21 maggio 2013

Cittadinanza simbolica a 200 bimbi Cerimonia con il ministro Kyenge
Le mozioni L'iniziativa è partita da due mozioni presentate da consiglieri del Pd e approvate dal Consiglio comunale
Corriere della sera, 21-05-2013
Maurizio Giannattasio
Un segnale per dare una speranza. Oggi a 200 bambini, tutti nati a Milano da genitori stranieri, verrà conferita la cittadinanza «simbolica». Rafforzata dalla presenza del ministro per l'Integrazione, Cécile Kyenge. Nulla di ufficiale, perché la legge non lo consente. Bisogna aspettare i 18 anni per poter accedere alla cittadinanza italiana. Non esiste ancora lo ius soli. Ma Palazzo Marino accorcia i tempi. Con un atto che va al di là delle prescrizioni legislative e traccia un possibile cammino non privo di ostacoli e di feroci polemiche.
Martedì, nella Sala Viscontea del Castello Sforzesco, il Comune conferirà la cittadinanza simbolica ai minorenni, nati in Italia, residenti a Milano, figli di stranieri. Alla cerimonia interverranno oltre all'assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino e all'assessore all'Educazione, Francesco Cappelli, il ministro Kyenge. Parteciperanno 200 tra bambini e ragazzi provenienti dalle scuole di Milano in rappresentanza dei 34.000 minori, nati in Italia, residenti a Milano. Non saranno soli. Perché ogni «nuovo» italiano sarà accompagnato dai suoi compagni di classe. Tanti italiani e tanti stranieri. Chi avrà il coraggio di ammazzare i sogni di questi ragazzini con polemiche e battaglie politiche?
L'iniziativa è partita da due mozioni presentate da consiglieri del Pd e approvate dal Consiglio comunale: Paola Bocci ed Emanuele Lazzarini. Dove, in maniera diversa, si chiedeva l'anticipazione della cittadinanza italiana per i figli degli stranieri nati nel nostro Paese. I minori residenti a Milano (italiani e stranieri) a Milano sono 200.634. I minori stranieri residenti in città sono 45.793, il 22 per cento del totale dei minorenni residenti a Milano.
Un numero quasi triplicato rispetto al 2001 (17.374) e già nel 2006 la cifra era quasi raddoppiata (34.575). Tra i minori stranieri residenti a Milano oltre 34.000 (il 74% dei 45.793) sono nati in Italia (quindi destinatari della cittadinanza «simbolica»). Le prime dieci nazionalità di stranieri nati in Italia e residenti a Milano sono: cinese, filippina, cingalese, marocchina, peruviana, albanese, ecuadoriana, salvadoregna, egiziana e romena. Gli stranieri minori residenti a Milano che compiranno 18 anni nel 2013 e che quindi potranno potenzialmente fare richiesta di cittadinanza sono 666. Alle ultime elezioni politiche e regionali hanno potuto votare per la prima volta 1.507 nuovi italiani residenti a Milano. I Paesi di origine delle ragazze e dei ragazzi che hanno richiesto e ottenuto in numero maggiore la cittadinanza sono: Filippine, Cina, Egitto, Sri Lanka e Perù.



Ennesima proroga per i precari dell'immigrazione
I seicentocinquanta lavoratori a tempo determinato di Questure e Sportelli Unici non scadranno più a fine giugno, ma a fine anno. “La proroga ormai è una sorella di vita, come l’incertezza. A quando la stabilizzazione?”
Stranieriinitalia.it, 21-05-2013
Elvio Pasca
Roma – 21 maggio 2013 - Attesa, data ormai per scontata, forse un po’ un anticipo rispetto al solito, è arrivata l’ennesima proroga per i precari di Questure e Sportelli Unici, seicentocinquanta lavoratori che da un decennio portano avanti buona parte della burocrazia dell’immigrazione.
Stavolta, i loro contratti sarebbero “scaduti” a fine giugno. E invece nel decreto legge approvato venerdì scorso dal consiglio dei ministri si dice che il termine “è prorogato al 31 dicembre 2013” e al ministero dell’Interno viene assegnata “una somma pari a euro 9.943.590,96 “ per pagare i loro stipendi.
Contenti? Macchè. Ed è difficile dare loro torto. Da dieci anni, ogni giorno, si occupano di rinnovi dei permessi di soggiorno, ricongiungimenti familiari, flussi d’ingresso o sanatorie, se si fermano loro si ferma la gestione dell’immigrazione regolare in Italia, eppure finora la pubblica amministrazione è riuscita solo a prorogarli ogni volta che si avvicinava la scadenza del contratto, prima di anno in anno, ultimamente di sei mesi in sei mesi.
“La proroga è divenuta quasi una consuetudine nel nostro mondo lavorativo e familiare, come l’incertezza che ci accompagna in maniera inesorabile da oltre dieci anni, ormai una sorella di vita” ci scrive uno di loro, Cristiano Ceccotti. “Tutti gli anni, anche ogni sei mesi, allo scadere del contratto io ed i miei colleghi  non sappiamo  se e come, il giorno dopo, potremo riprendere il lavoro e rendere un servizio adeguato”.
“Perché un conto sono le dichiarazioni di principio dei diversi rappresentanti istituzionali, un conto la loro effettiva realizzazione pratica. E non sempre vi è coerenza tra questi due momenti. A quando – chiede Ceccotti - la stabilizzazione?”
Appunto, a quando? Possibile che dovranno essere i giudici , ai quali molto di loro si stanno rivolgendo, a costringere la Pubblica amministrazione ad assumerli a tempo indeterminato?
Questi seicentocinquanta hanno iniziato a lavorare con la regolarizzazione del 2002,  prima come interinali, poi, dopo aver vinto un concorso, come dipendenti a tempo determinato. Se erano indispensabili quando gli immigrati regolari erano meno di un milione, come si può sostenere che non vadano stabilizzati ora che la platea di utenti è quintuplicata?



Badanti, guerra ai pullmini che fanno Italia-Ucraina
La polizia italiana ha ingaggiato la sua battaglia con multe fino a 4.130 euro o il sequestro del mezzo. La ragione? Non hanno la licenza al trasporto. Eppure oltre 500 furgoncini privati ogni settimana garantiscono a basso costo il trasporto di vestiti, alimenti, regali e lettere spedite dalle badanti alle loro famiglie in patria
la Repubblica, 20-05-2013
VLADIMIRO POLCHI
ROMA  -  È la "guerra" dei pulmini ucraini. Ogni settimana oltre 500 furgoncini privati (sotto le 3,5 tonnellate) fanno la spola con l'Italia, trasportando a basso costo vestiti, alimenti, regali e lettere spedite dalle badanti alle loro famiglie in patria. Da qualche tempo, però, la polizia italiana ha cominciato la sua battaglia: i pulmini ucraini vengono fermati, multati di 4.130 euro e (in caso di mancato pagamento da parte dell'autista) sequestrati. Sarebbero già più di 200 i furgoni finora sanzionati. Il motivo? Non hanno la licenza al trasporto. Ma sul caso scoppia la contesa tra associazioni ucraine e polizie municipali: le prime sostengono che il settore è liberalizzato, le seconde si rifanno alle riserve inserite dall'Italia in un accordo bilaterale con l'Ucraina. E intanto qualche giudice di pace (come quello di Udine, nel marzo 2013) comincia a dare ragione agli ucraini e ad annullare le multe.
La "guerra" dei pulmini. A sollevare il caso è Oleksandr Horodetskyy, presidente dell'Associazione cristiana degli ucraini in Italia, con una lettera del 20 maggio al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi: "Onorevole ministro, attualmente in Italia vivono e lavorano legalmente circa 250mila cittadini ucraini. La nostra comunità è molto laboriosa e vi sono rarissimi fatti di cronaca che ci riguardano. Da quasi 20 anni, esiste il fenomeno dei  "pulmini ucraini", ovvero privati ucraini che con i pulmini leggeri, inferiori 35 quintali e immatricolati in Ucraina, svolgono un servizio capillare di collegamento. Questi privati offrono viaggi economici da e per l'Ucraina e portano a basso costo i pacchi con i generi alimentari e i vestiti delle mamme ucraine ai loro figli".
Liberalizzati in tutta Europa, qui no. "Senza questo servizio - prosegue la lettera al ministro Lupi -  la vita delle famiglie divise ucraine sarebbe molto più difficile se non impossibile. Ma da due/tre anni la polizia italiana ha cominciato la sua 'guerra'. Nonostante i pulmini leggeri siano liberalizzati in tutta Europa, gli autisti ucraini vengono fermati e multati con sanzioni pesantissime, in base all'articolo 46 legge 298/74, come autotrasportatori abusivi. Sembra che alla base di queste azioni di polizia - si legge ancora nel messaggio - ci sia una 'riserva' che l'Italia ha posto alla normativa europea, riguardante la liberalizzazione dei pulmini leggeri. Il problema diventa assurdo perché le autorità italiane chiedono ai vettori le licenze CEMT, che invece in Ucraina non si rilasciano ai veicoli inferiori alle 10 tonnellate".  
Gli italiani: "Concorrenza sleale". Insomma, da una parte ci sono i proprietari dei pulmini coi loro interessi, dall'altra le forze di polizia italiane e il ministero delle Infrastrutture: quest'ultimo, rispondendo ad un quesito della polizia municipale di Padova, nel maggio 2011 ha ribadito che il trasporto pacchi di vettori extracomunitari in regime privatistico non è liberalizzato, ma richiede apposita licenza. In mezzo restano gli "ucraini d'Italia" che rischiano di vedere tagliato il cordone ombelicale con chi è rimasto a casa. Non è tutto. Attori di questa "guerra" sono pure alcune piccole aziende italiane di trasporto che accusano i pulmini ucraini di concorrenze sleale, perché non rispetterebbero nessuna regola. Ci sono, infine, i giudici di pace, come quello di Udine che nel marzo 2013 ha annullato una multa della polizia italiana.
Gli ucraini: "Pronti ad autotassarci". "Fra l'altro - sostiene Horodetskyy - i vettori con le targhe romene, polacche o bulgare che svolgono lo stesso servizio per le loro comunità non sono considerati 'abusivi' dalla polizia, in quanto comunitari. Allora, visto che il problema riguarda più di 500 vettori ucraini, proponiamo una convenzione fra ministero e associazione che, da una parte permetta agli autisti ucraini di lavorare legalmente e dall'altra assicuri alle casse dello Stato italiano più di un milione di euro di entrate dirette l'anno. In sintesi, il ministero liberalizza l'attività e l'associazione si impegna ad 'autotassarsi' e versare alle casse dello Stato 200 euro al mese per ogni vettore, che moltiplicato per 450-500 autisti che hanno espresso la loro volontà di aderire all'associazione farebbe un contributo sostanzioso di più di un milione di euro l'anno. Inoltre, nella domanda di adesione ogni associato si obbligherà a osservare severamente la normativa vigente in materia di contrabbando e lotta alla criminalità organizzata, pena espulsione dall'associazione".



Aulla, tra alluvioni e “sbarchi” di africani
Corriere della sera.it, 20-052013
Stefano Pasta
Aulla, Comune di 11mila abitanti della Lunigiana, alluvionato due volte in due anni. “Vedevo passare questi ragazzi africani e sentivo il mormorio dei miei compaesani. Molti aullesi, furenti per non aver ancora ricevuto i rimborsi per l’alluvione dell’ottobre 2011, scaricavano la rabbia contro venti profughi africani, falsamente accusati di essere ricoperti d’oro mentre il paese era ricoperto di fango. Mi sono chiesta: in realtà chi sono?”. Così Melania Sebastiani racconta la nascita del documentario “I libici (del Mali)”, girato con Vincenzo Cammarata e ora in concorso al Premio Hemingway, sulla cosiddetta “Emergenza Nordafrica” (ENA), cioè tutte le iniziative messe in campo dal governo a seguito dell’arrivo di 27mila migranti africani e asiatici in fuga dalla guerra in Libia.
 Vista da Aulla, l’ENA ha il volto di Alì, Filvin, Sambou, venti ragazzi quasi tutti provenienti dal Mali parcheggiati in un’ala di una residenza per anziani affittata dal Comune.
    Da maggio 2011 allo scorso febbraio: immaginate di passare quasi due anni della vostra vita a non fare nulla.
Gli oltre 40 euro a giorno garantiti dallo Stato per ogni profugo sarebbero dovuti servire, oltre che per vitto e alloggio, al lavoro di assistenti sociali, avvocati, mediatori linguistici e culturali che avrebbero dovuto affiancare i giovani subsahariani, guidarli nel labirinto culturale e burocratico del nostro paese e aiutarli a uscire dal mero assistenzialismo. Ma per molti, magari sparpagliati tra le montagne della Valcamonica o alberghi del Napoletano altrimenti vuoti, non è stato così.
    Racconta Melania: “Quando c’è stata l’alluvione, ad Aulla anche i bambini di dieci anni spalavano il fango. Ai profughi che insistevano per aiutare è stato impedito: in caso di incidente, non avrebbero avuto la copertura assicurativa”.
Bloccati a domandarsi cosa fare, quando “il non far niente, la noia, uccide. Uccide i neuroni, uccide l’orgoglio, uccide il corpo”. Unica eccezione: la scuola di italiano dei volontari dell’associazione aullese Teriya. Sono loro gli altri protagonisti del documentario: accanto ai profughi, si appassionano alle vicende del Mali, sconvolto dalla rivolta dei tuareg, scoprono dove si trova la celebre Timbuctù e riescono addirittura a comprare il dizionario di una lingua mai sentita, quella dei loro nuovi concittadini, il bambarà. E da loro arriva anche la consulenza legale e i primi tentativi di inserimento lavorativo. Ma, soprattutto, i volontari di Teriya raccolgono le terribili testimonianze dei profughi. Il Mali, dove spesso l’Italia ha la forma di una clementina grazie alle rimesse degli immigrati delle campagne calabresi, la traversata del deserto, le terribili carceri libiche, la guerra civile e la scelta obbligata di pagarsi un biglietto della grande riffa per Lampedusa. Il viaggio nel Mediterraneo, quando invece l’Italia ha la forma di un puntino, di una striscia che appare e scompare, e, una volta sbarcati, di una bottiglietta d‘acqua e di un pacco di biscotti che non riesci a ingoiare perché il cibo ti taglia la gola. Fino ad arrivare ad Aulla, da cui l’Italia ha un sapore amaro e un grosso punto di domanda sul futuro.
    Prova a spiegare Melania: ”Ora, 4 ragazzi hanno provato a tentare la fortuna in Francia o in altre città, mentre 16 sono stati spostati il mese scorso in una foresteria, meno costosa. Ma non si sa per quanto tempo. È finalmente partito il primo tirocinio lavorativo, forse ce ne sarà qualcun altro, ma non si capisce se ci sia o no un progetto sul futuro di questi ragazzi”.
Del resto, è un po’ la storia della fine dell’Emergenza Nordafrica dell’ultimo mese: tra proroghe, circolari arrivate all’ultimo, buonuscite finali, progetti per i “soggetti vulnerabili”, è stata segnata dalla confusione e da scelte molto diverse tra le varie cooperative e realtà coinvolte.



Viaggio con i samaritani che salvano i migranti nel deserto dell'Arizona
Così abbiamo dato soccorso a un disperato
Corriere della sera, 21-05-2013
Guido Olimpio
TUCSON (Arizona) — L'uomo che dirà di chiamarsi Efrain spunta in una curva di una pista sterrata. Si tira dietro uno zaino. È stremato, i suoi occhi tradiscono paura. Si è perso nel deserto dell'Arizona, a nord del confine con il Messico, vicino alla Cisterna del Lupo. Era probabilmente con un altro gruppo di immigrati clandestini ed è rimasto indietro. Il «coyote», il trafficante che fa da guida agli illegali in una terra insidiosa, non aspetta. Tira dritto. Chi non tiene il passo muore di stenti o deve sperare in un angelo custode.
Quello di Efrain ha le sembianze di due «Samaritani». Ed, una vita passata in Marina, esperto di radar. Peter, ex dirigente di una banca. Da quando sono pensione aiutano i disperati che si dirigono verso nord in cerca di speranza e lavoro. I Samaritani lasciano l'acqua lungo alcuni percorsi che un altro volontario ha ricostruito con anni di ricerche. Per ore ho seguito la missione caritatevole di Ed e Peter, a bordo di un vecchio fuoristrada pieno di giare di plastica. Un lungo giro in un'area dove non vedi nessuno, ma «loro» ti vedono. Sulle alture ci sono le vedette dei contrabbandieri, i migranti e chi cerca di prenderli, gli agenti della Border Patrol. Efrain ci ha seguito con lo sguardo da un piccolo canyon, poi ha trovato il coraggio di fermarci. I Samaritani gli danno da bere, poi cibo. Ingolla l'acqua senza soste. Ed gli tocca la fronte. Il gesto non di un medico ma di un padre: «Scotta», dice. Gli chiediamo da dove arrivi. Lui: «Da Nogales», indicando la prima città messicana sulla frontiera. Una bugia. Le sue origini sono più lontane, probabilmente da un paese centroamericano. Afferma di essere single e di avere 38 anni. Gli chiediamo se è solo. Risponde di sì con la testa. Poco distante su una collina volteggiano degli avvoltoi. Brutto segno. Potrebbe esserci un cadavere. Saliamo il fianco con Peter, ispezioniamo l'erba alta che cela sassi e rovi. Nulla. Torniamo indietro. Ora per Efrain è il momento della scelta. Deve decidere: consegnarsi alle autorità o proseguire da solo verso «El Norte». I Samaritani possono dargli un passaggio solo nel primo caso, tutto il resto sarebbe fuori della legge. Efrain, che pur ha dovuto pagare al «coyote» oltre 2 mila dollari raccolti chissà come, risponde: «La migra». Vuole che lo portiamo alla polizia di frontiera. L'alternativa è il cammino del Diavolo. Sfidare il deserto, rovente di giorno, gelido di notte. Poi burroni, cactus che trafiggono come pugnali, serpenti a sonagli, la sete. E se gli va male può imbattersi nei «bajadores», banditi della frontiera.
Efrain sale sulla jeep, continua a osservarci mentre tiene d'occhio la strada. Non si sente ancora al sicuro. Per lui tutto questo è l'ignoto. Regge per un po' poi crolla in un sonno profondo che neppure i salti del fuoristrada interrompono. Un'ora dopo siamo ad un posto di blocco della Border Patrol. Lo prendono in consegna, sarà deportato in Messico. Efrain torna alla casella uno della sua odissea. Ci riproverà, perché è ancora vivo. Con l'esperienza di aver visto cosa c'è oltre il muro. Altri migranti non lo hanno potuto raccontare.
Il deserto dell'Arizona è punteggiato di loro resti. Dal 2001 sono morti a migliaia, uccisi dall'ipotermia e dalla fatica. Molti semplicemente svaniti. Di altri è rimasto appena un osso o abiti che il tempo ha ridotto a stracci. Reperti sui quali indagano in modo instancabile all'ufficio di medicina legale della Contea di Pima. In una palazzina bassa incontriamo Greg Hess, uno degli investigatori. Insieme ai suoi colleghi prova a scovare l'identità degli sconosciuti. Usano il Dna, incrociano le segnalazioni degli scomparsi ricevute dai consolati e da associazioni umanitarie, fanno indagini alla Csi su quegli oggetti. Un tatuaggio, un segno particolare possono essere un primo indizio. Poi ci sono i vestiti. L'etichette dei jeans custodiscono spesso dei segreti: è qui che i migranti celano il numero di telefono del loro contatto. L'interno della cintura è l'altro nascondiglio. Oppure hanno una tasca minuscola cucita nelle mutande. Non è solo un lavoro, ma una missione. Che coinvolge un team di specialisti. Al loro fianco gli attivisti di «Humane Borders». Insieme hanno creato un database dove sono censiti, con dati e coordinate, centinaia di casi irrisolti. Negli archivi una montagna di reperti. Foto di famiglie, fazzoletti ricamati, lettere accorate inviate a madre e figli. Storie dove c'è un corpo (o quasi), degli effetti personali, ma manca il nome. Punti rossi su una mappa digitale che talvolta sono sostituiti sul terreno da croci bianche. Fabbricate con il legno, le piantano dove hanno trovato le ossa. Luoghi selvaggi ai quali si arriva seguendo sentieri marcati da zaini e abiti abbandonati dagli immigrati. Laurie Jurs, altro cuore grande, ogni tanto porta un fiore. Lo ha rifatto insieme a noi guidandoci fino ad un angolo dove qualcuno si è lasciato cadere al suolo e non si è più rialzato. Di lui resta solo un ricordo e la scritta «desconocido».

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