02 ottobre 2013

“Io e i miei figli, in fuga dalla fame su quel barcone abbiamo visto l’inferno”
Ragusa, parla una sopravvissuta eritrea. Gravi due feriti. Arrestati 7scafisti
la Repubblica, 02-10-2013
Francesca Viviano
SCICLI (RAGUSA) — Continua a pregare a ringraziare Dio di avercela fatta, di non essere annegata sul litorale di Scicli come è accaduto a 13 suoi connazionali. Adesso che l’incubo è finito Fatima Mahemed, eritrea, 32 anni, passeggia nel centro di accoglienza di Pozzallo. E sembra una chioccia perché in braccio tiene il figlio più piccolo mentre gli altri tre (tra i 4 e i sette anni), le girano intorno come pulcini. Pulcini che Fatima temeva potessero morire affogati quando la barca si è arenata su una secca ed è successo il finimondo con gli scafisti (5 siriani e 2 egiziani arrestati ieri) che picchiavano tutti, spingendoli in mare per alleggerire l’imbarcazione e tornare indietro, in Libia, da dove erano partiti.
Fatima vorrebbe dimenticare quello che ha vissuto negli ultimi anni e nelle ultime ore, ma non riesce a togliersi dalla mente quei momenti drammatici, i 13 uomini morti affogati, i feriti (due dei quali ora versano in condizioni disperate, mentre 5ricoverati sono fuggiti e tra i dispersi 22 sono stati rintracciati nelle campagne e condotti al centro di Pozzallo). E così ci racconta il suo viaggio, lungo tre anni e iniziato ad Agordat, 160 km. a ovest di Asmara, Eritrea. «È stato mio marito a decidere: per salvare i nostri bambini dalla fame e dalla guerra non restava che provare a raggiungere l’Italia. Ma lui è rimasto perché i soldi non bastavano. Mi ha detto: “Andate, e se Dio vorrà vi raggiungerò”».
DUE ANNI A KHARTOUM
«Un nostro conoscente mi aveva dato l’indirizzo di Khartoum di una persona che organizza questi viaggi clandestini e siamo partiti, con i soldi raccolti tra i parenti, a bordo di un camion diretto verso il Sudan. E lì sono rimasta: per raccogliere altri soldi lavoravo da cameriera, ma non avevo nessuno a cui lasciare i miei bambini. Due anni dopo avevo mille dollari da parte: 800 sarebbero serviti per il “trasferimento” in Libia. “Prendere o lasciare” mi dicevano. Ho anche pensato di tornare indietro ma avrebbero preteso gli stessi soldi per riportarmi in Eritrea. Così ho accettato: eravamo più di 300, stipati in due camion che viaggiavano solo di notte. Faceva freddo e non avevo coperte per i miei figli. Ma in una settimana siamo arrivati. Ad Al Zuhara e da lì, il 5 settembre i sudanesi ci hanno consegnati ad un gruppo di libici che ci hanno portato in una fattoria in aperta campagna, vicino a Tripoli. Eravamo sorvegliati, come prigionieri. Ho visto picchiare con i manganelli, senza motivo. Abbiamo patito la fame: ci davano soltanto un pezzo di pane algiorno e acqua, che però era salata e ci faceva stare male».
LE LUCI DI MALTA
«Dopo settimane, all’improvviso, la sera di venerdì 27 settembre ci hanno ordinato di prepararci a partire. Siamo andati a piedi fino alla spiaggia, ma altri, 100 o 200, sono arrivati sui camion. Un gommone faceva avanti e indietro fino al barcone, dopo che avevi pagato: nel mio caso, 1.600 dollari, tutto quello che avevo raccolto in Eritrea, “i tuoi figli viaggiano gratis” mi hanno detto. A bordo c’erano uomini con la pelle piùchiara (gli scafisti arrestati ieri,ndr).
E siamo partiti: da mangiare, qualche tozzo di pane e acqua, stavamo appiccicati l’uno all’altro, mancava lo spazio anche per respirare. Gli scafisti si davano il cambio al timone: ogni tre ore spegnevano i motori per farli raffreddare e ci fermavamo. Il mare era tranquillo, ma noi stavamo male. Dopo due giorni così abbiamo visto le luci delle case su un’isola, pensavo fosse la Sicilia e invece era Malta. Nessuno ci diceva nulla. E io pregavo».
“LI HO VISTI AFFOGARE”
«La notte dopo abbiamo visto altre luci, quelle della costa siciliana. Eravamo stremati, i miei bambini soffrivano la fame e soprattutto la sete, vomitavano e piangevano, ma ormai pensavo che fossimo salvi: stavamo per arrivare in Sicilia, in Italia». «All’alba di lunedì il mare ha iniziato ad agitarsi e il barcone ha finito per fermarsi, incagliata su un banco di sabbia. È stato in quel momento che è scoppiato l’inferno. Gli uomini “con la pelle più chiara” (gli scafistindr)ci urlavano di scendere da prua, spingevano e picchiavano, mentre il barcone veniva investito dalle onde. Qualcuno si è tuffato, altri sono caduti in acqua, ma pochissimi sapevano nuotare. Ed è così che hanno cominciato a morire. Li ho visti affogare uno dopo l’altro: tentavano di riemergere ma affondavano. Io sulla barca stringevo i miei bambini, terrorizzata da quel che stava succedendo. Troppo debole per reagire. Eppure la riva era lì, a poche decine di metri. Non so quanto è durato quel caos. Ma so che quando ho infine deciso di scendere con i miei piccoli, altri uomini e quegli altri con le divise (i carabinieri,ndr)mi hanno aiutata a raggiungere la spiaggia. “Ce l’abbiamo fatta”, ho pensato. Ma intorno a noi il caos continuava: urla, gente che scappava. E quei corpi, tredici uomini eritrei come me, morti sulla vostra spiaggia».



Scicli
l'Unità, 02-10-2013
Simonetta Cavalli
La sabbia dorata, bella, il mare azzurro suggerisce la musica ritmica della risacca, sullo sfondo le case di un paese antico consumato dal sale.
Sono tredici i corpi immobili sdraiati sulla riva, coperti da bianchi lenzuoli per nascondere l’orrore, quello che piedi irrigiditi, calzati di scarpe, urlano, perché l’orrore non si può nascondere.
L’orrore di vite spezzate proprio quando la realtà di una spiaggia che accoglie sembra suggerire una speranza.
Una vecchia barca lì accanto galleggia, palcoscenico impotente del dramma.
Belve umane hanno ucciso, picchiato, gettato via altri uomini che a loro avevano offerto tutto, senza nulla difendere, per potere riprendere almeno a sognare.
E il prezzo del sogno è stata la morte, violenta, incomprensibile  non si può comprendere la feroce aggressione di vittime che non sanno di esserlo, non è la salvezza che hanno comprato, ma è il male che il loro sogno ha foraggiato.
Avevano paura del mare quegli uomini, eppure per navigarlo avevano dato tutto quello che avevano, non potevano gettarsi in acqua, sarebbero morti, lo sapevano, ma i loro aguzzini con le tasche gonfie del denaro strappato ai sogni li hanno frustati con le cinghie perché staccassero le dita aggrappate al legno della barca, ultimo appiglio  dal mare gelato.
Ci può essere una condanna in grado di asciugare il sangue di questa ferita,  ennesima conferma  che dietro la maschera di uomini si celano belve mai sazie?
Altri uomini, e donne, qualche ragazzo e bambini, hanno visto da lontano una scena che non poteva essere vera, e sono corsi, da un villaggio vacanze, da una casa, dalla strada cercando di sorreggere, di aiutare, salvando dalla morte i fratelli che riuscivano a tirare a riva, immergendosi in quelle acque fino ad un minuto prima di paradiso ed ora di inferno.
Umanità si dice, ma uomini sono anche quelli che hanno comprato e tradito la speranza; uomini morti immobili, altri bagnati ed esausti di amore e coraggio su una spiaggia colorata di rosso dal sangue rappreso e dall’ultimo sole di una fine d’estate a Scicli.



«Sognavamo l'Europa, l'ho visto sparire in mare»
Il dolore di Asmeron, che vuole andare in Norvegia: «Non so nuotare, non potevo aiutare il mio amico»
Corriere della sera, 02-10-2013  
Felice Cavallaro
SCICLI (Ragusa) — Erano due amici cresciuti nelle stesse strade sterrate della periferia di Asmara. Avevano studiato letteratura araba e turismo. Parlavano inglese e ogni tanto sbirciavano il mondo da un computer insieme. Pensando sempre alla fuga dall'Eritrea. La stessa che Asmeron, secco e lungo come Amir, aveva programmato da due anni, da quando la giovanissima moglie aveva raggiunto i suoi genitori in Norvegia. «Se vai tu, vengo anch'io», annunciò tre mesi fa Amir, festeggiando con il niente che avevano il compleanno, la stessa età di entrambi, 22 anni. Ma la vita s'è fermata di botto per Amir, che Asmeron ha riconosciuto fra i 13 cadaveri spiaggiati lunedi mattina come delfini di un mare crudele sulla battigia di Samperi, a due passi da Pozzallo, sotto Scicli, il teatro delle fiction del commissario Montalbano e delle tragedie reali.
Ha spezzato anche questa fresca amicizia l'orrore dell'ultimo lutto dei Mediterraneo provocate dalla violenza di scafisti senz'anima, decisi a liberare il barcone incagliato nella secca spingendo in mare i migranti che non sapevano nuotare. Cinque siriani e due egiziani, adesso agli arresti.
«Non avevo mai nuotato nemmeno io», spiega Asmeron. «E non aveva mai provato nemmeno Amir che ho visto andare giù e risalire tante volte fra le onde, mentre io ce l'ho fatta, non so come, pur bevendo acqua a volontà, vomitando poi schiuma come fosse bava, lo stomaco stretto da una morsa, forse aiutato da qualcuno, ma senza memoria, gli occhi rivolti verso Amir che io non potevo aiutare e che a un tratto non ho più visto...». È il racconto di un ragazzo triste e arrabbiato perché dice di avere anche preso «qualche manganellata senza ragione» in un Centro accoglienza da dove tutti vogliono andare via. «Che male c'è a ripetere che ho bisogno di rimettermi in viaggio verso mia moglie?», chiede Asmeron con pacatezza, sapendo che le forze di polizia hanno fatto un gran lavoro, ma deciso a rivendicare quelli che è certo siano i propri diritti. A gran voce. Come Ibraim Nasser, 19 anni, fascetta al polso, numero «149 F», tutti schedati per facilitare la fila a pranzo e cena.
S'adatta malamente alle regole e al clima che si respira dentro il capannone trasformato in dormitorio, cento materassini per terra, anche Haimoneth, 20 anni, pure lei con la Norvegia nel cuore: «Mi aspettano i miei genitori. Devo andare, non restare qui. Ma sembra proibito dirlo, chiederlo...».
Adesso che ha riconosciuto pure nelle foto scattate al cadavere il suo amico delcuore, Asmeron ricorda: «Siamo partiti insieme, come sempre nella vita, da quando giocavamo a calcio fra le case del nostro quartiere. Stesso camion. La traversata nel deserto fino a Tripoli... La Sicilia? Solo un punto di passaggio. Si, forse Amir sarebbe venuto con me, da mia moglie in Norvegia. O, forse, si sarebbe diretto in Svezia dove ha un fratello che lavora, informato del viaggio, convinto che un giorno lo vedrà arrivare...».
Anche per questa tragedia, per le altre 12 vittime di lunedi, per i luttí susseguitisi in una terribile estate, ieri sera si sono illuminate mille fiaccole per le strade di Scicli, giorno di lutto Cittadino, come a Modica. Un segno per accendere l'attenzione che manca all'Europa, ai Paesi del Nord, gli stessi dove Amir non è riuscito ad andare e che Asmeron vorrebbe raggiungere.



Sbarco sulle coste pugliesi salvi quarantacinque migranti
Sono tutti uomini, in buone condizioni e arrivano dal Pakistan, dall'Afghanistan e dal Bangladesh. L'imbarcazione non è stata ritrovata
la Repubblica.it, 02-10-2013
Quarantacinque immigrati clandestini sono stati rintracciati all'alba di oggi dai carabinieri subito dopo lo sbarco sul litorale di Santa Maria di Leuca, nel Salento.
Si tratta di pakistani, afgani e di cittadini del Bangladesh, tutti uomini e in buone condizioni fisiche. Sono stati soccorsi, rifocillati e condotti al centro di prima accoglienza 'Don Tonino Bello' di Otranto. L'imbarcazione con cui i migranti hanno raggiunto le coste pugliesi non è stato trovata.



Cresce il razzismo, cresce il fascismo
risponde Furio Colombo
il fatto, 02-10-2013
CARO FURIO COLOMBO, dai cori negli stadi agli insulti sugli autobus fino alle minacce al presidente della comunità ebraica di Roma, si moltiplicano nel nostro Paese i gravi episodi di razzismo. Noto un continuo impegno di sminuire, di rinchiudere fatti anche gravi nello “vicenda isolata”. Perché nessuno vede il pericolo?
Marta
NELLA RISPOSTA che sto per dare non giocherò a fare il paradossale. Ma credo che sia il punto da cui partire. Smettiamo di dire (lo fanno, con le migliori intenzioni, un po’ tutti i leader e le personalità politiche che hanno ancora credibilità e rispetto) che “l'Italia non è un Paese razzista”. Anche molti americani lo hanno detto, del loro Paese, persino ai tempi di Sacco e Vanzetti. Ma solo quando Martin Luther King li ha svegliati si sono accorti che non era vero, che il razzismo era un tratto nazionale, destinato a crescere senza la rivoluzione dei diritti civili. L’Italia ha due alibi. È un Paese cattolico e tutti credono di essere buoni. Per fortuna è arrivato Francesco che, per prima cosa, è andato a Lampedusa, da cui ha lanciato il suo grande ammonimento: “Vi supplico, non fatelo più”. Avrete notato che i salvataggi si sono moltiplicati dopo la visita del Papa, e dopo due decenni di velenosa Lega Nord. Ma il secondo alibi è tenuto in vita dalla sventurata frase “non siamo un Paese razzista”. Se vuol dire che molta gente non prova l’ignobile impulso che induce a insultare negli stadi e ad aggredire sugli autobus, e a pubblicare gli indirizzi delle famiglie ebree, allora occorre ricordare che anche negli Usa, ai tempi del Ku Klux Klan e delle croci bruciate davanti alla case dei neri condannati, la maggior parte dei cittadini non partecipava a quegli eventi malefici o alle impiccagioni notturne. Ma faceva finta di non sapere, come in Italia ai tempi delle persecuzioni razziali. La frase “non siamo razzisti” è una consolazione pericolosa. La lotta al razzismo non è l'atteggiamento passivo di chi non fa nulla di male, ma non si immischia. Chi non si immischia è complice. Attenti al fenomeno: il fascismo sta crescendo e ritrovando un po’ dovunque in Europa il suo vecchio coraggio omicida. Vedete, chi ha imparato questo nel tempo in cui fascismo e razzismo dominavano l'Europa, è portatore di tristi certezze. Questa per esempio: il fascismo è sempre razzista. Il razzismo è sempre fascista, persino se non lo sa. Ogni tolleranza è colpevole e pericolosa.



Immigrati, voglia di andarsene Uno su 4 ci sta pensando
È la conclusione dell'indagine dell'Associazione Bruno Trentin-Isf-Ires della Cgil su un campione di oltre mille stranieri venuti in Italia da diverse aree del mondo. I risultati della ricerca "Qualità del lavoro e impatto della crisi tra i lavoratori immigrati" verranno presentati domani - 2 ottobre - alle 10 presso la sede della Cgil nazionale, alla presenza del vice ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Maria Cecilia Guerra
la Repubblica.it, 01-10-2013
MAURIZIO BONGIOANNI
ROMA - Quattro immigrati su dieci pensano di lasciare l'Italia. L'alternativa? Dare inizio ad un nuovo percorso migratorio verso altri paesi europei o rientrare nei paesi di origine. È questa la conclusione a cui è giunta l'indagine condotta dall'Associazione Bruno Trentin-Isf-Ires della Cgil su un campione di oltre mille immigrati provenienti da diverse aree del mondo, in 10 regioni del nord, centro e sud Italia. I risultati della ricerca "Qualità del lavoro e impatto della crisi tra i lavoratori immigrati" verranno presentati domani - 2 ottobre - alle 10 presso la sede della Cgil nazionale, alla presenza del vice ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Maria Cecilia Guerra.
La paura che accomuna tutti. Che l'effetto della lunga crisi economica pesi più gravemente sui lavoratori immigrati non è, in parte, una novità. Ma la ricerca descrive drammaticamente la qualità del lavoro degli immigrati in gran parte dequalificato, senza la possibilità di progredire nella carriera e che rimane fortemente confinato nei settori a minor valore aggiunto. Il sentimento vissuto dai più è quello della preoccupazione di perdere o non trovare un'altra occupazione. E' una paura che accomuna la quasi totalità degli immigrati intervistata poiché il lavoro, oltre a garantire un reddito e una vita dignitosa, è la condizione senza la quale non è possibile soggiornare regolarmente nel nostro paese.
Ricattati e vessati. Dunque i lavoratori sono più ricattabili e le condizioni di lavoro, già molto problematiche, diventano ancora più vessatorie. L'effetto della crisi infatti è stato quello di aumentare gli orari ma diminuire le giornate lavorative, di aumentare il lavoro nero, le forme di falso part time e il falso lavoro autonomo. Anche chi vive in Italia da molti anni (e sono la grande maggioranza degli immigrati), non sembra che sia riuscito a superare le dinamiche discriminatorie di un mercato del lavoro duale e, purtroppo, anche per le seconde generazioni il percorso di piena acquisizione dei diritti di cittadinanza appare molto difficoltoso.
Gli effetti sull'economia italiana. Il risultato è allora che il 40% degli immigrati vuole andarsene, cosa questa che avrebbe effetti e ripercussioni non solo sulle vite umane degli immigrati stessi e delle loro famiglie, ma anche su un'Italia già in affanno economico. Circoscrivendo l'eventualità dell'esodo ai meri effetti economici, va ricordato che i lavoratori stranieri rappresentano oltre il 10% del Pil italiano, contribuiscono a sostenere il welfare, in particolare nel campo previdenziale e offrono un decisivo contributo al recupero demografico.
Aumenta il bacino della povertà. "Esiste il rischio di un depauperamento di risorse professionali (le persone più motivate a partire sono quelle più giovani e con titoli di studio più alti), nonché la progressiva destrutturazione di settori determinati del nostro sistema produttivo e sociale", spiegano in un loro comunicato stampa i ricercatori. "Esiste il rischio di strutturare una società con cittadini di serie A e non cittadini di serie B, creando un vulnus pericoloso per la stessa tenuta del nostro sistema democratico. Aumenta il bacino della povertà, che associato all'immobilismo "dell'ascensore sociale" rischia di creare nel futuro forti tensioni come quelle che hanno già attraversato le periferie di molte città europee negli scorsi



Da alloggi di fortuna a case di proprietà: gli stranieri mettono le radici
La situazione descritta nel libro “Stranieri e disuguali. Le disuguaglianze nei diritti e nelle condizioni di vita degli immigrati”. Oggi oltre un quinto degli stranieri intervistati vive in una casa in proprietà, oltre la metà vive in un’abitazione in affitto. Ma restano le differenze con gli italiani
Redattore Sociale, 01-10-2013
ROMA - Uno degli aspetti più importanti del rapido processo di stabilizzazione della popolazione straniera nel nostro paese riguarda l’insediamento abitativo. Dalla prima indagine del 2001 della Fondazione Ismu sugli stranieri in Italia, in particolare in Lombardia – una delle principali regioni di insediamento - risultava che oltre un terzo degli intervistati viveva presso il proprio datore di lavoro o in appartamenti condivisi con altri immigrati non parenti. Quasi un intervistato su dieci dormiva in strutture di accoglienza, case occupate abusivamente, baracche, alloggi temporanei o altre sistemazioni precarie.
La stessa indagine ripetuta a dieci anni di distanza, nel 2011, ha fornito un’immagine significativamente diversa: oltre un quinto degli intervistati vive in una casa in proprietà, oltre la metà vive in un’abitazione in affitto che condivide solo con i propri familiari. La percentuale di persone intervistate in condizioni di forte marginalità abitativa è praticamente dimezzata.
E’ questo il profilo che si deduce da un’analisi di studio condotta da Claudio Daminato e Novena Kulic pubblicata in “Stranieri e disuguali. Le disuguaglianze nei diritti e nelle condizioni di vita degli immigrati” per le edizioni Il Mulino, testo curato da Chiara Saraceno, Nicola Sartor e Giuseppe Sciortino.
Nel giro di un decennio, la popolazione straniera è divenuta pertanto un segmento stabile del mercato delle abitazioni, con effetti di rilievo sia su quello delle locazioni che delle compravendite.
Rispetto alle famiglie italiane, quelle straniere vivono più spesso in affitto, in case maggiormente affollate e di qualità inferiore, per quanto riguarda sia le condizioni interne dell’abitazione, sia la tipologia del quartiere in cui la famiglia vi abita. Sempre nella ricerca, si indica che circa il 71 per cento delle famiglie italiane vive in una casa di proprietà della famiglia, mentre accada soltanto per il 23 per cento delle famiglie straniere. Il dato è particolarmente marcato nelle fasce di età sopra i 35 anni, dove la differenza tra italiani e stranieri è massima. Inoltre, tra le famiglie straniere, la proprietà della casa non è distribuita sul territorio in modo omogeneo. E’, infatti, maggiormente concentrata nella zona nord-est e nord-ovest del paese, e queste zone contribuiscono a quasi il 60 per cento delle case in proprietà degli stranieri.
Altre differenze tra italiani e stranieri risaltano se si considerano gli anni trascorsi in Italia dagli stranieri; il tasso di proprietà è superiore tra le famiglie presenti da più di dieci anni rispetto a quelle arrivate recentemente (24 per cento contro il 10 per cento). E tra le famiglie straniere provenienti dai paesi in via di sviluppo, che rappresentano la maggioranza, il tasso di proprietà è più alto per i gruppi provenienti da America centrale e meridionale, India e Cina, mentre le famiglie provenienti dai paesi sviluppati presentano caratteristiche maggiormente simili a quelle italiane.   
Infine, confrontando le famiglie della stessa situazione economica e dal profilo demografico simile, si è osservato come, sia il tasso di proprietà tra gli stranieri sia le condizioni interne delle abitazioni si avvicinano a quelle medie degli italiani. E il maggior affollamento delle abitazioni delle famiglie straniere resta invariato, o peggiora, quando la comparazione viene fatta su gruppi omogenei per condizione socioeconomica. Le famiglie straniere, inoltre, pagano maggiori costi per la casa, a parità di tutte le altre condizioni. Si è visto anche che il tempo trascorso in Italia aumenta la probabilità di comprare una casa, ma non cambia le altre condizioni abitative. A conclusione dello studio, gli autori affermano che il disagio abitativo delle famiglie straniere non può esser considerato esclusivamente come effetto delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. (sp)
anni".
 


Terni, gli immigrati in una città che cambia: «Sospesi a metà fra la Romania e l’Italia»
Nuova puntata del nostro viaggio fra le comunità degli immigrati. A raccontarsi stavolta sono i rumeni, fra bisogno di stabilità e salvaguardia della propria identità
Umbria 24, 02-10-2013
Francesca Mancosu
«Per molti versi, probabilmente, la nostra comunità è la più simile a quella italiana. Non solo per alcune parole della nostra lingua, ma anche per il nostro bisogno di stabilità, di radicarci». A parlare è Gina, uno dei 3500 rumeni – 5mila secondo stime ufficiose – che vivono a Terni. Trasferitesi in gran numero negli ultimi 10 anni, e soprattutto a partire dal 2007, dopo l’ingresso ufficiale della Romania nell’Unione Europea.
Una comunità che non c’è Dopo i musulmani, gli indiani e i cinesi, il nostro viaggio fra gli immigrati vecchi e nuovi dei nostri quartieri, fa ancora tappa fra le storie di una comunità che non può dirsi tale, nascosta e silenziosa, ad eccezione di qualche caso di cronaca. «Sì, non è possibile ricondurci ad una determinata zona della città – racconta Luciano, commerciante di 35 anni – e non abbiamo neppure dei precisi punti di riferimento, un vero bisogno di ritrovarci, ma credo che ci contraddistingua un forte desiderio di stabilità. A cominciare dalla necessità di avere una casa di proprietà, abitudine che ci viene dallo stato socialista che ci tratteneva un tanto al mese dallo stipendio ‘costringendoci’ ad acquistare quella in cui vivevamo».
Il lavoro Sono tante le donne, specie fra i 40 e i 60 anni, che hanno trovato lavoro come badante, lasciando a casa la famiglia d’origine. Tanti fanno i muratori, in gran numero hanno scelto di fare i pendolari con Roma, attratti dai prezzi ancora contenuti delle abitazioni ternane. «La maggior parte di noi – racconta Stella, una giovane madre – sono arrivati qui per caso, spesso per ricongiungersi con i familiari emigrati qui. Nel nostro paese svolgevamo occupazioni qualificate, ma una volta arrivati in Italia si sono dovuti accontentare; io, ad esempio, sono una ragioniera, ma ora faccio la donna delle pulizie». Luciano, invece, ha scelto di mettersi in proprio, aprendo uno dei tre negozi di alimentari romeni che ci sono a Terni. Vende un po’ di tutto: dolci, bibite, giornali, cd – provenienti dalla Romania o da un ingrosso a Roma, e ha in programma di allargare l’attività. «Sto per affittare i locali qui a fianco, per farci una macelleria e ampliare la mia clientela, con la speranza che vengano sempre più italiani».
In difesa della propria identità L’impresa più difficile, però, sembra essere la salvaguardia delle proprie radici, sospese a metà fra l’Italia e la Romania. «Molti di noi si sentono stranieri qui e anche nella propria terra, e hanno la sensazione di non avere più un posto da poter chiamare ‘casa’. A differenza di altre comunità, poi -racconta Gina – per noi la religione non ha un ruolo preponderante come occasione di aggregazione. Molti si ritrovano nella chiesa chiesa di Sant’Alò (messa a disposizione della comunità ortodossa rumena presente a Terni e in Umbria, e dedicata alla santa Parascheva; ndr), ma si tratta soprattutto di persone provenienti dai paesi di campagna, spesso molto giovani e con figli». Dal 2008, Gina – che di mestiere fa l’insegnante e la mediatrice culturale – ha creato l’associazione ‘Fiore blu’ (dal titolo di una celebre poesia rumena), ospitata nei locali attigui alla scuola ‘Falcone e Borsellino’, a Villaggio Italia, un centro culturale dedicato ad attività culturali, corsi di pittura e per bambini. «Non vogliamo essere un’associazione ‘tipica’, ma promuovere l’interculturalità, lo scambio di esperienze, e fra i nostri iscritti abbiamo anche molti italiani che sono stati in Romania».
I corsi di lingua e le nuove generazioni Altre associazioni, come l’Acli San Martino, offrono anche corsi di italiano per adulti, ma non sempre con buoni risultati. «Abbiamo provato a organizzare lezioni soprattutto per le badanti -  racconta ancora Gina – ma non è andata benissimo.  Sono molto volenterose ma nella maggior parte dei casi sono qui da qualche anno, e hanno già imparato ad esprimersi in dialetto (ternano)». La scommessa più grande è però quella con le nuove generazioni, che pur essendo nate qui continuano a mantenere un forte legame con la madrepatria. «Dal 2008, grazie ad un concorso promosso dall’Istituto di lingua romena abbiamo attivato corsi di lingua, cultura e civiltà romena in varie scuole di Terni, dalla materna alle superiori – Falcone Borsellino, Ipsia, Donatelli, De Filis, Oberdan – finanziati dal ministero dell’Istruzione rumeno in accordo con quello italiano, come accade anche in Spagna, Belgio e Francia. Il sogno sarebbe aprire una scuola internazionale, come quelle di Parma e Vicenza».



Londra, basta alla legge sui diritti umani
Il ministro dell’Interno conservatore May : “La Ue ora ci impedisce di cacciare gli immigrati criminali”
La Stampa, 02-10-2013
Claudio Gallo
A poco meno di due anni dalle prossime elezioni, la Gran Bretagna sembra vivere una campagna elettorale permanente. Qualche giorno fa il segretario laburista Ed Miliband aveva detto che i caso di vittoria nel 2015, il Labour bloccherà le tariffe dell’energia. Ieri, al congresso conservatore di Manchester la ministra dell’Interno Theresa May ha promesso di cancellare la legge sui diritti umani (voluta dai laburisti nel 1998 per armonizzare la legge britannica con la convenzione europea), che impedirebbe al governo di espellere gli immigrati colpevoli di reati, come rumorosamente chiede la grancassa dei media popolari e conservatori.
Tra un paio di settimane dovrebbe vedere la luce, ha promesso dal palco la ministra, una nuova legge sull’immigrazione che consentirà di rispedire a casa almeno i criminali. Lo scorso anno il ministero aveva approvato, con l’appoggio del parlamento, una direttiva in tale direzione, che però era stata resa inefficace dagli appelli in tribunale degli immigrati, spesso vittoriosi.
Con involontari echi berlusconiani, la May ha detto: «Alcuni giudici hanno scelto di ignorare il parlamento e hanno messo la legge al servizio dei criminali piuttosto che dei cittadini. Ora voglio mandare un chiaro messaggio a quei giudici: il parlamento chiede che la legge stia dalla parte della gente, la gente chiede che la legge stia dalla propria parte e i conservatori nel governo metteranno la legge nelle mani della gente una volta per tutte».
Un’ovazione scuote la platea, tutta per Theresa «piccole-lady-di-ferro-crescono» May, la donna che dopo decenni di impotenza governativa, è riuscita a cacciare l’islamista radicale Abu Qatada. Pazienza se in Gran Bretagna il predicatore non avesse commesso alcun reato. In fondo è la retorica vincente con cui l’Ukip, il partito anti-europeo e anti-immigrati di Farange, ha eroso i voti conservatori in questi ultimi anni.
Il verbo che i tory al governo pronunciano con più voluttà è tagliare: il cancelliere Osborne vorrebbe tagliare qualsiasi cosa ma specialmente il welfare. La ministra dell’Interno invece ha detto che taglierà i possibili casi di ricorso degli immigrati da 17 a 4. Spera così di dimezzare gli attuali 70 mila appelli l’anno. Non solo: «I criminali stranieri saranno deportati e potranno fare appello solo dall’estero».
Il nemico numero uno del ministero è di conseguenza la Convenzione europea per i diritti umani. «È chiaro che se la condizione per realizzare la nostra nuova legge sull’immigrazione sarà di abbandonare la Convenzione europea, lo faremo senza esitazione». Il primo ministro Cameron già nei giorni scorsi aveva detto che Londra potrebbe lasciare la Convenzione. Ieri si è affrettato ad applaudire e ha dato il suo sostegno a una «legge britannica sui diritti».
La battaglia conservatrice rischia di porre dei problemi con gli alleati liberal-democratici al governo: il vicepremier Nick Clegg aveva da poco detto che la legge non si tocca. Tim Hancock, dirigente di Amnesty Uk ha dichiarato: «Il rullo di tamburi che annuncia l’indebolimento della protezione dei diritti umani è preoccupante, il rischio è di limitare l’accesso alla giustizia in questo Paese».
Mentre il partito tuona contro i diritti umani (o perlomeno quella che giudica una loro distorsione) in casa, il ministro Hague continua a farne un pilastro della politica estera e flagellare tutti quei Paesi che non li applicano



Il razzismo socialdemocratico della Svezia. Schedati anche i bimbi rom
Il Foglio, 02-10-2013
Giulio Meotti
Roma. Un tempo definita “superpotenza morale”, la Svezia sta svelando il suo volto più oscuro. Prima è stata la questione della sterilizzazione obbligatoria dei transessuali, una macchia che ha segnato il codice civile di Stoccolma dal 1934 fino alla scorsa estate. In Svezia cambiare sesso significava rinunciare alla possibilità di riprodursi.
I transessuali erano obbligati a sottoporsi a sterilizzazione forzata. La loro capacità riproduttiva era considerata “pericolosa”, “asociale”. Adesso è la volta delle minoranze etniche.
La Svezia si fregia di essere “la casa del popolo”, in svedese si dice “folkhemmet”, il rifugio delle minoranze di tutto il mondo, la madre generosa che sovvenziona multiculturalismo e welfare. Ma si è appena scoperto che la polizia svedese schedava senza motivi migliaia di rom. E’ notizia di lunedì che anche i bambini, mille in tutto, alcuni dei quali di appena due anni, venivano schedati dalle autorità. Senza motivo alcuno.
Non certo per ragioni di lotta alla criminalità. Scrive il giornale liberale Sydsvenskan che “la Svezia ha introdotto il peccato originale nel codice penale”. “La gente pensava che la Svezia fosse un’utopia per gli immigrati, ma ciò che è accaduto dimostra il contrario”, dice Mattias Gardell, docente alla Uppsala University. In Svezia le tasse sono “skat”, tesoro comune, al servizio di tutta la società, la ricetta di “solidarietà più prosperità”. Una società ricchissima, indifferente a razza o religione, ideologicamente accogliente e tollerante, avrebbe sanato eventuali traumi da integrazione. Tranne i rom. Nel 1997 una giovane militante socialdemocratica, la ricercatrice universitaria Maija Runcis, scoprì in un archivio di stato che fra il 1935 e il 1975 erano state effettuate 62.888 sterilizzazioni forzate. Cinquantamila degli interventi furono eseguiti dopo il 1945 (dunque dopo la fine del nazismo). Bastava “frequentare il Luna Park” o “fare due salti in una sala da ballo” per essere sterilizzati. Oppure essere un rom.
La schedatura dei rom affonda lì le radici, nel progetto di “un popolo senza tare” ammantato dalla retorica del “nuovo umanesimo”, del welfare state e delle cure di stato. Nell’anamnesi per la sterilizzazione era contemplata anche la mera delazione dei vicini. E fra le motivazioni che portarono all’intervento basta citarne alcune: “Si trucca e si guarda allo specchio”. Oppure:“Sorride a tutti in modo invitante”. Dello stesso tenore appaiono i file sui rom tenuti dalle autorità in questi anni. “Famiglia decente, ma a livello intellettuale il marito è chiaramente superiore alla moglie”, recita un documento su una famiglia rom di Stoccolma.
Furono i coniugi Gunnar e Alva Myrdal, lui economista capo del gruppo parlamentare socialdemocratico, lei esperta di problemi della famiglia, entrambi insigniti del premio Nobel, a gettare le basi della persecuzione dei rom e di altre categorie. Una visione della società divisa fra “A människan” e “B människan”: il primo “è l’uomo qualitativamente superiore, l’uomo produttivo e collaboratore dello sviluppo armonico dell’interesse generale”, mentre “l’uomo B” rappresenta l’improduttivo, come il “bohémien”. I Myrdal consideravano un dogma “l’ereditarietà sociale” dei comportamenti devianti. Un mito del benessere sociale la cui regia era stata affidata alla collettività e alle istituzioni, mai all’individuo.
Il concetto di “patologia sociale” svedese ha così soppiantato la “patologia medica” di nazista memoria. E’ questo il lato oscuro della socialdemocrazia scandinava, un modello unico al mondo per pari opportunità, alfabetizzazione, integrazione, stato sociale. Ma per dirla con la scrittrice Lawen Mohtadi, appena intervenuta sulla schedatura dei bimbi rom, “il modello svedese era in piena ascesa, con l’eguaglianza come obiettivo finale. Ma al tempo stesso c’era questo”.


 

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