14 ottobre 2013

Lampedusa, sbarchi senza sosta 150 tunisini in porto, altri 240 arrivi
la Repubblica, 14-10-2013
Sono stati soccorsi e trasferiti al centro di accoglienza. La loro imbarcazione non era stata avvistata. A bordo anche 25 bambini. Altri 152 sono sbarcati a Pozzallo dopo essere stati salvati da un mercantile. Sull'isola sono riprese le operazioni di trasferimento dei feretri, 92 erano a bordo di un gommone soccorso dalla Guardia costiera
Un'imbarcazione con a bordo circa 150 tunisini è arrivata all'alba di oggi al porto di Lampedusa senza essere avvistata durante la navigazione. I migranti sono stati soccorsi e trasferiti al centro d'accoglienza che ospita di nuovo circa 1.000 immigrati in uno spazio che ne può ospitare non più di 250. Intanto sale a 364 il numero delle vittime del tragico naufragio del 3 ottobre scorso. Ieri i sommozzatori hanno recuperato altri cadaveri in mare.  Tra i migranti arrivati su un peschereccio all'alba di oggi oltre a tunisini c'erano anche siriani e migranti di altre etnie. L'imbarcazione, arrivata da sola in porto, è partita dalla Libia. A bordo anche 27 donne e 25 bambini.
A Lampedusa intanto è ripreso il carico di feretri delle vittime del naufragio del 3 ottobre scorso a Lampedusa. Le bare vengono caricate sulla nave Libra della Marina militare per essere portate a Porto Empedocle. Le operazioni, sull'Isola, sono cominciate sabato: la Cassiopea ne ha caricate e portate a Porto Empedocle già 150. Il resto dei feretri - le vittime sono in tutto 363 - erano rimaste nell'hangar dell'aeroporto di Lampedusa. Il carico dovrebbe completarsi in giornata. Probabilmente verranno portati a Porto Empedocle anche i feretri dei migranti morti nell'altro naufragio, quello di venerdì scorso, a 60 miglia dalla maggiore delle Pelagie.
E questa mattina altri 152 migranti sono sbarcati a Pozzallo, in provincia di Ragusa. Sono somali, eritrei e siriani e nel gruppo secondo un primo conteggio ci sono 13 bambini. Sono tutti in buone condizioni di salute. Sono stati soccorsi dalla nave "Asso 30", che ha raggiunto il loro barcone a Sud-Est di Lampedusa e li ha imbarcati. In prossimità di Pozzallo, il cargo è stato abbordato da motovedtte della Capitaneria di porto che ha effettuato l'operazione di trasbordo. Altri 92 africani a bordo di un gommone sono stati soccorsi dalla Guardia costiera che ha condotto gli stranieri a Portopalo di Capo Passero. Sono tutti uomini che hanno detto di essere originari del Mali, del Senegal e della Somalia. Tra di loro 4 minorenni. Erano stati intercettati la scorsa notte al largo delle coste siciliane e trasbordati sulle motovedette della Capitaneria di porto. Al loro arrivo sono stati assistiti da personale della Croce rossa.



Cinquecento migranti salvati dal mare
Sbarchi continui. Una nave porta 150 bare a Porto Empedocle
Corriere della sera, 14-10-2013
Giusi Fasano
LAMPEDUSA — I morti non fermano gli sbarchi. Mentre cresce ogni giorno di più la lista delle vite umane perdute nei naufragi del 3 ottobre e di venerdì scorso, si moltiplicano gli arrivi di nuove carrette del mare. Ieri altre tre in difficoltà nel Mediterraneo: un gommone sul quale si agitavano un centinaio di migranti è stato intercettato da un pattugliatore maltese e accompagnato a Malta, un barcone con a bordo altri 160 disperati è stato scortato fino a Pozzallo dalla Marina militare e una terza barca, soccorsa al largo della Calabria è stata accompagnata a Reggio Calabria. In questo caso a bordo c’erano 250 persone. In tutto sulle tre barche c’erano 110 donne e 54 bambini.
Ma ieri è stato anche il giorno delle lacrime a Porto Empedocle dove la Cassiopea è approdata per scaricare le prime 150 bare del naufragio del 3 ottobre. Un lungo applauso e il pianto di chi stava sul molo ha salutato i bambini nelle bare bianche e la fila infinita di tutte le altre. Qualche fiore, un orsacchiotto e il segno della croce prima di portarle vie dal porto verso il cimitero di Agrigento (dove ne seppelliranno 120) e negli altri camposanti più piccoli della provincia (dove andranno le altre 30).
La contabilità dei morti di queste ultime due settimane è arrivata a 365 cadaveri del primo naufragio (quello del 3 ottobre) e 36 del secondo, venerdì scorso. Ma per quest’ultimo le cifre sono tutt’altro che definitive. Stime più attendibili, fatte con gli incroci delle testimonianze dei sopravvissuti, dicono che mancano all’appello altri 150 migranti. Che, se il dato fosse confermato, sarebbero altri 150 morti.
Sulla scena delle stragi in mare ieri si è fatta sentire anche Malta, che lamenta: «Noi e l’Italia siamo stati lasciati soli a gestire questo enorme problema: a Bruxelles i soldi contano più delle vite umane». Il primo ministro Joseph Muscat è volato in Libia per incontrare il premier Ali Zeidan: un attestato di solidarietà nei confronti di Zeidan, vittima nei giorni scorsi di un sequestro-lampo, ma soprattutto l’occasione, appunto, per discutere delle rotte della speranza. Il barcone dei 365 morti era partito il giorno prima dalla città libica di Zuwara.
Dei naufraghi e della loro disperazione ha parlato ieri sera nella sua ultima omelia don Stefano Nastasi che lascia, dopo sei anni a Lampedusa: «In questi giorni c’è stata tanta tristezza — ha detto — ma quando ho visto i sorrisi dei bambini che



Parte la missione umanitaria “Mare sicuro”
stranieriinitalia.it, 14-10-2013
Uomini e mezzi della Marina Militare italiana sono pronti. Mauro: “Triplicheremo la nostra presenza dell’area sud del Mediterraneo”
Roma – 14 ottobre 2013 -  Uomini e mezzi sono già pronti e potrebbe partire già domani la missione umanitaria “mare sicuro” per soccorrere  profughi che attraversano il Mediterrano. Oggi pomeriggio a Palazzo Chigi è previsto un vertice con tutti i ministri interessati, mentre continuano le polemiche sul superamento della Bossi-Fini.
"Siamo pronti a fare la nostra parte", spiegano dalla Marina militare che ha numerosi mezzi, anche aerei, impegnati nei pattugliamenti nel triangolo tra Malta, coste libiche e Sicilia. "Il capo di Stato maggiore - ha spiegato il comandante Alessandro Busonero - ha già disposto il rafforzamento del dispositivo che va avanti da venerdì scorso. Abbiamo in mare il pattugliatore Libra, la fregata Espero e la corvetta Chimera, ma abbiamo anche l'elicottero con pilota e il reggimento San Marco imbarcati.
" In attesa del vertice di Palazzo Chigi, Mauro insieme allo Stato maggiore della Difesa sta preparando l'intervento con il quale l'Italia si appresta a chiedere di più all'Europa al summit del 24-25 ottobre. "Stiamo lavorando agli ultimi dettagli. Fra lunedì e martedì - spiega Mauro - dovrebbe essere tutto pronto. Sarà un'iniziativa tutta italiana che si aggiungerà a quelle già messe in campo a livello europeo, come Frontex. Vogliamo far capire chiaramente all'Europa che intendiamo avere voce in capitolo: non vogliamo disimpegnarci, ma impegnarci di più. Così potremo chiedere alla Ue di fare lo stesso".
 Aggiunge il ministro che l'obiettivo è quello di "triplicare la nostra presenza, in termini di uomini e mezzi, nell'area sud del Mediterraneo, per una missione militare-umanitaria con lo scopo di contenere la crisi attuale dovuta in parte alla situazione di 'non Stato' in cui si trova la Libia". Sui costi, Mauro ha ammesso che non si conoscono ancora con esattezza, e che "si sta ragionando per far sì che non sia un costo eccessivo e si possano prevedere le doverose coperture. Il problema non è quanto costa: è necessario farlo, per affrontare l'emergenza umanitaria in atto".
 Dal ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi arriva un suggerimento: "se Lampedusa è il confine dell'Europa e la questione riguarda tutta l'Europa, allora l'Italia mette i soldi direttamente ma vanno contabilizzati fuori dal nostro Patto di stabilità". "La cosa migliore è che l'Europa metta le risorse perché l'Italia agisca insieme all'Europa. Questa è la mia idea, ma credo la nostra idea'', ha aggiunto Lupi, riferendosi alla posizione del Governo.
Un coro di 'no' all'abolizione della legge Bossi-Fini e soprattutto alla cancellazione del reato di clandestinità si è levato, anche ieri, da Pdl e Lega in risposta a Letta che vorrebbe cancellare queste norme pur consapevole di non poterlo fare con questa maggioranza. "Non impicchiamoci al dibattito sulla Bossi-Fini si' o no - è il parere, tra gli altri di quelli emersi nel pdl, del ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo -: non sarà uno strumento legislativo a risolvere il dramma di Lampedusa. Abbiamo il dovere dell'accoglienza e dell'assistenza, ma abbiamo anche il dovere di programmare gli ingressi e i flussi nel nostro Paese. In questo, l'Europa non può chiudere gli occhi".
Per il leghista Roberto Cota: "la legge Bossi è un baluardo: stabilisce che si entra sul nostro territorio soltanto se si ha un lavoro. Viene comunemente chiamata Bossi-Fini ma, viste le scelte politiche di Fini, oggi più che mai è il testo Bossi".
 


Lampedusa, la beffa dei funerali di Stato “Le bare via dall’isola senza le esequie”
Protestano i familiari delle vittime. Restano solo i feretri di cinque minori   
la Repubblica, 14-10-2013
FRANCESCO VIVIANO ALESSANDRA ZINITI
LAMPEDUSA — Non ci sarà nessun funerale di Stato per quel bimbo chiuso nella più piccola delle quattro bare bianche che sbarcano dalla nave Cassiopea sul molo di Porto Empedocle. Né per la sua giovane mamma, che lo segue a ruota. Sorridono felici e si tengono per mano, madre e figlio, nella foto che è stata attaccata su entrambe le bare. Per loro, l’ultimo omaggio prima della sepoltura è lo straziante canto funebre di un gruppo di donne eritree arrivate fino a qui per cercare di riportarsi a casa i loro cari.
Perché quello versato nel terribile naufragio del 3 ottobre, come recita una scritta in rosso tracciata su uno striscione che accoglie al porto le prime 150 salme portate via dall’hangar di Lampedusa, è “Sangue nostrum”. Sulla banchina, in silenzio, il prefetto di Agrigento Francesca Ferrandino, i sindaci
di Agrigento Marco Zambuto e Lillo Firetto, rispettano il dolore di questa comunità così colpita che continua a chiedere risposte che nessuno sembra in grado di dare. Dei funerali di Stato annunciati il giorno della sua visita a Lampedusa dal premier Letta nessuno sembra sapere nulla. Informalmente si fa sapere che le procedure per il riconoscimento dei corpi e per l’eventuale restituzione ai parenti sono lunghe e farraginose e le bare non possono aspettare. Quel che sembra certo è che se mai ci sarà una solenne commemorazione delle vittime del naufragio dell’Isola dei Conigli, le salme saranno già sotto terra. Le prime 150 saranno tumulate nei cimiteri di Agrigento e Porto Empedocle, le altre nei camposanti della provincia. A Lampedusa, forse, rimarranno solo cinque bare bianche di bambini che non sono stati ancora riconosciuti da nessuno.
Nell’isola urlano e si disperano i familiari che negli ultimi giorni sono giunti dall’Italia e dal Nord Europa. C’è una lunga fila dietro la porta della caserma dei carabinieri. Questa gente, senza informazioni e senza soldi, non sa cosa fare. Tra di loro c’è anche un sacerdote ortodosso, Musie Shishay. Da cinque anni vive in Italia, arrivato anche lui a Lampedusa con un barcone. Adesso, tra i morti, cerca sua sorella Hagerawit. Aveva 22 anni, era sul peschereccio affondato. «Non so più dov’è ora, vorrei rispedirla in Eritrea dalla mia famiglia», dice disperato.
Le forze dell’ordine da giorni si fanno in quattro per cercare di ricomporre, vivi o morti, interi nuclei familiari che si sono “persi” in mare. Trentotto le vittime accertate dell’ultimo naufragio e 150 forse i dispersi, metà dei quali bambini. Ma la priorità è ridare i genitori a chi ce li ha ancora, come Maram, 17 mesi, appena. È lei uno dei “fagottini” che sbarcano a Porto Empedocle in braccio ad alcuni ufficiali della Marina militare che non nascondono la commozione davanti al dramma di questi piccolissimi che la tragedia sembra avere trasformato improvvisamente in adulti. Alcuni di loro hanno chiesto di poterli avere a casa in affido. La mamma e il papà di Maram, che erano con lei a bordo del barcone naufragato tra Malta e Lampedusa, sono vivi, ma sono nel centro di accoglienza de La Valletta. «Sono sicura che mia figlia è viva, stava bene, ce l’avevo in braccio quando ci hanno salvato», ha raccontato Aisha, la mamma, una libanese di 25 anni, in fuga con il marito siriano. Nella concitazione di quei momenti, la piccola Maram è finita tra le braccia di un ufficiale della Marina militare e ora è a Porto Empedocle. Soli, invece, sono rimasti tre fratellini che hanno commosso tutto l’equipaggio della Libra. «I due più grandi, due gemellini di tre anni – racconta il comandante Catia Pellegrini – hanno fatto tutto il viaggio proteggendo il più piccolino, che forse non ha neanche un anno. All’inizio non permettevano a nessuno di avvicinarsi».



I parenti che ce l’hanno fatta «Il loro sogno era raggiungerci»
Da tutta l’Europa nell’isola per riconoscere le vittime
Corriere della sera, 14-10-2013
Giusi Fasano
LAMPEDUSA — Di giorno li puoi trovare seduti ai tavoli del ristorante di fronte alla caserma dei carabinieri. Parlano fra loro, ogni tanto qualcuno fruga nelle tasche e tira fuori una fotografia, sempre più spiegazzata, sempre più consumata. Di sera se ne stanno lungo i muretti di Cala Palma o fanno la spola fra il porto e via Roma, il cuore di Lampedusa. Sono i parenti dei naufraghi morti il 3 ottobre davanti all’Isola dei Conigli, sono qui per avere qualcosa di persone che amavano e che non trovano più. E «qualcosa» sta per «qualsiasi cosa», notizie tanto per cominciare.
Arrivano da Roma, Milano, Siracusa, dalla Svizzera, dalla Germania, o magari dall’Inghilterra, dalla Svezia, dalla Norvegia, perfino dal Canada (un padre che cerca sua figlia), e chissà da quale altro Paese del mondo. Tutti eritrei fuggiti anni fa e ormai con un’altra lingua nella testa, con un lavoro e un permesso di soggiorno in tasca. Loro ce l’hanno fatta ma oggi sono anime in pena su questo sasso in mezzo al mare. Pregano in silenzio che nell’album fotografico della morte, mostrato dai carabinieri assieme a uno staff di psicologi, non ci sia la faccia, il tatuaggio, la cicatrice o un oggetto riconoscibile di una madre, una sorella, un fratello, un marito o qualche amico. Ogni tanto qualcuno si lascia andare alla disperazione, segno che a un corpo è stato dato un nome.
C’è Habton che viene da Leeds, nord dell’Inghilterra. Lì fa il magazziniere per una grande società e questa è la sua prima volta a Lampedusa. «Mi hanno fatto vedere delle fotografie» racconta. «E ogni volta che stavo per vederne un’altra avevo il cuore che batteva forte. Poi l’ho riconosciuto...». Una pausa per ricacciare indietro le lacrime. «Mio fratello è identico a me, difficile avere anche un piccolo dubbio. È in una di quelle bare in fila che si vedono in televisione. L’avevo sentito al telefono quand’era ancora in Libia, mi aveva detto che stava arrivando...». Cercava più fortuna e più vita, proprio come aveva fatto Habton sei anni fa. Sognava l’Inghilterra e c’è arrivato, si è trovato un lavoro e ha scritto a sua moglie: «Sono felice, qui sto bene». Finalmente, pensò, i miei figli non faranno più la fame.
Poi c’è la storia di Weldezghi, che ha dell’incredibile. Questo ragazzo di 28 anni dal nome impronunciabile è approdato in Norvegia cinque anni fa. Partito dal Sudan con il passaporto falso, si era messo in testa giovanissimo di raggiungere la comunità eritrea norvegese. E appena ne ha avuto l’occasione l’ha fatto davvero. A Oslo, dove fa l’infermiere professionale, lo chiamano Wisky e sono stupefatti dalla sua capacità di parlare il norvegese. Lui studia anche l’inglese e mai avrebbe immaginato di usarlo per parlare di un naufragio con la nostra Guardia costiera. L’altro giorno lo hanno cercato dall’Eritrea: «C’è stata una disgrazia, devi provare a metterti in contatto con tuo fratello e tua sorella». Allora è andato a cercare su Internet le immagini, appunto, della Guardia costiera trasmesse dalle televisioni italiane. E ha visto un naufrago con una maglia gialla mentre i soccorritori lo caricavano su una motovedetta: era suo fratello, salvo. L’ha riconosciuto al volo anche se non lo vedeva da otto anni. Ha registrato tutto con il telefonino ed è venuto a Lampedusa. Ma con sua sorella non ha avuto la stessa fortuna. Lei che tanto avrebbe voluto vedere la Norvegia, adesso è uno dei tanti volti dell’album della morte.
Storie e coincidenze che sembrano il copione di un film. Come quella di padre Musie Shishay, prete ortodosso arrivato da Milano per cercare la sorella Hagerawit fra i migranti finiti in mare il 3 ottobre. «L’ho appena identificata» dice abbassando gli occhi dopo un’ora passata in caserma. «E pensare che anch’io sono arrivato qui a Lampedusa cinque anni fa...». Anche lui su un barcone, da clandestino, «dopo tre giorni in mare che non si possono raccontare per quanto sono stati pazzeschi. Posso immaginare la mia povera sorella...» sospira. Dice che se si fosse salvata e fosse arrivata fino a lui, Hagerawit avrebbe trovato una vita difficile perché fare il prete non rende niente e in Italia trovare un lavoro è un sogno. Ma adesso tutti questi pensieri non valgono niente. «Quello che vorrei, ora, è riportarla a casa, dalla mia famiglia».
Negli orari che i carabinieri dedicano all’identificazione dei morti si vedono gruppi di persone aspettare davanti al portone. Fra loro anche gente che parla in svedese. Come Adal, venuto a sperare che suo fratello non fosse fra le foto dei cadaveri. Apprezzato assistente per anziani a Stoccolma, Adal, ha un passato da uomo errante. Dall’Eritrea è partito una prima volta su un barcone che i maltesi hanno fermato e rimandato indietro. Ritorno a casa e poi di nuovo ad attraversare il deserto per darsi un’altra chance. Si è fermato in Sudan due anni a cercare il momento giusto per la traversata. Ma poi, direttamente dal Sudan, ha presentato una domanda di asilo all’ambasciata svedese. Non si sa mai... E dalla Svezia è arrivata la risposta: un sì, con un biglietto aereo di sola andata per Stoccolma. A questo pensava Adal mentre, confuso dal dolore, guardava le fotografie dei naufraghi morti. Ha creduto di riconoscere suo fratello in due immagini. Non è sicuro, o forse non vuole esserlo. Poco importa. La sola cosa che vuole è il test del dna per non sperare invano di vederlo arrivare da un mmomento all’altro a casa sua. A Stoccolma .



Diritto all’asilo e alla sicurezza
La Repubblica, 14-10-2013
TITO BOERI
ALMENO 6.772 persone, quasi 2 al giorno, sono morte negli ultimi 10 anni nell’attraversamento del Canale di Sicilia, in cerca di asilo. È una stima per difetto perché di molti barconi e persone inghiottite dal mare non si è mai avuto notizia. Il presidente del Consiglio Letta ha annunciato, da oggi, un impegno straordinario del nostro Paese con missioni navali ed aerei per rendere il Mediterraneo il mare più sicuro possibile.
Speriamo che serva almeno a contenere questa macabra contabilità. Qualche ragione per dubitarne purtroppo c’è. Molti affondamenti sono coincisi proprio con l’avvistamento di una nave o di un aereo, per via della concitazione a bordo di imbarcazioni sovraffollate. Già prima del naufragio dell’Isola dei Conigli erano state salvate, secondo i siti specializzati, circa 2.200 persone: quindi i pattugliamenti c’erano già e non hanno evitato quelle stragi. Il fatto è che il monitoraggio, per quanto accurato, non riesce a identificare piccole imbarcazioni alla deriva, specie in condizioni meteorologiche avverse. Infine, anche se il piano funzionasse davvero, rendendo il mare un po’ più sicuro c’è sempre il rischio di spingere più persone a mettersi in mare su imbarcazioni di fortuna con il risultato, alla fine, di aumentare il numero dei morti anziché ridurlo.
Bisogna quindi fare di più se vogliamo che il sentimento di vergogna per queste morti si trasformi in energia positiva. Molto spetta all’Europa, ma non deve essere un alibi perché abbiamo parecchio lavoro da fare anche da noi.
Cominciamo dall’Europa. Nelle ultime settimane, grazie anche alle pressioni del governo italiano, ci sono stati segnali di una maggiore attenzione che in passato. Bene approfittarne. Date le proporzioni del conflitto in Siria e il numero di potenziali richiedenti asilo (si parla di 2 milioni), ci sono gli estremi per richiedere un regime di protezione temporanea per gestire la crisi. Questo significa spartire l’onere di fornire asilo fra i paesi membri, alleggerendo quelli di frontiera. È un principio giusto perché è opportuno condividere non solo l’onere di protezione delle frontiere (e a tal fine bisognerebbe rifinanziare Frontex e coprire anche le missioni italiane di questi giorni), ma anche quello di accoglienza. Prendendo queste decisioni a livello europeo, è possibile sottrarle alla demagogia di politici locali che vogliano cavalcare i sentimenti anti-immigrati latenti nell’elettorato. Degno di nota il fatto che i paesi che hanno ristretto maggiormente le politiche d’asilo negli ultimi anni sono proprio quelli cui non si applicano le direttive comunitarie sull’asilo, come il Regno Unito, mentre in Norvegia il partito uscito vincente dal voto sta stringendo un accordo con l’ultradestra xenofoba attorno al restringimento delle politiche d’asilo. Per gestire la protezione temporanea bisognerebbe creare un fondo di solidarietà a livello europeo, sapendo che la concessione dell’asilo ha costi non indifferenti (si stima il costo dei 26 mila richiedenti asilo in Italia nel caso dell’emergenza Nordafrica in circa un miliardo e 400 milioni nel giro di due anni).
Ma anche il cosiddetto burden sharing (condivisione degli oneri dell’asilo) non risolve il problema delle morti nel Mediterraneo perché interviene solo
ex post, una volta che queste persone sono arrivate in qualcuno dei paesi dell’Unione, con tutti i rischi che questo viaggio della speranza comporta. Né sembra possibile organizzare esodi di massa dai paesi in conflitto, dato il numero potenzialmente incontrollato delle persone che ne potrebbero trarre vantaggio e la stessa indeterminatezza circa i paesi in conflitto (molti dei disperati arrivati a Lampedusa provenivano dall’Eritrea, non dalla Siria). Serve, invece, dare la possibilità di formulare domanda di asilo ancora prima di mettersi in viaggio verso l’Unione. Questo permetterebbe a molti di viaggiare in condizioni più sicure: oggi il viaggio in aereo viene reso impossibile non tanto dai costi (i sopravvissuti raccontano di 1.500 o 2.000 euro pagati per salire sulle navi delle morte, molto di più di quanto costerebbe un regolare biglietto d’aereo), ma dal fatto che le compagnie aree si rifiutano di accogliere a bordo chi non ha un visto per paura di incorrere in sanzioni e oneri di rimpatrio. Inutile sottolineare che, anche in questo caso, è molto probabile che ci sia un numero altissimo di domande d’asilo. Bisognerebbe perciò porre dei limiti alle domande che possono essere accolte e stabilire dei meccanismi di selezione, ad esempio in base alla gravità del conflitto, alla presenza di bambini o anziani fra i richiedenti, eccetera... Questo comporta un cambiamento non piccolo della normativa comunitaria che oggi attribuisce un diritto soggettivo all’asilo da parte di chiunque metta piede sul territorio dell’Unione fuggendo da una zona di guerra. È una normativa che era stata creata per gestire i piccoli numeri dei rifugiati politici, non i milioni di persone che hanno la sfortuna di vivere in aree in conflitto. Bene prenderne atto e porvi rimedio prima che venga del tutto annullato il diritto d’asilo per via delle reazioni dell’opinione pubblica, come avvenuto in Germania con la cancellazione di norme costituzionali dopo l’arrivo di 500 mila rifugiati bosniaci. Fondamentale anche che l’Unione aiuti i paesi ai confini delle aree in conflitto, come la Giordania, in cambio della loro cooperazione nella gestione dell’emergenza profughi.
Mentre l’Europa deve costruire le sue politiche d’asilo e dotarsi di un fondo di solidarietà per gestirle, noi dobbiamo rimettere mano alle nostre politiche dell’immigrazione economica, che portano anch’esse una responsabilità non indifferente nel cimitero Mediterraneo perché molte vite umane troncate sono di persone che non fuggivano dalla guerra ma dalla miseria. In questi giorni si parla molto di abolire la Bossi-Fini e soprattutto il reato di immigrazione clandestina. Sono scelte condivisibili, ma irrilevanti nel gestire l’emergenza umanitaria. Il reato di immigrazione clandestina non è in realtà quasi mai applicato. Ha il solo effetto, imponendo sanzioni inesigibili, di appesantire il lavoro dei nostri Tribunali. Sacrosanto toglierlo dal nostro ordinamento, ma sapendo che è un problema che ha a che fare più con la riforma della giustizia che con la riforma delle politiche dell’immigrazione. Quanto alla Bossi-Fini, credo di essere stato uno dei primi a denunciarne l’inadeguatezza e la demagogia. Ma ciò che va cambiato nelle nostre leggi di immigrazione per evitare nuove stragi in mare, ha a che vedere con norme che erano già nelle leggi antecedenti, a partire dalla Turco-Napolitano. Si tratta dell’ipocrisia secondo cui è possibile trovare un lavoro agli immigrati quando sono ancora nel paese di origine. Come se avessimo centri dell’impiego che funzionano nell’Africa sub-sahariana, quando non riusciamo a far funzionare neanche quelli di molte regioni italiane. Questa ipocrisia impone agli immigrati di arrivare illegalmente da noi, con mezzi di fortuna e ricorrendo a scafisti senza scrupoli. Bisognerebbe, invece, permettere un numero di ingressi realistico, che tenga conto delle esigenze non solo delle imprese ma anche delle famiglie italiane, e permettere alle persone che vogliono lavorare in Italia di arrivare da noi con visti temporanei, finalizzati alla ricerca di un posto di lavoro.



Adesso la misericordia ha il volto dei soldati
Avvenire, 14-10-2013
Paolo Viana
Si dice che ogni soldato firmi un contratto con la morte. Se è così, ai cento di stanza a Lampedusa la "grande livellatrice" ha presentato il conto nel modo più imprevedibile. Imprimendo sensazioni che non se ne andranno: «L’odore di cadavere oltrepassa le mascherine - ricorda il caporal maggiore Biagio Manco - e si fissa nello stomaco. Nulla possono le fialette al mentolo». Mettendoli di fronte a se stessi: «Quando ho aperto il sacco ed è apparso il corpo disfatto di una ragazza della mia età - ammette il caporale Annalisa Lops - mi sono fermata. Potrei essere io...». Oppure consolidando le certezze: «Siamo dei soldati, una risorsa per il Paese - afferma il capitano Leandro Giordano - e quando occorre facciamo cose che la gente non si aspetta, ma se non le facciamo noi...».
Se dovessimo dare un volto alla misericordia italiana nella tragedia continua che affligge Lampedusa, potrebbe essere il volto di questi tre soldati. Giovani come tanti, che hanno scelto con diverse motivazioni di indossare una divisa - quella dell’Esercito, ma varrebbe lo stesso per Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco, Carabinieri, Polizia, Guardia costiera, Marina Militare e Aeronautica, per restare ai corpi impegnati in quest’emergenza - e che invece dall’alba del 3 ottobre si ritrovano a fissare il volto della morte come pietosi necrofori. «Dopo un primo istante di choc - spiega Biagio - entri in una sorta di film, sei separato dalla realtà, continui ad essere te stesso, con i tuoi valori e la tua esperienza, ma non provi più disgusto né orrore. E fai quel che devi fare».
Il compito dei soldati è quello di prendersi cura delle salme riportate in superficie dai sommozzatori dei Carabinieri e dei Vigili del Fuoco, trasportare, aprire e chiudere i sacchi per le prime operazioni di identificazione. Fino ad oggi, al molo Favarolo sono arrivati 339 corpi che fotografano con crudezza la violenza del naufragio e l’opera di distruzione provocata dal mare. Notte e giorno, al vento salmastro e sotto il sole cocente dell’autunno nordafricano, questi ragazzi si sono immersi per 339 volte dentro gli odori, i colori e le smorfie della morte: «Lo sguardo di un cadavere si supera; quel che non superi - spiega Annalisa - è lo sguardo dei sopravvissuti. Cerca qualcuno che non tornerà più. Se poi è un bambino...».
Professionisti ma anche uomini e donne «che si sono mobilitati con generosità - attesta il capitano -. Pochi minuti dopo l’allarme tutti erano a disposizione, anche chi, come Biagio, avrebbe iniziato allora il turno di riposo». Giordano comanda il contingente dell’Esercito e dell’Aeronautica presente sull’isola dal 2007 nell’ambito dell’operazione Strade Sicure, un’attività di supporto alle forze dell’ordine coordinata dal colonnello Marco Buscemi, comandante del Reggimento Lancieri d’Aosta di Palermo; se non routine, qualcosa di molto più tranquillo delle stesse missioni umanitarie. «Abbiamo scontato un effetto sorpresa - ammette l’ufficiale -; una tragedia con centinaia di vittime non era tra le ipotesi di lavoro. Per fortuna c’è un grande spirito di corpo...». Che si alimenta della durezza della prova: «Vivere esperienze di questo genere comporta scariche di adrenalina che cementano i rapporti. Dopo questo genere di cose si è fratelli, una famiglia» ammette il capitano. «Dopo questo genere di cose si cambia» aggiunge il caporale Lops: «Prima ero una ragazza normalissima, che nella vita di tutti i giorni cercava di tenersi lontano da situazioni disgustose e truci. I miei genitori in queste ore si chiedono come possa fare quello che sto facendo».
Il gruppo è seguito dal cappellano militare di Palermo, don Pino Terranova. Per lui, questi giovani sono moderni Nicodemo e i naufraghi nuovi Crocifissi: «Questi soldati - ci dice - sono dei privilegiati perché hanno toccato con mano le piaghe di Cristo, hanno raccolto con pietà cristiana i corpi di chi è morto per l’indifferenza del mondo». Dare l’ultima carezza a corpi martoriati da un viaggio disumano che si è concluso con l’urlo soffocato dal mare non mette al riparo dagli interrogativi più profondi. «Eppure ci ha dato un gran senso di sicurezza aver vicino l’elemosiniere del Papa. È stato come aver vicino Francesco - rivela Biagio -. Lo abbiamo visto piegarsi e pregare sui corpi delle vittime: la sua non è stata una presenza formale. Quando se n’è andato ci ha regalato un’immagine del Papa, che abbiamo ancora in tasca. L’hanno presa anche i colleghi che di solito non vanno a messa».



Quei bimbi in mare commuovono i marinai: "Ora li adottiamo noi"
I militari italiani li hanno strappati alle onde e confortati. E si offrono di fare da genitori ai piccoli profughi rimasti soli
il Giornale, 14-10-2013
Cristiano Gatti
Forse abbiamo bisogno di una badante o di un tutore in economia, ma per favore nessuno ci venga a insegnare l'umanità. L'Europa pensi a darsi una mossa, la smetta di fare riunioni e di sottoscrivere solenni impegni, ma nel contempo guardi che razza di gente siamo noi.
Tutti: tedeschi, francesi, spagnoli, greci, maltesi, i duri e i mezzi duri del vecchio continente, osservino gli italiani in mezzo ai drammi e alla morte, poi finalmente si sciacquino la bocca. Saremo inaffidabili e farfalloni, gaudenti e impuniti, ma quando qualcuno è in difficoltà siamo i primi a muoverci e a tendere la mano, senza chiedere chi sia e da dove venga. Certo non siamo perfetti, ma nella nostra imperfezione abbiamo un cuore grande così.
Scene da banchina portuale, Porto Empedocle: i sopravvissuti dell'ennesimo naufragio scendono dalla nave militare «Libra». Hanno alle spalle ore di terrore e hanno davanti un futuro di paure, ma prima di andarsene vogliono abbracciare i nostri marinai. Sono momenti di semplicità estrema, ma di significato supremo. C'è un grazie che vale più di qualunque medaglia e di qualunque premio Nobel. La comandante Catia Pellegrini - sì, una donna, nell'Italia del mito machista: sorpresi, gli evoluti europei del Nord? - la signora comandante racconta storie bellissime: «Alcuni dei miei uomini si sono fatti avanti per ottenere in affido i bambini rimasti soli. Hanno lasciato le loro generalità, hanno chiesto informazioni sulle procedure. Li hanno salvati, ma se possibile ci saranno anche dopo». Aggiunge Cosimo Vergine, capo team del reparto San Marco: «Abbiamo salvato molte vite, è normale che ora abbiano gesti di affetto nei nostri confronti. Dopo averli imbarcati sulla Libra, abbiamo cercato di confortarli in tutti i modi, portando una bottiglietta d'acqua, accompagnandoli alla toilette, cercando persino di scherzare un po' con loro. Ma soprattutto abbracciandoli e rassicurandoli. I bambini ovviamente più degli altri. Erano terrorizzati, non parlavano più, ma piano piano siamo riusciti a rasserenarli. La verità è che questa gente ha bisogno del nostro aiuto anche dopo il salvataggio. Forse di più. È per questo che molti colleghi hanno chiesto, se sarà possibile, di avere in affido i piccoli scampati alla morte: anche se siamo chiamati a compiere rigidamente il nostro dovere, umanamente non è possibile restarne fuori...».
Sono militari, conoscono alla perfezione i propri compiti e li eseguono alla perfezione, secondi a nessuno: né ai tedeschi, né ai francesi, né agli inglesi. Ma portano in mare un valore aggiunto unico e inconfondibile, un vero marchio di fabbrica, quel grandioso Made in Italy del cuore che in tutte le tragedie il mondo intero ci riconosce, dall'Afghanistan alla Somalia, dal Kosovo alla Bosnia. Le nazioni con il Pil di segno positivo e con lo spread basso, con i conti in regola e la moneta forte, tutte quante un giorno hanno imparato a conoscere i nostri carabinieri, ora stanno imparando a conoscere i nostri marinai. Possono snobbarci e deriderci su mille questioni, ma non potranno mai avere da ridire sulla nostra qualità migliore, questa umanità costruita sui secoli fertili dell'umanesimo latino, questa generosità e questa disponibilità che non nascono dal calcolo, dalla convenienza, dal profitto, ma semplicemente da un'anima aperta e ospitale. Tra tutte le sventure, quei bambini presi dalle onde hanno incontrato la prima fortuna della loro misera esistenza: i nostri marinai, cuori d'Italia.



Storia di Anita
La mia vita cambiò su quel barcone per Bari
il Fatto, 14-10-2013
Anita Likmeta
Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciava. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e l’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Ricordo lucidamente il giorno che precedeva la partenza. Un pomeriggio pieno di nuvole di fine maggio. Non comprendevo la dimensione delle cose. L’idea di partire per l’Italia sembrava un sogno. Nessuno dalle mie parti amava l’Italia. L’Albania è stata invasa dai fascisti, i quali non avevano certo portato la civiltà, né il diritto, né l’arte. Guardavo le mani di mia nonna piene di crepe e ruvide e il suo odore che assomigliava ai legni bagnati dalla pioggia d’inverno.
L’ANNUSAVO per fotografare nel mio cuore quell’istante, quel momento che non passava mai, fermo, indeciso, tiepido. Ci alzammo e rientrammo a casa. Udii la voce di mio nonno: “Dov’è Nini? ”; trattenevo le lacrime, volevo essere più forte delle mie emozioni. Respirai profondamente. Entrai nella stanza dove lui sedeva in un angolo a fumare le solite sigarette. In mezzo alla stanza c’era una stufa a legna e sui lati di essa dei barattoli di vetro con olio di ricino e un filo che si accendeva per illuminare l’ambiente. Un grido, il mio, “Nonnino io me ne vado, vado ora” e mi dipinsi il volto di una espressione felice che volevo gli rimanesse per sempre di me. Lui si alzò nonostante i suoi acciacchi, i suoi occhi erano tristi. Mi mise una mano sul volto e mi disse: “E dove vai? ”, e io “vado in Italia nonno” e lui “brava, diventa una brava bambina italiana”. La nonna mi prese per mano e mi portò fuori dalla stanza, ma i miei occhi rimasero fissi su di lui e mi ripetevo che sarei ritornata. Fuori ad aspettarmi c’era mio zio con la carrozza trainata dal cavallo che mi avrebbe portato fino alla prossima città e lì avremmo preso l’autobus per arrivare a Durazzo. Partimmo. Vedevo da lontano la casa dei nonni rimpicciolirsi a ogni metro che facevo. A un certo punto tutti i miei amici che si erano nascosti nella collinetta uscirono urlando il mio nome e inseguendo la carrozza tutti insieme. “Ciao Nini, ciao. Anche noi verremmo. Ci vediamo presto. ” Urlavamo, piangevamo, ridevamo contemporaneamente.
DURAZZO. Dinanzi a me c’erano molti piccoli imbarcaderi, appoggiati vicino al porto che non era più controllato dalle forze dell’ordine. Anarchia totale. Gente che tentava di salire e veniva buttata giù, gente in coda, gente che pagava, gente che tentava di mettere un bagaglio più voluminoso e gli veniva scaricato direttamente in mare, disperati vestiti nei modi più strani, soldi che passavano da una mano all'altra, spintoni, bambini attaccati alle madri che urlavano. Si parte e io rimango seduta a poppa per guardare il mio paese scomparire lentamente. Arrivammo a Bari. Io, mia madre, mio fratello e sorella abbracciati. Ci controllarono come se avessimo i pidocchi. Un amico di famiglia ci portò a Pescara. Sono passati degli anni e io sono cresciuta, ho studiato, ho frequentato l’Accademia d’Arte drammatica “Corrado Pani”, ho successivamente conseguito la laurea nella facoltà di Lettere e Filosofia, ho lavorato con dignità. La libertà racchiude in sé la possibilità di essere felici. E la possibilità di essere felici non è altro che la possibilità di scegliere: un vestito, la fede, un partito politico e, attenzione, un luogo dove vivere serenamente, lavorare e mettere su famiglia. È il cardine del diritto dell’uomo, della convivenza con i suoi simili, il cardine della nostra vita per il quale molti prima di noi hanno lottato e perso la vita, per il quale oggi ancora si lotta e si muore.





 

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