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Rassegna ad uso
esclusivamente interno e gratuito, riservata agli
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Anno XI n. 20 del 24 giugno 2013 |
Consultate www.uil.it/immigrazione
Aggiornamento quotidiano sui temi di interesse di cittadini e lavoratori stranieri
Oggi giornata mondiale del rifugiato “Nonostante la legge preveda
che ogni richiedente asilo che ha diritto all’accoglienza sin da quando
presenta domanda, la realtà è ben diversa: l’Italia ha dimostrato una
incapacità sostanziale di accogliere subito quanti fanno una richiesta di
asilo nel nostro paese”. Lo dice Christopher Hein, direttore del CIR in una
giornata – il 20 giugno – che l’ONU ha scelto per celebrare e
ricordare la condizione di oltre 45 milioni di persone nel mondo. I Paesi maggiormente coinvolti sono soprattutto
quelli sconvolti da conflitti, il 55% di tutti i rifugiati proviene da:
Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria e Sudan, mentre nuovi flussi, si registrano
in uscita da Mali e Congo. Tra i Paesi europei destinatari di richieste
d’asilo, l’Italia figura al sesto posto con le 17.352 domande del 2012, la
metà rispetto all’anno precedente. Intanto, Il 12 giugno scorso il Parlamento
Europeo ha approvato, dopo 5 anni, il nuovo sistema Europeo Comune di Asilo
che, si calcola, avrà impatto sulla vita di circa 400 mila richiedenti asilo
ogni anno, su circa 2 milioni di beneficiari di protezione internazionale e
sulle loro famiglie.
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Appuntamenti pag. 2
Giornata mondiale del rifugiato pag. 2
Mediterraneo pag. 4
Cittadinanza, timide aperture pag. 5
Sartori contro Kyenge pag. 6
Fieri: Immigrazione, governance da ricostruire pag. 7
Immigrazione e religioni pag.11
Crisi ed immigrazione in Spagna pag. 12
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A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento Politiche Migratorie
Tel. 064753292- 4744753- Fax: 064744751
Migratorie: appuntamenti
Roma, 25 giugno 2013, sede CNEL, V. Lubin ore 10.15
Riunione gruppo ONC - CNEL
(Giuseppe Casucci)
Roma, 26 giugno 2013, via del Velabro, ore 12.00
Incontri al CIR sul ritorno volontario assistito e della Commissione Integrazione
(Giuseppe Casucci)
Palermo, 28/29 giugno 2013, Fonderie Reali,
EGAM _ Meeting Internazionale Antirazzista sull’Immigrazione
(Giuseppe Casucci)
Roma, 03 luglio 2013, sede ILO, Via Panisperna, ore 10.00
ILO Research on the organising of domestic workers – Incontro.
(Giuseppe Casucci)
Rifugiati
Chi arriva e chiede asilo non ha nulla, ma vive per mesi per strada. Hein: “I fondi ci sono, bisogna usarli meglio”
Roma – 20 giugno 2013 - Ahmed arriva dall’Afghanistan a
Roma. Da quando chiede asilo alla questura all’inserimento in un centro di
accoglienza passano trentotto giorni, durante i quali dorme per strada e in una
tendopoli. Fahime è pakistano, chiede asilo a Gorizia, ma solo grazie alla
carità e alla buona volontà di privati e trova per undici notti un tetto
diverso prima di entrare in un centro di accoglienza. Mohamed sta vivendo per
strada a Roma da trenta giorni, da quando è arrivato il 22 maggio e ha provato
a chiedere asilo. Ahmed, Fahime e Mohamed sono solo che tre delle centinaia di
persone che in questo momento pagano sulla loro pelle un problema strutturale
del sistema d’asilo italiano: l’incapacità di dare accoglienza subito a quanti
fanno una richiesta di asilo nel nostro paese. Questo nonostante la legge
preveda che ogni richiedente asilo che arriva in Italia senza adeguati
mezzi di sostentamento ha diritto a forme materiali di accoglienza sin dal
momento in cui presenta domanda di protezione.
“La ragione è chiara, sono persone in fuga dai loro paesi di origine perché
perseguitate, perché c’è una guerra, scappano per mettere in salvo la propria
vita cercando di arrivare in un Paese sicuro senza, molto spesso, alcun tipo di
mezzo di sostentamento. Rispetto ai migranti economici non hanno elaborato un
progetto migratorio che li sostenga. Per questo quando arrivano in Italia e in
Europa hanno davvero bisogno di tutto, sia da un punto di vista legale che
materiale. E’ grave che persone che hanno diritti riconosciuti vivano mesi per
strada. Perché devono pagare loro sulla loro pelle quello che non funziona nel
sistema italiano?” si domanda Christopher Hein direttore del Consiglio Italiano
per i Rifugiati.
Posti
insufficienti e liste d’attesa
Di
regola un richiedente asilo dovrebbe essere accolto a seconda della condizione
personale nei CARA, centri governativi, o nel Sistema di Protezione per
Richiedenti Asilo e Rifugiati, sistema però numericamente insufficiente, nel
2013 erano previsti solo 3.700 posti che dovrebbero a breve essere
potenziati a 5.000. Ma ormai anche i CARA italiani sono al limite della loro capacità
recettiva e non hanno più la possibilità di inserire nuovi richiedenti asilo.
Sono molte, in diverse parti d’Italia, le persone costrette ad attendere
settimane o mesi prima di vedersi riconosciuto un diritto individuale. Qualora
non ci sia posto né nel circuito dello SPRAR né in quello dei CARA, la legge
prevede, che i richiedenti asilo ricevano un contributo economico giornaliero
dalle Prefetture. Contributo che, come CIR, non abbiamo mai visto erogare.
“Pensiamo siano molto positive le parole del Ministro Alfano che ha annunciato
un aumento fino a 8.000 posti dello SPRAR, ma speriamo che alle parole
seguano subito dei fatti concreti. E che dai centri di accoglienza si entra e
si esca con una buona continuità, senza ingolfare il sistema, per fare questo sempre
di più si dovrà puntare su percorsi di integrazione che facilitino l’uscita”
dice Christopher Hein.
Ma al momento, segnala i Cir, sono ancora diversi i tasselli che nel sistema
italiano ad oggi non funzionano. Il diritto all’accoglienza dovrebbe scattare
dal momento della presentazione della domanda d’asilo. Ma nella prassi invece
in molte città il richiedente asilo viene considerato tale solo quando viene
verbalizzata la domanda presso la Questura. Questo processo in una città come
Roma può richiedere anche un mese, a Caserta diversi mesi, stanno in questo
momento stanno dando appuntamenti per il 2014. Inoltre in alcune questure, come
quella di Roma, non viene fornita l’informazione sui diritti di accoglienza
riconosciuti ai richiedenti asilo e, conseguentemente, non viene raccolta la
loro necessità di avere un posto o un supporto economico. Senza questa
dichiarazione non parte nessuna domanda di accoglienza per il richiedente
asilo. Anche quando questa richiesta arriva alla Prefettura, in mancanza di
posti disponibili tanto nello SPRAR quanto nei CARA, i richiedenti asilo
vengono messi in una lista di attesa e rimangono, in alcune città, per
settimane e anche mesi senza alcun tipo di assistenza. Infine le Prefetture non
rilasciano nessun contributo economico a differenza di quello che prevede la
legge. “E’ evidente – sottolinea Hein - che il sistema di accoglienza
italiano è al collasso, non ha più posto per inserire richiedenti asilo e sono
molti anche i rifugiati che si trovano esclusi. Se non ci sono posti
d’accoglienza, almeno che le Prefetture riconoscano loro, come previsto dalla
legge, il contributo economico. Stiamo assistendo a una sistematica violazione
della normativa e dei diritti previsti in Italia e in Europa.”
“Garantire
l’accoglienza”
Il CIR chiede che sia garantito a tutti i richiedenti asilo che
arrivano in Italia il sicuro accesso a forme materiali di accoglienza a partire
dalla presentazione della domanda d’asilo. Che sia certo il passaggio per tutti
i richiedenti asilo dalla prima accoglienza fornita nei centri governativi, che
deve rispettare il limite temporale previsto dalla legge pari a un massimo di
35 giorni, a una seconda accoglienza erogata all’interno del sistema SPRAR. E’
evidente che lo SPRAR deve essere fortemente potenziato in termini di capacità
ricettiva. E che il diritto all’accoglienza verso l’integrazione dovrà essere
garantito per un periodo minimo di un anno dal riconoscimento della protezione,
periodo durante il quale la persona dovrebbe avere accesso a un Programma
nazionale per l’integrazione lavorativa, alloggiativa, sociale e culturale.
“Questi sono impegni che un Paese come l’Italia deve finalmente prendere e
portare a termine. Siamo in un forte ritardo. Non si tratta di investimenti
economici aggiuntivi, si tratta, semplicemente, di utilizzare in modo
differente i fondi comunitari e nazionali che sono a disposizione. Invece di
lavorare sempre sull’emergenza deve essere potenziato un sistema di accoglienza
che possa far fronte in modo ordinario all’arrivo di richiedenti asilo e
rifugiati e che li possa accompagnare verso l’integrazione attraverso
percorsi strutturati. Non possiamo ogni volta trovarci impreparati e stupirci
che arrivano in Italia persone in cerca di protezione. Lo scorso anno sono
state presentate secondo l’UNHCR 17.312 richieste d’asilo, un numero molto
contenuto se comparato con altri stati europei, ma nonostante questo il sistema
non ha funzionato. Ora con l’arrivo dell’estate e il sicuro e fisiologico
incremento di sbarchi non vogliamo sentir parlare nuovamente di una emergenza.
Se non strutturiamo un sistema in grado di rispondere a numeri di arrivi
contenuti, siamo noi che creiamo emergenze continue” conclude Hein.
19 giugno 2013- Nel 2012 il numero di rifugiati e sfollati interni ha raggiunto i livelli più alti degli ultimi 18 anni. È quanto emerge dall'ultimo rapporto annuale Global Trends - sulle tendenze a livello globale in materia di spostamenti forzati di popolazione - pubblicato oggi dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Il nuovo rapporto Global Trends può essere scaricato al seguente linkhttp://www.unhcr.org/globaltrendsjune2013/
Lo studio
prende in esame le migrazioni forzate avvenute durante il 2012 basandosi su
dati prodotti da governi, organizzazioni non governative partner e dalla stessa
Agenzia ONU. Mentre alla fine del 2011 – si legge nel rapporto – le
persone coinvolte in tali situazioni nel mondo erano 42,5 milioni, un anno dopo
erano ben 45,1 milioni. Di queste 15,4 milioni erano i rifugiati, 937mila i
richiedenti asilo e 28,8 milioni gli sfollati, persone cioè costrette ad
abbandonare le proprie abitazioni ma che sono rimaste all'interno del proprio
paese.
Le guerre restano la principale causa alla base della fuga. Il 55% di tutti i
rifugiati presi in esame dal rapporto proviene infatti da appena 5 paesi
colpiti da conflitti: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria e Sudan. Importanti
nuovi flussi si registrano anche in uscita da Mali, Repubblica Democratica del
Congo e dallo stesso Sudan verso Sud Sudan ed Etiopia.
“Sono numeri allarmanti” ha affermato l'Alto Commissario ONU per i Rifugiati
António Guterres. “Indicano non solo una sofferenza individuale su vasta scala,
ma anche le difficoltà della comunità internazionale nel prevenire i conflitti
e nel promuovere soluzioni tempestive per una loro ricomposizione”. Le tendenze che emergono dal rapporto
sono preoccupanti sotto diversi aspetti; uno di questi è la rapidità con la
quale le persone sono costrette a spostamenti forzati. Durante il 2012, 7,6
milioni di persone sono state costrette alla fuga, delle quali 1,1 milioni
hanno cercato rifugio all'estero e 6,5 milioni sono rimaste sfollate
all'interno del proprio paese. Ciò consente di affermare che ogni 4,1 secondi
una persona nel mondo diventa rifugiato o sfollato. Emerge poi come il gap tra i paesi più
ricchi e quelli più poveri si faccia più ampio quando si tratta di accogliere
rifugiati. La metà dei 10,5 milioni di rifugiati che rientrano nel mandato
dell'UNHCR (altri 4,9 milioni sono rifugiati palestinesi che ricadono invece
nella competenza dell'UNRWA, l'Agenzia ONU che si occupa specificamente di tale
popolazione) trova infatti accoglienza in paesi che hanno un reddito pro capite
annuo inferiore a 5mila dollari USA. Complessivamente i paesi in via di
sviluppo ospitano l'81% dei rifugiati di tutto il mondo, un netto aumento
rispetto al 70% di un decennio fa.
I minori – bambini e adolescenti con meno di 18 anni –
costituiscono il 46% di tutti i rifugiati. Lo scorso anno poi la cifra record
di 21.300 domande d'asilo è stata presentata da minori non accompagnati o
separati dai loro genitori, si tratta del numero più alto mai registrato
dall'UNHCR. La cifra complessiva
relativa alle persone vittime di migrazioni forzate è calcolata sommando il
numero di nuove persone in fuga alle situazioni esistenti non risolte e
sottraendo il numero di persone che hanno potuto trovare una soluzione
permanente, come ad esempio le persone che rientrano nelle proprie case o
coloro cui viene consentito di stabilirsi permanentemente fuori del proprio
paese d'origine attraverso il riconoscimento della cittadinanza o altre
soluzioni. L'UNHCR è impegnato ad aiutare coloro che sono stati costretti alla
fuga, sia fornendo loro assistenza materiale immediata e sia perseguendo
soluzioni durevoli alla loro condizione. Il 2012 d'altra parte ha segnato la
fine della condizione di rifugiato e sfollato per rispettivamente 526mila e 2,1
milioni di persone . Tra coloro per i quali sono state individuate soluzioni,
74.800 sono le persone che l'UNHCR ha identificato per i programmi di
reinsediamento in paesi terzi.
Nel 2012 – si legge ancora nel rapporto - il cambiamento rispetto
all'anno precedente nella graduatoria dei paesi che accolgono il più alto
numero di rifugiati è stato invece lieve: il Pakistan si è confermato al primo
posto con 1,6 milioni, seguito da Iran (868.200) e Germania (589.700).
L'Afghanistan si è confermato in testa alla classifica dei paesi d'origine del
maggior numero di rifugiati, un triste primato che detiene da ben 32 anni: in
media nel mondo un rifugiato su 4 è afghano e il 95% di loro si trova in
Pakistan o in Iran. La Somalia – teatro di un altro conflitto di lunga
data – è stato nel 2012 il secondo paese per numero di persone fuggite,
sebbene il ritmo del flusso sia rallentato. I rifugiati iracheni erano il terzo
gruppo nazionale (746.700), seguiti dai siriani (471.400). Per ciò che riguarda gli sfollati
interni, la cifra di 28,8 milioni alla fine del 2012 è la più alta da oltre
vent'anni a questa parte. L'UNHCR assiste 17,7 milioni di loro, poiché
l'assistenza dell'Agenzia agli sfollati non avviene in maniera automatica ma
solo su richiesta dei governi interessati. Significativi nuovi flussi di
sfollati interni sono stati registrati nella Repubblica Democratica del Congo e
Siria. In Italia nel 2012 sono
state presentante 17,352 domande d’asilo, circa la metà dell’anno precedente.
Questo calo significativo, determinato prevalentemente dalla fine della fase
più drammatica delle violenze in Nord Africa, riporta il numero di domande in
media con il dato degli ultimi dieci anni. I rifugiati in Italia alla fine del
2012 erano 64.779, questa cifra colloca l’Italia al 6° posto tra i Paesi
europei, dopo Germania (589,737), Francia (217,865), Regno Unito (149,765),
Svezia (92,872), e Olanda (74,598). Il rapporto Global Trends dell’UNHCR è il
principale rapporto statistico sullo stato delle migrazioni forzate nel mondo.
Dati aggiuntivi vengono pubblicati nel nostro Annuario Statistico e nel
rapporto L’Asilo nei Paesi Industrializzati.
Tratto da www.unhcr.it
Mediterraneo
(redazionale),
Isola di Lampedusa, 17 giugno 2013 - Sono state
48 ore di passione per moltissimi clandestini quelle registrate, tra Lampedusa,
Siracusa e Palermo. Il
centro d'accoglienza di Lampedusa e' nuovamente al collasso dopo gli sbarchi
che hanno visto approdare sull'isola oltre un migliaio di migranti nello spazio
di pochi giorni. Attualmente la struttura ospita 855 extracomunitari a fronte
di una capienza massima prevista di 300 persone. La
tragedia del mare questa volta non si è potuta evitare: sette migranti ieri
sono annegati nel Canale di Sicilia mentre tentavano di aggrapparsi a una
gabbia per l'allevamento di tonni trainata da un motopeschereccio tunisino. E’
quanto purtroppo hanno riferito i 95 migranti superstiti, che erano a bordo di
un gommone, una volta giunti a Lampedusa. Un dramma del mare che si sarebbe
consumato a 85 miglia a Sud di Malta. In
questi giorni la Guardia Costiera ha salvato oltre mille persone, 50 del gruppo
dei migranti arrivati negli ultimi giorni a Lampedusa. Nonostante lo smistamento
di immigrati a Porto Empedocle, resta il problema sovraffollamento nell’isola.
L'ultimo salvataggio risale al tardo pomeriggio di ieri, quando sono stati
tratti in salvo 60 naufraghi che si trovavano a bordo di un gommone alla deriva
a 80 miglia a sud di Lampedusa.
L'ultimo approdo, direttamente sulla terraferma, poco prima della mezzanotte: i carabinieri hanno bloccato 7 stranieri. In precedenza erano sbarcati prima in 121 e poi altri 33 soccorsi dalle motovedette. In totale, infatti, sono 10 le richieste di aiuto registrate negli ultimi due giorni nella nostra isola con oltre 850 immigrati arrivati nel Canale di Sicilia. Il miglioramento delle condizioni meteorologiche ha incoraggiato la ripresa degli sbarchi e i tentativi di raggiungere l'Italia.
A circa 90 miglia dalla costa di Lampedusa, due gommoni con a bordo
circa 180 immigrati, sono stati avvistati dalla Guardia costiera. La scorsa
notte, sempre a Lampedusa, altri 260 migranti a bordo di tre barconi, sono
stati soccorsi e trasportati nel centro d'accoglienza di contrada Imbriacola.
Purtroppo, però, non sono riusciti a
sopravvivere due immigrati che, insieme ad altre 88 persone, avevano tentato di
raggiungere Lampedusa su un gommone.
I due migranti sono morti questa mattina per
grave ipotermia a bordo di una motovedetta della Guardia costiera italiana che
era prontamente intervenuta per soccorrerli. Il gommone, salpato verso
Lampedusa dalle coste africane, era stato avvistato nel primo pomeriggio di
ieri da una nave della Marina militare italiana che aveva prestato i primi
soccorsi all'imbarcazione apparsa sin da subito in precarie condizioni di
navigazione, in attesa dell'arrivo di una motovedetta della Guardia costiera
dove sono stati subito trasferiti. Parecchi
di loro sono apparsi in condizione di salute precaria a causa della lunga ed
estenuante navigazione. Due di loro, come dicevamo, nonostante l'assistenza
fornitagli dai sanitari, non sono riusciti a sopravvivere e sono deceduti per
un grave stato di ipotermia. Della
vicenda è stata subito informata l'autorità giudiziaria. Sbarchi, inoltre, registrati nel
Siracusano: precisamente sono 86 i migranti di origine egiziana, tutti uomini
tra cui diversi minorenni, sbarcati ieri mattina a bordo di un'imbarcazione di
legno di circa 14 metri, nella baia Arcile di Brucoli. Nel dettaglio sono stati
intercettati dalla Polizia e dai Carabinieri su segnalazione della Capitaneria
di Porto.
Cittadinanza
Dall’Esecutivo timido segnale di apertura sulla cittadinanza: disegno di legge per semplificare le procedure di riconoscimento
Ai neomaggiorenni nati in Italia. Le misure saranno contenute nel disegno di legge sulle semplificazioni che verrà formalizzato dal prossimo Consiglio dei ministri.
Roma, 17 giugno 2013 -
“Cercheremo di agevolare l’iter per l’ottenimento della cittadinanza dando una
soluzione a tutti gli errori burocratici. È importante che questi giovani nati
e cresciuti in Italia non si vedano negata la cittadinanza per problemi
burocratici”. Così il ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge ha spiegato le
norme sulla cittadinanza preannunciate nell’ultimo Consiglio dei ministri. In
particolare, il comunicato di Palazzo Chigi annuncia una misura per favorire la
“semplificazione delle procedure di riconoscimento della cittadinanza del figlio
nato in Italia da genitori stranieri al compimento della maggiore età –
nei casi previsti dalla legge – in modo da evitare che disfunzioni di
natura amministrativa o inadempienze da parte di genitori o di ufficiale di
Stato civile possano impedire il conseguimento della cittadinanza stessa”. In
particolare verrebbero “sanati” eventuali inadempimenti di natura
amministrativa da parte dei genitori – in particolare il possesso del
permesso di soggiorno e l’iscrizione anagrafica continuativi dalla nascita alla
maggiore età – grazie a certificati scolastici e medici come prova
dell’effettiva presenza regolare in Italia. Queste semplificazioni in realtà in
parte sono già previste da una circolare del 2007 dove è detto che
“l’iscrizione anagrafica tardiva del minore presso un Comune italiano, potrà
considerarsi non pregiudizievole ai fini dell’acquisto della cittadinanza
italiana, ai sensi dell’articolo 4 comma 2 della legge 91/92, ove vi sia una
documentazione atta a dimostrare l’effettiva presenza dello stesso nel nostro
Paese nel periodo antecedente la regolarizzazione anagrafica (attestati di
vaccinazione, certificati medici in generale etc)” e “se in periodi successivi
alla nascita si rilevassero brevi interruzioni nella titolarità del permesso di
soggiorno, al fine di favorire la possibilità di dimostrare la permanenza
continuativa sul territorio italiano, l’interessato potrà inoltre produrre
documentazione integrativa quale certificazione scolastica, medica o altro, che
attesti la presenza in Italia”. Per valutare quali siano nel dettaglio le
semplificazioni annunciate non resta che attendere il testo del disegno di
legge che sarà approvato in settimana dal Consiglio dei ministri.
Opinioni
Il politologo sul Corriere della Sera attacca il ministro dell’integrazione e le sue posizioni sulla riforma della cittadinanza. Per lui, immigrati e figli non sono integrabili, meglio legarli per sempre a un permesso di soggiorno
Roma – 17 giugno 2013 – Cècile Kyenge non ha bisogno
di avvocati, ma è l’oggetto delle sue battaglie, il diritto di cittadinanza per
un milione di figli di immigrati, a dover essere difeso di fronte all’editoriale che
il politologo Giovanni Sartori le dedica oggi in prima pagina sul
Corriere della Sera. Un contributo alla riflessione che oscilla tra
la spocchia accademica e la xenofobia e che, se per errore fosse stato firmato
da Mario Borghezio, sarebbe risultato coerente, per molti aspetti, con le
sparate da Bar Sport del campione leghista contro il multiculturalismo.
Sartori apre dicendo che Letta ha scelto male il ministro dell’Integrazione. “Nata in Congo, si è laureata in Italia in medicina e si è specializzata in oculistica. Cosa ne sa di «integrazione», di ius soli e correlativamente di ius sanguinis?” chiede. Difficile, secondo lui, che un’immigrata diventata cittadina italiana, impegnata da anni in battaglie sul territorio per le politiche di integrazione, possa capirne qualcosa di questi temi. Più facile che ci illumini un politologo chiuso nel suo studiolo a vergare vigorosi editoriali per il Corriere della Sera. Pietre miliari del dibattito sulla multiculturalità, come quando qualche anno fa ha liquidato i musulmani come “non integrabili”, “un rischio da non rischia¬re”, o come quando, più recentemente, come alternativa alla cittadinanza, ha proposto un permesso di “residenza permanente trasmissibile ai figli”.
Oggi Sartori dubita che la ministra Kyenge (la chiama “la nostra oculista”) abbia letto il suo “Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei”, come se conoscere i suoi saggi voglia dire automaticamente condividerli. E si lamenta che la sua proposta sulla residenza permanente sia stata “ignorata da tutti”. Strano davvero che nessuno abbia preso in considerazione la possibilità di creare immigrati “a vita”, anzi, per generazioni. Con i loro figli e nipoti nati e cresciuti qui che non possono diventare italiani, ma tanto che fa, hanno comunque la residenza permanente…
Il politologo contesta che l’imprenditoria immigrata sia un fattore di crescita, chiedendo, come se ci fosse un rapporto di causa-effetto “quanti sono gli imprenditori italiani che sono falliti?”. Abituato probabilmente a dialogare solo con capitani d’azienda con fatturati milionari sibila altezzoso: “Metti su un negozietto da quattro soldi e sei un imprenditore”. Poi, con un salto illogico arriva a una conclusione delirante: “quanti sono gli immigrati che battono le strade e che le rendono pericolose?” Battono le strade? Di che parla, Professore?
Contesta anche che l’Italia sia meticcia. Sfoderando un accademico “moglie e buoi dei paesi tuoi”, e ricordando che, “da noi, i matrimoni misti sono in genere ferocemente osteggiati proprio dagli islamici”. Si appella insomma a proverbi e fatwe, ma dimentica i dati Istat che rivelano che i matrimoni misti sono in crescita costante e che ormai un nuovo nato su cinque ha almeno un genitore straniero. Poi accusa la ministra di dare “per scontato che i ragazzini africani e arabi nati in Italia sono eo ipso cittadini integrati”.
I ragazzini africani e arabi (ma perché non cita quelli europei, bianchi e cristiani?), è vero, non sono automaticamente “cittadini integrati”. Però viene il dubbio che il problema, più che il Paese dove sono nati i genitori, il colore della pelle o la religione, siano gli ostacoli che il Professore vorrebbe ancora frapporre tra loro e il traguardo della cittadinanza piena. Magari lo capirebbe da solo se, spento il computer, chiusa la porta del suo studiolo, ogni tanto uscisse a fare due passi in strada, entrasse in una scuola, facesse due chiacchiere con quegli stessi ragazzini.
Forse Sartori non ne ha voglia. Preferisce citare il sultanato di Delhi, l'Impero Moghul, le Compagnie occidentali, il colonialismo inglese e il post colonialismo per dire che nel subcontinente indiano “indù e musulmani non si sono mai integrati” e che India e Pakistan sono sempre sul piede di guerra. “Più disintegrati di così si muore” conclude. Parla insomma dell’India dei secoli scorsi e gracchia sul futuro dell’Italia. Il presente, però, sembra non coglierlo affatto. In fin dei conti, Professore, quella ministra oculista nata in Congo vede meglio, più lontano di Lei. Elvio Pasca, www.stranieriinitalia.it
Analisi ed approfondimenti
Spunti per la lettura del volume La Governance dell’immigrazione: diritti ,politiche e competenze
di Francesca Biondi Dal Monte e Massimiliano Vrenna
“Sono trascorsi quasi quindici anni dal primo intervento sistematico in materia di immigrazione realizzato dal legislatore italiano, vale a dire la legge Turco-Napolitano del 1998 […]. Un periodo di tempo che costituisce un arco temporale sufficiente per guardare con un certo distacco a come si è evoluta la risposta delle istituzioni statali e locali di fronte al fenomeno dell’immigrazione e a come sono cambiate le politiche in materia”.
Esordisce così l’introduzione del nuovo volume curato da Emanuele Rossi, Francesca Biondi dal Monte e Massimiliano Vrenna La Governance dell’immigrazione: diritti politiche e competenze, Il Mulino, 2013. Il volume vuole illuminare con un’analisi trasversale l’evoluzione della governance italiana dell’immigrazione, alla luce della normativa statale successiva al testo unico, della recente legislazione regionale, delle spinte provenienti dall’Unione Europea e del contributo della giurisprudenza, soprattutto costituzionale. Anche dal recente dibattito in corso emerge con chiarezza la ineludibilità di un ripensamento del meccanismo di governance dell’immigrazione. Lo scritto che presentiamo intende sottolineare alcuni ambiti principali di intervento suggeriti dal volume e che possiamo così riassumere: i criteri di ripensamento del testo unico, la ridefinizione delle risorse economiche, le modifiche specifiche su ingressi, amministrazione e accesso ai diritti sociali.
Il testo unico in materia di immigrazione (d.lgs. 286/1998), modificato e novellato più volte negli ultimi anni, è espressione e punto di incontro di una grande complessità istituzionale e di competenze. Nonostante il testo unico sia stato adottato in epoca antecedente alla riforma del titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, a tale legislazione occorre ancora far riferimento anche per quanto attiene alle discipline settoriali regionali e alla loro relazione con la normativa statale: la salute, la formazione professionale, l’accesso alla casa, le prestazioni sociali e così via. E ciò sebbene con la riforma del titolo V sia stata attribuita allo Stato la sola competenza legislativa esclusiva in tema di «immigrazione» e «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea». Tale attribuzione, all’apparenza così tassativa, è stata circoscritta dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 300 del 2005, avente ad oggetto una delle prime leggi regionali in materia di immigrazione (legge regionale Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 5), tenendo conto del fatto che l’intervento pubblico non si limita al doveroso controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, ma riguarda necessariamente altri ambiti come l’assistenza, l’istruzione, la salute, l’abitazione: materie che intersecano competenze statali e regionali, in forma esclusiva, concorrente o residuale. Ciò ha permesso alle regioni di sviluppare articolate politiche regionali e proprie legislazioni di settore. In tale quadro viene tuttavia da chiedersi quale efficacia debba oggi riconoscersi alle disposizioni del testo unico che incidono su competenze regionali, nella difficoltà di leggere con gli occhi del presente una normativa adottata nell’ambito di un quadro competenziale differente. Una riscrittura del testo unico dovrebbe oggi tenere conto del nuovo assetto costituzionale e dei principi affermati nell’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale, riscrivendo la normativa sulla base della corretta distribuzione competenziale tra Stato e Regioni e predisponendo i necessari meccanismi di raccordo tra i diversi livelli di governo. Aspetto connesso ma distinto è quello dei principi fondamentali della materia. L’art. 1, comma 4, del testo unico autoqualifica le disposizioni del testo unico come princìpi fondamentali nelle materie di competenza legislativa delle regioni. Ma tale disposizione è stata adottata nell’ambito del previgente assetto costituzionale e oggi può essere invocata esclusivamente nell’ambito delle materie di competenza concorrente regionale e in riferimento a disposizioni che possono effettivamente qualificarsi come principi fondamentali della materia. Al più, nelle materie residuali le disposizioni del testo unico potrebbero essere lette nell’ottica della competenza statale in materia di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (ex art. 117, comma 2, lett. m). Un chiarimento in tal senso è auspicabile, anche nell’ottica dell’eventuale finanziamento delle prestazioni concernenti la garanzia di tali livelli.
Il tema delle risorse finanziarie dedicate e delle spese in materia di immigrazione è fondamentale innanzitutto per contrastare posizioni demagogiche in tema di denaro pubblico e migranti, oltre a rappresentare il necessario complemento di qualunque riscrittura della normativa in materia.
Le ultime parziali analisi ufficiali sull’argomento risalgono ormai a un decennio fa con i due rapporti della Corte dei conti dedicati al controllo della gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione. La frammentazione amministrativa e l’approccio ideologico che ha caratterizzato il fenomeno del governo dell’immigrazione si riflettono anche sulle risorse finanziarie che sono state dedicate a tale materia. Non è possibile ridurre l’analisi a un singolo fondo dedicato come ilfondo per le politiche migratorie, originariamente istituito dalla legge 40 del 1998, o al fondo per l’inclusione sociale, istituito nel 2007 e successivamente dichiarato incostituzionale. Sono infatti molteplici le risorse finanziarie che si sono riversate sulla materia nel corso degli ultimi anni, sia di provenienza statale sia europea, queste ultime in fase di ripensamento e già oggetto di analisi da parte della Corte dei Conti dell’Unione europea (si veda il rapporto). Sul versante nazionale non si può non considerare quello che rappresenta un cospicuo canale di finanziamento degli ultimi anni: per la protezione civile, cui sono state affidati molti degli interventi di prima accoglienza così come la costruzione di centri di detenzione amministrativa. Va ricordato che nel nostro Paese, da numerosi anni, molti aspetti dei flussi migratori sono trattati come una calamità naturale e disciplinati con ordinanze di protezione civile grazie a dichiarazioni di emergenza prorogate di anno in anno. La caratteristica di tale normativa è ancora una volta quella della scarsa chiarezza e dei complessi rimandi contabili. Basti citare l’art. 6, comma 3, dell’ordinanza del 18 febbraio 2011, in base al quale: “Il Commissario delegato è altresì autorizzato ad utilizzare le eventuali risorse finanziarie di competenza regionale, fondi comunitari, nazionali, regionali e locali, comunque assegnati o destinati per le finalità di cui alla presente ordinanza”. La gestione emergenziale che ha caratterizzato l’intervento statale negli ultimi anni pone delicati interrogativi sull’allocazione delle risorse finanziarie dedicate all’immigrazione e alla protezione internazionale dal momento che, così come si è sviluppata, ha sottratto ingenti risorse economiche ad un controllo contabile chiaro e trasparente e, cosa più grave, ha sottratto risorse alla programmazione ordinata degli interventi fino al recente tentativo governativo, vanificato da una sentenza della Corte costituzionale (sent. n. 22/2012), di introdurre l’ennesimo aumento di accise sui carburanti per coprire le spese relative alla cosiddetta emergenza Nord Africa. Merita di essere sottolineata l’argomentazione dell’avvocatura dello Stato nel giudizio citato in base alla quale la “«generale socializzazione» degli oneri finanziari connessi ad eventi emergenziali locali, affermatasi nell’assenza di principi relativi ai profili finanziari e di copertura, avrebbe determinato una progressiva «deresponsabilizzazione» dei diversi livelli di governo – con particolare riguardo alla valutazione della durata dell’emergenza – e la conseguente crescita esponenziale dei flussi di spesa pubblica»”. Argomento davvero singolare considerato che i diversi governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno, come si è visto, perpetuato questa situazione attraverso la proroga dello stato di emergenza1.
Ma è tutta la normativa sull’immigrazione che presenta una difficile ricomposizione economica. Si vedano per esempio le norme di legge sulla copertura finanziaria di alcuni tra i principali provvedimenti assunti negli ultimi anni. Per esempio l’art. 1-ter della legge 102 del 20092, in materia di emersione lavorativa per le attività di assistenza e di sostegno alle famiglie, il quale prevede uno stanziamento di più di 700 milioni di euro per tre anni con una dubbia indicazione ultratriennale della copertura. Al riguardo si consideri anche il decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109, recante l’attuazione della direttiva 2009/52/CE che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, il cui articolo 16 stanzia, a copertura del decreto, quasi mezzo miliardo di euro3. In altri contesti invece può essere sottolineato il mancato adeguamento di determinate coperture finanziarie alle mutate esigenze delle autonomie locali o al mutato quadro normativo regionale o europeo. Come esempio si può citare la cifra che annualmente il comitato interministeriale per la programmazione economica stanzia come parte corrente per l’assistenza sanitaria agli stranieri irregolari presenti nel territorio nazionale, in definitiva per rimborsare le Usl di parte delle spese sostenute per curare stranieri irregolari in possesso di Stp. La cifra è rimasta pressoché identica per un decennio. Ancora più problematico il criterio usato per ripartire la cifra tra le Regioni: numero degli irregolari intercettati sul territorio nazionale e sull’entità della spesa sostenuta per i ricoveri per gravidanza, parto e puerperio avvenuti nell’anno precedente4. Opportuni correttivi dovrebbero riguardare anche l’allocazione delle risorse disponibili. Eppure basti pensare al contributo per il rinnovo del permesso di soggiorno introdotto dalla L. 94/2009. Se si considera che lo stesso contributo può arrivare a 200 euro e se si moltiplica la cifra per il numero annuale di rinnovi di permessi di soggiorno soggetti allo stesso, si raggiungono cifre rilevanti. Al di là della richiesta, avanzata da più parti, della eliminazione del contributo, conviene interrogarsi anche sulla opportunità e sulla trasparenza di destinazione dello stesso. Il gettito è destinato per il 50% alfondo rimpatri, finalizzato a finanziare le spese connesse al rimpatrio dei cittadini stranieri rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale, e per il 50% al finanziamento delle attività istruttorie del Ministero dell’interno relative al rilascio e al rinnovo dei permessi di soggiorno. Questa seconda metà a sua volta è cosi ripartita: 20% alla missione “Ordine pubblico e Sicurezza”, 15% alla missione “Amministrazione generale e supporto alla rappresentanza di Governo e dello Stato sul territorio”, per le attività di competenza degli Sportelli unici, 15% alla missione “Immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti”, per l’attuazione del d.P.R. 179/2011 sull’Accordo di integrazione (la cui disposizione istitutiva presentava al contrario una clausola di invarianza finanziaria: “all’attuazione di tale previsione si provveda con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”). Perché non destinare parte del gettito derivante dal contributo alle regioni e agli enti locali, per interventi di integrazione sociale, politica e culturale degli immigrati, ripartiti con decreto interministeriale e d’intesa con la Conferenza Unificata? Una parte di tali risorse potrebbe infine essere impiegata per la gestione di un apparato pubblico che “gestisce l’immigrazione” oggi disperso e frazionato. La stessa allocazione delle risorse dovrebbe seguire il corretto riparto di competenze che la riforma del titolo V della Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale sono andati delineando non solo nella materia «immigrazione» ma più in generale in tema di finanza e di fondi. Dunque la ricomposizione della spesa pubblica in questa materia è il necessario complemento alla riscrittura della disciplina statale sull’immigrazione.
Tra gli aspetti del testo unico che necessitano di maggiori revisioni ve n’é uno che ha raccolto critiche davvero trasversali: la disciplina delle modalità di ingresso per lavoro sul territorio nazionale.
Il tema è stato affrontato approfonditamente da molti autori che hanno messo in evidenza le difficoltà, le incongruenze e l’inefficienza di un sistema amministrativo che fatica a cogliere l’obiettivo di un ordinato ed efficace incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Qui è sufficiente dire che le modifiche normative dovranno tenere in considerazione alcuni elementi tra i quali si suggerisce:
1. Un’apertura a forme di migrazione temporanea. Si è consapevoli delle critiche che sono state mosse a questo tipo di politica degli ingressi (per una panoramica M. De Somer, Trends and Gaps in the Academic Literature on EU Labour Migration Policies, 2012, www.ceps.eu) ma tali programmi, se ben costruiti e supportati da meccanismi di incentivi e disincentivi, possono essere un importante veicolo di ingresso legale. Essi possono rappresentare un valido sistema di circolarità lavorativa intermediterranea, di circolarità professionale, all’interno di uno schema di return finance e di cooperazione internazionale. Molti autori hanno indagato questi sistemi e molti sono i suggerimenti che si possono trarre dalla letteratura sul tema.
2. Una particolare attenzione all’immigrazione altamente qualificata con una semplificazione delle procedure e una fluidificazione dei passaggi da uno status all’altro oggi, al contrario, pensati come compartimenti non comunicanti: studio, dottorato, ricerca, lavori altamente qualificati. Il tutto alla luce delle potenti spinte all’innovazione che i migranti possono apportare allo sviluppo economico e tecnologico del nostro paese e dell’Unione.
3. Una maggiore autonomia regionale o macroregionale nella determinazione e nella selezione dei profili lavorativi maggiormente richiesti.
Non più percorribile sembra la strada dei decreti flussi legati ai cosiddetti click day. Al riguardo è interessante evidenziare che la VI sez. civile della Cassazione, con ordinanza n. 9026 del 12 aprile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione al meccanismo del click day per il bonus ricerca5. Certo si tratta di una materia lontana dall’immigrazione ma le considerazioni svolte dalla Suprema Corte sono applicabili a quello che è il principali meccanismo di selezione per gli ingressi per lavoro in Italia. Al riguardo la Corte afferma che: “la risultante di fattori quali la sproporzione tra risorse disponibili [nel nostro caso sono i posti disponibili, ndr] e domande, l’ampiezza del numero dei concorrenti, la velocità dei meccanismo di trasmissione informatica determina una selezione sostanzialmente casuale, che si esaurisce in un tempo brevissimo e produce risultati dipendenti prevalentemente dalla potenza e sofisticatezza delle apparecchiature informatiche di cui dispongono i singoli o i professionisti che li assistono. Ciò determina una disparità di trattamento di situazioni eguali in base ad un criterio di priorità cronologica che, per le sue concrete modalità di attuazione, non appare ragionevole”. Nei prossimi mesi è attesa la pronuncia della Corte costituzionale. Più in generale si deve infine considerare che l’esigenza dei paesi e dei cittadini ospitanti di limitare i flussi e selezionare gli ingressi è legittima, cosi come è fondamentale accogliere chi rischia la vita e la libertà nel proprio paese. Per tale ragione è opportuno dosare un mix di strumenti che disincentivino la clandestinità ma che prendano anche atto che politiche eccessivamente restrittive producono clandestinità e diventano inefficaci per tutti gli stakeholders coinvolti. Come è stato efficacemente scritto, “se alla programmazione degli ingressi crediamo poco noi … è naturale che i destinatari cerchino di aggirarla ….” (A. Colombo, Fuori controllo? Miti e realtà dell’immigrazione in Italia, Il Mulino, 2012).
Per ciò che concerne il generale ripensamento dell’apparato amministrativo delegato alla gestione dell’immigrazione, vanno riscontrate ancora una volta una serie di modifiche che faticano a trovare un quadro organico e sistematico. Si pensi alle molte misure assunte nel 2011 e nel 2012 per arginare la grave crisi economica e finanziaria che ha colpito l’Europa e che stanno profondamente ridisegnando l’assetto degli enti locali. Senza ricostruire in questa sede la lunga serie di atti legislativi possiamo però ricordare in ordine sparso che la spinta riformatrice ha imposto una profonda revisione istituzionale e funzionale delle province, la fusione o l’esercizio associato di molte funzioni nei comuni più piccoli. Anche in questo caso si è osservato che la vorticosa e a tratti confusa fase riformatrice delle autonomie renderebbe poco opportuno un trasferimento tout court delle competenze legate al permesso di soggiorno in questo periodo. Si tenga conto anche che la materia immigrazione è tradizionalmente collocata, certo con delle eccezioni, all’interno del settore sociale e dunque le relative strutture amministrative non potranno non subire le medesime trasformazioni anche organizzative a cui tutto il settore sociale sta andando incontro. Merita infine un cenno anche la riorganizzazione delle prefetture imposta sempre dai provvedimenti di «spending review», le quali sono destinate a essere accorpate per territori molto più vasti. Ci si chiede dunque quale sarà la sorte di due istituti che proprio in seno alle prefetture avevano trovato collocazione: i consigli territoriali per l’immigrazione e soprattutto gli sportelli unici per l’immigrazione. Se i primi possono facilmente essere riparametrati, per la loro natura aperta e partecipativa, su porzioni territoriali più piccole come per es. le zone distretto o le unioni di comuni, i secondi sono al contrario uno dei gangli fondamentali su cui l’amministrazione ha puntato negli ultimi 10 anni per la gestione amministrativa delle pratiche di immigrazione e per la semplificazione dei procedimenti. Si avverte pertanto la necessità di un ripensamento complessivo della macchina burocratica che sovrintende all’immigrazione e i profondi cambiamenti che stanno interessando la pubblica amministrazione a tutti i livelli negli ultimi anni potrebbero essere una preziosa occasione per ridisegnare i percorsi amministrativi in senso più efficace e più vicino ai milioni di utenti interessati6. Vale la pena ricordare anche che la legislazione più recente offre numerosi addentellati, fin qui non ancora sviluppati, che potrebbero essere utilizzati per favorire la semplificazione della certificazione e delle procedure, la trasmissione e interconnessione dei dati tra pubbliche amministrazioni, la condivisione delle banche dati che riguardano l’immigrazione.
Altro settore in attesa di una completa riscrittura riguarda quello delle prestazioni di natura sociale, in più occasioni oggetto di scrutinio – e sanzione – da parte della Corte costituzionale, con specifico riferimento ai criteri di individuazione dei destinatari delle prestazioni. Oggetto delle recenti questioni di legittimità costituzionale è stata la previsione introdotta dalla legge finanziaria per il 2001 (art. 80, comma 19, l. 388/2000), volta a circoscrivere i destinatari delle prestazioni ai soli titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo (permesso Ce), che, come noto, presuppone il possesso di requisiti più stringenti rispetto a tutte le altre tipologie di permesso. La sentenza n. 306 del 2008 ha aperto un filone giurisprudenziale caratterizzato da ripetuti interventi che, come affermato dalla Corte stessa «sono venuti ad assumere incidenza generale ed immanente nel sistema di attribuzione delle relative provvidenze», nel perdurante silenzio del legislatore. A seguito di tali interventi la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle condizioni di accesso ad alcune specifiche prestazioni di natura sociale (indennità di accompagnamento, pensione di inabilità, assegno di invalidità, indennità di frequenza): ciononostante manca tuttora una correzione in via legislativa del sistema di accesso a tali prestazioni (e alle altre prestazioni previste dalla legge) che risulti coerente con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale. La sentenza n. 306 è una decisione significativa per più ragioni. Al di là del caso concreto che ha riguardato l’estensione a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti dell’indennità di accompagnamento (riservata dalla legislazione nazionale ai soli titolari del permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo), in essa la Corte precisa che il divieto di discriminazione degli stranieri legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato è norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, ai sensi dell’art. 10, comma 1, Cost. In particolare la Corte fa rientrare nell’art. 10, comma 1, Cost. le norme che «nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall’appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato», riconoscendo quindi rango costituzionale a tale principio.
In più occasioni la Corte ha affermato che l’esclusione assoluta di intere categorie di persone fondata o sul difetto del possesso della cittadinanza (italiana o europea), ovvero su quello della mancanza di una residenza temporalmente protratta per almeno trentasei mesi, non risulta rispettosa del principio di uguaglianza. Con specifico riferimento alle prestazioni di natura sociale, deve infatti sussistere una «ragionevole correlabilità» tra le condizioni positive di ammissibilità al beneficio e gli altri peculiari requisiti (integrati da situazioni di bisogno e di disagio riferibili direttamente alla persona in quanto tale) che costituiscono il presupposto di fruibilità di provvidenze «che, per la loro stessa natura, non tollerano distinzioni basate né sulla cittadinanza, né su particolari tipologie di residenza volte ad escludere proprio coloro che risultano i soggetti più esposti alle condizioni di bisogno e di disagio che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si propone di superare perseguendo una finalità eminentemente sociale» (sent. 40/2011; al riguardo si vedano anche le sentenze nn. 432/2005; 11/2009; 187/2010; 329/2011; 40/2013).
1 Al fine di
arginare questo fenomeno il d.l. 59/2012, convertito dalla l. 100/2012, ha
modificato l’art. 2 della legge 225/1992 riformulando i casi in può essere
dichiarata lo stato di emergenza, riferendosi a “c) calamità naturali o
connesse con l’attività dell'uomo che in ragione della loro intensità ed
estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con
mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi
di tempo”. Viene inoltre specificato che al nuovo articolo 5, comma 1bis, che
la durata della dichiarazione dello stato di emergenza non può, di regola,
superare i sessanta giorni. Uno stato di emergenza già dichiarato, previa
ulteriore deliberazione del Consiglio dei Ministri, può essere prorogato ovvero
rinnovato, di regola, per non più di quaranta giorni.
2 La disposizione prevede che: “Agli oneri netti derivanti dal presente articolo, pari a 77 milioni di euro per l’anno 2009, a 294 milioni di euro per l’anno 2010, a 371 milioni di euro per l’anno 2011 e a 321 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012, si provvede, quanto a 60 milioni di euro per l’anno 2009, a valere sulle maggiori entrate assegnate al bilancio dello Stato dal decreto di cui al comma 14 e, quanto a 17 milioni di euro per l’anno 2009, a 294 milioni di euro per l’anno 2010, a 371 milioni di euro per l’anno 2011 e a 321 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012, mediante corrispondente riduzione dei trasferimenti statali all’INPS a titolo di anticipazioni di bilancio per la copertura del fabbisogno finanziario complessivo dell’ente, per effetto delle maggiori entrate contributive derivanti dalle disposizioni di cui al presente articolo”.
3 La disposizione prevede che: “Agli oneri netti derivanti dal presente articolo, pari a 43,55 milioni di euro per l’anno 2012, a 169 milioni di euro per l’anno 2013, a 270 milioni di euro per l’anno 2014 e a 219 milioni di euro a decorrere dall’anno 2015, si provvede, quanto a 43,55 milioni di euro per l’anno 2012 a valere sulle maggiori entrate assegnate al bilancio dello Stato dal decreto di cui al comma 14 e, quanto a 169 milioni di euro per l’anno 2013, a 270 milioni per l’anno 2014 e a 219 milioni di euro a decorrere dall’anno 2015, mediante corrispondente riduzione dei trasferimenti statali all’INPS a titolo di anticipazioni di bilancio per la copertura del fabbisogno finanziario complessivo dell’Ente, per effetto delle maggiori entrate contributive derivanti dalle disposizioni di cui al presente articolo.
4Peraltro il recente D.p.c.m. 21 marzo 2013, n. 58 Regolamento di attuazione dell'articolo 2, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, riguardante i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero dell'interno di durata superiore a novanta giorni (GU n.122 del 27-5-2013) ha fissato in 180 gg. il termine di pagamento di per le spese di spedalità per indigenti e privi di iscrizione al servizio sanitario nazionale.
Religioni
In un’Italia sempre più multi religiosa, tra gli immigrati prevalgono i cristiani.
Studio della presenza straniera contenuto nel vademecum “Religioni, dialogo, integrazione", realizzato dal Ministero dell’interno per venire incontro alle esigenze di confronto e dialogo.
Roma, 18 giugno 2013 - La
maggior parte degli stranieri residenti in Italia è di religione cattolica, un
numero consistente (32 per cento) è costituito dai musulmani, che negli ultimi
due decenni hanno fatto registrare una diminuzione in termini percentuali (-5
punti) ma sono in aumento anche i fedeli di religioni diverse. Quello presente
nel nostro Paese è ormai un panorama multi religioso che si sta
progressivamente accentuando: su un numero complessivo di cinque milioni di
stranieri, infatti, 2,702 milioni sono quelli di religione cristiana; 1,651
milioni i musulmani; 297 mila i fedeli delle cosiddette tradizioni religiose
orientali; 51 mila gli immigrati riconducibili a religioni tradizionali e 310
mila gli ebrei, atei, agnostici etc. È quanto emerge da uno studio del Centro
studi e ricerche Idos (stima al 31 dicembre 2011) contenuto nel progetto Religioni, dialogo, integrazione, un
vero e proprio vademecum a cura del Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del Ministero dell’interno, finanziato dal Fondo europeo per
l’integrazione di cittadini di paesi terzi (Fei). Lo studio sottolinea che
“l’incidenza dei cristiani, superando la metà del totale mostra quanto sia
improprio in Italia agitare lo spettro di un’invasione di persone di diversa
religione”: mentre i musulmani sono un terzo (32,9%) e i fedeli di tradizioni
religiose orientali (induisti, buddhisti e altri) poco più di un ventesimo
(5,9%).
Per quanto riguarda le appartenenze religiose degli immigrati regolarmente
presenti gli ortodossi provengono soprattutto da Romania, Ucraina, Moldavia,
Macedonia e Albania. I cattolici da Filippine, Polonia, Ecuador, Perù, Albania,
Romania, Macedonia, Brasile, Francia, Repubblica Dominicana, Croazia e
Colombia; i protestanti da Romania, Germania, Regno Unito, Ghana, Nigeria,
Perù, Filippine e Brasile. Mentre i musulmani da Marocco, Albania, Tunisia,
Senegal, Pakistan, Bangladesh, Macedonia, Algeria e Kosovo. “Questo variegato
panorama multi- religioso, che si è venuto progressivamente accentuando in
Italia a seguito dell’immigrazione, è lo specchio dello spiccato policentrismo
che caratterizza le origini nazionali dei migranti presenti, che nonostante il
recente protagonismo assunto dall’area est-europea, vengono da tutti i
continenti e da pressoché tutti i Paesi del mondo: fino a qualche decennio fa
era difficile immaginare un panorama religioso così diversificato –
sottolineano i curatori del progetto – la globalizzazione religiosa,
accentuata dall’immigrazione, è ormai un fattore strutturale anche in Italia”.
Proprio per venire incontro alle esigenze di dialogo tra religioni diverse è
nato il vademecum Religioni,
dialogo, integrazione: un testo – lo presentano gli
autori – che vuole essere uno “strumento utile per interpretare le
criticità evidenziate sul territorio, promuovere la capacità di incontro e di
scambio tra diversità e a migliorare il dialogo interreligioso e
interculturale”. L’iniziativa è nata anche per diffondere il tema della libertà
di religione e di culto e per offrire un quadro del pluralismo religioso in
Italia e consentire una lettura ed una comprensione del fenomeno. Sotto il
profilo istituzionale, il progetto ha rivitalizzato la funzione dei Consigli
territoriali, soprattutto per quanto riguarda i Tavoli di dialogo
interreligioso.
(Red.)
Europa
Più qualificazione, bene integrazione. 900 mila hanno perso il lavoro
(di Antonio
Andreucci) (ANSAmed) - MADRID, 18 giugno 2013 - La crisi ha modificato anche
il profilo degli immigrati in Spagna, un Paese che si conferma meta preferita
dei sudamericani e che non palesa problemi di integrazione. Ma gli effetti
della recessione si sono sentiti maggiormente tra gli stranieri: circa 900 mila
ha infatti perso il posto di lavoro negli ultimi cinque anni, di cui l metà
negli ultimi due. Ad emigrare verso la Spagna - secondo quanto emerge dalla
ricerca "Immigrazione e crisi: tra continuità e cambiamento", svolta
dal Consiglio di Barcellona, CIDOB Fondazione ACSAR e Ortega-Maranon Foundation
- le donne sono in numero maggiore rispetto agli uomini; l'età è compresa tra i
35 e i 64 anni e c'è una maggiore qualificazione professionale. Il settore in
cui sono impegnati è prevalentemente il terziario. Rispetto a qualche anno fa,
invece, i maschi erano in numero superiore, l'età era più bassa (16-34 anni) e
si lavorava prevalentemente nelle costruzioni. La maggior parte arriva
dall'America Latina - soprattutto da Colombia, Ecuador e Bolivia - e il
processo di integrazione non ha creato particolari problemi (in Spagna, su 46,8
milioni di abitanti, gli stranieri registrati sono 5,2 milioni, l'11,96% del
totale). Tuttavia, la ricerca segnala che appena il 5,2 per cento della spesa
sanitaria pubblica spagnola è costituta da prestazioni fornite agli immigrati.
Per quanto riguarda le rimesse di denaro verso i Paesi di provenienza,
attualmente sono diminuite rispetto al passato, quando si raggiunse l'apice,
nel 2008, con circa 8,5 miliardi. Ora si registra un calo del 20% e il valore
si aggira sui 6,8 miliardi di euro all'anno.
La ricerca segnala anche l'emigrazione spagnola: gli esperti hanno stimato che
è difficile da quantificare, ma hanno sottolineato che dal 2008 sarebbero oltre
120 mila gli spagnoli usciti dal Paese. Il profilo è quello di giovani tra i 25
e i 35 anni, con un livello di istruzione medio-alto, i quali hanno scelto in
prevalenza destinazioni come Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti. (ANSAmed).