26 settembre 2013

Integrazione, nasce la "città del dialogo".
l'Unità, 26-09-2013
Italia-razzismo
Il 24 settembre, a Roma, è stato siglato l'accordo che sancisce il rapporto di cooperazione tra il network “Le città del dialogo” e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Si tratta di un supporto che il ministero darà alla rete di ventitre comuni italiani (Arezzo, Bari, Campi Bisenzio, Capannori, Casalecchio di Reno, Castelvetro di Modena, Fermo, Forlì, Fucecchio, Genova, Lodi, Milano, Olbia, Palermo, Pizzo, Pompei, Ravenna, San Giuliano Terme, Senigallia, Torino, Unione dei comuni del Rubicone, Venezia) che hanno deciso di  investire maggiormente nelle politiche di integrazione nei loro territori. Sono città in cui la presenza di persone straniere è significativa, e che hanno deciso di operare in rete per mettere a punto dei sistemi di governance efficienti. Non è da sottovalutare l'importanza data allo scambio di esperienze, prassi, idee, politiche tra territori diversi che permette di vivacizzare il sistema di integrazione, ormai da troppo tempo bloccato. Il fatto è che sembra che su questo piano ci siano delle difficoltà ad attuare progetti nuovi e che tengano conto della reale situazione e composizione della società italiana. È per questo che le cene multiculturali, le feste etniche o i corsi di danza popolare non sono più sufficienti - e forse mai lo sono state - a rispondere all'esigenza di integrazione delle quasi cinque milioni di persone straniere in Italia. È il momento di pianificare interventi che siano lungimiranti e non solo emergenziali o mirati a obiettivi a breve termine. Servono politiche che comunichino maggiormente con le comunità etniche locali e che agiscano in sinergia con esse, per mettere a punto progetti più attenti alle loro esigenze e alle loro risorse. A questo proposito, per esempio, potrebbe risultare utile censire in maniera completa le associazioni e le organizzazioni esistenti nei territori. Nel Lazio da qualche anno esiste il Registro regionale delle associazioni, degli enti e degli organismi che operano a favore dei cittadini stranieri immigrati (l'art. 27 della LR 10/2008). Lo scopo del registro è sia quello di riconoscere e sostenere le attività proposte dagli iscritti, che quello di diventare un mezzo di aggregazione tra le comunità di cittadini stranieri immigrati. Ma  l’elenco attuale risulta parziale perché non tutte le associazioni si sono iscritte. Questa carenza non permette di avere una visione completa del fenomeno associativo, perdendo così la possibilità di valorizzare e sostenere le buone pratiche. Un’occasione in meno di comunicare l’importante vivacità dell’immigrazione.
L'accordo tra il Network e il ministero del Lavoro è già di per sé una buona pratica che, però, potrebbe essere ancor più efficace se venisse modificata la Legge Bossi-Fini. Per questa normativa, infatti, l'immigrato è solo un lavoratore che non ha necessità di integrarsi. Un principio, questo, che non considera il fatto che quelle lavoratrici e quei lavoratori, ora, sono qui assieme alle loro famiglie.

 

Partorisce nell'isola dove «non si nasce»: il maschietto è di una profuga siriana
La ragazza aveva le contrazioni quando è stata soccorsa
Corriere.it, 26-09-2013
AGRIGENTO - Nato nell'isola dove «non si nasce». Così un maschietto di 2,5 chili è nato nella notte da una giovane siriana sbarcata poco prima a Lampedusa da una carretta del mare insieme a 189 connazionali. A Lampedusa non c'è ospedale quindi di solito si viene trasportati in elicottero al centro più vicino. Ma questa volta l'elisoccorso non ha fatto in tempo e a far nascere il bimbo hanno pensato il medico e l'infermiera di turno al poliambulatorio che presta i primi soccorsi ai profughi. Nel 2011 era nata anche una bimba sull'isola, figlia di una coppia di migranti anche loro appena sbarcati.



La nazione non è più un territorio
l'Unità, 26-09-2013
Michele Ciliberto
Quando si affronta la questione dell’immigrazione, occorre essere consapevoli di un dato fondamentale: oggi è in corso di profonda trasformazione l’idea di nazione, un processo strettamente connesso alla crisi del modello moderno di Stato.
Cioè di quel modello imperniato su un rapporto organico tra Stato, nazione, territorio. Non a caso, la storia dell’Europa moderna, arrivata ormai alla sua conclusione, si configura proprio come una lunga vicenda di Stati nazionali territorialmente concepiti e costituiti.
È difficile periodizzare questo processo, e dire quando esso sia entrato in una fase di crisi. Per quanto riguarda l’Italia, è un fenomeno che diventa visibile negli anni Settanta, nel vivo di trasformazioni strutturali e culturali che investono in profondità il nostro Paese.
La vicenda della Lega si situa in questo contesto, ed è significativa in un duplice significato. Anzitutto perché è indice della crisi dello Stato nazionale moderno; in secondo luogo perché essa cerca di risolvere questa crisi attraverso la costruzione di una microentità statale di carattere regionale, territorialmente definita e rivendicata, fino ad assumere toni di carattere etnico, e addirittura razzista, quando la prospettiva politica della Padania viene meno. In altre parole, la Lega è stata, al fondo, una risposta di carattere reazionario alla crisi, di vastissime proporzioni, dello Stato nazionale moderno. Oggi appare chiaro che anche tutta la vicenda jugoslava va vista in questo quadro: come l’esito sanguinoso di una crisi che è esplosa in termini più violenti dove il paradigma della statualità moderna era più debole e più fragile.
La storia, anche recente, insegna che da questa crisi si può uscire in una duplice direzione: riproponendo in termini più ristretti e asfittici il principio statuale moderno; oppure lavorando a una nuova concezione della nazionalità, che si ponga oltre le barriere moderne della statualità e della territorialità.
Ma una sfida di questo spessore può essere affrontata solo ponendosi dal punto di vista dell’Europa e intrecciando un nuovo principio di nazionalità e la nuova idea dell’Europa, sganciando entrambi dalla interpretazione della territorialità come condizione della cittadinanza, sia italiana che europea.
È questo il salto culturale, etico e anche religioso che bisogna compiere oggi e nei prossimi anni, assumendo come punto di elaborazione e di iniziativa politica la dimensione della interculturalità e del dialogo fra le religioni.
È un mutamento radicale di visione che richiede un impegno decisivo a livello di coscienza, di cultura, di educazione, da cui deve scaturire un concetto di cittadinanza italiana ed europea capace di andare oltre gli stessi concetti fondamentali della civiltà moderna, come quello di tolleranza essenziale , certo, ma non non più sufficiente a definire il rapporto tra le differenti identità culturali e religiose, perché agganciato a forme di riconoscimento e di comunicazione tra mondi diversi che oggi devono essere, con forza e rigore, oltrepassate.
Non è il territorio che deve decidere oggi chi è italiano o europeo, chi è nativo e chi è straniero: ma la partecipazione a un comune vincolo civile, a una dimensione culturale condivisa, costituita da differenze in grado di risolversi in un condiviso senso di appartenenza. Nella costruzione della nuova Italia e della nuova Europa, la dimensione di valori comuni è decisiva, anzi è il banco di prova delle nuove identità nazionali ed europee che bisogna costruire.
Insisto sul temine nazione: dobbiamo lavorare a un nuovo concetto di nazionalità, non alla sua cancellazione. È vero il contrario. La nuova Europa da costituire richiede forme nazionali nuove ma potenti, in grado di arricchire con la loro storia la comune patria europea. La storia vive di differenze, non di uniformità.
C’è un nuovo mondo da costruire nel XXI secolo, oltre le barriere della «modernità», dalle quali non si riesce ancora ad uscire con la forza necessaria. Ed è in questo processo che va inserito il problema, grande e drammatico, della immigrazione. Padre Ernesto Balducci diceva che l’Europa era destinata ad essere travolta dall’Africa, se non avesse saputo fare i conti con i nuovi mondi che venivano alla luce. Aveva ragione: essi possono essere la condizione per un balzo in avanti della nostra comune civiltà in Italia ed in Europa oppure di una sua catastrofe. Certo, è una sfida che ha i suoi tempi e le sue tappe: è dunque giusto battersi per lo «jus soli» e per la eliminazione d leggi inique. Ma noi dobbiamo avere uno sguardo più lungo e riuscire ad avere una visione di quello che potrà essere il nostro futuro. La modernità, la statualità nazionale moderna, è ormai finita; sta alle nostre spalle.



I Cie sono mine vaganti
La chiusura dei Cie è urgente, è possibile ed è auspicabile anche nella prospettiva di ridurre la spesa pubblica inefficiente.
Immigrazioneoggi, 26-09-2013
Rosario Villirillo
Presidente dell’Associazione di Volontariato Marco Polo
In Italia, esiste una legge che porta il nome di due cadaveri politici. È la legge Bossi-Fini, buona prassi, in grado di durare più dei due Onorevoli che le hanno dato un nome. E’ dato atto che, alla politica nostrana piace giocare con le parole e con l’ipocrisia, la legge è stata sempre più peggiorata, prima con l’istituzione dei Cpt, poi con la loro trasformazione in Cie. Cpt significava “Centri di Permanenza Temporanea”, cioè luoghi chiusi, recintati e controllati, in cui rinchiudere gli immigrati irregolari. La formula deve essere sembrata troppo umanitaria, perché a un certo punto, i Cpt sono diventati Cie, cioè “Centri di Identificazione ed Espulsione”. Come si nota, due tentativi molto elaborati di trovare sigle che non contengano le parole “carcere”, “galera”, “arresti”. In sostanza, un modo per trattenere come detenute persone che non hanno commesso alcun reato. Dato che, le ipocrisie italiane sono come le ciliegie, una tira l’altra, le persone che stanno rinchiuse nei Cie vengono denominate “ospiti”, invece che “detenuti”. Le cronache indicano come molti di loro, prima di essere “ospiti” dei Cie sono stati veramente “detenuti” nelle patrie galere. Colpevoli, la gran parte, del reato di immigrazione clandestina, ossia colpevoli di non avere un permesso di soggiorno, o di averlo perso perché hanno perso il lavoro.
Si evidenzia il paradosso: prima ti arrestano perché sei clandestino. Ti schedano, ti prendono le impronte digitali e ti identificano. Poi ti sbattono in un centro per l’identificazione per identificarti un’altra volta e mandarti via. Si dirà che uno Stato di diritto si valuta anche da come tratta i suoi prigionieri. I Cie, “Centri di Identificazione ed Espulsione”, vengono gestiti da chi vince gare al massimo ribasso, per cui spesso le strutture, l’assistenza sanitaria, le condizioni igieniche sono ben sotto il limite della decenza. Peggio delle carceri, dicono i deputati che sono riusciti a visitare qualcuno di questi centri, e “peggio delle carceri italiane” è una affermazione che fa paura. I Cie definiscono gli immigrati, agli occhi di tutti, come un pericolo oggettivo, indipendentemente dai comportamenti effettivi, criminalizzando e stigmatizzando il fatto stesso di migrare o anche semplicemente di essere stranieri (come nel caso di quei due ragazzi, figli di genitori bosniaci, nati e vissuti in Italia).
Nella catena di istituti giuridici preposti alla produzione di “clandestini” i Cie rappresentano l’anello più importante e decisivo, nonostante l’apparenza possa indurre a pensare il contrario; perché se è vero che gli stranieri sono considerati dalla legge “clandestini” prima ancora di capitare in un Cie (per essere trattenuti è necessario che venga prima emesso un decreto di espulsione), è altrettanto vero che è lì dentro che tale condizione viene suggellata pubblicamente e stabilmente. Il “trattenimento” (ma sarebbe meglio chiamarlo col proprio nome, ovvero “detenzione amministrativa”), disposto indipendentemente dalla commissione di specifici reati, sembra in realtà raggiungere un unico obiettivo: quello di razionalizzare e normalizzare l’intero processo di clandestinizzazione degli stranieri. Al tema ha dedicato recentemente un interessante studio l’Associazione Lunaria. Tale studio si conclude con una serie di indicazioni di policy che vale la pena riprendere integralmente: “Il mantenimento del sistema di detenzione amministrativa svolge una funzione del tutto residuale ai fini di un efficace “contrasto dell’immigrazione irregolare” mentre espone i migranti a gravi violazioni dei diritti umani fondamentali che non sono accettabili in uno Stato di diritto”.
La chiusura dei CIE è urgente, è possibile, ed è auspicabile anche nella prospettiva di ridurre la spesa pubblica inefficiente.
1) “In attesa di una riforma che porti alla chiusura di queste strutture, è indispensabile ridurre immediatamente il periodo massimo di permanenza nei CIE riportandolo a un massimo da 180 a 30 giorni e dare attuazione alla circolare che impone l’identificazione dei cittadini stranieri detenuti in carcere all’interno delle stesse strutture carcerarie”;
2) “Almeno sino a che il sistema rimarrà in funzione, il Ministero dell’Interno dovrebbe evitare di emanare avvisi pubblici per l’affidamento della gestione dei CIE che, a causa del basso costo pro die/pro capite previsto, impediscano di assicurare l’erogazione dei servizi necessari a garantire la dignità e i diritti umani dei migranti detenuti”;
3) “Il successo assai limitato delle politiche meramente repressive di lotta all’immigrazione irregolare suggerisce di rivedere appena possibile l’intera disciplina dell’ingresso e del soggiorno dei cittadini stranieri nel nostro paese. È necessario ribaltare completamente le priorità delle politiche migratorie e sull’immigrazione a partire dalla piena ed effettiva garanzia dei diritti umani fondamentali dei migranti”.
In tale orizzonte è auspicabile, pertanto:
a) “ratificare la Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti dei Lavoratori Migranti e dei Membri delle loro Famiglie approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1990;
b) ampliare i canali di ingresso regolare sia per motivi di lavoro che per ricerca di lavoro;
c) introdurre meccanismi di regolarizzazione ordinaria ad personam, che possano consentire ai migranti di ottenere un titolo di soggiorno in presenza di requisiti che siano in grado di comprovare il loro effettivo inserimento sociale nella società italiana;
d) minimizzare i rischi di una ricaduta nell’area dell’irregolarità per coloro che hanno un titolo di soggiorno anche estendendo la durata della validità dei documenti di soggiorno;
e) limitare il più possibile l’utilizzo dello strumento dell’espulsione coattiva, così come suggerito dalla Direttiva comunitaria 2008/115/CE;
f) adottare una disciplina organica sul diritto di asilo in conformità con l’art. 10 della Costituzione; g) garantire l’effettivo accesso alla procedura di asilo dei migranti soccorsi in mare;
h) assicurare ai migranti stabilmente residenti sul nostro territorio la piena titolarità dei diritti di cittadinanza attraverso la riforma della legge 91/92 sulla cittadinanza e il riconoscimento del diritto di voto amministrativo”.
Ciò premesso, si rileva che, dal Friuli alla Calabria divampano le proteste nei Centri di identificazione ed espulsione. Ma le politiche del rifiuto non solo non funzionano ma hanno anche un costo salato: 1 miliardo e 600 milioni in dieci anni. Nei fatti i crescenti rigidi controlli alle frontiere, le deportazioni coatte, i respingimenti in alto mare, il sistema centralizzato dei dati e delle impronte digitali, il legame indissolubile tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, la criminalizzazione diffusa e la contrazione della soggettività giuridica degli immigrati sono tutti elementi che vedono convergere le politiche sull’immigrazione in Italia verso un comune obiettivo:” svalorizzare la forza-lavoro immigrata”. Netta contrarietà, alla vigente legislazione regolamentare dell’immigrazione, vengono espresse da primarie Associazioni Umanitarie Nazionali ed Internazionali; da Sua Santità Papa Francesco, a Lampedusa, che ha lanciato un grande appello contro la “globalizzazione dell’indifferenza” a favore dell’accoglienza di migranti e rifugiati; da Medici per i Diritti Umani che denunciano: “I Cie sono inefficaci e dai costi umani inaccettabili”; dal Sindacato Siulp di Polizia: “Magari espellessimo i veri criminali, sempre più spesso riaccompagniamo alla frontiera lavoratori irregolari, a volte denunciati da italiani che vorrebbero il loro posto di lavoro; dall’Associazione Nazionale Forense che ritengono: “inutile e dannoso” il reato di immigrazione clandestina; dal partito Radicali: “i CIE continuano ad essere assurdi”; dal Presidente Napolitano, in occasione della ricorrente tragedia di Marcinelle: “In questo giorno dedicato al ricordo del sacrificio del lavoro italiano nel mondo, è necessaria una riflessione sui temi della piena integrazione degli immigrati e della sicurezza nei luoghi di lavoro”; il Ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge: “il governo ha avviato una riflessione sui Cie per valutare condizione e utilità di queste strutture”, in particolare dopo la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione di Modena, Bologna, Lamezia Terme e Isola di Capo Rizzuto, mentre il Presidente del Parlamento europeo: Martin Schulz, rileva: “In Europa c’è un vuoto legislativo, manca una legge che regoli veramente l’immigrazione”.
Appare, pertanto, legittimo interrogarsi sulle vere ragioni della loro esistenza. A cosa serve davvero la custodia dei corpi degli immigrati nei Cie? A renderli forse più docili e sottomessi per i futuri padroni? Ad insegnare loro la disciplina come un tempo si faceva nelle workhouses? I Cie sono i nuovi istituti bio-regolatori dei mercati del lavoro? Si auspica, pertanto, che la nuova compagine di Governo riesca dove i precedenti governi hanno fallito sul programma di riconoscimento dei diritti civili”.



A Roma e Frosinone le mamme magrebine a scuola di italiano insieme ai figli, che impareranno l’arabo.
Iniziative gratuita promossa dai Cantieri dei giovani italo-marocchini.
Immigrazioneoggi,26-09-2013
Un’occasione preziosa per le mamme maghrebine di imparare l’italiano, e per i loro figli – nati in Italia o arrivati nel Paese da giovanissimi – di apprendere l’arabo ed evitare così di perdere le loro radici culturali. Tutto questo, gratis. Si chiama Mamma torna a scuola con me! l’iniziativa, del tutto gratuita, lanciata dall’associazione Cantieri dei giovani italo-marocchini (Cgim).
Il progetto, spiegano gli organizzatori, si svolgerà contemporaneamente in due città del Lazio, Roma e Frosinone, e si rivolge in particolare alle comunità immigrate dei Paesi arabofoni. In tutto 40 donne di madrelingua araba e 80 minori stranieri di origine nordafricana, che una volta a settimana (nei fine settimana) parteciperanno al corso. Al suo interno è previsto anche un modulo di educazione civica “che introdurrà mamme e figli alla Costituzione, ai diritti e doveri principali della società dove hanno scelto di vivere”.
Già sperimentato con grande successo a Frosinone nell’anno scolastico 2011-2012, spiegano i promotori, l’iniziativa consente anche “di aiutare i bambini nei compiti e di stimolarne autostima e consapevolezza su quanto ricca sia la loro cultura di origine, attraverso l’approfondimento legato alla scienza, alla poesia, alla filosofia arabe. È prevista per domenica 29 settembre la presentazione del progetto, che partirà nella Scuola primaria Di Donato, a Roma, in via Bixio.



Per “segregare” i rom spesi 100 milioni in 7 anni. Senza risultati
Redattore Sociale, 25-09-2013
Allestimento, gestione e mantenimento dei “campi nomadi” di Milano, Napoli e Roma tra il 2005 e il 2011 sotto la lente del rapporto “Segregare costa” curato da Berenice, Compare, Lunaria e Osservazione. “Una vera e propria economia da ghetto” fallimentare
ROMA – Oltre 100 milioni di euro per allestire, gestire e mantenere i “campi nomadi” di Milano, Napoli e Roma. Una “vera e propria economia da ghetto” analizzata in tutte le sue componenti dal rapporto “Segregare costa” curato da Berenice, Compare, Lunaria e Osservazione e presentato oggi a Roma. Un rapporto che prende in considerazione tutti (o quasi) i capitoli di spesa delle diverse amministrazioni dal 2005 al 2011, per rispondere a chi giustifica il mantenimento dei campi e la mancata adozione di politiche abitative con la carenza di risorse pubbliche. “Il rapporto ricostruisce e analizza in dettaglio i costi e il fallimento delle politiche dei campi – spiega il testo – e denuncia l’urgenza di ripensare completamente i modelli e le pratiche di inclusione sociale e abitativa delle popolazioni rom”.
Spreco di risorse. Per mantenere i campi a Napoli sono stati spesi “almeno 24,4 milioni di euro, a Roma almeno 69,8 milioni ai quali si aggiungono almeno altri 9,3 milioni di euro per i progetti di scolarizzazione, mentre a Milano circa 2,7 milioni di euro le spese accertate, ma il dato è parziale”. Interventi sociali di formazione e inserimento lavorativo che, nonostante gli stanziamenti “non hanno raggiunto risultati significativi in termini di una reale autonomizzazione delle persone. Si tratta di soldi pubblici che potrebbero essere molto più utilmente impiegati in modo diverso: a tal fine è necessario che le istituzioni cambino del tutto il proprio approccio: non servono soluzioni “speciali”, “temporanee” e “ghettizzanti”, ma progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati alla reale autonomizzazione dei rom”.
Una ricerca ad ostacoli. Ricostruire tutte le spese compiute dalle diverse amministrazioni negli anni presi in considerazione dal rapporto non è stato facile, spiegano i curatori dello studio, e ai cento milioni probabilmente mancano ancora altre cifre a sei zeri. “La scarsa trasparenza e l’insufficiente livello di dettaglio dei documenti contabili, la difficoltà a reperire delibere e determinazioni, l’impossibilità di scorporare voci di spesa rilevanti per l’analisi delle politiche indirizzate ai rom da capitoli di spesa più generali – spiega il rapporto -, hanno infatti impedito di effettuare una completa ricostruzione dei costi delle politiche dei campi”. Tuttavia, l’analisi ha portato ad una stima della spesa annuale per le tre città, che per i sette anni presi in considerazione dallo studio è risultata essere di circa 15 milioni di euro.
Chiudere i campi. Secondo le quattro organizzazioni curatrici del rapporto, è arrivata l’ora di mettere fine ai “piani nomadi” sostituendoli con “Piani di chiusura dei campi nomadi”. “Questi ultimi non hanno naturalmente niente a che vedere con le vergognose politiche degli sgomberi – spiega il rapporto - che accompagnano le politiche dei campi. Pianificare la chiusura di questi ultimi significa prefigurare soluzioni abitative alternative, concordando con i residenti tempi e modalità del cambiamento”. Le alternative possibili ci sono: “dal sostegno all’inserimento in abitazioni ordinarie o in case di edilizia popolare pubblica, all’housingsociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate”. (ga)



Torna l'ossessione dei Rom
il manifesto, 26-09-2013
Anna Maria Merlo
FRANCIA Parigi rischia una procedura di infrazione da parte dell'Unione europea. In vista delle elzioni i socialisti cavalcano l'intolleranza verso i nomadi. Il ministro degli Interni Valls: «Tornino a casa loro»
PARIGI. Tra sei mesi in Francia ci sono le elezioni municipali, che precedono di poco le europee. Come da copione, la questione dell'immigrazione è tornata in primo piano. Dall'estate una sequenza di dichiarazioni di politici nazionali e locali ha scelto il bersaglio più facile: i Rom. L'ossessione dei Rom è arrivata anche al ministero degli interni, dove il socialista di destra Manuel Valls è stato richiamato ieri dalla vice-presidente della Commissione europea per la giustizia, Viviane Reding, che ha ricordato a Parigi che la Francia ha «firmato una strategia di integrazione nazionale, ma i soldi non arrivano dove dovrebbero, cioè ai comuni» e per questo potrebbe subire delle sanzioni. Bruxelles ha stanziato sulla carta 50 miliardi per l'integrazione dei Rom, che devono dividersi i 28 paesi della Ue per favorire l'integrazione dei circa 10 milioni di Rom cittadini europei. Per Valls, «la maggioranza dei Rom deve essere espulsa, non siamo qui per accogliere queste popolazioni» che, per il ministro, «hanno modi di vita estremamente diversi dai nostri» e solo «pochi» vogliono davvero integrarsi.
In Francia il numero dei Rom è intorno ai 15-20mila, stabile da 15 anni (non vanno confusi con le gens du voyage, francesi da secoli, circa 300mila persone sottomesse a un libretto di circolazione, una carta di identità di serie B.
Le frasi di Valls sono state criticate a sinistra. Nel governo, per il ministro del Rilancio produttivo, Arnaud Montebourg, «non esiste una teoria che dice che un certo popolo, una persona di una data origine non potrà mai e poi mai integrarsi». Per Marisol Touraine, responsabile degli Affari sociali, «la questione è il rispetto delle regole, non si tratta di considerare che questa o quella popolazione per principio non rispetta le regole». Per il Pcf, Valls ha fatto «dichiarazioni xenofobe», che riprendono la «politica del capro espiatorio che la sinistra aveva combattuto assieme quando Sarkozy si era buttato in una detestabile corsa con il Fronte nazionale».
Il Fronte nazionale sta a guardare e non ha neppure bisogno di intervenire nel dibattito, visto che i suoi temi sono ripresi. La destra si è particolarmente distinta nelle ultime settimane. Il sindaco di Croix, nel Nord, ha detto che avrebbe preso le difese di un abitante che avesse «commesso l'irreparabile» contro un Rom. Persino l'elegante Nathalie Kosciusko-Morizet, candidata dell'Ump a sindaco di Parigi, ha fatto riferimento alla questione per la capitale: «Avete l'impressione che molestiamo molto i Rom? A me sembra che i Rom molestino molto i parigini». La candidata socialista, Anne Hidalgo, dopo aver denunciato le «affermazioni indegne» della sua rivale alla successione di Bertrand Delanoë, ha aggiunto: «naturalmente, non vogliamo che Parigi diventi un accampamento gigante».
Furti, attacchi ai turisti, persino presenza ossessiva di gruppi di ragazzini al Louvre, le notizie di cronaca si accavallano. Ma contemporaneamente in tv sfilano le immagini delle espulsioni. Pochi giorni fa a Lille, dove è stato smantellato il più grande campo illegale della regione Nord, ieri vicino a Saint-Etienne. La differenza con i tempi di Sarkozy è che adesso la polizia aspetta una sentenza giudiziaria contro l'occupazione illegale dei terreni per smantellare un campo, mentre prima bastava una decisione amministrativa. L'obiettivo resta l'espulsione. Come dice Valls: i Rom devono tornare a casa loro, in Romania o Bulgaria. Valls ha ridotto da 300 a 50 euro a persona l'«aiuto» al ritorno, che si è rivelato inefficace. Nel 2012 la Francia ha espulso 12.841 Rom, in crescita di più del 18% rispetto al 2011. Nel secondo trimestre del 2013, secondo un calcolo fatto da diverse associazioni, le espulsioni sarebbero state intorno alle 5mila. Ma, come ha ricordato ieri Viviane Reding, in Europa esiste la libera circolazione dei cittadini. Adesso la destra ingiunge al governo di unirsi alla Germania e all'Olanda, che già cercano di bloccare l'entrata della Romania e della Bulgaria nello spazio Schengen, prevista sulla carta per il prossimo 1° gennaio. La decisione dovrà essere presa tra qualche settimana dai paesi Schengen, con voto all'unanimità. Ma comunque dal 2014 finisce la moratoria di 7 anni imposta al momento dell'adesione a Romania e Bulgaria e i cittadini di questi due paesi godranno, come tutti gli altri, del diritto al lavoro nei 28 stati membri. I Rom, accusati di non volersi integrare, potranno quindi venire assunti regolarmente. Ma i comuni si scaricano l'un l'altro la presenza dei Rom e solo pochissimi hanno messo in atto programmi specifici, per favorire scolarizzazione, occupazione e soluzioni abitative decenti.



I COLORI DELLA NUOVA GERMANIA APERTA, TOLLERANTE E MULTIETNICA
Corriere della sera, 26-09-2013
Massimo Nava
Senza grandi titoli, i giornali tedeschi hanno riferito che per la prima volta due deputati di colore, di origine senegalese, sono entrati al Reichstag. Uno per la Spd, uno per la Cdu. Notizia riportata senza particolare enfasi. Del resto, da tempo, Cittadini di origine turca, asiatíca, europea fanno normalmente parte della classe politica, del personale dei partiti, dei sindacati, delle aziende, della cultura e dello sport. Sono lo specchio di una società multietnica e multiculturale, che ha per capitale Berlino, la «Grande Mela» europea dove si parlano centottanta lingue. Dicono le statistiche, che gli stranieri sono 7 milioni e che i tedeschi con lontane origini straniere (fra i quali la stessa Merkel, con radici polacche) sono 18 milioni, quasi un quinto della popolazione.
È una presenza — nel Paese che settant'anni fa esaltò la purezza della razza ariana — che suggella una progressiva differenza culturale fra il concetto di nazione tedesca e il sistema Paese. Stereotipi e pregiudizi sui caratteri nazionali si diluiscono in un modello di società aperta, tollerante, che ha saputo fare i conti con la Storia senza dimenticare le proprie colpe e che continua ad alzare barriere rigorose contro xenofobia, razzismo e rigurgiti neonazisti. Molti anni fa, lo Spiegel fece una copertina con un titolo «Quando un cancelliere turco?» che esprimeva le inquietudini dell'opinione pubblica di fronte all'immigrazione incontrollata. Oggi si avverte l'orgoglio di un Paese che l'anno scorso ha fatto entrare un milione di nuovi immigrati, in parte diplomati, attratti da opportunité di lavoro che la Germania offre con una propaganda mirata (vedasi il portale www.make-it-in-germany.com). Cosi si affrontano il calo demografico e in prospettiva la salvaguardia del sistema pensionistico. I fantasmi riposano nei musei e nei memoriali.
«Makeitingermany» è lo slogan di una società che profuma d'America. Ed è anche uno schiaffo ai populismi di una vecchia Europa, rigida, miope e conservatrice, che di questa Germania ha ancora paura.

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