06 novembre 2013

Un’Italia senza immigrati?
La proposta sull’immigrazione di Luigi Manconi e Valentina Brinis, nel libro Accogliamoli tutti
Il Saggiatore ha pubblicato il libro Accogliamoli tutti di Luigi Manconi, sociologo, senatore e presidente di A Buon Diritto Onlus, e di Valentina Brinis, ricercatrice e esperta di immigrazione, con una prefazione del Ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge. Il libro propone l’accoglienza come soluzione più utile e efficace, sia per gli immigrati che per gli italiani, al problema dell’immigrazione. In queste pagine Manconi e Brinis analizzano cosa succederebbe in un’Italia senza immigrati.
Il Post, 05-11-2013
Da quasi un lustro, un dato affiora dalle ricerche sociali più avvertite e fa capolino su alcuni organi di stampa: gli immigrati se ne vanno dall’Italia. Si tratta, in realtà, di un dato controverso.
Se consideriamo il solo indicatore rappresentato dalla mera statistica demografica, il fenomeno è incontestabile. I dati del censimento generale del 2011 evidenziano che il numero degli stranieri residenti è triplicato rispetto alla rilevazione del 2001. Questo aumento non ha avuto un andamento costante, risentendo della legislazione nazionale e internazionale in tema di immigrazione.
Al 1° gennaio 2012 i dati dell’Istat segnalano la presenza in Italia di 4.859.000 stranieri, che rappresentano l’8 per cento della popolazione totale residente. Rispetto al gennaio del 2011 si registra un incremento di 289.000 unità. Il che è significativo, in quanto l’incremento è in termini assoluti inferiore a quello registrato negli anni precedenti: 2011, +335.000; 2010, +425.000; 2009, +343.000; 2008, +459.000; 2007, + 494.000. In altre parole, dal 2009 aumenta la popolazione straniera, ma a un ritmo meno sostenuto, e si riduce la misura di quell’incremento. Un dato che sembra confermato anche dalla «sparizione» di circa 800.000 immigrati: ci riferiamo allo scarto tra popolazione residente e popolazione registrata dal censimento 2011. La differenza si deve, probabilmente, a molti fattori: non si possono di certo trascurare i cambi di residenza da comune a comune non correttamente trasmessi all’anagrafe, ma molte fonti considerano l’ipotesi che una parte degli «spariti» sarebbe rientrata in patria, mentre un’altra parte si sarebbe indirizzata verso altri paesi. Un’altra quota ancora si è sottratta presumibilmente alla compilazione di un modulo, quello del censimento, che sembrava corrispondere a una forma di controllo non desiderabile per più ragioni (non tutte necessariamente illecite). Contribuisce a spiegare il fenomeno in questione anche il mancato rinnovo dei permessi di soggiorno, che ha riguardato nel 2011 circa 140.000 persone. E va aggiunto che, pur in assenza di precise statistiche, è altamente probabile che un certa frazione di coloro che non hanno potuto o voluto rinnovare il titolo di soggiorno sia rimasto qui, in una condizione di «invisibilità»: ovvero di irregolarità. Un’occasione persa per tutti.
In ogni caso, un fatto appare incontrovertibile: il numero degli immigrati presenti in Italia non aumenta più come prima. Anzi, il tasso di crescita tende a diminuire. Molti i motivi, alcuni dei quali di non facile decifrazione. Se è vero che la crisi economico-finanziaria internazionale impoverisce in particolare i paesi del sottosviluppo, è altrettanto vero che rende meno attraenti e appetibili quelli dello sviluppo. Moltiplica le spinte a emigrare ma pone ostacoli maggiori alla possibilità di immigrare in un certo numero di paesi sviluppati; fa fuggire persone, gruppi familiari e segmenti di comunità, ma finisce con il costruire barriere di ogni sorta alla possibilità di una loro accoglienza.
Per esempio, i ricongiungimenti familiari – qui intesi in senso non esclusivamente legale – diventano assai più complicati e onerosi per coloro che, già presenti nei paesi industrializzati, vorrebbero riunirsi ai propri cari: si sono ridotte le possibilità di lavoro e le protezioni sociali, ma anche gli spazi nelle abitazioni e il numero dei mezzi pubblici di trasporto (e tutto ciò mentre si irrigidivano i criteri relativi proprio alle procedure di ricongiungimento). Più in generale, l’immagine dell’Italia sembra essere profondamente mutata nelle aspettative di quanti si rivolgono all’Europa per trovarvi una prospettiva di vita futura: ai loro occhi, il nostro paese appare nel complesso assai meno attraente e comunque intenzionato a chiudersi. La conseguenza è un duplice processo di scoraggiamento, che porta l’Italia a un ruolo marginale (più propriamente: transitorio e provvisorio) rispetto ai grandi flussi migratori; e che induce quanti, in Italia, avevano trovato nuove chance di vita a non accontentarsene più, fino a considerare quella italiana come una sorta di «tappa di passaggio» per una successiva destinazione. Accade così che se un dato, qui assai valorizzato, come quello della imprenditoria straniera mantiene pressoché intatta la sua vitalità, altri indicatori vanno in un senso affatto diverso. In particolare quello relativo all’impiego della forza lavoro straniera. Qui i dati sembrano chiari, e se incrociati con quelli prima ricordati sul mancato rinnovo del permesso di soggiorno, confermano la sensazione di un minore investimento sull’Italia da parte di una crescente percentuale di migranti.
Tutto ciò in uno scenario profondamente segnato dalla peculiare crisi demografica del nostro paese. Da alcuni decenni ormai si sente ripetere che «l’Italia è invecchiata». Vero, verissimo: siamo un paese letteralmente «vecchio», il cui tasso di fecondità è tra i più bassi dei paesi occidentali, come dimostra il valore del «saldo naturale» di -20.642 individui per il 2012, dato dalla differenza tra il numero dei nati e il numero dei morti in quell’anno.
In genere, quell’affermazione («l’Italia è vecchia») suggerisce considerazioni, tutte ragionevoli e condivisibili, sulla necessità di favorire il «ringiovanimento» della società nazionale. E, tra i rimedi proposti, l’arrivo di persone straniere, dotate di grandi risorse, energia e voglia di fare, disponibilità al cambiamento e interesse per le novità, in grado di spostarsi rapidamente e di affrontare le incognite di nuovi luoghi, nuovi lavori, nuove condizioni di vita, è considerato un’importante opportunità. Si tratta di un ragionamento accettabile, perché è indubbio che alcuni dei tratti rilevanti del «carattere nazionale», quelli che hanno determinato fenomeni di immobilismo sociale e stagnazione culturale, possano essere sottoposti a utile pressione e a sfide stimolanti dall’arrivo di nuovi competitori – a patto, sia chiaro, che si eviti il rischio di una sorta di «guerra» tra «nuovi» poveri). Ed è altrettanto indubbio – anche se è solo un esempio – che il fenomeno costituito dalle piccole imprese con titolare straniero non abbia rappresentato un fattore di concorrenza nociva per le piccole aziende italiane, bensì un fattore di dinamizzazione del mercato e di più ampia offerta di servizi.
Ma l’età avanzata della popolazione italiana pone, fin da ora, un altro grande problema, che presenta aspetti drammatici. Ancora una volta, l’analisi demografica può essere di aiuto. Partiamo dalla vetta della piramide generazionale, con riferimento agli ultimi dati del censimento generale del 2011: in Italia le persone che si trovano nella fascia 100-105 anni sono circa 15.000, e 503.000 quelle che hanno compiuto tra i 90 anni e un secolo.
Scendendo alcuni gradini di questa scala, troviamo che sono 3.107.000 le italiane e gli italiani tra gli 80 e gli 89 anni, e 5.587.000 quelli tra i 70 e i 79. Se osserviamo, infine, quella fascia d’età dove approssimativamente si colloca l’inizio del pensionamento, vi troviamo 4.452.000 individui. Se anche si esclude quest’ultima classe, si può notare che nel complesso dai 65 anni in su si trovano 12.290.000 italiane e italiani.
È questo dato, così crudo e imponente, a costituire una delle motivazioni di fondo – razionale, razionalissima – di quell’«accogliamoli tutti» che dà il titolo al nostro libretto. E qui giova ascoltare le parole di un demografo. Il professor Giuseppe Gesano ci illustra i contenuti essenziali del saggio da lui scritto con Salvatore Strozza sulla rivista internazionale Genus: «Tutti i dati confermano che l’immigrazione ha un ruolo centrale nel ridurre l’invecchiamento generale della popolazione nel breve periodo, ma non può ribaltarlo a meno che non sia ammessa l’accoglienza di grandi flussi di individui. Nel medio periodo (venti-quarant’anni), gli effetti indiretti dell’immigrazione sul “ringiovanimento” potrebbero svanire rapidamente, dato che la differenza nei livelli di riproduzione si riduce in proporzione alla durata della permanenza dei migranti. La prima generazione di immigrati progressivamente passa nell’età adulta e, se non sono tornati a casa, anche loro contribuiscono all’invecchiamento della popolazione nel paese di accoglienza».
In altre parole, sostiene Gesano, non può essere certo un flusso migratorio occasionale e limitato nel tempo a contenere il processo di invecchiamento della popolazione: «Solo una politica di continui flussi di nuovi immigrati potrebbe risultare efficace». Per paradosso, «in un equilibrio esclusivamente demo-economico» si può sostenere che una politica di immigrazione costante sia ulteriormente vantaggiosa, in quanto «le nascite al di fuori del paese di accoglienza e la conseguente immigrazione di lavoratori adulti consentono di risparmiare le spese per l’educazione nei primi anni d’età». In ogni caso, «l’invecchiamento della popolazione è stato e sarà un processo inevitabile, legato soprattutto alla riduzione dei tassi di fecondità nei paesi occidentali e al prolungamento della durata media della vita umana».
In estrema sintesi, la conclusione che propone Gesano è questa: «Le politiche presenti e future per l’Italia, così come per altri paesi con un basso tasso di fecondità e un rapido tasso di invecchiamento, dovrebbero combinare incentivi all’aumento delle nascite attraverso l’immigrazione regolata da flussi annuali e programmi per l’integrazione, specie in ambito lavorativo».
Ecco spiegato il sottotitolo di questo nostro pamphlet: per «salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati» sono necessarie (meglio: indispensabili) intelligenti e lungimiranti politiche per l’immigrazione, capaci di combinare misure di sostegno all’incremento della popolazione, accogliendo e regolarizzando, con strategie di integrazione e di inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza.
A questo punto, si potrebbe replicare: vi nascondete dietro un demografo. Non abbiamo alcuna difficoltà ad ammetterlo: sì, ci nascondiamo dietro al nostro bravo demografo. E il motivo è semplice. Siamo a tal punto convinti della assoluta ragionevolezza delle argomentazioni fin qui svolte e di quelle che svolgeremo, e così certi dell’incondizionato buon senso delle nostre proposte, che talvolta ci stupiamo di come il senso comune – per Antonio Gramsci nemico, appunto, del buon senso – sembri andare in tutt’altra direzione. È propriamente allora che ci sembra opportuno chiamare in soccorso la scienza. Ossia l’aspra materialità dei dati economici e di quelli relativi alle dinamiche delle popolazioni e dei processi sociali e culturali. Sappiamo che nemmeno i numeri sono sufficienti, di fronte alla vischiosità degli stereotipi e all’oscura resistenza opposta dalle ansie collettive. Ma, indubbiamente, possono aiutare.



CIE di Gradisca - I migranti lo chiudono con le rivolte
Iniziano i trasferimenti verso Trapani. Ora non riaprirlo mai più!
Melting Pot Europa, 06-11-2013
Era nell’aria e da questa mattina è un fatto concreto. Il CIE di Gradisca va verso la
chiusura. Si tratta di un provvedimento certamente temporaneo e parziale per il quale circa 35 migranti già in queste ore sono in via di trasferimento verso il CIE di Trapani con un aereo di Poste Italiane.
La conferma ufficiale, con tempi e modalità certe ancora non c’è, ma lo scenario che abbiamo di fronte è palese e certo.
Centinaia di denunce, decine di rapporti, molte delibere e prese di posizione, hanno contribuito in questi anni a svelare la natura del CIE, la sua brutalità e la sua ingiustizia.
La realtà di queste ore ci racconta però come la sua chiusura sia conseguenza diretta di altro: della sua distruzione, delle rivolte di chi, privato della libertà in condizioni disumane, abbia materialmente rotto le gabbie dentro cui era confinato.
Non è poco. Si tratta di far tesoro di questa lezione perché nelle prossime settimane non prendano il sopravvento la retorica e le ambiguità.
Si apre infatti oggi la partita più importante. Perché se il Viminale ha scelto di chiudere temporaneamente la struttura lo ha fatto per la sua comprovata ingestibilità ed il rischio è quello di trovarci di fronte o ad una sua riapertura frettolosa, una volta sistemato in maniera approssimativa, oppure ad una sua ristrutturazione funzionale al contenimento delle rivolte, così come già indicato dal documento programmatico di indirizzo del Viminale all’inizio del 2013. Un CIE più umano e per questo accettabile?
Non sappiamo quale siano le decisioni delle prossime ore, ma forse poco importa.
Ciò che invece sembra importante è che in questo momento prenda forma, anche nel concreto, l’ipotesi di chiusura definita: l’idea che il CIE non debba riaprire più.
Già il prossimo 16 novembre a Gradisca, il Movimento contro il CIE si è dato appuntamento per chiedere la cancellazione definitiva del capitolo CIE dalla storia dell’isontino. Sembra proprio il momento giusto. Quello per far valere in concreto anche quelle posizioni istituzionali che negli scorsi mesi si erano espresse contrariamente alla presenza del CIE. Senza ambiguità, senza se e senza ma, è il momento per far si che questa chiusura temporanea si trasformi in chiusura definitiva.
Lo dobbiamo a chi da dentro ha chiuso la gabbia in cui era costretto.



Quel muro lungo 286 passi che imprigiona il dolor
Melting Pot Europa, 06-11-2013
Pino Roveredo
Chissà quante volte sono passato per Gradisca, sulla via Udine, e sempre con l’andatura della fretta e la velocità della coda dell’occhio da dedicare alla tristezza ingombrante della muraglia che nasconde il Cie (Centro identificazione espulsione), evitando così di pensare alle angosce e alle disgrazie che vi girano dentro.
D’altronde, anche chiacchierando con alcune persone della città, è venuto fuori che sì, certo, quegli strani stranieri in fondo non hanno mai commesso grossi reati ai danni della comunità, però c’è quel terribile muro che li imprigiona e procura il naturale fastidio di chi deve sopportare il peso di una sofferenza che non gli appartiene. Proprio come i muri dei vecchi manicomi prima della rivoluzione basagliana, quando gli si passava accanto senza guardarli e commentarli, e dove uccideva più la forza di una vergogna che la malattia psichiatrica.
Oggi ho rallentato la corsa, sono sceso dalla fretta, e mi sono parcheggiato davanti al Centro. Oggi, senza la professione e la precisione del giornalista, ma unicamente con la penna dell’emozione, sono venuto a Gradisca per incrociare e raccontare una verità che non conosco.
Per una questione di ansia sono arrivato mezz’ora prima. Mi guardo intorno, il cielo è grigio, la strada è grigia, le poche macchine che passano veloci sono grigie, anche il silenzio è grigio, proprio come l’enorme muro tirato su per dividere il mondo in due. Rispolverando un vecchio uso carcerario, consumo il tempo passeggiando. Avanti e indietro, avanti e indietro...
Il muro è lungo esattamente duecento ottantasei passi! Il resto è nascosto nella boscaglia. Sopra il motivo del conteggio, con una vernice rosso sangue, e con i caratteri enormi come il fiato di un urlo infinito, c’è una schiera di scritture che come un coro invoca la stessa preghiera... Freedom – Libertà – Hurria – Libertad - Liberté – Freiheit – Svoboda...
Ecco, è arrivato il fotografo, finalmente si può entrare. Scavalchiamo una porta e arriviamo davanti al gabbiotto del controllo. Dietro il vetro ci sono una decina di agenti, poi tavoli sparsi, montagne di carte e qua e là i caschi e l’attrezzatura antisommossa. Mentre controllano i nostri documenti, passano alcuni ospiti, sono asiatici, africani, hanno gli sguardi bassi, i visi spaventati, e tutti salutano con la discrezione del sussurro. Per riempire l’attesa necessaria al disbrigo burocratico, scambio due parole con un ufficiale di Polizia...
«“Bossi, Fini, siete degli assassini!”. Vede, questo è solo uno dei tanti slogan che urlano sia ai politici che a noi, noi che siamo visti come i guardiani, perciò nemici. Noi facciamo il nostro lavoro, e le assicuro che non è facile! Cerchiamo di relazionarci, dare una mano, ma qui tutto è complicato, siamo due mondi diversi! Guardi, io sono un meridionale e la conosco bene la fatica dell’emigrante! Noi, a fatica, ci siamo inseriti, loro invece vengono da altre culture e hanno difficoltà a integrarsi nel territorio, nella città, nella scuola, dappertutto… Sa cosa bisognerebbe fare? Vendere meno armi e aiutare queste persone, ma aiutarle nelle loro terre, dove sono nate, e non qui dove tutto è maledettamente difficile…»
Finalmente arriva il consenso per l’entrata, meno male! A guidarci c’è un operatore che, insieme a una trentina di soci, lavora all’interno per una cooperativa, e come tutti i suoi compagni, non riceve lo stipendio da oltre quattro mesi! Mentre andiamo ci spiega che il Centro è diviso in due parti…
Da una parte il Cie, dove i soggetti con precedenti penali, sprovvisti di permesso, clandestini, sono rinchiusi per un tempo massimo di diciotto mesi. Sono in otto per stanza con un bagno a disposizione, possono comunicare con il cellulare (cellulari con cui in passato, per invalidare qualsiasi ripresa, veniva bucata la telecamera), e come unico svago possono partecipare a un corso di lingua italiana.
Per visitare quel posto ci vogliono permessi speciali, che noi non abbiamo. La seconda parte invece, il Cara (Centro Accoglienza Residenti Asilo), è sicuramente un posto più tranquillo. Ci sono in media 150 persone, in attesa della certificazione di asilo, e per legge non possono sostare più di venti giorni, ma in verità ci sono persone che sono qui da più di due anni.
Lo spazio era in origine una vecchia caserma, qualcuno dice che fino a qualche anno fa esisteva e resisteva il busto di Mussolini. Nel cortile incontriamo i primi ospiti, qualcuno fuma, qualcuno saluta, qualcuno vedendo la macchina fotografica chiede la cortesia di una foto tessera da utilizzare sopra la speranza di un permesso. Qualcuno con la lingua incerta, scambia qualche parola…
«Vengo dall’Afghanistan, sono stato torturato dai talebani! Io dalla Somalia dove c’è sempre la guerra e dove mi hanno ucciso tutta la famiglia. Io vengo dalla Siria, dove non c’è più pace, dove non c’è più sole, dove c’è solo morte, morte, morte…».
Gli uomini comunicano a testa bassa, ti danno la mano senza stringere il saluto, e trattano le parole con la rassegnazione di chi ormai ha esaurito tutta la rabbia a disposizione. Dietro le loro parole intravedo alcune donne con il velo, e improvvisamente sento il dolore di un pugno allo stomaco, e penso a una settimana fa…
Una settimana fa ero a pranzo con don Pierluigi di Piazza, e si parlava dei barconi di morte che senza distinzione e pietà rovesciano nella tragedia del mare l’innocenza dei bambini, la speranza degli uomini, il dolore spropositato delle donne. Sì, le donne, quelle che nei campi profughi della Libia, in attesa della partenza, sono… SI-STE-MA-TI-CA-MEN-TE STU-PRA-TE! Ovunque, da chiunque. Donne che spesso sopportano in grembo il frutto dell’offesa, e che se non moriranno nell’amnesia dell’oceano, partoriranno figli senza padri… Penso alle bestie, intese come animali, e credo che persino loro sarebbero inorridite da così tanta ferocia, cattiveria, crudeltà…
Con il passo più stanco si continua il giro. Visitiamo i dormitori, e sopra la fila di letti ci sono scatole e borse di nylon, dentro, le uniche proprietà dei rifugiati. Attraversiamo i corridoi e distinguiamo sulle porte: firme ignote, frasi incomprensibili, disegni africani. Continuiamo ad andare e a raccogliere le immagini dei luoghi di preghiera, il refettorio, la sala ricreazione, e ancora avanti, sempre e rigorosamente circondati dall’aria pesante della rassegnazione. Non c’è un litigio, non c’è una parola forte, un urlo, e non c’è nemmeno la televisione, così che non sia dato atto a nessuno di sognare un Paese che non c’è!
Prima di terminare il giro mi incontro con Chiara, un’assistente sociale, e con lei provo a liberare l’urgenza di una curiosità. È vero come si dice in giro che agli ospiti date cinquanta euro al giorno, le tessere per i cellulari, le sigarette…
Gli ospiti costano trenta euro al giorno, denaro che serve esclusivamente al mantenimento, a loro, fisicamente, viene data una tesserina, la Pokeymoney, che vale tre euro e cinquanta centesimi e serve per il sapone, sigarette, un caffè. Qui abbiamo gente che ha visto l’inferno e che porta le cicatrici sul corpo per raccontare la loro storia, fatica, tortura, sofferenza. Vengono, o meglio, scappano da noi soltanto perché è il territorio più vicino. Certo, vanno anche in Grecia, Malta, Spagna, ma molti sono stati respinti, tanti sono morti, e le storie sono state insabbiate, la tragedia cancellata.
L’incontro sta finendo, mentre sto uscendo dalla struttura incrocio una donna turca con in braccio il figlio: si chiama Carlo, ha quattro mesi, ed è nato nel Centro di Gradisca. Lo accarezzo e giuro, senza nessuna retorica penso al privilegio dei nostri figli, e la fortuna di essere stati desiderati, attesi, cresciuti e amati, e tutto senza la feroce ingiustizia di vedersi negare la serenità di vivere. Sono vicino alle porte, saluto gli ultimi ospiti con un “arrivederci” che ha il tono dell’addio. Ritiro i documenti, e torno a oltrepassare il muro che divide il mondo in due…
Metto in moto la macchina, imbocco la strada grigia, cancello le curve, Gradisca è lontana, eppure nell’ascolto, continua a girarmi l’urlo infinito di una vernice rossa… Freedom – Libertà – Hurria – Libertad - Liberté – Freiheit – Svoboda…



A Melilla una frontiera di lame
SPAGNA Il governo di Madrid ripristina un confine criminale, che aveva tolto nel 2007, per ferire e fermare i migranti. 200 persone assaltano l'enclave, muore un ragazzo subsahariano
il manifesto, 06-11-2013
Luca Tancredi Barone
BARCELLONA. Se c'è una cosa che unisce i governi di tutto il mondo è il cinismo e la crudeltà con cui trattano quelli che considerano altri. Nei mesi scorsi nei teatri spagnoli è stato rappresentato uno spettacolo che ha raccolto critiche entusiaste: «Un pezzo invisibile di questo mondo» (Un trozo invisible de este mundo) che tratta proprio delle situazioni sempre più comuni e sempre più invisibili di vessazioni e umiliazioni a cui vengono sottoposti quelli che hanno attraversato una frontiera per raggiungere l'Europa. Una frontiera che in Spagna ha un nome: Melilla, una anacronistica enclave in terra marocchina, che la Spagna non ha alcuna intenzione di mollare. Nonostante il fatto che questo costi al governo spagnolo svariati milioni di euro all'anno. Per "difendersi" da nient'altro che migliaia di persone che cercano di superare una rete, sempre più alta e sempre più spessa, per mettere piede nel vecchio continente.
Nel 2005 su questa rete il governo Zapatero aveva fatto mettere un filo spinato dotato di lame aguzze. Con il risultato di ferire terribilmente i migranti che nonostante tutto cercavano di scavalcarla. Dopo un mare di proteste, nel 2007 le lame vennero (in parte) rimosse, e rimpiazzate con una terza rete e con sistemi di rilevamento del movimento (per il costo di 30 milioni di euro). Ora il governo Rajoy decide di tornare alle vecchie abitudini: lungo circa sei dei nove chilometri di frontiera spinata («le zone dove è più necessario», come ha spiegato il delegato del governo nella città) vuole reintrodurre entro un mese le lame, oltre a un sistema per impedire che si possano infilare le dita nella rete per arrampicarsi (stanziamento previsto: circa 2,5 milioni di euro). Negli 2013 sono state più di tremila le persone che hanno cercato di «lanciarsi» in Spagna in quelli che la polizia spagnola non esita a chiamare «assalti» e che sono solo tentativi disperati di passare dall'altra parte, schivando le botte e i proiettili della polizia marocchina, che collabora fattivamente nella repressione, e di quella spagnola. L'ultimo caso è proprio di ieri mattina all'alba, giorno festivo in Marocco (cosa che potrebbe aver favorito un abbassamento della guardia). Circa 200 persone hanno «assaltato» la rete, e un centinaio sono riusciti a passare e poi sono finiti in un centro d'«accoglienza». Ma un ragazzo subsahariano è morto, cadendo da sei metri d'altezza, quattro sono rimasti feriti e 40 sono stati arrestati. Nel frattempo sono stati avvistati molti incendi nel monte Gurugù, dove i migranti si nascondono in attesa del «salto». Normalmente, come denunciano diverse organizzazioni di diritti umani, è la stessa polizia che dà fuoco al bosco nel tentativo di stanare chi vi si nasconde.
Dopo il lutto di circostanza sfoggiato dai politici di tutte le latitudini, compresi quelli spagnoli, per la terribile fine dei migranti che hanno perso la vita il mese scorso su una barca in fiamme nel tentativo di raggiungere l'isola di Lampedusa, l'unica preoccupazione dei leader dei 28 paesi dell'Unione europea - che ha finanziato la frontiera di reti e filo spinato - è quella di allontanare il più possibile da sé la patata bollente dell'immigrazione. I numeri parlano chiaro: secondo gli ultimi dati, gli stranieri non comunitari residenti in Europa sono solo un 4,1%, e in Spagna non arrivano al 7% (in Italia il dato è del 5,5%).
Ma in Francia e in Grecia immigrati (e omosessuali) sono il bersaglio preferito di partiti di destra sempre più ringalluzziti, mentre in Germania uno dei temi messi sul tavolo dai socialisti per costituire la nuova Grosse Koalition è proprio quello dell'integrazione e della cittadinanza. Martin Schulz, presidente del parlamento Europeo e capolista socialista alle prossime elezioni europee chiede sul Der Spiegel una politica di «quote» a livello europeo per ripartire l'onere fra tutti i paesi e per non lasciare i paesi del sud a gestire il flusso da soli. Una «gestione» che in Spagna, come in Grecia e in Italia, punta esclusivamente sul contenimento: impedire l'arrivo delle persone a tutti i costi, economici e umani. Come se questo possa dissuadere persone che non hanno nulla da perdere. Lo spiega efficacemente il portavoce della ong Equo, Manuel Soria: «lo faranno attraverso la rete o con qualsiasi altro mezzo, solo che chi lo farà attraverso la rete arriverà con lesioni più gravi o morto. Non si può fermare la fame e la miseria con lame e sangue».



La Brooklyn di de Blasio: il ghetto è diventato radical chic
il Velino, 06-11-2013
Un reportage sulla STAMPA racconta di come è cambiato il quartiere di Brooklyn, da cui arriva il nuovo sindaco di New York, Bill de Blasio. Da quartiere di immigrati, come erano i nonni dell’attuale primo cittadino della Grande Mela, a zona trendy che contende il fascino a Manhattan. Ora la sfida di de Blasio: portare equilibrio fra chi guadagna troppo e chi non arriva alla fine del mese. “Durante gli anni più duri della ‘guerra al terrorismo’, quando l’intelligentsia liberal di Brooklyn avrebbe volentieri rinchiuso George Bush nel carcere iracheno di Abu Ghraib, dal suo brownstone di Park Slope lo scrittore dissidente Paul Auster ci propose questa soluzione: ‘New York dovrebbe proclamare la secessione dagli Usa, e diventare una nazione indipendente’. Se i sondaggi della vigilia non erano clamorosamente sbagliati, stamattina Brooklyn si è presa la rivincita, svegliandosi con un proprio figlio a City Hall. Dopo la doppia vittoria di Obama alle presidenziali, la riconquista doveva completarsi con la poltrona di sindaco, che il Gop aveva ‘usurpato’ con Giuliani, e conservato poi per dodici anni col repubblicano atipico Michael Bloomberg. Ora si tratta di vedere se Bill de Blasio saprà vincere anche la sfida del governo, evitando di far rimpiangere i predecessori, magari bloccando la timida ripresa economica o riaprendo la porta alla criminalità. E questo test dovrà superarlo prima di tutto nel suo quartiere, Brooklyn, che durante le amministrazioni Giuliani e Bloomberg è diventato il luogo più affascinante della città.
De Blasio ieri ha ringraziato per il sostegno Sant’Agata dei Goti, paese originario del nonno, ma è nato a Manhattan e cresciuto in Massachusetts. Dopo che la sua famiglia era andata in frantumi, per i problemi che il padre aveva portato con sé dalla Seconda Guerra Mondiale, lui era tornato a New York per l’università: laurea a Nyu, master in scienze politiche alla Columbia. Quando aveva sposato Chirlane si erano trasferiti a Brooklyn. La loro casa è ancora sulla 11th Street di Park Slope, ma l’indirizzo non tragga in inganno: oggi è il quartiere ricco dei radical chic, però allora era il rifugio naturale per una coppia senza soldi. Basti sapere che la modesta casa dei de Blasio ha un solo bagno per quattro persone, inaudito nella Manhattan bene. Nel 2004, per avvicinare la mamma Maria, Bill aveva comprato con 612.000 dollari un duplex a pochi metri dalla propria casa. Ora lo affitta, perché la madre è morta, e questo è il suo impero edile. Il percorso della famiglia de Blasio è molto comune a New York. I giovani squattrinati sono costretti a lasciare Manhattan, e spesso si accampano a Brooklyn. Segue la ‘gentrification’, ossia la riqualificazione di queste zone riabilitate dai pionieri alternativi. Ma così diventano ‘cool’ e costose, obbligando i poveretti a trovare nuove frontiere. La migrazione è partita dall’East Village di Manhattan, toccando Park Slope, Dumbo, e Williamsburg. Adesso tocca a Greenpoint, ex quartiere degli operai polacchi. Un tempo era noto perché ci aveva abitato anche il futuro papa Giovanni Paolo II, ora è diventato famoso grazie alla serie televisiva ‘Girls’ di Lena Dunham. All’inizio del secolo qui c’erano i magazzini portuali sull’East River e le fabbriche di corde per l’industria navale. Ora al Grumpy’s Café di Meserole Avenue si siedono i ragazzi che hanno un romanzo nel cassetto, e sperano di diventare Paul Auster, Martin Amis, Jonathan Safran Foer o Jonathan Lethem, tutti orgogliosi residenti di Brooklyn. La ‘gentrification’ è opera di Bloomberg, che nel 2005 ha promosso il ‘rezoning’ di Williamsburg e Greepoint, da zone industriali ad abitative. Gli alternativi hanno protestato, perché col nuovo piano urbano sono arrivati anche i grattacieli residenziali in riva al fiume, ma il risultato è stato meno criminalità e più crescita economica. La sfida per de Blasio è tutta qua. Il suo quartiere non è solo fascino, negozi di abbigliamento vintage, e ristoranti originali tipo Superfine, Briskettown o Lobster Joint. Brooklyn è il più popolato dei cinque boroughs di New York, con 2,5 milioni di abitanti, e nel 2012 era anche quello con più omicidi, 419, cioè il 36 per cento della città. Il reddito medio è 33.000 dollari all’anno, contro i 43.000 dell’intera New York, e il 25 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà, in particolare nei quartieri come East New York, Brownsville e East Flatbush. Non a caso lo show televisivo di maggior successo questo autunno si chiama ‘Brooklyn Nine-Nine’, e racconta le disavventure di un commissariato di polizia nel borough di de Blasio. Bill lo sa. Sulla 11th Street di Park Slope ha sempre vissuto la vita del padre di famiglia, mandando i figli alle scuole pubbliche, anche se Dante è entrato al liceo superspecialistico Brooklyn Technical High School. La loro idea di uscita domenicale è un brunch al Little Purity Diner, o una margherita alla Smiling Pizzeria dietro l’angolo. La ‘storia di due città’, su cui ha basato il suo successo politico, è questa: il contrasto tra la Manhattan ricca o la Brooklyn fancy, e chi non arriva alla fine del mese. Lui vuole riequilibrare New York, alzando le tasse a chi guadagna più di mezzo milione di dollari per finanziare le scuole, obbligando i costruttori a fare anche case popolari, e frenando le discriminazioni razziali dei poliziotti. Senza però fermare la crescita o rilanciare la criminalità, che farebbero tornare la nostalgia di Bloomberg anche ai liberal di Park Slope”.



Tra il cinema e i corsi di italiano: 200 parole per dire inclusione
Corriere.it, 06-11-2013
Paolo Maggioni
«Nanook è stato il protagonista di un documentario muto, il primo della storia, datato 1922» mi dice Stefano nel tardo pomeriggio di una domenica, mentre sorseggia la birra che gli hanno appena servito. A raccontarglielo è stato Fabio Martina, autore di documentari e film di fiction, coordinatore di un laboratorio di Cinema della realtà avviato a Cernusco sul Naviglio nel dicembre 2012 all’interno del progetto “on the stage”. Si tratta di una iniziativa di cosviluppo, proposta dall’associazione Dora e Pajtimit, in collaborazione con IPSIA ACLI e cofinanziata dal Comune di Milano, che ha coinvolto fino all’estate 2013 un gruppo di cittadini di Milano e provincia. «Dopo le prime lezioni a carattere prettamente teorico – mi racconta Stefano Tresoldi, ventinovenne che dopo gli studi in sociologia lavora come educatore – come era nelle nostre aspettative, il corso ha preso una piega decisamente più pratica, finalizzata alla produzione di un documentario. Temi centrali del laboratorio – prosegue – sono stati immigrazione e integrazione, ed è nel solco di questi che un gruppo ristretto di partecipanti al laboratorio, guidato da Fabio Martina, si è messo a ragionare su come raccontare questioni di così forte attualità e così tanto dibattute, senza la banalità con cui troppo spesso vengono affrontate».
Oltre a Stefano, hanno preso parte al progetto Ilaria Donato, Mario Blaconà, Luciano Codazzi, Ilaria Donato, Barbara Pincardini, Mauro Ratti e Giovanna Stanganello, qualcuno con esperienze più o meno ampie nella produzione di video, ciascuno con le proprie idee ed individualità. Assieme a loro, seppur in maniera meno assidua, hanno collaborato tutti gli altri partecipanti al Laboratorio.
    «L’idea era quella di raccontare qualcosa di nuovo, che ancora non aveva trovato lo spazio che meritava, e che davvero incarnasse un nuovo modo di essere cittadini, modello di cittadinanza attiva in un contesto urbano sempre più multiculturale» mi dice Stefano.
Ed è un po’ per caso che a Pioltello, periferia est di Milano, in un quartiere dormitorio che negli anni ’60 ospitava la popolazione giunta dal Sud Italia in cerca di lavoro, e che in tempi recenti è stato investito da un’ondata immigratoria straniera, il gruppo di documentaristi conosce don Luigi che, assieme ad un coordinatore, organizza le attività di un gruppo di volontari che, in locali confiscati alla mafia, orgnizza corsi di lingua italiana per stranieri, doposcuola e laboratori di teatro. Qualche tempo fa, data la carenza di volontari, don Luigi ha proposto a Umer, Faizan e Hassan, tre ragazzi di origine pachistana, di 15, 17 e 18 anni, non-cittadini italiani, che frequentano le scuole della zona, di insegnare l’Italiano ai nuovi arrivati.
    «E’ proprio questo quello che cercavamo – racconta Stefano – e che ci ha conquistati. Si trattava davvero di una esperienza nuova, che ribaltava la prospettiva tradizionale delle scuole di Italiano per stranieri. La comunità immigrata prendeva in mano la situazione, e si faceva carico di un compito fondamentale nella crescita di una Comunità, e vera espressione di cittadinanza attiva».
In questo contesto Barbara, una delle documentariste e professoressa di Hassan all’Istituto elettrotecnico “ITSOS Marie Curie” di Cernusco sul Naviglio, scopre dell’impegno di uno dei suoi alunni. Oltre a raccontare le vicende dei tre giovani pachistani tra volontariato, partite di cricket e prove di convivenza con i loro coetanei italiani, il documentario parla dell’impegno di Giulia e Giulia, due volontarie che si occupano di un laboratorio di teatro, e segue Rita Virgillito, donna arrivata a Pioltello nel 1968, dopo essere emigrata in Germania dalla Sicilia, negli interventi che Barbara la invita a fare nelle classi in cui insegna. Dopo mesi di lavorazione, stasera 6 novembre 2013, alle 19.30, dopo un aperitivo promosso da ACLI, ARCI e CGIL, alla Fabbrica del Vapore ci sarà la prima uscita pubblica della versione completa di “200 parole” (60’), che nella versione ridotta di 15’ ha ottenuto il terzo posto del “Premio Marco Formigoni”.
    «Non mi hai ancora chiesto del titolo, la cosa più importante» mi dice Stefano poco prima di salutarmi.
Qualcosa avevo letto su 200parole.wordpress.com, blog ufficiale del documentario, ma voglio che sia lui a raccontarmelo.
    «Chiaccherando con don Luigi riguardo le attività del centro di Pioltello, ci ha raccontato di come tutte le loro azioni siano ispirate da una frase di don Roberto Sardelli, fondatore di Scuola 765», che mi recita a memoria: «Finchè ci sarà uno che conosce 2000 parole e uno che conosce 200 parole questi sarà oppresso dal primo; la parola ci fa uguali».
Dopo la presentazione pubblica, il gruppo di documentaristi, che ha deciso di darsi il nome di “Collettivo Nanook”, in omaggio al primo documentario della storia, si è dato l’obiettivo di organizzare il maggior numero possibile di proiezioni pubbliche e di provare a partecipare a dei concorsi.

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