27 maggio 2013

Rapporto annuale 2013 di Amnesty International - Un mondo sempre più pericoloso per rifugiati e migranti
Melting Pot Europa, 27-05-2013
La mancanza d’azione a livello globale in favore dei diritti umani sta rendendo il mondo sempre più pericoloso per i rifugiati e i migranti. È questo il messaggio diffuso da Amnesty International in occasione del lancio del suo Rapporto annuale 2013, che descrive la situazione dei diritti umani in 159 paesi e territori, nel periodo tra gennaio e dicembre 2012.
I diritti di milioni di persone in fuga da conflitti e persecuzioni, o in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita per se stesse e le loro famiglie, sono stati violati da governi che hanno mostrato di essere interessati più alla protezione delle frontiere nazionali che a quella dei loro cittadini o di chi quelle frontiere oltrepassava chiedendo un riparo o migliori opportunità.
“L’assenza di soluzioni efficaci per fermare i conflitti sta creando una sottoclasse globale. I diritti di chi fugge da quei conflitti non vengono protetti. Troppi governi stanno violando i diritti umani in nome del controllo dell’immigrazione, agendo ben al di là delle legittime misure di controllo alle frontiere” – ha dichiarato Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia, presentando a Roma l’edizione italiana del Rapporto annuale 2013 pubblicata da Fandango Libri.
“Queste misure non colpiscono solo le persone in fuga dai conflitti. Milioni di migranti sono trascinati in un ciclo di sfruttamento, lavori forzati e abusi sessuali dalle politiche contrarie all’immigrazione. Questa situazione chiama in larga parte in causa la retorica populista, secondo la quale rifugiati e migranti sono responsabili delle difficoltà in cui s’imbattono i governi nazionali” – ha aggiunto Sami.
Nel 2012, una lunga serie di emergenze dei diritti umani ha spinto alla fuga numerosissime persone, dalla Corea del Nord al Mali, dalla Repubblica Democratica del Congo al Sudan, costrette a cercare riparo all’interno dei loro stati od oltrefrontiera.
Un altro anno è andato perso per la popolazione della Siria, dove poco o nulla è cambiato se non il sempre più alto numero delle vite perse o distrutte. Milioni di siriani sono stati costretti a fuggire dal conflitto. Il mondo è stato a guardare, mentre le forze armate e di sicurezza di Damasco continuavano a compiere attacchi indiscriminati e mirati contro i civili e a sottoporre a sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziarie sospetti oppositori e, a loro volta, i gruppi armati proseguivano a catturare ostaggi e a compiere esecuzioni sommarie e torture, seppur su scala minore.
La scusa che i diritti umani sono “una questione interna” è stata usata per bloccare ogni azione internazionale sulle emergenze dei diritti umani, come quella della Siria. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, cui è affidata la sicurezza globale e che è accreditato ad avere leadership, ha ancora una volta mostrato di non saper svolgere un’azione politica unitaria e concertata.
“Il rispetto per la sovranità degli stati non può essere usato come scusa per non agire. Il Consiglio di sicurezza deve adoperarsi per fermare gli abusi che distruggono le vite umane e costringono le persone a lasciare le loro case. Deve farlo, rigettando la teoria, ormai logora e moralmente corrotta, che gli omicidi di massa, la tortura e le morti per fame non devono riguardare nessun altro stato”.
Chi ha cercato, nel corso del 2012, di fuggire da conflitti e persecuzione attraversando i confini internazionali ha trovato di fronte a sé incredibili ostacoli. È stato più difficile per i rifugiati varcare le frontiere che per le armi alimentare la violenza nei luoghi dai quali cercavano di allontanarsi. Tuttavia, l’adozione nell’aprile 2013 di un Trattato delle Nazioni Unite sul commercio di armi ha fatto nascere la speranza che le forniture di armi che possono essere usate per commettere atrocità saranno fermate.
“I rifugiati e gli sfollati non possono più essere considerati ‘lontani dal cuore, lontani dalla mente’. La loro protezione riguarda tutti noi. Il mondo privo di frontiere dei moderni strumenti di comunicazione rende sempre più difficile tenere le violazioni nascoste dentro i confini nazionali e offre a tutti un’opportunità senza precedenti di agire per i diritti di milioni di persone sradicate dalle loro case” – ha commentato Sami.
I rifugiati che sono riusciti a raggiungere altri paesi per chiedere asilo si sono spesso trovati nella stessa barca – non solo metaforicamente – coi migranti che lasciavano il loro paese in cerca di una vita migliore per se stessi e le loro famiglie. Molti degli uni e degli altri ora sono costretti a vivere ai margini della società, penalizzati da leggi e prassi inadeguate, presi di mira da quella forma di retorica nazionalista e populista che alimenta la xenofobia e accresce il rischio di atti di violenza nei loro confronti.
L’Unione europea ha posto in essere misure di controllo alle frontiere che mettono a rischio la vita dei migranti e dei richiedenti asilo e non garantiscono la sicurezza delle persone che fuggono da conflitti e persecuzione. In varie parti del mondo, migranti e richiedenti asilo finiscono regolarmente nei centri di detenzione e persino in container per la navigazione o gabbie metalliche.
I diritti di un’ampia parte dei 214 milioni di migranti non sono stati protetti né dai loro governi né dagli stati in cui si sono trasferiti. Milioni di essi hanno lavorato in condizioni che possono essere definite di lavoro forzato o assimilabili alla schiavitù, poiché i governi li hanno trattati da criminali e le grandi aziende si sono mostrate interessate più ai profitti che ai diritti dei lavoratori. I migranti privi di documenti sono stati maggiormente a rischio di sfruttamento e di violazioni dei diritti umani.
“Coloro che vivono fuori dai loro paesi, senza uno status e senza il minimo benessere, sono le persone più vulnerabili del mondo e sono spesso condannate a una vita disperata nell’ombra. Un futuro più giusto è possibile se i governi rispetteranno i diritti umani di tutti a prescindere dalla loro nazionalità. La protezione dei diritti umani deve riguardare tutti gli esseri umani, a prescindere da dove si trovino” – ha concluso Sami.
Ulteriori sviluppi sui diritti umani messi in luce nel Rapporto annuale 2013
Nel corso del 2012, Amnesty International ha documentato specifiche restrizioni alla libertà d’espressione in almeno 101 paesi, torture e maltrattamenti in almeno 112 paesi.
Metà degli abitanti del pianeta è rimasta costituita da cittadini di seconda classe per quanto riguarda la realizzazione dei loro diritti, poiché molti paesi non hanno agito nei confronti della violenza basata sul genere. Militari e gruppi armati hanno commesso stupri in Ciad, Mali e Repubblica Democratica del Congo; i talebani in Afghanistan e Pakistan hanno ucciso donne e ragazze; in paesi quali Cile, El Salvador, Nicaragua e Repubblica Dominicana, a donne e ragazze rimaste incinte a seguito di stupro o la cui gravidanza poneva a rischio la loro salute o la loro vita è stato negato l’accesso a servizi sicuri di aborto.
In tutta l’Africa conflitti, povertà e violazioni dei diritti umani da parte di forze di sicurezza e gruppi armati hanno messo in evidenza la debolezza degli strumenti regionali e internazionali per la difesa dei diritti umani.
Nelle Americhe, procedimenti giudiziari in Argentina, Brasile, Guatemala e Uruguay hanno fatto fare importanti passi avanti alla giustizia nei confronti delle violazioni del passato. Il sistema interamericano di protezione dei diritti umani è stato criticato da diversi governi.
Nella regione Asia e Pacifico la libertà d’espressione è stata repressa in Cambogia, India, Maldive e Sri Lanka e i conflitti armati hanno danneggiato la vita di decine di migliaia di persone in Afghanistan, Myanmar, Pakistan e Thailandia. Il governo di Myanmar ha rilasciato centinaia di prigionieri politici ma altrettanti rimangono ancora in carcere.
In Europa e Asia Centrale, i governi hanno potuto ancora sottrarsi alle responsabilità per i crimini commessi nel continente europeo nel contesto del programma di rendition degli Usa. Nei Balcani, le possibilità di ottenere giustizia per i crimini commessi nelle guerre degli anni Novanta si sono allontanate. Le elezioni in Georgia sono state un raro esempio di transizione democratica in un’area, quella delle ex repubbliche sovietiche, in cui regimi autoritari hanno mantenuto la loro presa sul potere.
In Medio Oriente e Africa del Nord, nei paesi in cui sono terminati regimi autocratici si è assistito tanto a un aumento della libertà d’informazione e a crescenti opportunità per la società civile quanto a passi indietro, costituiti da attacchi alla libertà d’espressione per motivi legati alla morale e alla religione. In tutta la regione, attivisti politici e per i diritti umani hanno continuato a subire la repressione, tra cui arresti e torture. Nel mese di novembre il conflitto di Israele e Gaza ha conosciuto una nuova escalation.
A livello globale, la pena di morte ha continuato la sua ritirata nonostante alcuni passi indietro come le prime esecuzioni in Gambia dopo quasi 30 anni e la prima impiccagione di una donna in Giappone dopo 15 anni.
La situazione in Italia
Durante la presentazione del Rapporto annuale 2013, il presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi ha commentato il capitolo relativo all’Italia.
“Anche quest’anno, il capitolo dedicato all’Italia testimonia di una progressiva erosione dei diritti umani, di ritardi e vuoti legislativi non colmati, di violazioni gravi e costanti se non in peggioramento” – ha dichiarato Marchesi. “Una situazione con molte ombre, tra cui l’allarmante livello raggiunto dalla violenza omicida contro le donne, gli ostacoli che incontra chi chiede verità e giustizia per coloro che sono morti mentre si trovavano nelle mani di agenti dello stato o sono stati torturati o maltrattati in custodia, la stigmatizzazione pubblica sempre più accesa di chi è diverso dalla maggioranza per colore della pelle o origine etnica”.
“La situazione dei diritti umani nel nostro paese ci ha spinto, all’inizio del 2013, a lanciare un vero e proprio ‘pacchetto di riforme’, l’Agenda in 10 punti per i diritti umani in Italia, sottoponendola ai leader delle coalizioni in corsa per le elezioni politiche e a tutti i candidati. I leader di quattro formazioni politiche che compongono l’attuale governo (Berlusconi, Bersani, Monti e Pannella) hanno aderito all’Agenda così come 117 attuali deputati e senatori. È stato un risultato importante, ma ora è arrivato il momento di mantenere le promesse: ci aspettiamo che coloro che hanno firmato l’Agenda, in tutto o in parte, tengano fede agli impegni specifici presi con Amnesty International e con coloro che si sono informati, durante le elezioni, sulle loro posizioni in materia di diritti umani” – ha aggiunto Marchesi.
“È più che mai giunto il momento di fare riforme serie nel campo dei diritti umani. Non ci sono alibi. Non regge l’alibi della crisi, ammesso che considerazioni economiche possano valere a fronte della necessità di proteggere valori fondamentali. Anche le violazioni dei diritti umani costano, e spesso di più della loro tutela. Né rappresenta un’obiezione valida la presunta limitazione dell’agenda del governo. Il parlamento è stato eletto e il governo è in carica: entrambi sono tenuti a svolgere le rispettive funzioni nell’interesse generale e a garantire l’attuazione delle convenzioni internazionali che il nostro paese si è impegnato a rispettare” – ha concluso Marchesi.



Cittadinanza: Giovanardi (Pdl) deposita un testo a Palazzo Madama per concederla ai minori nati in Italia all’iscrizione alla scuola dell’obbligo.
Il depositario cerca la mediazione tra la varie proposte all’esame del Parlamento.
Immigrazioneoggi, 27-05-2013
Un semplice articolo per stabilire che “chi nasce nel territorio della Repubblica italiana da genitori cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea, dei quali, almeno uno sia residente legalmente da un anno in Italia, se dopo la nascita risiede legalmente in Italia, può ottenere la cittadinanza italiana a partire dalla data di iscrizione al primo anno della scuola dell’obbligo”.
È il disegno di legge che il senatore del Pdl Carlo Giovanardi ha depositato a palazzo Madama e che cerca di trovare una soluzione al tema della cittadinanza.
Nella relazione che accompagna il ddl Disposizioni relative all’acquisto della cittadinanza italiana, Giovanardi spiega che al di fuori di determinate fattispecie “per ottenere la cittadinanza italiana” oggi “si deve essere residenti nel nostro paese per almeno dieci anni”. Appare pertanto ragionevole, spiega, “che tra i sostenitori dell’applicazione dello ius soli, con la concessione automatica della cittadinanza a tutti coloro che nascono in Italia e coloro che vogliono il mantenimento della legge attuale che la vincola al compimento del diciottesimo anno di età o a quando ai genitori viene rilasciata la cittadinanza italiana, si scelga una strada che non si presti ad abusi e nel contempo venga incontro alle aspettative di chi nasce e vive nel nostro paese”. Ecco perché, prosegue il parlamentare Pdl, “con questo ddl si propone che il figlio nato da cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea, con uno dei genitori legalmente dimorante da almeno un anno in Italia, se dopo la nascita risiede legalmente in Italia possa ottenere la cittadinanza italiana nel momento in cui viene iscritto al primo anno della scuola dell’obbligo”.



Il dramma della morte dei migranti.
Cinque di loro muoiono ogni giorno mentre tentano di raggiungere i Paesi europei.
Immigrazioneoggi, 27-05-2013
Giorgia Cristiani
Secondo il bilancio stilato dalla rete Migreurop, sono almeno duemila i migranti morti lo scorso anno mentre cercavano di raggiungere l’Europa. Negli ultimi venti anni, il numero totale dei decessi di migranti è di 16.250, una media di 5 al giorno. Migreurop sottolinea inoltre che si tratta di un numero molto più basso di quello reale, poiché il bilancio si basa sui corpi ritrovati e le testimonianze dei sopravvissuti, non sul numero oggettivo dei dispersi, difficilmente calcolabile.
Gli autori di questo studio incriminano le politiche restrittive adottate dall’Ue: il controllo alle frontiere non è servito a ridurre l’immigrazione, ma ha moltiplicato i rischi per i migranti. Gli europei sono inoltre incolpati di non prestare soccorso alle persone in pericolo e di ignorare questa tragedia che ogni giorno si svolge sotto i loro occhi.
Violaine Carrère, ricercatrice antropologica e membro del Gruppo d’informazione e sostegno per gli immigrati (Gisti), afferma che le navi militari dei Paesi coinvolti in questi episodi possiedono tutti i mezzi necessari a salvare le imbarcazioni in pericolo: “si tratta di una deriva verso l’inferno che si svolge sotto gli occhi dei nostri militari”.
Accuse simili sono già state lanciate pochi mesi fa da Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, che nei primi sei mesi di mandato ha assistito a 21 morti. “Quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?” si domanda il sindaco, e si dichiara indignata dall’assuefazione e dal silenzio dell’Europa di fronte ad una tale situazione. Per lei, l’unico motivo di orgoglio è offerto dagli uomini dello Stato italiano che salvano vite a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi è a sole 30 miglia dai naufraghi e dispone di motovedette ignora le loro richieste di aiuto. A concludere il suo appello, una frase di solidarietà: “Voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza”.



Il dibattito sull’immigrazione in Svezia
Dopo sette notti di scontri nei quartieri periferici di Stoccolma la situazione sta tornando normale, ma si discute dell'integrazione degli immigrati e delle politiche di questi anni
Il Post, 26-05-2013
Dalla sera di domenica 19 maggio, in alcuni quartieri periferici a nord di Stoccolma, la capitale della Svezia, ci sono stati scontri tra la polizia e gruppi di giovani, e sono stati appiccati una serie di incendi. La “rivolta” – come è stata definita dal primo ministro Fredrik Reinfeldt – si è originata in alcune delle zone urbane più povere del paese e in cui abitano molti immigrati stranieri: è cominciata vicino a Husby, diffondendosi poi nelle zone di Norsborg, Älvsjö e fino alla città di Malmö, nel sud del paese. Negli ultimi sette giorni sono state bruciate diverse auto e un piccolo incendio ha colpito una stazione di polizia a Älvsjö.
Uno dei portavoce della polizia, Kjell Lindgren, ha detto che i rivoltosi non sono identificabili facilmente con un gruppo definito: fra loro ci sono ragazzi giovanissimi, anche di 12 e 13 anni, trentenni, stranieri e svedesi, che hanno lanciato sassi e pietre contro gli agenti. Almeno trenta persone sono state arrestate. Lars Byström, un poliziotto, ha detto: «Non ho mai preso parte a una rivolta durata così a lungo e diffusa così tanto». In questi giorni, la polizia di Stoccolma ha dovuto chiedere rinforzi alle centrali di Göteborg e Malmö. Alcune auto sono state bruciate anche la notte scorsa, ma la situazione si sta stabilizzando, ha assicurato la polizia: ieri, non ci sono stati feriti né arresti.
Le violenze sono iniziate dopo che il 13 maggio un uomo di 69 anni, armato con un coltello, è stato ucciso dalla polizia. Molte persone che avevano assistito all’episodio e i militanti di Megafonen, un gruppo giovanile impegnato nella difesa delle minoranze nei quartieri periferici di Stoccolma, avevano denunciato l’eccessiva violenza degli agenti in questo come in altri episodi e chiesto un’indagine indipendente: «La gente ha iniziato a reagire alla crescente marginalizzazione e segregazione di classe e di razza degli ultimi 20 anni», ha detto uno dei portavoce.
I primi scontri sono stati a Husby, un quartiere a nord di Stoccolma. Husby assomiglia a molte altre aree periferiche delle città svedesi: è nato all’inizio degli anni Settanta e, su circa undicimila residenti, l’80 per cento proviene da altri paesi o è nato in Svezia da genitori immigrati. A Husby c’è un alto numero di persone assistite dallo Stato, molti ragazzi che hanno abbandonato la scuola e un elevato tasso di disoccupazione. Secondo le cifre dell’agenzia per l’occupazione svedese riferite al 2010, il 20 per cento dei giovani di Husby non svolgeva alcuna attività e un ragazzo tra i 16 e i 19 anni su cinque era senza lavoro e non andava a scuola.
La Svezia è considerata da tempo un paese tranquillo ed egualitario, ma le agitazioni di questi giorni hanno aperto un ampio dibattito sul tema dell’integrazione degli immigrati, la maggior parte dei quali sono arrivati nel paese grazie anche alle politiche di asilo approvate nell’ultimo decennio. Gli immigrati costituiscono circa il 15 per cento della popolazione e arrivano principalmente da Turchia, Libano, Somalia, ma negli ultimi anni anche da Iraq, Afghanistan e Siria: nel 2012 sono state accettate 44 mila richieste di asilo politico.
In molti casi però l’integrazione degli immigrati all’interno della società è risultata essere molto difficile, nonostante i numerosi programmi statali: ci sono corsi di lingua e di storia gratuiti e l’assistenza e le opportunità di lavoro sono equiparate a quelle degli svedesi. Tra gli immigrati, il tasso di disoccupazione è di dieci punti maggiore rispetto a quello di chi nasce all’interno dei confini svedesi (16 per cento contro 6 per cento) e il livello di scolarizzazione è ancora molto basso.
L’Economist scrive che, dall’inizio dell’anno, i temi della discriminazione degli immigrati e del razzismo in generale erano già stati discussi dalle forze politiche del paese. Anche se gli scontri di questi giorni non possono essere paragonati a quelli nei quartieri periferici di Parigi nel 2005, o a quelli di Londra nel 2011, un problema c’è. Secondo alcuni sarebbe dovuto proprio al fallimento, almeno parziale, delle politiche sociali sull’integrazione di questi anni.
La Svezia rimane comunque uno dei paesi in cui la parità di trattamento, tra cittadini e immigrati, rimane ampiamente tutelata, ma secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD) sono presenti differenze sociali ed economiche molto accentuate tra svedesi e immigrati, in primo luogo riguardo alla disparità dei redditi.
Il primo ministro Fredrik Reinfeldt ha condannato le violenze e al momento non ha annunciato né promesso nuove misure per risolvere i problemi delle periferie. Negli ultimi mesi la polizia è stata spesso incaricata – scatenando numerose proteste – di rintracciare i clandestini, fermando di volta in volta le persone incontrate per strada e che a vista davano l’impressione di essere stranieri, chiedendo loro di mostrare i documenti.
Il tema dell’integrazione, che spesso alimenta un risentimento contro gli immigrati, è stato contrastato dai Democratici Svedesi, un partito nazionalista e xenofobo di estrema destra. A sorpresa di molti, alle elezioni del 2010 il partito ha preso il 5,9 per cento dei voti, ottenendo per la prima volta dei seggi in Parlamento. Secondo un sondaggio di maggio dell’istituto Demoskop, oggi è il terzo partito più popolare nel paese.

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