla protezione sociale (1). L’invecchiamento e la crisi in Italia
La popolazione italiana, tra quelle europee, presenta, da diversi anni, il livello più elevato di invecchiamento, facendo registrare una percentuale di persone con più di 65 anni del 19,6%; poco distante è la Germania con il 19,3%, mentre la media 27 paesi appartenenti oggi alla UE è pari al 16,8% (2).
Nonostante
ciò, la politica italiana da allora non sembra aver voluto affrontare il
problema della sostenibilità dell’invecchiamento della popolazione, né puntare alla
ripresa della fecondità,
così come “suggerito” dalla Commissione. E la crisi economica ha accentuato le
difficoltà, contribuendo all’ulteriore caduta della disoccupazione giovanile e
femminile, e anche allo stallo della fecondità.
Dal 2008 ad oggi si sono stati persi più di 800.000 posti di lavoro e le
assunzioni (prevalentemente di giovani) hanno subìto un calo del 20%, in
particolare quelle a tempo indeterminato (3). Dal 2007 a oggi, il reddito lordo
a disposizione delle famiglie italiane ha perso il 4,7% del suo potere
d’acquisto acuendo le situazioni di povertà,
che colpiscono soprattutto le donne: nel 2010, ad esempio, il 57,5% delle
famiglie più povere ha un capofamiglia donna (4). Le istituzioni continuano ad
essere assenti in questi difficili anni, e sono le famiglie stesse, quando
possono, a dover sopperire a tale mancanza di aiuti e sostegno. Negli anni della
crisi sono infatti aumentate le famiglie che hanno effettuato delle donazioni a
parenti ed amici in difficoltà (5). Le misure per assicurare una maggiore
protezione ai periodi di disoccupazione e precarietà sono essenziali per i
giovani, ma anche per molte donne, vittime, ancor più degli uomini, di un mondo
del lavoro fortemente precario, e più fragili nel momento in cui decidono di
diventare madri, anche a causa dell’insufficienza delle misure di conciliazione
tra lavoro e famiglia.
Purtroppo, nel nostro paese, tali questioni non sono mai state al centro del
dibattito politico e continuano a non esserlo oggi. Le spese per questo tipo di
politiche sono sempre state viste più come un costo che come un investimento,
e, stante la crisi di bilancio, sono state tagliate (6).
Gli effetti - Ma gli effetti si sentono. Ad esempio, il TFT nel 2011 è stato pari a 1,39, invece di 1,42, come stimato nelle previsioni Istat calcolate solo un anno fa. Rispetto alle previsioni, pur non particolarmente ottimistiche, si sono registrate oltre 10.400 nascite in meno che, fermi restando gli altri parametri demografici, dovrebbero aver provocato già nello stesso 2011 un aumento dell’indice di vecchiaia (100*P65+/P0-14), pari allo 0,18% (tab. 1). Inoltre andando a confrontare il saldo migratorio previsto per il 2012, pari a circa 325.000, con quello che risulta dai dati provvisori, circa 241.000, si nota come questa differenza abbia prodotto una mancata immissione di popolazione presumibilmente più concentrata nelle classi di età centrali e lavorative. Da questi semplici calcoli, solo relativi al 2011, possiamo affermare che, proprio a causa della crisi economica, la popolazione italiana al 1.1.2012 risulta più invecchiata rispetto alle ultime previsioni, con una percentuale di anziani pari a 20,64 contro il 20,61 e con un indice di vecchiaia pari a 147,0 invece di 146,8. Se questi valori sembrano adesso poco divergenti, è certo che, con il passare del tempo, si accentueranno poiché le circa 10.400 nascite in meno produrranno in prospettiva circa 5000 donne in meno in età feconda e, analogamente, le donne immigrate che non sono arrivate, non metteranno al mondo i figli che si erano previsti. Reiterando il ragionamento e prevedendo che il TFT, in fase di stallo dal 2009, difficilmente ritornerà ai livelli ipotizzati precedentemente, questa situazione complicata tenderà ad accentuarsi con gli anni. Se anche, come si spera, la crisi economica dovesse passare in tempi “relativamente brevi”, le conseguenze che questa crisi avrà portato sul piano demografico non saranno così facilmente recuperabili neanche nel lungo periodo: l’inerzia dei comportamenti demografici lascerà una lunga traccia sulla struttura per età degli anni a venire.
Note
(1) Commission of the European Communities (2006) Commission communication “The demographic future of Europe – from challenge to opportunity”
(2) Dati Eurostat, 2013
(3) Confindustria, 2012
(4) Montella M., Mostacci F., Roberti P. (2012) “I costi della crisi pagati dai più deboli” in www.lavoce.info
(5) Scrutinio V. (2012) “Un welfare all’italiana: il sostegno delle famiglie durante la crisi” inwww.neodemos.it
(6) Mencarini L. (2011) “Famiglia e fecondità in Italia, tutto cambia perché nulla cambi?” inwww.neodemos.it
* Università Roma Tre, **Istat
* Università Roma Tre
** Università Roma Tre
*** Istat – Istituto nazionale di statistica. Le
opinioni qui espresse sono quelle degli autori e non coincidono necessariamente
con quelle dell’Istituto di appartenenza
Milano, 3 apr. (LaPresse) - Questa mattina una delegazione di avvocati dell’Unione delle Camere Penali composta dai membri della Giunta Vinicio Nardo e Manuela Deorsola, dai membri dell'Osservatorio carcere Antonella Calcaterra, Michele Passione e Mirko Mazzali, dal presidente della Camera Penale di Milano Salvatore Scuto e dai membri del direttivo Giovanni Bellingardi e Francesco Sbisa, si è recata in visita presso il Centro di Identificazione ed Espulsione di Milano. Qui i penalisti hanno potuto registrare la presenza di 52 uomini e 5 transessuali, per una capienza massima di 84 posti consentita dai settori attualmente aperti. Oltre agli operatori della Croce Rossa - 31 a rotazione - nella struttura prestano servizio due mediatori, un medico dalle ore 12 alle 21 e un infermiere 24 ore su 24.
"I Cie sono dei luoghi di detenzione a tutti gli effetti e privi delle garanzie che sono proprie delle carceri", affermano i penalisti. Infatti, "sebbene manchino le condizioni di sovraffollamento tipiche degli istituti di pena e le stanze rimangano aperte, i reparti dove vivono le persone trattenute sono chiusi a chiave e gli spazi all'aperto loro riservati sono angusti. Inoltre - spiegano - rispetto al carcere, dove i detenuti sanno di cosa sono accusati e quanto dovranno rimanere ristretti, all'interno del Cie gli ospiti non sanno quando usciranno; e li preoccupa constatare che dentro con loro ci sono persone trattenute anche da un anno, in balia dell'incertezza ma anche dell'ozio, visto nella struttura non ci sono biblioteche, né corsi di alfabetizzazione o attrezzature sportive. Ne deriva un'atmosfera di spaesamento che si traduce in molteplici, quanto generiche, domande di aiuto che il trattenuto rivolge al visitatore".
"Se si aggiunge - proseguono - che per due terzi si tratta di ex detenuti che sono passati direttamente dal carcere al Cie, vedendosi così negare non solo la libertà che avevano atteso contando i giorni, ma anche l'assistenza sanitaria di cui godevano in carcere, allora si capisce come il tasso di afflizione di questi centri sia addirittura maggiore del carcere. Nel Cie - continuano i penalisti - si rimane per lo più 'in attesa di identificazione' e, considerato che al 95 per cento gli ospiti sono stati ristretti in un carcere, quindi sono stati certamente identificati da varie amministrazioni dello Stato, appare evidente come la struttura non serva a risolvere, ma semmai costituisca essa stessa un problema. Un problema che, peraltro, detto per i duri di cuore, ha un notevole costo economico per le pubbliche finanze".
Cgil e Cisl aveva chiesto una riduzione delle quote di stranieri in arrivo per dare precedenza a chi è senza lavoro. La replica di Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del partito: «Un modo sbagliato di affrontare il problema»
MANTOVA, 8 aprile 2013 - Polemica
tra il Pd e i sindacati Cgil e Cisl di Mantova sul numero di lavoratori
stagionali. Nei giorni scorsi i sindacati avevano approvato la decisione di
ridurre di cinquemila unità le quote d’ingresso dal 2012 al 2013. Un plauso
motivato dalle mutate esigenze del mercato del lavoro e dalla presenza di molti
disoccupati nel Mantovano. Ora la replica di un deputato Pd, Khalid Chaouki,
responsabile Nuovi Italiani del partito. «In questo momento di profonda crisi
serve uno sforzo comune per incentivare il lavoro e promuovere lo sviluppo. Ma
la richiesta della Cgil e Cisl di Mantova di fermare le quote di ingresso dei
lavoratori stagionali per dare la precedenza ai lavoratori italiani, è un modo
sbagliato di affrontare il problema della crisi nel mondo del lavoro. Tra
l’altro, a contraddire quanto denunciato dalle organizzazioni sindacali sono i
dati Istat che hanno dimostrato come anche gli immigrati sono stati
notevolmente colpiti dalla crisi e come in tanti abbiano scelto di lasciare
l’Italia. Semmai il problema serio su cui insistere - prosegue Chaouki- è
quello dello sfruttamento dei lavoratori applicando e rafforzando le misure
contro i datori di lavoro che abusano delle condizioni disperate delle persone.
Bisogna prestare attenzione a non alimentare, in questo periodo di difficoltà
per tutti, una triste lotta tra lavoratori».
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