08 gennaio 2013

I clandestini della rivolta assolti per «legittima difesa»
Il giudice: le condizioni del centro un'offesa alla dignità
Corriere della sera, 08-01-2013
Luigi Ferrarella
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MILANO — Quasi una settimana sui tetti, lanciando sulla polizia calcinacci e rubinetti, grate e suppellettili: i tre cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti in Italia, che dal 9 al 15 ottobre 2012 diedero vita a una rivolta nel «Centro di identificazione ed espulsione» di Isola Capo Rizzuto dove erano amministrativamente trattenuti in attesa di allontanamento, «sono stati costretti a commettere» i reati di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale «dalla necessità di difendere i loro diritti (alla dignità umana e alla libertà personale) contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta». E «siccome la loro difesa è stata proporzionata all'offesa», vanno non condannati a 1 anno e 8 mesi di carcere, come chiedeva il pm Francesco Carluccio, ma assolti per «legittima difesa». È questa la motivazione con la quale il Tribunale di Crotone il 12 dicembre scorso ha assolto un tunisino, un algerino e un marocchino difesi dagli avvocati Natale De Meco, Eugenio Naccarato e Giuseppe Malena.
Il giudice Edoardo D'Ambrosio muove dal quadro normativo europeo e basa il suo ragionamento sul fatto che i provvedimenti di trattenimento nel Cie emessi dalla questura di Reggio Calabria fossero «privi di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell'articolo 15 della direttiva n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea», perché «omettevano del tutto l'indicazione delle ragioni specifiche in forza delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie».
Nel richiamare poi due sentenze del 2009 della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che hanno condannato Grecia e Belgio per le pessime condizioni di loro centri di trattenimento, il giudice rimarca nel caso calabrese i «materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e “bagni alla turca” luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli» (adesso c'è la mensa). E trae la convinzione che «le strutture del Centro sono al limite della decenza», usando il termine «nell'etimologia di convenienti alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie, ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza».
L'asserita illiceità del trattenimento e «le condizioni lesive della dignità umana» sono «le offese ingiuste» contro le quali gli imputati hanno dunque reagito per «legittima difesa», di cui il giudice ravvisa i tre requisiti. C'era l'«attualità del pericolo», perché il trattenimento nel Centro «restringeva la loro libertà e le condizioni ledevano la loro dignità umana». C'era l'«inevitabilità del pericolo», perché, «quando l'offensore è incarnato da un apparato dello Stato di diritto, gli imputati non possono essere considerati alla stregua di chi affronta una situazione di pericolo prevista ed accettata, dovendosi sempre attendere da uno Stato di diritto non il rischio di una violazione dei propri diritti, ma appunto il rispetto delle regole, e tanto più dei diritti fondamentali del cittadino». E per il giudice c'è stata «proporzionalità tra difesa del diritto ed offesa arrecata», perché «il confronto tra i beni giuridici in conflitto è pacificamente a favore dei beni difesi (dignità umana e libertà personale), rispetto a quelli, offesi, del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica amministrazione».



Padova, rivolta degli immigrati alla «Casa a colori». Arriva la polizia
Danneggiate finestre e suppellettili della struttura. operatori rifugiati in una stanza. «Chiediamo un lavoro»
Corriere della sera, 08-01-2013
Roberta Polese
PADOVA - Un gruppo di cento nordafricani ha distrutto una struttura di accoglienza che si trova in via del Commissario, tra la parrocchia della Beata Pellegrina e Salboro. La «Casa a colori», della cooperativa «Città solare», è stata messa a soqquadro dagli extracomunitari che hanno violentemente protestato contro i gestori della onlus, «colpevoli», a detta degli stranieri, di non procurare loro i soldi necessari ad andarsene.
La sommossa è scoppiata alle 14, mentre era in corso una riunione. Alcuni extracomunitari hanno trattenuto all'interno della struttura quattro persone, il direttore e altri tre operatori, mentre altri hanno cominciato a distruggere ogni cosa. Gli "ostaggi" sono stati fatti uscire dopo circa una mezzora, nessuno ha fatto loro del male. Giunti sul posti i poliziotti della digos e delle volanti hanno cercato di sedare gli animi e di far ragionare gli stranieri. Alle 16 circa la protesta è stata disinnescata, ma all'interno i locali sono stati distrutti. Sono ora in corso trattative per trovare un posto per dormire agli stranieri. Nel frattempo il direttore della onlus è andato a presentare formale denuncia alla polizia.

 

Gli immigrati lasciano l’Italia per la crisi economica”, inchiesta del Financial Time.
Secondo il prestigioso quotidiano economico sarebbero soprattutto gli imprenditori cinesi a tornare in patria o emigrare in Canada.
Immigrazioneoggi, 08-01-2013
“Gli immigrati abbandonano l’Italia colpita dalla recessione”. La stampa internazionale, dopo lo scandalo dei richiedenti asilo nordafricani, torna a parlare dell’immigrazione in Italia, questa volta – come titolava il Financial Times di ieri – con un’inchiesta sui cinesi che stanno lasciando Roma alla ricerca di “pascoli più verdi”, quali il Canada o la stessa Cina in pieno sviluppo economico. “Molti, molti cinesi stanno tornando a casa – ha raccontato al quotidiano britannico Sonia Fen, proprietaria di un ristorante, in Italia da 21 anni – non c’è lavoro. È una situazione terribile”. Ma non sono solo i cinesi ad abbandonare l’Italia: un attivista sindacale nigeriano attivo a Roma, Romanus Nwaereka, ha riferito infatti dei tanti connazionali in partenza per Londra e Stati Uniti. La crisi economica è sicuramente la prima causa di tale esodo, sottolinea Nwaereka, ma anche il “radicato razzismo” della società italiana spinge tanti a preferire altre mete. “Gli attacchi di matrice razzista sono in aumento – ha detto al Ft – la comunità nera è quella che ne risente di più. È un cancro nel sangue degli italiani. Mi dispiace dirlo”. Anche Fen ha dichiarato al quotidiano della City che molti italiani non si dispiaceranno per la partenza dei cinesi: “Sentiranno la nostra mancanza solo una volta che ce ne saremo andati”.



Moraglia: «Figli immigrati nati qui siano da subito cittadini italiani»
Il patriarca di Venezia alla conferenza episcopale triveneta: «Questione di convivenza civile»
Corriere della sera, 08-01-2013
VENEZIA - I bambini nati in Italia da genitori immigrati siano, da subito, cittadini italiani. È il messaggio che ha lanciato oggi dal Cavallino (Venezia), la Conferenza Episcopale Triveneta che ha riunito i vescovi di 15 diocesi in occasione del 99esimo anniversario della giornata mondiale dei migranti. Per monsignor Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia, si tratta di «una cittadinanza per promuovere l'integrazione e la partecipazione».
«È una questione di convivenza civile - ha detto - per la quale dobbiamo tenere presenti le difficoltà attuative ma abbiamo comunque creare questa nuova cultura». Sul fronte politico, per il patriarca di Venezia «bisogna creare una giusta mentalità anche perchè chi oggi può essere il primo ad avere delle resistenze, alla prova dei fatti, un domani potrebbe meglio apprezzare un processo del genere».
Specie in tempo di crisi, con la frammentazione delle famiglie di stranieri ed il rischio di un aumento della criminalità, «bisogna valorizzare la persona - ha sottolineato Moraglia - accompagnandola nel processo di integrazione». «Il riconoscimento di un diritto - ha rilevato - non deve essere una lacerazione, che avrebbe come prima vittima l'immigrato, ma un passo in avanti». Quindi per monsignor Moraglia «no a leggi che siano lettera morta o occasione di frizioni ma solo il sostegno della persona all'integrazione ed alla partecipazione».
«Bisogna lavorare perchè questo riconoscimento - ha proseguito monsignor Moraglia - non venga percepito come aver tolto qualcosa a qualcuno ma aver integrato una realtà antropologica importante sul nostro territorio». Per il Patriarca di Venezia, in questo senso, bisogna ricordare come l'Italia sia stata una realtà di grande emigrazione «proprio questo - ha rilevato - dovrebbe farci molto riflettere per renderci disponibili a chi adesso arriva». «I dati dicono che gli italiani all'estero - ha sottolineato - quasi controbilanciano gli stranieri sul nostro territorio nazionale e credo che proprio questi numeri ci obblighino a ragionare con pacatezza ed equilibrio senza farci sopraffare dai flussi imponenti di persone che arrivano nel nostro Paese». (Ansa)



Gli omicidi invisibili delle donne nigeriane
l'Unità, 07-01-2013

Flore Murard-Yovanovitch
Se le donne italiane fossero uccise con la stessa frequenza delle nigeriane in Italia nell’ultimo anno, ci sarebbero stati quattromila casi. È il calcolo dell’Associazione vittime ed ex vittime della tratta diffuso da Isoke Aikpitanyi, in un’intervista rilasciata al Redattore Sociale, che fa il punto sulla drammatica situazione delle connazionali. “Solo nel 2012 in Italia sono state assassinate dieci nigeriane – riferisce – dieci sulle 15 mila donne presenti in Italia sono un’enormità”. Eppure queste donne nere cosiddette  “clandestine” non trovano un posto nelle prime pagine dei quotidiani.
Schiavizzate, gettate sui marciapiedi, con reggiseni e tacchi a spillo. Non è libera scelta o “prostituzione” ma lavoro forzato: tratta. Una realtà sommersa di debiti, reti mafiose e trafficanti che rendono quella riduzione in schiavitù possibile oggi in Italia. Le storie agghiaccianti di quelle donne, le aveva raccolte Isoke Aikpitanyi, ex vittima della tratta nel suo bellissimo libro-inchiesta “500 storie vere. Sulla tratta delle ragazze africane in Italia.” (Ediesse).
Una lettura sconvolgente: il vissuto quotidiano è fatto di violenze e di insulti di stranieri e d’italiani perbene, veri stupratori a pagamento. Quelle ragazze contratto alla partenza un debito tra i 40 e gli 80mila euro con i trafficanti, approdano nelle nostre città, dove le aspettano le “maman”, nome ingannevole per indicare donne che sfruttano il corpo di altre donne. Confiscato loro il passaporto, le buttano per strada, dove inizia il circolo vizioso del debito. Le ramificazioni allargate del controllo delle “schiave” e l’omertà di comunità e chiese nigeriane che, strumentalizzando tradizioni e voodoo, tengono quelle ragazze soggiogate: terrorizzate all’idea di ribellarsi. Ci vuole coraggio, tanto, per sfidare il racket e osare la denuncia, al rischio di orribili spedizioni punitive: minacce, ritorsioni e terribili punizioni corporali, spesso mortali, come deterrente finale. Nella cronaca alle volte si legge di cadaveri, abbandonati in periferie e discariche, che silenziosamente raccontano l’orrore.
Spesso le nigeriane non conoscono i servizi di tutela, o non sanno accederci e a chi chiedere aiuto: “Noi vittime ed ex vittime della tratta sappiamo, per esperienza, che i centri antiviolenza non sono operativi a nostro favore e lo sono solo in parte a favore delle donne straniere” avverte Aikpitanyi. Che precisa: “Non è un’accusa o una critica. È che i centri antiviolenza sono nati per una tipologia di attività rivolte soprattutto alle donne italiane (…)”. Nei servizi antitratta, poi non c’è spazio per chi ha vissuto in passato quest’esperienza, e peggio, pochissime vittime ed ex vittime hanno avuto questa opportunità di lavorare con un stipendio. Cosa che rischia di farle uscire dalla clandestinità ma non dal racket, allorché con denunce dei trafficanti di esseri umani da mandare in galera e un percorso in case associative, ci si può liberare.
Tutte queste criticità alimentano un senso di isolamento delle vittime della tratta dal resto della società civile. Pesa, soprattutto, la difficoltà a far ascoltare la propria voce: “Invece di ascoltarci, le donne italiane preferiscono rappresentarci loro, prendendosi tutto lo spazio, cercando di capire, interpretare e rappresentare noi, che vorremmo farlo direttamente”. Le immigrate ex “schiave”, soggetti attivi, conoscono infatti meglio le soluzioni ai loro complessi problemi e possono offrire un reale sostegno alle vittime per farle uscire dai meccanismi dalla tratta. Per l’associazione di Isoke, per fermare la piaga del femminicidio “bisogna mettere in campo molte energie, sensibilità diverse e avere la lucidità per conoscere il problema sotto tutti i suoi aspetti”. Bisogna anche, d’urgenza, chiedere il rafforzamento dei centri antiviolenza e dei servizi antitratta. Intanto se fossero sensibilizzati i clienti, anello fondamentale della catena dello sfruttamento sessuale, si potrebbero subito dimezzare le vittime.




Allarme curve xenofobe slogan e striscioni decuplicati in 10 anni
La ricerca: così negli stadi dilaga l’intolleranza
la Repubblica, 08-01-2013
Paolo Berizzi
MILANO — Dare della scimmia a un giocatore di colore della squadra avversaria, o anche della propria. Umiliarlo vomitandogli addosso dagli spalti un suono onomatopeico: l’ormai famigerato «buuu». Inneggiare alla superiorità della razza bianca, alle camere a gas, all’Etna e al Vesuvio, alla pulizia etnica, alla presunta supremazia di un’area geografica del Paese. Negli stadi italiani, in tutti i campionati di calcio, e a tutte le latitudini, è diventata un’usanza vergognosa. In crescita esponenziale.
Dall’inizio degli anni ‘90 a oggi gli episodi di razzismo e discriminazione durante le partite di calcio di serie A, B e C e serie minori, sono decuplicati. Sì, dieci volte tanto. Un’impennata di inciviltà che dal 2000 al 2010 ha coinvolto 275 tifoserie, la maggior parte delle quali è in mano a gruppi ultrà di estrema destra. E che è già costata ai club calcistici un milione 268 mila euro di multe. Un impasto di deficienza e follia: molto spesso pianificata, in altri casi estemporanea ma non meno odiosa. Aumento dell’immigrazione straniera con conseguente diffusione di xenofobia e intolleranza? Sicuro, ma forse c’è anche altro. L’evoluzione del becerume razzista da stadio è descritta da una ricerca del Centro Studi sicurezza pubblica di Brescia, diretto da Maurizio Marinelli, esperto di tifo e violenza ultrà. L’indagine raccoglie, episodio dopo episodio — catalogando cori e striscioni, ammende e squalifiche — oltre vent’anni di intolleranza incubata e deflagrata allo stadio. Dal razzismo biologico al pregiudizio razziale ai simboli vietati esibiti durante la partita. «Dai dati che abbiamo raccolto emerge uno spaccato allarmante — spiega Marinelli — . Rispetto a quanto avveniva negli stadi alla fine del secolo scorso, il razzismo si è autoalimentato moltiplicandosi per dieci. È vero che è cambiata la struttura e la composizione sociale delle città e che lo stadio è una cartina di tornasole. Ma la deriva xenofoba è diventata, in Italia, una delle piaghe delle manifestazioni sportive. Più degli incidenti, che infatti sono diminuiti. Si parte da molto lontano e si arriva al caso di Busto Arsizio».
Visto oggi, il picco è impressionante. Dal 2000 a oggi negli stadi italiani, in tutte le serie del Campionato di calcio, sono avvenuti 630 episodi di razzismo. Si va dalla saliva «infetta» di Diawara, il senegalese del Torino offeso dal mister Eugenio Fascetti nel febbraio del 2000, ai cori degli ultrà interisti contro Marc Zoro nel 2005; c’è il saluto fascista di Paolo Di Canio nel derby capitolino del 6 gennaio dello stesso anno e le svastiche nella curva del Siena contro il Livorno. E via via una sequenza o poco edificante di «buuu», striscioni vergognosi e pollici versi quando il giocatore acquistato è di colore o di origini semite.
Se si va indietro nel libro bianco del razzismo pallonaro, si scopre che prima le cose andavano meno peggio. Tra il 1989 e il 2000 i cori, le scritte, gli striscioni, gli episodi dichiaratamente discriminatori sono stati “solo” 56. Pessimi, certo. Ma molti di meno del decennio a venire. Indelebili furono i graffiti «Vai nel forno» e «via gli ebrei» con cui gli ultrà neri dell’Udinese accolsero nel 1989 il neo acquisto israeliano Ronnie Rosenthal. Che infatti non fu tesserato. O l’elegante «Hitler: con gli ebrei anche i napoletani», esibito dai supporter interisti a San Siro un anno dopo. Due e otto anni dopo furono gli ultrà laziali a distinguersi: prima con le scritte antisemite contro Aaron Winter, poi, nel derby con la Roma, con «Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case». Il peggio doveva ancora venire, ed è arrivato. Nessuna tifoseria esclusa. Sono 275 le curve che negli ultimi dieci anni si sono macchiate di razzismo. Settantaquattro in seria A, 66 in B, 70 nella prima divisione della Lega Pro (l’ex C1) e 65 in seconda divisione. Tra l’89 e il 2000 erano state 45. Le tifoserie più razziste? Verona, Lazio, Ascoli, Padova, Juventus e Roma. Tutte dichiaratamente di destra. I club, dalla stagione 2000/2001, hanno già sborsato 1 milione e 268mila euro a causa del loro odio verbale. Nella metà dei casi cori e striscioni hanno preso di mira il singolo giocatore. Per il 30% la società e i tifosi avversari. E per il restante 20% le cosiddette “minoranze etniche”. Che fare quando sul campo piovono ululati e cori razzisti? Marinelli è in linea con il ministro Cancellieri: «Bisogna sospendere. Ma bisogna anche stabilire con chiarezza a chi spetta la decisione e in quali casi. La normativa oggi è confusa».

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