21 ottobre 2013

Oggi ad Agrigento la commemorazione dei morti di Lampedusa
Avvenire, 21-10-2013
Cresce ulteriormente il già drammatico bilancio del naufragio del 3 ottobre scorso nel mare davanti a Lampedusa: il corpo di un migrante che era sull'imbarcazione è stato trovato ieri vicino alla spiaggia dei Conigli da vigili del fuoco e da militari dell'esercito. Nonostante l'avanzato stato di decomposizione, l'esame medico-legale ha permesso di attribuire il cadavere al naufragio di 17 giorni fa. La cifra della tragedia continua a salire: con il corpo trovato oggi, e quello di due giorni fa, le vittime accertate ufficialmente sono adesso 366.
In loro ricordo questo pomeriggio si terrà una cerimonia commemorativa sul molo del porticciolo turistico di San Leone, ad Agrigento. Vi parteciperanno i ministri dell'Interno, Angelino Alfano, all'Integrazione, Cecile Kyenge e ambasciatori di alcuni dei Paesi d'origine della vittime. Per il sindaco della Città dei Templi, Marco Zambuto, sarà "una passerella per i politici" perché, ha detto, su quel molo non è mai sbarcato un solo immigrato". Non ci sarà invece il sindaco dell'isola Giusi Nicolini.
Evita di intervenire sul caso il presidente della Camera, Laura Boldrini, nel giorno in cui si reca nel cimitero di Mazzarino, in provincia di Caltanissetta, per deporre una corona in ricordo di 18 migranti vittime del naufragio di Lampedusa, undici bambini e sette adulti, che sono sepolti lì. "Il giorno in cui esco da un cimitero dove sono stata in raccoglimento non mi chieda delle polemiche", ha replicato la terza carica dello Stato alla domanda di un giornalista a conclusione di una breve cerimonia religiosa celebrata da don Carmelo Bilardo, parroco della Chiesa Madre, e da un imam pachistano, Amir Faruk, che ha intonato un canto da un passo del Corano. La presidente della Camera ha auspicato la fine "della roulette russa che è in corso nel Mediterraneo", nei cui fondali "ci sono custoditi migliaia di corpi umani". E ha invitato gli italiani a "respingere l'indifferenza che sta diventando globale" vedendo "negli occhi dei bambini che arrivano a Lampedusa quelli dei nostri figli o dei nostri bisnonni che hanno lasciato l'Italia per lavorare nel mondo". "Lo dobbiamo fare per non cadere nell'indifferenza di cui parla Papa Francesco", ha ribadito Laura Boldrini ringraziando la comunità di Mazzarino "per il loro gesto di generosità e civiltà".
A questo devono servire anche le commemorazioni e, in quest'ottica, l'assessore alla Scuola di Roma Capitale, Alessandra Cattoi, ha proposto, a margine di una visita ad Auschwitz, di organizzare viaggi per gli studenti a Lampedusa, "per far capire il dramma dell'immigrazione".        
Intanto gli sbarchi non si fermano: domenica all'alba sono arrivati a Siracusa altri 254 i migranti, compresi 94 minorenni e donne incinte. Erano stati soccorsi su un peschereccio stracarico che stava imbarcando acqua, ieri pomeriggio, a 150 miglia a sud est di Portopalo di Capo Passero e trasbordati su tre motovedette della Capitaneria di Porto.



Lampedusa, critiche ai funerali senza bare Boldrini: "Fuga unica risorsa dei migranti"
Il sacerdote eritreo: "Solo una beffarda passerella". Assente dalla cerimonia di domani il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini. La Cgil parteciperà ma non salirà sul palco. La presidente della Camera a Mazzarino partecipa a un funerale multireligioso: sepolti 11 bambini e 7 adulti morti nel naufragio. Stamattina recuperato un altro cadavere e nuovo sbarco a Siracusa: 254 persone sulla terraferma
la Repubblica.it, 20-10-2013
ALESSANDRA ZINITI
L'ultimo ad alzare il tiro della polemica è don Mosè Zerai, il sacerdote eritreo da molti anni punto di riferimento in Italia per le migliaia di profughi che arrivano dal centro Africa. La cerimonia di commemorazione delle vittime dei naufragi del 3 e dell'11 ottobre che si terrà domani pomeriggio a San Leone, la spiaggia degli agrigentini, alla presenza dei ministri Alfano e Kyenge non piace neanche a lui. "È solo una beffarda passerella", dice il sacerdote che aiuta gli eritrei che giungono a Lampedusa da ogni parte d'Italia e d'Europa nel tentativo di identificare le salme dei loro cari o alla ricerca dei superstiti. Ma le bare da seppellire sono ancora tante e nei cimiteri siciliani ogni giorno si celebrano riti funebri: stamattina la presidente della Camera, Laura Boldrini, a Mazzarino ha partecipato a una cerimonia religiosa mista per 18 salme dei migranti, 11 bambini e 7 adulti, annegati il 3 ottobre scorso a Lampedusa. La cerimonia è stata celebrata da don Carmelo Bilardo, parroco della Chiesa Madre, da un pachistano, Amir Faruk, che intonerà un canto del passo del Corano e da un sacerdote copto eritreo, così come avvenuto a Caltanissetta qualche giorno fa.
La presidente della Camera preferisce rifuggire dalle polemiche: "Il giorno in cui esco da un cimitero dove sono stata in raccoglimento non mi chieda delle polemiche", ha detto a un giornalista. "Per respingere l'indifferenza che sta diventando globale dobbiamo riuscire a vedere negli occhi dei bambini che arrivano a Lampedusa quelli dei nostri figli - ha aggiunto - dobbiamo vedere anche gli occhi dei nostri bisnonni che hanno lasciato l'Italia per lavorare nel mondo. Lo dobbiamo fare per non cadere nell'indifferenza di cui parla Papa Francesco". E a proposito dei continui sbarchi la Boldrini ha osservato che "bisogna fermare la roulette russa che è in corso nel Mediterraneo, perché fuggire dalla guerra è per i migranti l'unica risorsa. Le persone che muoiono oggi nel Mediterraneo sono persone richiedenti asilo che fuggono dalle guerre, dalle dittature, dalla violazione dei diritti umani. Lo fanno perché non hanno scelta".
Ma è anche vero che quella delle famiglie eritree è una ricerca in buona parte vanificata dalle pastoie burocratiche che allungano procedure e tempi e che hanno fatto sì che i funerali di Stato promessi a Lampedusa dal presidente del Consiglio Letta siano diventati questa sorta di commemorazione senza salme. "Sono costretto a dire ai familiari delle vittime che il funerale di Stato non ci sarà e sconsiglio di mettersi in viaggio. In me c'è tanta amarezza e l'ho espressa in una lettera al ministro dell'Interno Alfano. Gli ho scritto  -  dice don Zerai  -  che i parenti delle vittime si sentono presi in giro dal governo italiano e che proprio lui aveva annunciato il funerale di Stato. Ora si ritrovano una cerimonia fatta in fretta e senza le bare ormai disseminate nei cimiteri della Sicilia. Sarebbe stato importante, se non era possibile restituire le vittime alle famiglie, seppellirle in un posto unico, erigendo una lapide in ricordo". Ma non è solo l'amarezza a far parlare don Zerai.
C'è anche la preoccupazione per i tentativi del governo eritreo di identificare vittime e superstiti dei naufragi, cosa che metterebbe a rischio di vendetta le famiglie rimaste in patria. Per questo don Zerai non capisce come alla cerimonia possa essere stato invitato l'ambasciatore eritreo in Italia. La polemica si dilata: i vertici della Cgil saranno alla cerimonia ma non saliranno sul palco. Assente anche il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, che sarà invece dal presidente Napolitano.
E gli sbarchi non si fermano, nonostante l'apparato di sicurezza dispiegato nel Mediterraneo con i mezzi dell'operazione Mare Nostrum: sono 254 i migranti, tra cui 94 minori, sbarcati stamani all'alba nel porto di Siracusa. Erano stati soccorsi ieri pomeriggio a 150 miglia a sud est di Portopalo di Capo Passero e trasbordati su tre motovedette della Capitaneria di porto: erano su peschereccio stracarico che stava imbarcando acqua. Gli extracomunitari ora saranno trasportati in un centro di accoglienza, ancora da individuare: al momento le strutture adibite ad ospitarli sono al completo a causa degli sbarchi dei giorni scorsi. Probabilmente un primo gruppo di cento persone dovrebbe essere trasferito a Pozzallo. Stamattina a Lampedusa è stato recuperato il cadavere di un altro naufrago.



Il maestro di Asmara: «I miei ragazzi morti su quel barcone»
Avvenire, 21-10-2013
Paolo Ferrario
Quelle lunghe file di bare allineate sul molo di Lampedusa non gli hanno provocato soltanto «un grande dolore», ma anche una «profonda rabbia». Nell’immane tragedia dei migranti eritrei affogati nel Canale di Sicilia, rivede il «dramma di un popolo disperato in cerca di un futuro per i propri figli». Scorrendo le immagini delle più di trecento vittime mostrate in tivù e sui giornali, cerca i volti conosciuti dei “suoi” studenti della scuola italiana dell’Asmara, dove ha insegnato per sette anni, fino al 2009. Chiede notizie su Facebook e, direttamente dall’Eritrea, trova conferma che, sì, tra i cinquecento disperati del barcone inghiottito dal mare ci sono anche alcuni ragazzi che frequentavano il circolo della scuola. E il dolore, già «immenso», diventa, se possibile, ancora più lacerante.
Il professor Emilio Di Biase, 58 anni, oggi è dirigente dell’Istituto “Cobianchi” di Verbania, ma per diciassette anni, dal 1992 al 2009, ha insegnato in Africa, prima ad Addis Abeba, in Etiopia e poi, appunto, all’Asmara. Nativo di Eboli (Salerno) e laureato in Ingegneria a Napoli, con un master in Ingegneria sanitaria ambientale, ha insegnato costruzioni e topografia per una decina d’anni all’istituto per geometri di Battipaglia, ma il suo sogno era di «lavorare nei Paesi in via di sviluppo». Partecipa così a un concorso per insegnanti del ministero degli Esteri e finisce nel Corno D’Africa.
«All’inizio – spiega – queste scuole erano state pensate per gli italiani, per i figli dei funzionari, ma oggi sono frequentate, per il 90%, da studenti del posto».
Per il giovane insegnante, il periodo più duro è quello a cavallo del secolo, quando, nel 1998, scoppia la guerra tra Etiopia ed Eritrea per questioni di confine, ad oggi non ancora risolte. Di Biase si trova in mezzo alla battaglia e decide di trasferirsi in Eritrea. «Questa guerra è all’origine del disastro di oggi – spiega – e noi italiani abbiamo una responsabilità storica che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Il nostro Paese ha davvero una responsabilità in più verso questo popolo, che fugge da uno stato caserma e da un regime dittatoriale».
L’Eritrea, prosegue Di Biase, è un Paese militarizzato, dove, per gli uomini tra i 15 e i 50 anni l’unica prospettiva possibile è il servizio militare obbligatorio. Sempre su Facebook un altro dei suoi studenti, che non ha ottenuto il permesso di lasciare il Paese, gli chiede di aiutarlo a iscriversi a un corso universitario a distanza. Ordinaria amministrazione per chi è costretto a vivere sotto il pugno di ferro del regime.
«Il problema più grave non è la fame o la povertà – insiste il preside –. Il vero dramma è la miseria, che è la povertà senza speranza. Anche attirati dalle sirene dell’Occidente, questi ragazzi scappano da una morte miserevole, graduale ma ineludibile, in cerca di una speranza di futuro per i propri figli. Una missionaria con cui sono rimasto in contatto, mi ha scritto di donne che si danno fuoco con la benzina perché non vedono una qualsiasi prospettiva di vita per i loro piccoli. Altre fuggono con i neonati in braccio o partoriscono sul barcone, pur di andarsene da lì. L’Eritrea è una gigantesca prigione dove è stata uccisa persino la speranza».
Proprio perché conosce le storie di questi disperati, proprio perché ha provato la stessa fame («Siamo arrivati a cuocere il pane in casa con la poca farina rimasta, perché i forni erano stati tutti chiusi»), il professor Di Biase si arrabbia quando li sente chiamare “clandestini” o quando il nostro Parlamento «approva leggi che prevedono i respingimenti e il reato di immigrazione clandestina». Il suo non è buonismo a buon mercato, ma la forte protesta di chi ha assistito alla «decadenza senza fine» di un’intera nazione e oggi è spettatore impotente della tragedia dei suoi figli. «È vero, come sento dire da più parti, che non li possiamo ospitare tutti in Italia – conclude –. Ma che cosa facciamo per aiutarli laggiù? Purtroppo il nostro è un Paese senza memoria. Per qualche giorno ancora le storie di questi disperati saranno sui giornali. Poi torneranno nel dimenticatoio da dove sono venute, almeno fino alla prossima strage. Spero, invece, che questa tragedia ci apra finalmente gli occhi su una realtà che non possiamo più ignorare».



Dentro il tendone-vergogna di Porto Empedocle
Corriere della sera, 21-10-2013
Jacopo Storni
PORTO EMPEDOCLE (AG) – Il vicequestore di Agrigento è stato chiaro: «Nessun giornalista è mai stato autorizzato a visitare il centro». Forse perché il centro in questione è al collasso, sovraffollato all’inverosimile, pieno di 300 migranti stretti come sardine, ammassati nella grande stalla di Porto Empedocle. Un tendone 40 metri per 60 accanto al porto, gestito dalla Prefettura, nato come punto di ristoro per una prima accoglienza, ma che oggi trattiene immigrati per giorni, settimane, mesi. Quasi tutti sono profughi di guerra, in fuga dalla Somalia e dall’Eritrea, dalla Libia e dal Mali. Arrivano da Lampedusa oppure sbarcano direttamente a Porto Empedocle dopo giorni di traversata. Tutti in attesa dello status di rifugiato politico, costretti qui perché gli altri centri siciliani sono saturi.
Entriamo clandestinamente grazie ai volontari della Protezione Civile, superando pattuglie di carabinieri e polizia, venti agenti che sorvegliano il tendone e tentano di impedire fughe, che però si verificano regolarmente. In quel caso i poliziotti chiudono un occhio, tanto si sa che i migranti andranno nel nord Europa.
Gli operatori umanitari vogliono mostrarci le condizioni di accoglienza perché «qui le persone vivono come bestie, è una vergogna». Non c’è soltanto Lampedusa a gridare scandalo. Forse nei centri della Sicilia meridionale è ancora peggio. Porto Empedocle, Pozzallo, Trapani, Mineo: le strutture esplodono. I migranti dormono su materassi sbrindellati stesi a terra, nessuna brandina e nessun letto. Tutti appiccicati. Si mangia sul letto oppure per terra. Non ci sono pareti divisorie, aria maleodorante, le voci degli ospiti si aggrovigliano l’una sull’altra in un’eterna confusione. I servizi igienici - pochi per trecento persone - versano in condizioni drammatiche: lavandini perennemente intasati, docce sporche, porte rotte, nessun wc. Nel centro anche donne e minori. Qualcuno è malato di dermatite, qualcun altro ha la febbre. Il medico arriva a chiamata ma non sempre è disponibile. Alcuni portano i segni delle torture subite in Libia. Ci sono anche alcuni dei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre. Molti immigrati non hanno neppure un paio di scarpe ai piedi. E chiedono «shoes, please shoes».
Facciamo tutto il possibile per far fronte all’emergenza” ripetono dalla Prefettura. «Ma l’emergenza va avanti da anni» rispondono quelli della Protezione Civile, da quando cioè il tendone è stato montato nel 2006. Gli abitanti di Porto Empedocle tentano di sopperire ai deficit istituzionali. L’altro giorno hanno portato l’agnello. Qualcuno regala vestiti. E poi biscotti e dolciumi che integrano i tre pasti giornalieri forniti dalla Protezione Civile. E poi coperte. D’inverno fa freddo e non ci sono termosifoni, mentre in estate la temperatura sale anche fino a 40 gradi. Nel tendone il tempo non passa mai. Gli ospiti giocano a calcio con un pallone sfilacciato che rimbalza a malapena. Oppure dormono. A volte l’insofferenza dell’attesa sfocia in risse interne. Le relazioni tra volontari e immigrati sono ottimi ma dev’essere difficile vivere qui, in questo alveare chiassoso, tracimante di umana speranza.



Anche le donne migranti hanno un sogno
Corriere.it, 20-10-2013
Alessandra Coppola
C'è qualcosa che distingue le donne dagli uomini nel percorso di migrazione? Nella scelta di mettersi in viaggio e rischiare?    
La prima scena è alla stazione Centrale di Milano. Khadija è una donna sulla cinquantina, forse anche meno, sono molti giorni che dorme male e non ha avuto accesso a un bagno dignitoso. Siriana, sunnita, un hijab nero e un abbigliamento a strati. È partita con un caldo atroce ed è arrivata in Lombardia quando l’autunno è ormai freddo e umido. S’è lasciata alle spalle tutto quello che aveva: i parenti, gli amici, il lavoro di biologa in un laboratorio di analisi, i vestiti, i foulard, i gioielli. Le restano solo un paio di bracciali e un anello d’oro che adesso vorrebbe vendere. Anche i pochi ricordi che aveva messo in una borsa ha dovuto abbandonare: «Nel barcone eravamo quattrocento, ci hanno fatto buttare tutti i bagagli a mare». Mille e cinquecento euro per ogni adulto per imbarcarsi «in un porto della Libia quasi vicino alla Tunisia», potrebbe essere Zuwara. L’ha raggiunto a fatica, insieme ad altri cento: fino al Libano, poi in aereo in Egitto, quindi in autobus. La traversata, Lampedusa, Catania e infine quest’angolo della stazione di Milano, con la prospettiva di andare via presto anche di qui. Verso dove? «La Svezia», l’Eldorado dei rifugiati. Con quale paura? Una sola: «Riuscirà mio figlio studente di Ingegneria a laurearsi in un Paese nuovo?».
La seconda scena è davanti allo schermo di un computer. Il Corriere.it che dà gli aggiornamenti il giorno dopo della strage di Lampedusa titola «Oltre cento morti, la metà donne». L’amico che mi siede accanto chiede: «Ma perché bisogna dirlo? Valgono più degli uomini?». No, è evidente. Ma c’è qualcosa che distingue le donne dagli uomini nel percorso di migrazione? Nella scelta di mettersi in viaggio e rischiare?
La terza scena si ripete più volte: le donne che sbarcano incinte, le pance sporgenti che durante la traversata hanno protetto con le mani, qualcuna ha addirittura partorito in barca o all’arrivo in Sicilia. È la disperazione, ma è anche la speranza: portare i figli altrove. Il collega Alfio Sciacca aveva raccolto tempo fa testimonianze di ragazze africane fuggite dalla Libia dopo la rivolta (e le violenze contro i neri).
    Come hai fatto a resistere in queste condizioni? «Ce la fai perché ce la devi fare — gli aveva detto Cynthia, 24 anni, incinta di nove mesi, approdata dopo cinque giorni di mare -. Lo fai per te, ma soprattutto per il bambino che porti in grembo».
Se c’è qualcosa che distingue le donne migranti dagli uomini, forse, è questo: una tenacia, una capacità di immaginare il futuro, una forza speciale per realizzarlo che sta nella maternità. E nei figli.



Quei lager made in Italy
il manifesto, 20-10-2013
Tommaso Di Francesco
LIBIA/MIGRANTI
Freedom... freedom freedom», il televisore rimbomba di grida quasi sincopate: sono persone giovani, alcune adolescenti, che urlano, cantano, ritmando dietro le sbarre di prigioni-container.
È il reportage di Amedeo Ricucci sulla condizione reale dei migranti africani nella nuova Libia, andato in onda venerdì su Tv7. Un documento, eccezionale quanto inequivocabile, che illumina le responsabilità italiane.
Il giornalista Rai, già collaboratore del manifesto , ha raccontato la disperazione di tremila immigrati rinchiusi in un centro di detenzione a 50 km da Tripoli, controllati armi alla mano da miliziani del Jebel Nafusa «che sanno fare la guerra», tutti catturati mentre erano in procinto di lasciare il territorio libico per raggiungere l'Italia e l'Europa. In fuga dalla guerra e dalla miseria della Somalia. Sono loro stessi a dirlo. Ma ora vivono da molti, moltissimi mesi rinchiusi nelle gabbie dei «centri di accoglienza» libica, i campi di concentramento che l'Italia finanzia e organizza con le "autorità" libiche. E dal reportage emerge che in quella condizione ci sono più di 50mila persone e che altrettante sono state rispedite nei luoghi di provenienza. Mentre urlano da dietro le sbarre il bisogno di libertà, di una condizione migliore della fame, delle guerre. Per «il diritto di cambiare il mio destino« ripete ossessivamente un ragazzo recluso. Smistati come animali. Infatti sono stati raccolti prima nell'area dello zoo di Tripoli prima di finire nell'"accoglienza" dei containerlager. E vengono tenuti in galera per noi. Perché quei campi di concentramento altro non sono che il risultato diretto dei trattati voluti dall'Italia e firmati con la Libia, prima tra Gheddafi e Berlusconi (con approvazione bipartisan del parlamento italiano) e poi riattivati dopo l'ottobre 2012 con le nuove "autorità" dopo la caduta nel sangue del Colonnello libico. E che ora vengono ripristinati dal governo Letta-Alfano come risposta ai naufragi a mare dei barconi e alle stragi di Lampedusa e Malta. La denuncia del reportage televisivo sulla condizione reale dei migranti africani sequestrati in Libia, arriva negli stessi giorni in cui solerti funzionari del governo italiano trattano con il "governo" libico sui rimpatri, la sicurezza dei porti e il pattugliamento a mare. Mettiamo le virgolette alla parola governo, perché in Libia non esistono autorità, le istituzioni ufficiose centrali per "governare" usano milizie armate spesso contrapposte, come dimostrano la cattura recente del premier Zeidan, gli assalti e gli incendi dei ministeri, gli attentati alle ambasciate e l'uccisione, solo venerdì scorso, del capo della polizia. Sarebbe davvero interessante sapere con quale banda armata tratta il governo Letta-Alfano. Intanto l'Italia ha avviato, senza discuterne in parlamento, la «missione militare-umanitaria» per il soccorso a mare dei barconi di esseri umani in fuga e per il contrasto dell'immigrazione clandestina. Una commistione d'intenti che rischia di trasformarsi, in mare, in pericolosa ambiguità. Come definire altrimenti la doppiezza governativa? Con il cittadino Letta che si augura la fine della Bossi-Fini e il ministro Alfano che la difende e che insiste sulla perseguibilità del reato di clandestinità. Due le soluzioni, entrambi sulla pelle delle persone migranti. Male che vada, come purtroppo è prevedibile - al di là dell'umanità dei militari impegnati e delle storiche regole del mare - il contrasto umanitario che perseguita il reato di clandestinità pretende aggressività, volontà d'ordine, repressione, abbordaggio contro gli scafisti, recupero e accompagnamento al porto vicino più sicuro e anche a quello di provenienza. È l'ingaggio strabico che non è stato dichiarato da nessuno, ma che così dovrà essere applicato. Senza memoria di quello che fu nel marzo 1997 la tragedia annunciata della Kater I Rades, contrastata in mare dalla Sibilia della Marina militare che provocò 108 vittime, perché applicava il blocco navale militar-umanitario deciso davanti all'Albania dall'allora governo di centrosinistra. E invece, bene che vada, l'attuale missione militar-umanitaria, riporterà gli esseri umani che ci ostiniamo a considerare clandestini, in Libia (o a Malta perché tornino il Libia o a Lampedusa perché poi tornino in Libia), nei lager descritti nel reportage di Amedeo Ricucci. Una inchiesta, la sua, che dovrebbe essere vista dal parlamento italiano, che dovrebbe sentire l'autore nelle sue commissioni esteri e interni. Ci auguriamo che accada. Temiamo invece che non accadrà nulla. Solo, domani, un rumoroso silenzio militar-umanitario e tante lacrime e parole di circostanza ai funerali senza bare ad Agrigento delle 387 vittime del massacro di Lampedusa. Solo le ultime delle migliaia delle quali siamo responsabili.



La famiglia di Leonarda aggredita in Kosovo «Disputa tra famiglie»
Avvenire, 21-10-2013
Nuovi particolari emergono sul caso di Leonarda e la sua famiglia, espulse in Kosovo e residenti attualmente a Mitrovica, aggredite a botte e schiaffi mentre passeggiavano in strada. Secondo la polizia l'aggressione sarebbe dovuta a una disputa fra famiglie. Un mistero in più nella vicenda che è diventata un affare di stato in Francia, con il presidente Francois Hollande nuovamente sotto tiro con l'accusa di essere un inguaribile indeciso.
Il presidente, dopo la discutibile sortita di sabato in tv in cui ha offerto alla ragazzina espulsa di tornare senza famiglia in Francia, ha lasciato spazio ieri al suo ministro dell'Interno Manuel Valls. Il quale, molto più di lui, ha il vento in poppa nei sondaggi e quanto a decisionismo ne ha forse anche troppo, stando ai suoi critici.
L'episodio nuovo di ieri sarebbe avvenuto in pieno centro di Mitrovica, dove la famiglia Dibrani era uscita a passeggio: "Erano sei o sette giovani, ci hanno colto all'improvviso, prendendoci a schiaffi e a botte - ha raccontato il padre, Resat Dibrani, raggiunto al telefono dall'Ansa - i bambini erano terrorizzati, io e mia moglie siano stati curati al pronto soccorso e adesso siamo al commissariato per presentare una denuncia. Abbiamo paura, non ci sentiamo al sicuro a casa a Mitrovica". Fonti della polizia kosovara avrebbero dichiarato che effettivamente a Mitrovica la famiglia espulsa dalla Francia "non è al sicuro".
Ma in serata sempre fonti della polizia kosovara hanno reso noto che all'origine dell'aggressione vi sarebbe una disputa fra famiglie. "L'incidente si è prodotto fra due famiglie, i Dibrani e i Bislimi. Si è scoperto che il signor Bislimi era il marito di Xhemaili Dibrani (madre di Leonarda) 25 anni fa e si suppone che questa sia la causa - ha detto il capitano Ahmet Gjosha -. Prendiamo la cosa molto seriamente".
La richiesta di asilo della famiglia Dibrani in Francia - ha detto Valls intervistato da Le Journal du Dimanche - "era stata respinta per sette volte e conteneva documenti falsi". Fautore di una politica di grande fermezza e per questo contestato da parte della sinistra, Valls resta di gran lunga il personaggio più popolare di questo governo. Anche per questo, ha provato ad aiutare Hollande salutandone il "gesto di generosità" che lo ha portato ad offrire però il rientro alla sola ragazzina, staccandola dalla famiglia. Un atteggiamento che oggi una parte degli ecologisti, al governo con i socialisti, sono arrivati a definire "disumano e incomprensibile".
Valls ha ripetuto chiaramente la sua politica: "La Francia resta una terra di immigrazione, è la sua storia. Ma perché questa immigrazione resti un'opportunità, dobbiamo controllare i flussi migratori. Gli stranieri, anche in famiglia, anche con bambini che vanno a scuola, dal momento che non hanno più diritto al soggiorno, devono lasciare il territorio". Parole che hanno comunque il merito di essere chiare, e un sondaggio BVA ha mostrato che tre francesi su quattro approvano il comportamento di Valls nel caso-Leonarda.
Al contrario, Hollande è per l'ennesima volta accusato di indecisione ("caricaturale", ha sottolineato l'ex premier UMP Francois Fillon) e di posizioni non chiare. Contro le sue parole di ieri si è sollevato un polverone. Liberation, il quotidiano più a gauche, scrive oggi che presentando la sua decisione come un gesto umanitario, il presidente ha scelto "lo scenario più improbabile".
Leonarda è stata espulsa con la sua famiglia il 9 ottobre, dopo essere stata prelevata dalla polizia mentre era sul pullman della scuola per una gita. Un'inchiesta ordinata da Valls ha chiarito che l'espulsione dei Dibrani è ineccepibile e "conforme" alle regole, ma che le forze dell'ordine non hanno usato "discernimento" nell'operazione. Hollande e Valls hanno annunciato ieri che d'ora in poi la "protezione" contro ogni provvedimento di espulsione per chi si trova a scuola viene allargata al doposcuola e a tutti gli ambiti connessi, come i mezzi di trasporto scolastici.



L'agricoltura accoglie prodotti "immigrati" Sì a mango e avocado
Sono soprattutto gli imprenditori più giovani ad accettare la sfida: al Nord come al Sud
il Giornale, 21-10-2013
Tiziana Paolocci
Roma - La paura dell'immigrato trasformata in opportunità. In Italia c'è chi chiuderebbe volentieri la porta in faccia agli stranieri, per timore di confrontarsi con il «diverso», e chi invece sfrutta queste differenze come fonte di guadagno.
Sono gli imprenditori agricoli italiani che hanno modificato i loro campi, coltivati da sempre a frutta e ortaggi italiani, in produzioni esotiche. Una scommessa azzardata che si è rivelata vincente, perché in molti casi la domanda supera l'offerta. Alcuni di questi lungimiranti produttori hanno partecipato al XIII Forum Internazionale dell'Agricoltura e dell'Alimentazione organizzato dalla Coldiretti a Cernobbio raccontando le loro esperienze. Apprezzatissimo dalla comunità musulmana e da quella ebraica è Antonio Salis, che non teme gli immigrati, anzi li conquista a tavola, producendo salumi kosher e halal con carni di pecora e capra. Una decisione innovativa soprattutto in una terra tradizionalista come la Sardegna. Ma Antonio ha avuto il coraggio di andare oltre e ha imparato addirittura l'arabo per invitare i clienti anche in azienda e mostrar loro il processo produttivo. Tutti i suoi prodotti, tra l'altro, vengono controllati e certificati dall'Islam. «Siamo stati contattati dalla comunità ebraica - spiega Salis, titolare dell'azienda La Genuina - volevano un'alternativa alle poche produzioni a base di carne che avevano da noi, per poter dare anche ai loro bambini un panino imbottito da portare a scuola. Poi si è unita la comunità musulmana, che usa per il macello parti diverse della pecora e della capra. Da lì è nata l'idea del salame della pace». E che dire di Andrea Passanisi? Siciliano doc ha trasformato l'incubo degli isolani, ovvero il mutamento del clima divenuto troppo torrido, in una chance. I suoi terreni, coltivati a limoni, sono divenuti un Eden tropicale e ora esporta in tutta Europa mango, passion fruit e avocado made in Italy. In provincia di Palermo, invece, un'imprenditrice coltiva ettari di banane.
Ma il caso più singolare è quello un commerciante prestato all'agricoltura. Marco Razzolini, della provincia di Livorno, è il re delle arachidi e lancia un appello agli altri agricoltori: «Seguitemi». «Le tostavo e poi li vendevo in Veneto Emilia e Friuli, vantandomi della bellezza della mia Toscana - racconta -. Le arachidi erano apprezzatissime, ma quando poi mi chiedevano da dove provenivano ero costretto a dire Egitto o Cina. E la gente storceva la bocca. Così nel 2007 ho deciso di coltivarle in Toscana. Ora ne produco 60 quintali, ma il mercato ne chiede molti di più». Tra le esperienze innovative non si può dimenticare quella di Daniele Gioia, che in Basilicata ha sperimentato la prima coltivazione di funghi recuperando fondi di caffè. Lui, tecnologo alimentare, ha fatto di questi scarti che gli venivano donati da bar e ristoranti un vero e proprio tesoro. Oggi i suoi funghi prodotti non su paglia ma su fondi di caffè sono di alta qualità e più resistenti degli altri. Lodevole, infine, la scelta di Elena Comollo che si è avvicinato al «diverso» assumendo ragazzi in situazione di grave svantaggio sociale per favorirne l'ingresso nel mondo del lavoro.



Razzismo verso un compagno di squadra, calciatori in campo col volto dipinto di nero
Solidarietà al compagno di squadra Teibou Koura, togolese, durante la partita di Terza Categoria contro il Casalecchio
stranieriinitalia.it, 21-10-2013
REGGIO EMILIA, 21 ottobre 2013 -  Insulti razzisti, domenica scorsa, durante una partita di Terza Categoria.
Si giocava Rioveggio contro Casalecchio quando il calciatore Teibou Koura, togolese in forza al Rioveggio, è stato oggetto di insulti razzisti da parte di un altro calciatore.
Si è sentito dire "Stai zitto, negro", lui ha reagito, ha spinto il giocatore che lo ha insultato. Ed è stato anche espulso dal campo.
Allora i suoi compagni di squadra, questa domenica (ieri), hanno deciso di schierarsi con lui, mostrandogli tantissima solidarità del caso e scendendo in campo con il volto dipinto di nero.  “Stavolta bisognava reagire e far vedere che siamo contro il razzismo”, racconta Vanessa Venturi, presidente del Rioveggio.   “L’anno scorso è successa la stessa cosa - commenta Koura - Ho sentito un avversario insultare un mio compagno di colore, e l’arbitro che non diceva nulla. Mi sono arrabbiato, che gli arbitri non reagiscano è una brutta cosa”.

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