14 giugno 2013

L’integrazione non è un’utopia Due esempi a Roma e Milano
l'Unità, 14-06-2013
Italia-razzismo
Roma e Milano sono due delle città italiane in cui il fenomeno dell'immigrazione straniera è più consistente. Nonostante ciò, i servizi esistenti - sia quelli pubblici che quelli privati - per far fronte alle esigenze di inserimento culturale delle persone straniere, non sempre si rivelano efficaci. Uno dei motivi è quello, tipico delle amministrazioni pubbliche,  riguardante la difficoltà di disporre in maniera costante di mediatori. L'effetto principale è che quei servizi non raggiungano i loro possibili utenti. A volte, però, qualche eccezione c'è. A Roma, per esempio, un paio di settimane fa, l'associazione Cittadini del mondo ha inaugurato una biblioteca interculturale. I libri a disposizione sono circa duemila, la maggior parte dei quali in lingua straniera: arabo, amarico, tigrino, bengali, cinese, farsi, francese, hindi, inglese, romeno, russo, spagnolo, turco, ucraino, urdu eccetera. Numerosi sono anche i testi bilingue, quelli scolastici e per l'apprendimento della lingua italiana e una sezione interamente dedicata al tema delle migrazioni. Un servizio, dunque, rivolto non esclusivamente a persone straniere ma anche a chiunque fosse interessato a culture diverse dalla propria, o anche a chi volesse solo vedere un testo scritto in tigrino. I frequentatori della biblioteca vengono raggiunti direttamente "a casa loro", non essendo questa l'unica attività svolta dall'associazione. La stessa, infatti, dal 2006 presta assistenza sanitaria presso Palazzo Selam, uno stabile alla periferia di Roma dove vivono circa ottocento tra profughi e richiedenti asilo di nazionalità sudanese, etiope, eritrea e somala. Qui, una volta alla settimana, la dottoressa Donatella D'Angelo, medico di base e specialista in Patologia Clinica, riceve e visita chiunque dei residenti lo richieda con l'aiuto dei mediatori volontari. Un servizio di questo genere diviene una finestra per conoscere situazioni e luoghi che altrimenti rimarrebbero ignoti  (e al buio, si sa, può succedere di tutto).   
Rimanendo in ambito medico, a Milano, all'interno del Centro per la cura e la prevenzione dell’Ipertensione del Policlinico, è attivo un ambulatorio di cardiologia rivolto alle comunità straniere più consistenti della città. Esso nasce dalla constata impossibilità di raggiungere e conoscere le condizioni fisiche e sanitarie delle persone straniere da parte dei medici che deriva dal fatto che, quelle stesse persone, fanno fatica a esporre le proprie problematiche senza l'aiuto di un mediatore. Ecco perché, la peculiarità dell'ambulatorio è quella di essere multilingue. L'incontro tra medico e paziente straniero diviene, così, una possibilità per l'uno e per l'altro. Per il primo perché può inquadrare le problematiche specifiche di persone con abitudini alimentari diverse da quella italiana e, per il secondo - il paziente straniero -, perché gli si presenta l'opportunità di poter essere visitato a pochi passi da casa senza dover, come a volte capita, tornare nel paese d'origine per paura di una diagnosi sbagliata a causa della lingua differente utilizzata. Di esperienze come quelle qui accennate c'è bisogno, eccome.



Dagli insulti a sfondo razziale all’“augurio” dello stupro Un bersaglio di nome Kyenge
La Stampa, 14-06-2013
Francesca Paci
Roma -Stavolta, in realtà, s’è indignato l’intero arco costituzionale. Ma l’attacco della leghista Dolores Valandro detta Dolly andava così al di là di qualsiasi pur farneticante polemica politica («nessuno stupra il ministro Kyenge?») da poter solo unire in inequivocabile biasimo parlamentari di ogni sesso e colore, dal premier Letta ai 5Stelle fino allo stesso imbarazzato Carroccio, che dopo essersi dissociato ha provveduto all’espulsione dell'ingombrante attivista.  
Sì, perché i primi 47 giorni governativi dell’oculista italo-congolese chiamata a guidare il ministero dell’Integrazione sono segnati da un numero di insulti inversamente proporzionale agli attestati di solidarietà. Ieri, se l’improvvida Dolly non avesse postato su Facebook l’impostabile, pochi dei suoi colleghi avrebbero commentato l’ennesimo affondo di «Libero» che sotto l’illustrazione di una labbruta africana smascherava la nuova malefatta: «La Kyenge s’è integrata: contromano in auto blu».
In poche settimane la quarantanovenne Cécile Kyenge, che fino alla sparata della Velandro si era sempre fatta scudo del silenzio per lasciare le offese senza eco, ha collezionato un bel campionario di insolenze. Cominciò il web dove a poche ore dal giuramento i siti di Stormfront e Duce.net erano già pieni di «scimmia congolese», «governante puzzolente», «zulù». Allora, a onor del vero, il presidente della Camera Boldrini si levò in difesa della prima ministra di colore (lei preferisce definirsi «nera» e, fingendo di accontentarla, l’attore Paolo Villaggio la definisce «negra»), ma un po’ perché assorbito dai problemi (anche identitari) del neonato governo e un po’ per non assecondare volgarità ritenute insignificanti il Parlamento non si scompose.  
Poi la Kyenge si pronunciò a favore dello ius soli, il diritto alla cittadinanza in virtù della nascita nel territorio dello Stato e apriti cielo. Don Alessandro Loi, curato di un piccolo comune sardo, spiegò che «mischiare le razze può essere pericoloso», l’ex prof universitario Pietro Melis applicò alla responsabile dell’integrazione i parametri di «tolleranza» che gli erano già costati l’accusa di antisemitismo, Forza Nuova issò un tricolore insanguinato con scritto «L’immigrazione uccide. No ius soli. Kyenge dimettiti» davanti al Pd di Rimini. Ma furono in particolare i leghisti a scatenarsi contro il ministro in quel caso un po’ isolato anche dai suoi, non tutti d’accordo nel preferire lo ius soli allo ius sanguinis (la cittadinanza trasmessa dal genitore che ne è in possesso).  
Da quel momento il Carroccio è in trincea. L’ex senatore Boso si definisce «razzista convinto», l’eurodeputato Borghezio punta l’indice contro «il governo del bonga bonga e la Kyenge ci vuole imporre le sue tradizioni tribali» salvo poi autosospendersi. Il capogruppo milanese Morelli lamenta di non averle potuto stringere la mano per la la di lei riluttanza. E lei lì, resilente, muta, consapevole forse di doversi difendere da sola. Oggi no, ad eccezione della prevedibile pagina Facebook «Io sto con Dolores», anche la Lega condanna l’improperio, ma nessuno si chiede se Dolly avesse buone ragioni per pensare di poterlo pronunciare impunita.  

 

Il perbenismo delle stupidità e degli orrori
l'Unità, 14-06-2013
MASSIMO ADINOLFI
●ALLE MANIFESTAZIONI DI STUPIDA INTOLLERANZA SEGUITE ALLA NOMINA DEL MINISTRO CÉCILE KYENGE ieri si è aggiunto un nuovo, nqualificabile episodio, con le vergognose dichiarazioni di Dolores Valandro, leghista, consigliera di quartiere a Padova, la quale si è spinta fino ad augurarsi che la ministra venga stuprata: «Così, tanto per capire cosa può provare la vittima».
Che una donna possa pensare di un’altra donna che può capire quale violenza sia uno stupro solo essendo a sua volta stuprata, è
un’aberrazione che si fa fatica anche solo a riferire. Ma ovviamente Dolores «Dolly» Valandro non avrebbe formulato un simile
pensiero se Cécile Kyenge fosse stata una donna bianca, magari anche bionda, e comunque meno sfacciatamente diversa da lei, a causa del colore della pelle.
L’unica nota positiva di una vicenda così grave e sconcertante è che questa volta non è scattato, nella Lega, quello che potremmo
chiamare il riflesso Borghezio, per cui qualunque enormità viene giustificata in considerazione del personaggio o delle circostanze, oppure come provocazione, o anche semplicemente in nome del parlar franco, e insomma eccependo volta a volta questo o quello, all’ombra di un diritto di espressione usato in realtà per reclamare la negazione di ogni altrui diritto. Stavolta, per fortuna, sono fioccate subito condanne nette e inequivoche, come quella del vicesegretario Flavio Tosi. Buon per la Lega, perché più a fondo di così è veramente difficile andare.
Ma c’è un aspetto delle parole che la consigliera ha pronunciato per scusarsi che merita ancora di essere sottolineato. Ha detto infatti la consigliera: «Non sono cattiva». Può darsi che volesse con ciò dire che non intendeva augurarsi veramente uno stupro fatto e finito, e che le parole non andavano certo prese alla lettera: sia pure con qualche sforzo, potremmo persino crederle. Ma è degno di nota che il senso di una dichiarazione, che cade in uno spazio pubblico di discussione e provoca evidentemente effetti politici, in una comunità che vive quotidianamente le difficoltà e la sfida dell’integrazione degli extra-comunitari, venga ricondotto, anche solo per ridimensionarne la portata, nella sfera privata delle (presunte buone) intenzioni. La consigliera ha cioè cercato di difendere la sua posizione personale, il suo profilo morale, forse persino la sua nobiltà d’animo, come se tutta la vicenda della vita umana sulla terra, nessuna epoca esclusa, non mostrasse quale ampio fossato divida il buon cuore degli uomini dai fatti storici e politici, costellati di violenze di ogni genere, di cui abbiamo testimonianze a profusione.
Gli odi razziali, le discriminazione sessuali, i pregiudizi politici e l’intolleranza sono infatti perfettamente compatibili con la categoria della «brava persona», nella quale Dolores Valandro ha chiesto purtuttavia di essere iscritta, nonostante l’indecenza delle sue parole. E noi la iscriveremo - di nuovo: non senza sforzo. Ma è bene che sappia che di brave persone, capaci di non far male a una mosca, di giocare con i bambini, di tenere in ordine il giardino, fare la raccolta differenziata e ascoltare buona musica sono pieni gli orrori del Novecento. Non c’è razzista che, dopo tutto, non si consideri un onest’uomo (o una donna onesta). Simili scuse si rivelano perciò un involontario atto di auto-accusa, tradiscono un drammatico vuoto di cultura politica, di sensibilità democratica, che risalta di più e non di meno, quando si cerca di colmarlo assicurando di essere, però, persone molto bene educate.
Dolores Volandro non sarà affatto cattiva, ma con le parole pronunciate ieri non ha fatto nulla per dimostrare che non è neppure stupida. O per dimostrare di essere anche solo lontanamente consapevole del significato politico di una così stupefacente stupidità.



Gli auguri della Valandro
la Repubblica, 13-06-2013
Marco Bracconi
La cosa peggiore che si possa augurare a una donna è di essere stuprata. E la cosa non ha minore o peggiore gravità a seconda se provenga da un uomo o da una donna, da un leghista o da un grillino, da un berlusconiano o da un democratico.
Ma fa riflettere il fatto che a scrivere quell’orrore su Facebook sia stata una signora.
Una donna, quando si pronuncia la parola stupro, per provare orrore non ha bisogno di categorie morali o principi etici. Sa istintivamente, sulla pelle, cosa vuol dire subire una violenza sessuale. Lo sente nel corpo, direttamente. Senza alcun filtro. La sua ribellione davanti a quella parola è fisica e passionale, prima ancora che culturale e morale. E’ una rivolta ex ante, in difesa della propria identità, esattamente come lo stupro è attacco non solo al  corpo, ma appunto alla identità.
Era una battuta in un momento di rabbia, dice ora la consigliera Valandro. Ma una donna che augura uno stupro ad un’altra donna, che butta lì una parola del genere come se niente fosse, è una donna che ha perso non solo la testa, ma il senso di sé.
L’espulsione dalla Lega è poca cosa, quando ci si espelle da soli dall’umanità.



Razzismo e maschilismo: qualcuno in Italia non supera il test Kyenge
Corriere della sera, 14-06-2013
Alessandra Coppola
E’ una parola che aveva usato lei nella prima conferenza stampa: “termometro”. Anche adesso, a un mese e mezzo dalla sua nomina, il senso mi sembra questo: il ruolo della ministra per l’Integrazione Cécile Kyenge va oltre le sue competenze e la sua biografia. Una donna nera per la prima volta al governo serve all’Italia per misurare il grado di civiltà. Quanto ancora questo Paese è razzista e maschilista?
Qualcuno ha superato il test, qualcun altro è stato bocciato. “La società civile è avanti”, diceva ieri Kyenge nell’incontro con il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. Nelle scuole, soprattutto, nelle città e in provincia, nei luoghi di lavoro e nei locali pubblici, la “fotografia” – come dice la ministra – dell’Italia è cambiata, ci sono molte realtà che hanno assorbito la nuova immagine senza particolari traumi. E ci sono forze politiche che – seppur in ritardo – stanno cercando di tenere il passo, dal Pd (che è il suo partito) al Pdl della deputata Renata Polverini, per esempio, impegnata nella discussione sulla riforma della cittadinanza.
C’è un’altra parte del Paese che invece ha paura, è in difficoltà, non viene aiutata a gestire emotivamente una trasformazione che non è reversibile.
E allora diventa violenta, urla, insulta, clicca “mi piace” sotto il post su Facebook in cui la consigliera di quartiere (espulsa dalla Lega) a Padova s’interroga: “Mai nessuno che si stupri la Kyenge” (ancora più incredibile che a scriverlo sia stata una donna). Migliaia di anonimi o di nickname indecifrabili (anche tra i commentatori di questo blog) che accusano di buonismo chi parla di convivenza e spacciano il razzismo per realismo. Non sono pochi. La ministra gira con una scorta imponente, l’aggressività che la circonda si sente.
Molta politica è responsabile: quella che parla alla pancia, che istiga allo sfogo, che trova normale attaccare Kyenge per il sesso e l’origine africana.
L’Italia è cambiata, è un dato di fatto: bisogna capire come affrontarlo per stare meglio tutti. Da questo punto in poi bisognerebbe partire: da posizioni diverse, ma con un codice di comportamento pubblico comune, che rimandi agli esami di settembre chi non è capace di rispettare le diversità e non si rassegna al cambiamento.



IL CORTO CIRCUITO DELRAZZISMO
la Repubblica, 14-06-2013
CHIARA SARACENO

IL CORTOCIRCUITO operato dall'infausto augurio della leghista padovana ai danni di Cécile Kyenge è istruttivo. Impone una riflessione che non si limiti a rilevare, riducendola a fenomeno marginale e individuale, la grossolana maleducazione di una persona.
Una persona che non è in controllo né dei propri umori né delle proprie parole. Con quella frase,la signora (signora?) ha assimilato tutti i maschi neri a stupratori e tutti gli stupratori a neri. Chi chiede rispetto per i neri è quindi automaticamente complice di stupratori, tanto più se è nera essa stessa e rivendica orgogliosamente l'esserlo. Per indurla a ragionare, e per «farle abbassare le arie», l'unica è farle subire la violenza e l'umiliazione di uno stupro.
Questo corto circuito è esemplare, nella sua forma estrema, dell'atteggiamento razzista. Il diverso è sempre pericoloso e peggiore. Non conta che gli stupratori (o i ladri, o i violenti) appartengano a tutte le etnie e i colori della pelle. Non conta neppure che la maggior parte degli stupri, come dei femminicidi, avvengano per mano di un parente O conoscente. Lo straniero, il diverso da sé, tanto più se identificabile anche dal colore della pelle o da altri tratti fisici ben riconoscibili, è l'emblema di ogni pericolo e nequizia. Anche l'ultimo passaggio -l'augurio che anche Kyenge diventi vittima di uno dei "suoi" - fa parte della stessa logica. Donna e nera, e per giunta ministro: il soggetto perfetto per diventare il capro espiatorio di ogni frustrazione, l'incarnazione della vendetta contro le proprie paure.
Il fatto che sia una donna ad augurare a un'altra, sia pure vista come estranea e nemica, di essere stuprata, mostra quanto il razzismo, la costruzione dell'altro come nemico, produca una reificazione dei soggetti, di cui non si coglie né l'individualità né l'umanità e per i quali non si può provare neppure solidarietà. E un'esperienza ben nota nelle guerre, specie etniche, quando la di- versità - religiosa, etnica - viene ipostatizzata al punto di cancellare la comune, sottostante umanità.
Dolores Valandro,la leghista padovana, probabilmente non sa che atteggiamenti come il suo non giustificano solo maltrattamenti e discriminazioni contro i neri (o i romeni, o qualche altro gruppo etnico-nazionale visto come pericoloso e nemico). Chi ha questi atteggiamenti spesso ha una visione delle donne (anche delle "proprie") come esseri umani inferiori, da abusare a piacimento, anche fino al femminicidio. Quindi mettono in pericolo anche lei, sia pur "bianca" e italiana, ad opera non dei temuti "neri", ma dei suoi simili, soprattutto ideologicamente e politicamente. Le ricerche sul razzismo, infatti, segnalano che c'è un nesso stretto tra razzismo estremo e sessismo altrettanto estremo.
Fanno bene i responsabili della Lega a prendere le distanze dalle affermazioni della propria iscritta, come fecero pochi mesi fa con Borghezio. Ma dovrebbero anche interrogarsi sul tipo di cultura che hanno lasciato crescere ed hanno spesso legittimato in tutti questi anni, con il loro linguaggio scomposto, le invettive contro gli immigrati condite da compiaciuti vezzi celoduristi. E un la- voro di riflessione critica che peraltro ci riguarda tutti, nella misura in cui abbiamo troppo a lungo sopportato atteggiamenti linguisticamente e concettualmente violenti che, invece di contrastado, hanno creato un terreno favorevole a un clima relazionale e culturale pericoloso per tutti, in particolare per le donne, di ogni colore e posizione sociale. I razzisti estremi in Italia sono una minoranza, anche se rumorosa. Ma il razzismo strisciante, selettivo verso questo o quel gruppo, è molto piü diffuso e non meno problematico.



Dormitorio Roma-Termini Aumentano i rifugiati
A rimanere senza un tetto ci sono più di 1500 richiedenti asilo. Alla  Caritas non c'è più posto, sebbene la Chiesa Cattolica destini soltanto il 20 per cento di quanto incassa dai contibuenti italiani agli interventi caritativi. L'80% viene speso per esigenze di culto e per il sostentamento del Clero. Ma per la legge: l'8x1000 deve essere destinato a fini sociali e di solidarietà
la Repubblica.it, 14-06-2013
FRANCESCO FRUNZIO
ROMA - Non siamo a Korogocho o in uno slum di Dacca, ma in via Marsala, lungo i marciapiedi della seconda più grande stazione d'Europa: Roma-Termini, nel cuore della capitale d'Italia. Una settantina di persone, quasi tutte di origine africana, dormono sopra i cartoni raccattati qua e là, avvolti in coperte sudicie, in buste di nylon o in sacchi a pelo tutti sbrindellati. In Germania, alla Berlin Hauptbahnhof o in Inghilterra, a London Waterloo, uno scenario simile sarebbe impensabile.
Chi ha solo la scelta del marciapiede. Questi poveri uomini distesi per terra, sotto il neon della luce stradale, esposti ai rumori e all'inquinamento del traffico, al freddo d'inverno, o al troppo caldo, ma anche al rischio di agguati notturni di disperati come loro, sono gli immigrati extracomunitari rimasti fuori dagli alloggi che il Comune di Roma mette a disposizione per i rifugiati. "Dal 13 giugno 2012 al 13 giugno 2013 - spiega Alfredo Romani, responsabile Ufficio Immigrazione - le richieste di accoglienza sono state 3.315. Ma di queste, soltanto 1.816 sono state soddisfatte e potranno rimanerlo solo per sei mesi, rinnovabili ad un anno. In realtà, il numero dei posti letto sarebbe di 1.343, ma accogliamo anche qualche persona in più". Ma per le altre 1500 persone, che non sono riuscite ad entrare in uno dei 24 centri di accoglienza convenzionati, non resta che cercarsi un marciapiede, un'aiuola o un sottopassaggio e pregare per un futuro migliore.
5 mila posti, 10 mila richieste. La maggior parte dei richiedenti accoglienza arrivano da: Bangladesh, Afghanistan, Mali, Eritrea e Costa D'Avorio. L'Italia dispone di circa 5mila posti letto da destinare ai rifugiati, a fronte di una domanda di 10mila. Ed esattamente un terzo di queste persone prova a cercare fortuna a Roma, dove le possibilità di lavoro sono talmente poche che quasi tutti finiscono per andare a fare lavori stagionali massacranti in sud Italia, come a raccogliere pomodori in condizioni altrove inammissibili. Ma nel frattempo pernottano, se così si può dire, lungo le logore strade della Capitale.
I centri di accoglienza. Sono gestiti quasi tutti dalla Caritas (tra gli altri: Centro Astalli, Virtus, Domus Caritatis e Cooperativa 29 giugno). Vien da chiedersi come mai la Chiesa non investa in altri centri di ospitalità. D'altronde non sono pochi i milioni di euro di redditi che, ogni anno, grazie all'8×1000 finiscono nelle finanze della Cei. Parliamo di suon di milioni di euro: un miliardo lo scorso anno. Il problema è che solo il 20 per cento di questi, di preciso 235 milioni, sono stati destinati per opere caritative ed emergenze nazionali. Eppure la legge italiana è chiara: l'8×1000 è destinato a fini sociali e di solidarietà: fame, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, tutela dei beni culturali.
I conti in tasca alla Chiesa Cattolica. Dal rendiconto delle somme pubblicato dalla Cei, sappiamo però che la stragrande parte della somma, 470 milioni circa, viene spesa per esigenze di culto e pastorale, altri 360 per il sostentamento del clero, e solamente il restante 20 per cento per interventi caritativi, per l'appunto. C'è da aggiungere che in Italia, solo il 40 per cento della popolazione sceglie a chi donare l'8xmille. E di questi, il 34,5 per cento lo donano alla Chiesa Cattolica (il 4% allo Stato e l'1% ad altre confessioni religiose). Né la Chiesa né lo Stato tuttavia si occupano d'informare che le quote non espresse nella dichiarazione dei redditi, il 60 per cento, vengono comunque assegnate sulla base del 40 per cento di quanto è stato espresso. Così facendo, nelle casse della Cei ci va a finire il 90 per cento del totale dell'8 x mille versato dai contribuenti. O meglio malversato.
Ciò che ancora manca in questo Paese per raggiungere la qualità di accoglienza degli altri paesi europei, lo sintetizza Lorenzo Chialastri, responsabile area immigrati della Caritas di Roma: "Manca un sistema legislativo di base, che garantisca l'accoglienza a tutti i richiedenti".



Più di 1,5 milioni di permessi di soggiorno lavorati in un anno, 36 mila espulsioni.
Il prefetto Procaccini ha illustrato l’attività del 2012 del Viminale per l’immigrazione.
Immmigrazioneoggi, 14-06-2013
“Nel 2012 sono stati rilasciati 1.594.416 permessi di soggiorno, tra primi rilasci, rinnovi e soggiorni di lungo periodo. Dal 1 gennaio al 31 maggio 2013 i permessi di soggiorno rilasciati sono 730.607”.
È quanto ha reso noti ieri il prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del Ministero dell’interno, nel suo intervento alla conferenza dei prefetti, in corso a Roma. “Se parliamo di sbarchi – ha proseguito – nel 2012 ci sono stati 13.245 nuovi arrivi via mare”, mentre “nei primi cinque mesi del 2013 gli sbarchi sono 4.391”.
È stato sempre Procacccini a riferire che “nel 2012 i provvedimenti di rimpatrio adottati nei confronti dei cittadini stranieri irregolari sono stati 35.872, mentre nei primi cinque mesi del 2013 ne sono stati adottati 13.304”.
“Rilevante – ha proseguito Procaccini – è anche l’impegno, attraverso le Commissioni, per il riconoscimento dello status di rifugiato, sul fronte della protezione umanitaria: nel 2012 sono state esaminate 31.381 domande di protezione internazionale, di cui 14.820, pari al 47,22% del totale, definite con la concessione di una forma di protezione. Nei primi quattro mesi dell’anno le istanze esaminate sono state 8.011, di cui 4.801 definite con la concessione di una forma di protezione”. Infine, “dal 2008 al 2012 – ha concluso Procaccini – sono state concesse 46.777 cittadinanze, di cui 22.673 per matrimonio e 24.104 per residenza”.



Porto di Venezia. I dati della Prefettura confermano i respingimenti illegali verso la Grecia
Melting Pot Europa, 12-06-2013
Riccardo Bottazzo
Strano luogo, il porto di Venezia. Ci vanno e vengono impunemente le Grandi Navi ma i diritti fondamentali dell’uomo continuano ad essere tenuti fuori della cancellata. I dati forniti dalla Prefettura confermano che anche lo scorso anno perlomeno metà dei profughi che vi sbarcano dalla Grecia, dopo una terrificante traversata stipati sino ad asfissiarsi nei cassoni dei tir, vengono rispediti a Patrasso dalla nostra polizia di frontiera con la pratica del tutto illegale dell’ “affido al comandante”. Un pratica, dicevamo, del tutto illegale in quanto il decreto legislativo 25 del 2008 ha abrogato l’articolo della legge Martelli che consentiva alla polizia di decidere se una richiesta d’asilo fosse manifestamente infondata. In virtù di tale decreto che recepisce una normativa Cee, le autorità di frontiera sono obbligate a trasmettere immediatamente qualsiasi domanda di asilo al competente ente territoriale. Cosa che, nel 50 per cento dei casi, a Venezia non avviene. Il nostro porto continua quindi ad essere una frontiera di illegalità dove i diritti umani vengono concessi o negati a seconda degli umori del momento.
I dati che l’Osservatorio contro le discriminazioni di Venezia - che ricordiamolo, è un ufficio ministeriale che fa capo all’Unar - è riuscito, dopo non breve attesa, a farsi consegnare dalla Prefettura confermano quanto abbiamo scritto.
Nel periodo che spazia tra il gennaio ed il dicembre del 2012, al porto sono stati fermati 283 migranti. Di questi, 238 sono stati respinti verso la Grecia con “affido al comandante” e senza quindi che abbiamo potuto parlare con un interprete e con gli operatori preposti. Come abbiano fatto i poliziotti di frontiera, la cui familiarità col farsi e con le altre lingue orientali è tutta da dimostrare, a capire che la loro richiesta di asilo sia manifestamente infondata, è un mistero tutto da risolvere. Dei restanti 45, si legge nel documento inviato dalla Prefettura, 31 sono stati affidati ai servizi sociali del Comune in quanto minori non accompagnati e 14 sono stati ammessi in quanto richiedenti protezione internazionale.
Se consideriamo che la cooperativa Coges che gestisce l’accoglienza dichiara di aver incontrato 137 persone, se ne deduce che ben 146 richiedenti asilo (il 48 per cento) sono stati reimbarcati per la Grecia dopo aver incontrato soltanto la polizia di frontiera. E quindi, come si legge nella nota diffusa dall’Osservatorio: “senza avere avuto modo di esporre la propria situazione personale a operatori competenti preposti a tutela del diritto d’asilo”.
E’ appena il caso di ricordare che il destino di questi migranti imbarcati di brutto con la pratica dell’ “affido al comandante” è quello di venire rinchiusi in veri e propri lager e sottoposti, come ha dichiarato una sentenza della Corte Europea a torture e umiliazioni, sino al rimpatrio forzato in quel Paese da dove erano stati costretti a fuggire.
Va sottolineato che la percentuale dei respingimenti illegali per l’anno 2012 è pressoché la stessa che si ricava dai dati della Prefettura per i mesi che vanno dal gennaio 2010 all’ottobre 2011 (per i mesi di novembre e dicembre 2011 non sono state fornice cifre, nonostante le ripetute richieste dell’Osservatorio). In questo periodo infatti sono sbarcati mille e 46 migranti e ne sono stati respinti 574, che ci dà la percentuale del 55 per cento.
“Dall’analisi incrociata dei dati forniti - si legge nella nota dell’Osservatorio Antidiscriminazioni veneziano - emerge pertanto in maniera inequivocabile una violazione del diritto a richiedere protezione internazionale avvalendosi di operatori umanitari competenti. Si tratta di uno dei diritti fondamentali della persona umana, sancito da precise normative e riaffermato da recenti sentenze e raccomandazioni rivolte all’Italia”.
Come dire che il porto di Venezia continua a rimanere una “zona franca” dove qualcuno continua a fare quello che gli pare, infischiandosene delle leggi e dei diritti.
Con i migranti, così come con le Grandi Navi.

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