04 ottobre 2013

Cancelliamo il reato di clandestinità
l'Unità, 04-10-2013
Luigi Manconi, Valentina Brinis
Molte le cause della tragedia di ieri. Ma, tra esse, non può essere ignorata certo quella che rimanda ai dispositivi della legge Bossi-Fini (2002): e proprio perché, su quei dispositivi, è possibile finalmente intervenire.
Ci hanno provato i Radicali, ma per responsabilità di quasi tutti quel sacrosanto referendum non ha raggiunto il numero di firme necessarie. Ora è richiesta, come è ovvio, una forte decisione politica: ed essa non può essere rinviata se teniamo conto che quella normativa, così com'è, altro non fa che irrigidire, fino alla chiusura, il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo. E fatalmente finisce col considerare idonei all'accesso in Italia solo i migranti lavoratori, con molte eccezioni, e attraverso una procedura che si rivela sempre più dissuasiva e disincentivante. La normativa attuale ha apportato alcune modifiche alla precedente legge, la Turco-Napolitano (1998) concentrandosi sul controllo dell'ingresso e della permanenza regolare dei migranti in Italia. Ciò ha fatto sì che le persone in fuga verso il nostro Paese, se sprovviste del regolare visto necessario all'imbarco in aereo, dovessero trovare vie alternative e irregolari per poter raggiungere le coste italiane. Tutto ciò si inserisce in una politica europea che molto ha investito nella vigilanza sulle frontiere esterne, alimentando costantemente il fondo dell'Agenzia Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea), principale addetta a tale attività.
L'esito di ciò è stato che in numerose circostanze i migranti rintracciati in mare venissero rimpatriati senza che prima fossero identificati, ascoltati e soprattutto, prima che gli fosse data la possibilità di presentare la domanda di asilo. Il ministro dell'Interno dell'ultimo governo Berlusconi, Roberto Maroni, ha sempre negato che si effettuassero simili pratiche e, quando messo alle strette, le attribuiva ai così detti accordi Italia-Libia. Ma ecco che il 23 febbraio del 2012 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato l'avvenuta violazione del divieto di tortura, di quello di espulsioni collettive e del diritto ad un ricorso effettivo. E con ciò ha accolto l'esposto di 24 migranti che nel 2009 erano stati riportati in Libia dopo essere stati intercettati in mare dalle forze di polizia italiane. Si è opportunamente parlato di sentenza storica in quanto ha dimostrato come, almeno in un caso, il respingimento collettivo fosse davvero avvenuto. Resta il fatto che gli essenziali connotati della «Turco-Napolitano» sono stati modificati dalla «Bossi-Fini» a danno dell'ingresso regolare degli stranieri, in particolare in materia di visti, permesso di soggiorno, carta di soggiorno e diritto di asilo. Per poter richiedere e ottenere la documentazione necessaria, i criteri sono diventati più selettivi, tanto da rendere difficoltosa la permanenza legale. Si pensi alla complicata richiesta dell’idoneità alloggiativa, alla frequente negazione del visto per non motivate ragioni di sicurezza e, in generale, al complesso iter burocratico per rinnovare i titoli di soggiorno.
Ecco perché sono così numerose le persone diventate irregolari negli ultimi anni. Il governo Monti ha fatto qualcosa in questo senso, portando a un anno la durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione. Un timido passo avanti, ma tantissimo ci sarebbe ancora da fare, perché la «Bossi-Fini» non solo ha enormemente complicato il quadro amministrativo, ma ha anche recepito, attraverso il pacchetto sicurezza del 2009, quel meccanismo di vera e propria criminalizzazione rappresentato dal reato di clandestinità e dall’aggravante per clandestinità (dichiarata successivamente incostituzionale). Il risultato è stato, tra l’altro, un ulteriore incremento della già ampia popolazione carceraria costituita da stranieri (nel maggio del 2013 erano oltre settecento i reclusi responsabili esclusivamente di non aver ottemperato all’ordine di espulsione). Volendo trarre una rapida conclusione, si può dire che la legislazione in materia di immigrazione, dal 2002 a oggi, si è irrigidita e inasprita, producendo come effetto principale l’estensione delle aree di irregolarità e di marginalità. L’intero impianto normativo in materia di immigrazione deve essere radicalmente modificato, a partire da due atti essenziali: a) abrogazione del reato di clandestinità, che ha assimilato secondo un’ispirazione che rimanda a una concezione giuridica precedente lo stato di diritto la categoria dei migranti a quella di una «classe pericolosa», da perseguire non per i reati commessi ma per la sua stessa condizione esistenziale (non per ciò che si fa, ma per ciò che si è); b) introduzione del visto di ingresso per ricerca di occupazione, al fine di favorire l’incontro tra offerta e domanda nel nostro Paese, contribuendo a regolarizzare una quota notevole degli ingressi e dei soggiorni non regolari.
In altre parole, se questa strage di cui i morti di oggi sono appena un episodio non ci induce a modificare radicalmente una normativa che, quei morti, contribuisce a perpetuare, il nostro cordoglio rischia di risultare un vuoto rito.


 

Lampedusa, ultima spiaggia
Numeri e dati sull'immigrazione, sull'accoglienza, e quello che si poteva cambiare secondo "A buon diritto"
Il Foglio, 04-10-2013
Michela Maisti
Dopo il naufragio avvenuto questa mattina al largo delle coste dell'isola siciliana di Lampedusa, si torna ancora una volta a parlare di immigrazione e delle norme che regolano il fenomeno sia a livello nazionale che europeo. Il Foglio.it ha posto alcune domande a Valentina Brinis, componente dell'Associazione "A buon diritto" guidata dal Presidente Luigi Manconi che dal 2001 si occupa delle questioni relative all'esercizio dei diritti riconosciuti dall'ordinamento italiano, ma non sempre o non adeguatamente tutelati.
- Chi sono le persone che decidono di lasciare il proprio paese? Quali differenze ci sono tra i tipi di migrazione?
Anzitutto mi soffermerei sulla differenza che esiste nel tipo di migrazione. Nel caso specifico dello sbarco avvenuto oggi a Lampedusa, è bene parlare dei richiedenti asilo. Si tratta di persone provenienti per lo più dal Corno d’Africa o da Maghreb che arrivano sulle nostre coste a bordo di imbarcazioni molto precarie.
- In che modo gli immigrati raggiungono le coste europee e quelle italiane?
La modalità, per esempio quella libica – appresa dai racconti fatti da coloro che hanno vissuto direttamente l’esperienza dell’esodo– è quella di una organizzazione locale che regola gli sbarchi. Le persone pagano i trafficanti che però non sempre salgono a bordo dell’imbarcazione. Solitamente nel gruppo pronto alla partenza viene incaricata una persona nel ruolo di capitano la quale ha già precedenti esperienze nell’ambito della migrazione o conosce bene i trafficanti e in ogni caso si trova in un rapporto di fiducia con l’organizzazione. Proprio il capitano dell’imbarcazione precaria ha il compito di portare i passeggeri nella destinazione più vicina, che solitamente è Malta. Tuttavia, viste le norme molto rigide adottate dall’isola, la maggior parte degli immigrati preferisce arrivare in Italia, a Lampedusa.
- Quali sono i numeri?
I numeri sono sempre molto alti e vanno a ondate. L’intensità del flusso migratorio spesso dipende dalla situazione nella quale versa il  paese d’origine. Per esempio nel 2011, nel corso dell’emergenza nordafricana, con la crisi del Maghreb, c’è stato un aumento delle persone partite. In ogni caso l’aumento non è stato eccessivo, visto che nel Corno d’Africa la situazione è perennemente critica. Si pensi che nel 2008 sono arrivate all’incirca 36.900 persone e che nel pieno dell’”emergenza nordafrica” il numero degli immigrati è stato di circa 60 mila. Non si può parlare di una grande sproporzione, a riprova del dato che i numeri restano sempre alti.
- Nello sbarco di oggi a Lampedusa le vittime “ufficiali” sono state più di 90. Da poco è stato ritrovato a 46 metri di profondità il relitto del peschereccio che ha portato i migranti in Italia con a bordo decine di corpi senza vita. Ma quali sono i dati annuali sulle vittime degli sbarchi?
Il numero dei morti è difficilissimo da calcolare perché non sappiamo quanti immigrati non riescono ad arrivare in Italia o quanti naufragano appena partiti. Noi li contiamo sulla base di quelli di cui si sa qualcosa o perché ci sono superstiti o perché i loro familiari, non avendo più loro notizie, lanciano l’allarme alle autorità. Due anni fa dalle coste del nordafrica partì un barcone con a bordo dei tunisini di cui però non si seppe più nulla  e per questa ragione si crede siano naufragati. Nel caso dello sbarco di oggi conosciamo il numero delle vittime e quello delle vittime potenziali, ancora disperse, soltanto grazie ai racconti fatti dagli oltre 120 superstiti che sono riusciti ad arrivare vivi e hanno dato testimonianza del viaggio. Anche in questo caso, probabilmente, non sapremo mai l’entità precisa di questa tragedia. Tutti i viaggi avvengono in competa irregolarità. Irregolare è l’imbarcazione a bordo della quale i migranti viaggiano, irregolari i documenti di chi è a bordo o addirittura assenti. Pertanto non tracciabili.
Secondo i dati della associazione “A buon diritto” il numero delle vittime nelle tratte del Mediterraneo (dal Nordafrica verso l’Italia e la Spagna) nel 2011 era 2.200. Nel 2012 si è registrato un lieve calo, intorno ai 1.000 morti. Quest’anno, viste anche le diverse emergenze – Egitto, Siria, Eritrea e Somalia – si contano già almeno 500 vittime. In questi dati sono considerati anche i dispersi, ovvero le persone che mancano all’appello.
- Quali sono le possibili soluzioni adottabili per regolare i flussi migratori o rivedere i criteri di accoglienza?
Italia ed Europa dovrebbero rivedere la legislazione in tema di immigrazione. I paesi europei ad oggi non riescono a dare una risposta univoca a questi continui sbarchi. Un dato importante è quello delle persone accolte come rifugiati nei tre paesi europei tradizionalmente deputati a ricevere i flussi migratori: Francia,  Germania e Italia. I francesi accolgono circa 220mila rifugiati nel loro territorio, 572mila per i tedeschi mentre in italia il numero scende a 58mila. C’è una sproporzione tremenda fra i diversi paesi, soprattutto se si pensa al numero degli abitanti.
Secondo “A buon diritto” il problema, in Italia, è l’assenza di un sistema di accoglienza che organizzi lo “smistamento” degli immigrati dividendoli in piccoli gruppi, ognuno destinato a una regione del paese. In questo modo il fenomeno dell’immigrazione sarebbe reso più sostenibile sia in termini di organizzazione che in termini di  tolleranza da parte dell’opinione pubblica. L’unico organismo che oggi opera in questo modo nel nostro paese si chiama Sprar. Tuttavia, soprattutto per un problema dovuto alla scarsità delle risorse economiche, riesce ad accogliere soltanto tremila persone a fronte di una richiesta altissima. La necessità principale, quando si parla di accoglienza, è mirare all’inserimento di queste persone nella società nel più breve tempo possibile dall’arrivo sulle nostre coste. Il modus operandi dello Sprar va oltre alla garanzia minima delle esigenze di vitto alloggio perché offre anche una assistenza psicologica agli immigrati. Il ministero dell’Interno ha annunciato un aumento dei posti destinati all’accoglienza nel prossimo triennio, quindi a partire da 2014. Dagli attuali tremila posti si dovrebbe arrivare a quindicimila. Sarebbe un investimento, soprattutto per l’italia.
- Quali sono le carenze della legislazione italiana sull’immigrazione?
L’errore della legge italiana sull’immigrazione è quello di portare alle estreme conseguenze il ragionamento sulla sicurezza e la legalità. In questo modo si marginalizza il fenomeno dei rifugiati e perciò si opera una scarsa differenziazione all’interno del fenomeno dell’immigrazione. La Bossi-Fini basa il proprio ragionamenti sulla pretesa di legalità trascurando gli investimenti in termini di accoglienza o rendendoli residuali e penalizzando gravemente l’accoglienza intesa anche in termini “culturali”. L’aver introdotto, ad esempio, il reato di clandestinità testimonia che fino a oggi in Italia è mancato il terreno culturale che si costruisce anche attraverso le norme.



A picco la barca dei migranti In 300 uccisi dal miraggio Italia
Ecatombe a pochi centinaia di metri dalla costa: prima un incendio, poi la "carretta" si è inabissata. Il bilancio delle vittime, tra cui molte donne e bambini, potrebbe salire
il Giornale, 04-10-2013
Andrea Acquarone
Quante corone alla memoria dovrà ancora adagiare in questo Mediterraneo diventato cimitero il nuovo «Papa buono»? Oggi è il suo onomastico, ma ieri Francesco non trovava parole. O meglio ne ha trovata una che vale per tutte: «Vergogna».
Adesso la tragedia supera le tragedie. Appena quattro giorni fa vicino a Ragusa, sulla spiaggia «del commissario Montalbano», venivano adagiati i cadaveri di 13 immigrati, costretti dagli scafisti a buttarsi in mare a colpi di cinghiate.
Non erano lontani dalla costa, ma non tutti sapevano nuotare.
A Lampedusa ieri è stata ecatombe. Qualcosa che non deve e non può più considerarsi mero, macabro bilancio statistico. Un elenco di chi in nome della speranza non ce l'ha fatta durante uno dei tanti, troppi, viaggi traghettati da infami «Caronte». Stavolta sono almeno duecento i morti. Novantaquattro recuperati mentre ancora galleggiavano non lontano dalla riva dell'Isola dei conigli, una delle marine più belle al mondo, in questo periodo ancora affollata dai turisti; un altro centinaio ancora imprigionati nella carretta adagiata a una quarantina di metri di profondità. Li hanno trovati i sommozzatori. Intere squadre di sub arrivati da ogni parte d'Italia. Tutte somale ed eritree le vittime, tra loro tante donne e bambini, quattro i piccini recuperati. Ma la conta sembra essere per difetto: sull'imbarcazione, salpata dal porto libico di Misurata, raccontano i superstiti (155 i migranti tratti in salvo), ci sarebbero state circa 450 persone. Cifre approssimative e non si sa se reali che farebbero contare almeno centocinquanta- duecento dispersi. Ha il volto sconvolto, una smorfia di dolore scolpita tra lacrime che non riescono fermarsi una delle soccorritrici, appena sbarcata da una scialuppa di salvataggio. Il molo è un cimitero a cielo aperto. Tra sacchi di plastica e teli termici color oro o argento che avvolgono i corpi, riflettendo beffardi i riflessi di un sole qui ancora estivo, la fila sembra interminabile.
Non bastano i feretri per «custodire» le vittime di questa strage immensa. Un'aereo militare atterra con un carico di bare zincate, un traghetto con altre casse partito da Porto Empedocle è atteso per stamane. Mentre nel frattempo i cadaveri pian piano vengono trasportati in un hangar dell'aeroporto. Non c'è altro posto dove raccogliere tanto strazio.
Erano circa le 5 del mattino quando l'imbarcazione, lunga una ventina di metri, forse in avaria o forse abbandonata dagli scafisti, si è trovata in difficoltà a poche centinaia dalla costa di Lampedusa. Qualcuno ha utilizzato una coperta per accendere un falò e richiamare l'attenzione di alcuni pescherecci che navigavano nei pressi. Ma è divampato un incendio, a quanto pare sul ponte c'era del gasolio. È stato il panico, i profughi stipati all'inverosimile si sono ammassati su un lato e il «guscio» si è ribaltato, qualcuno si è tuffato. Chi si trovava all'interno e nelle stive non ha avuto scampo, altri non ce l'hanno fatta a raggiungere la riva. Sono stati i pescatori a lanciare l'allarme. In mare galleggiavano decine di cadaveri quando sono arrivati i primi soccorsi. Già impegnati da qualche ora, dopo che motovedette di Guardia Costiera, polizia e carabinieri avevano tratto in salvo un'altra imbarcazione carica di migranti: sopra ce n'erano 463, poi trasferiti nel centro di prima accoglienza. Ormai stracolmo, oltre un migliaio ieri gli «ospiti». Lampedusa proclama il lutto, così come tutta la nostra malandata Penisola dimenticata dall'Europa ma miraggio per chi non ha nulla da perdere. Se non la vita. Ma come dice il sindaco di Lampedusa qui non c'è più posto nemmeno per i morti. «Non sappiamo dove seppellirli», ha detto laconico al ministro della Difesa Mario Mauro. Chiedendo supporto. Certo i becchini arriveranno. Ma quando la fine di tanto scempio?



Sono loro il nostro prossimo
la Repubblica. 04-10-2013
Adriano Sofri
SI può commuovere tutti i giorni, o c'è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l'altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante?
QUANDO ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c'è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all'ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un'auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l'Isola dei famosi, la sera, e capiranno tutto.
Dunque si è quasi offesi, da una giornata simile: centinaia di morti, l'ennesima, più lunga fila di sacchi da monnezza, non si può pretendere che ci commuoviamo ogni giorno che Dio manda, perbacco, e all'indomani di un allegro rilancio del governo, che prima era di necessità e ora è d'amore e d'accordo. Che c'entra il governo con la strage della barcaccia? Niente, appunto. Niente e nessuno, c'entra. È stata una disgrazia. Cioè: il cinismo degli scafisti, l'imprudenza dei passeggeri, il panico di tutti. I superstiti non presentavano problemi molto gravi, ha detto un bravissimo medico, qualcuno aveva bevuto, con l'acqua salata, parecchia nafta. Non c'entra nessuno, accusare, inventarsi dei colpevoli, è un lusso da salotto. (I leghisti sanno di chi è la colpa: di due signore). Però il papa ha detto: è una vergogna. Allora bisogna che qualcuno si vergogni, o che ci vergogniamo tutti. Di che cosa? Di tutto: della guerra civile in Siria, del mattatoio somalo, della violenza nigeriana che ricaccia indietro i ghanesi. Ah, va bene, campa cavallo! Vediamo più da vicino, allora. Controllare meglio quel tratto di mare? Ci sono occhi meccanici cui non sfugge un branco di sardine. Chi se ne intende dice che il lavoro che fanno la nostra capitaneria, la marina militare, la guardia di finanza, i
e anche i mezzi mercantili e da diporto è ammirevole, che i radar non bastano a vedere tutto, soprattutto con imbarcazioni piccole e mare mosso e sottocosta. Bene: eppure qualcosa occorre fare. Perché ieri non eravamo solo commossi fino alle lacrime, ma anche esasperati e furiosi. Perché anche piangendo, si pensa. Si pensa che in Giordania, in Libano, in Turchia, in Iraq, ci sono oggi un paio di milioni di profughi siriani, e da noi ne sono arrivati due o tremila; cui vanno sottratti - 250, 300? - quelli di ieri. Si pensa che due giorni fa sono state pubblicate le nuove cifre sugli immigrati in Italia, e quattro su dieci si propongono di tornare a casa o andare altrove, e molti l'hanno già fatto. Si pensa che in Grecia, tanto più povera di noi, e tanto sorella nostra –"stessa faccia, stessa razza"- gli immigrati dall'Europa orientale e dall'Asia e dall'Africa entrano per terra e per mare in numero assai superiore ai nostri, e poi ci restano chiusi, in omaggio a Dublino, in balia dei nazisti di Alba Dorata.
E poi, si pensa alle obiezioni di chi, anche in mezzo a tutti questi morti – "una marea di cadaveri", ha detto ieri un soccorritore, promuovendoli involontariamente a creature marine, quei viaggiatori che non sapevano nuotaretiene a restare, secondo lui, freddo e lucido. "Non possiamo mica accogliere tutti i fuggiaschi del mondo". No, infatti, non possiamo. Ma non stanno arrivando tutti i fuggiaschi del mondo. E ragionevole prevedere che ne arriveranno molti di più. Siccome ci si compiace a credere che l'alternativa sia fra buonismo e cattivismo, e chi non è né buonista né cattivista possa solo raccomandare l'anima e il corpo altrui a Dio, proverò a rispondere. Ammettiamo pure il caso più ottuso: che siate rigorosamente contrari all'immigrazione, che ve ne fottiate di tutte le avvertenze ("ma i nostri nonni, e il padre del papa Francesco, sono emigrati..."; e "gli immigrati oggi coprono il 10 per cento del Pil italiano", e così via). Bene. E ammettiamo ora che voi, i del tutto contrari, stiate bordeggiando sotto l'isola dei Conigli, e avvistiate una disgraziata che viene da Aleppo o da Samaria e che agita le braccia e annaspa: o la soccorrete, o no. Se non la soccorrete, siete davvero coerenti con la vostra convinzione, e il diavolo vi porti: l'avete meritato. Se la soccorrete, com'è infinitamente più probabile, non avrete affatto ripudiato la vostra convinzione, avrete saputo che c'era una cosa più importante. Che quando succede proprio a voi di imbattervi nella persona in pericolo, che da voi dipende la sua salvezza, le convinzioni politiche o demografiche si eclissano, e senza riflettere un momento lanciate il vostro salvagente o la vostra cima. (E non voglio ancora completare l'esempio, sicché succeda a voi di annaspare e agitare le braccia, venendo da Bergamo Alta, ed essere soccorso da una carretta di scafisti siriani). Questa non è la soluzione, ma è una gran parte della soluzione. La soluzione implica che in Siria finisca la guerra civile, che Dublino 2 non metta in croce la Grecia, che la Germania non si scandalizzi per l'arrivo di sbarcati a Scicli o a Riace, che l'Europa sia l'Europa. Cose grosse. Si possono affrontare, anche se sembrano così grosse. Ma intanto c'è la gran parte della soluzione, che consiste nel comportarsi seriamenpescherecci
te, efficacemente, come si fa col disgraziato in cui vi siete imbattuti. Per esempio, quando in uno scampolo d'estate vi capita di fronte una di quelle barche di disperati, su una spiaggia siracusana o ragusana, o calabrese o pugliese, e fate una catena umana. Una catena umana –è gran parte della soluzione. Ma sarebbe ipocrita lasciarla al caso. Se il samaritano avesse saputo che tutti i giorni, sulla famosa strada, i briganti lasciavano tramortito un passeggero, avrebbe chiesto alla polizia di occuparsi dei briganti, e intanto avrebbe improvvisato con altri volontari il pronto soccorso a quell'angolo di strada. Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siamo buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell'immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che criminale, la politica dei "respingimenti". Li respingi nei campi libici, a essere violati e bastonati e venduti. Li respingi "a casa loro", dove gliela faranno pagare con la tortura e la pelle. E soprattutto li respingi: agitano le braccia, annaspano, gridano aiuto proprio a te, e li respingi.
Perché questo non avviene, non abbastanza? Dobbiamo dirlo chiaramente. Perché le autorità, essendo responsabili (ciò che per molte di loro vuol dire ciniche) preferiscono un migrante annegato a un clandestino vivo che si aggiri per l'Europa. Un anonimo morto a un rifugiato vivo. Lo preferiscono, davvero, magari non dicendoselo così chiaro: se no non lo farebbero. Pensano (infatti pensano): "Se questi disperati arrivassero tutti vivi, sempre più disperati sarebbero incoraggiati a venire". Bene: se pensano così, anche se non se lo dicono, stanno favorendo le stragi come quella di ieri, "magari non così grosse, non tanti in una volta". Ciascuno, autorità o persona comune, può liberamente decidere che cosa pensa dell'immigrazione e dei migranti in carne e ossa –il nostro prossimo. Ma bisogna che sappia che cosa sta decidendo, e ne segua le conseguenze fino alla banchina di Lampedusa con la fila dei fagotti da monnezza.
Resta da lodare ancora Lampedusa: perché quegli annegati non sono di nessuno, né del paese da cui fuggono, né di quello in cui sognavano di arrivare. Sono del mare, e di Lampedusa.



Lampedusa, la strage dei bambini: «Sono tutti figli nostri». Il più piccolo aveva un anno
Il Messaggero, 04-10-2013
Laura Bogliolo
LAMPEDUSA - Il mare li ha inghiottiti per poi restituirli senza più respiro, in pochi attimi. Piccoli, alcuni ancora con gli occhi aperti per ricordare un’ultima immagine di vita, la più tragica di tutte: la mamma che scompare tra le onde, il grido d’aiuto soffocato dall’acqua salata, le manine che cercano il cielo scuro.
Affogati, scomparsi nell’acqua, chissà ancora quanti stanno trovando una macabra ospitalità in fondo al mare a largo di Lampedusa.
IL RECUPERO
È stato difficile recuperarli perché non si trovavano, perché erano fagottini alla deriva e perché, una volta avvistati, i loro corpi erano immersi nella nafta. Quasi impossibile afferrarli senza che il liquido nero potesse farli scivolare di nuovo in acqua. Prima i due bambini, i maschi, poi le femmine. Un anno di vita, due, cinque e sei l'età dei bimbi morti nell'ennesima tragedia sulle coste più a sud d'Italia in quel lembo di terra troppo lontano da Roma per farti sentire italiano, troppo vicino all'Africa per non diventare l'approdo della disperazione per migliaia di migranti.
Non si conoscono ancora i nomi dei quattro bimbi morti ieri a largo dell'isola siciliana, forse non si sapranno mai, anche se le mamme di Lampedusa non hanno alcun dubbio e li hanno già ribattezzati «sono tutti figli nostri». Tutti figli di Lampedusa e di un'Italia che piange i quattro bambini provenienti dall'Eritrea che non ce l'hanno fatta a varcare la porta della speranza. Il più piccolo, un anno. Aveva gli occhi ancora aperti ed era senza vestiti quando un pescatore di Lampedusa lo ha sollevato e poi lo ha coccolato regalandogli l'ultimo sogno di dolcezza. Poi c'erano le bimbe, con i ricci stravolti dal mare della morte, con le bocche ancora aperte. Dopo ore è stato strappato dall'oblio delle onde anche il bambino più grande: sei anni.
LE URLA
I loro corpicini sono stati sistemati sul molo Favarolo della piccola isola, avvolti in teli di plastica colorati: loro erano i più piccoli, loro sono stati sistemati insieme come a farsi compagnia per quell'ultimo viaggio verso una bara di legno che ancora non si è fatto in tempo a dipingere di bianco. Le urla in acqua sono strazianti, agli isolani i singhiozzi dei bimbi sembrano quasi le urla dei gabbiani, in mare iniziano a galleggiare stracci, relitti di quel barcone maledetto e abitini dei quattro piccolini protagonisti di una tragedia senza fine. Li hanno ripescati davanti all'isola dei Conigli, quel golfo che è un Paradiso per i turisti e che si è trasformato in un Inferno. I primi a raccogliere le grida della tragedia sono stati degli isolani in gita su una barca da diporto di dieci metri. Poco prima delle sette avevano sentito dei rumori striduli, poi al largo della spiaggia Tabaccara l’orribile scoperta. Centinaia di corpi che galleggiano sull’acqua, Marcello Nizza si tuffa e recupera un corpo: lo salva con il massaggio cardiaco. Le braccia tese in mare scivolano sulla benzina che cosparge i corpi dei naufraghi, ragazzini di sedici anni completamente nudi che ormai hanno perso i sensi.
Piangono i sopravvissuti, piangono le mamme di Lampedusa che ieri pomeriggio in via Roma hanno organizzato un piccolo corteo per dire che «Lampedusa è per l'accoglienza, ma non per accogliere i cadaveri dei bambini, aiutateci». Santina Cacciatore, 28 anni, è corsa al poliambulatorio per sapere se poteva dare una mano. «Sono mamma anche io - dice facendo una smorfia - è una tragedia, quei fagottini senza più vita sono un dolore troppo forte per tutti». Sul quel barcone maledetto c'erano anche ragazzini, 10, 11 anni, sporchi di nafta e salvati sul peschereccio Angela C. di due fratelli Colapinto che raccontano gli «sguardi fissi nel vuoto, i tremori, le braccia strette ai più piccolini, forse i fratellini». A Lampedusa il pianto di bimbi affamati continua a farsi sentire dal centro di prima accoglienza: ci sono neonati di venti giorni, racconta un gruppo di siriani, vengono cullati dalle mamme e con gli occhi scrutano un cielo che li ha voluti sopravvissuti.
I quattro «figli di Lampedusa» ora non ci sono più. Sono in viaggio per la terraferma che tanto sognavano, racchiusi in piccole bare. Resteranno senza un nome. I genitori sono morti insieme a loro. Perché nessuno li ha reclamati, nessuno ha chiesto di quei fagottini che non possono più neanche sognare un ultimo abbraccio di mamma.



Ius soli, l'evidenza negata
il manifesto, 04-10-2013
Erri De Luca
Stamattina ho letto con soddisfazione di cittadino italiano la piccola notizia che la Federazione di Hockey su Prato tessera come atleti italiani gli immigrati nati sul nostro suolo. Applicano così all'aria aperta e sull'erba il diritto naturale di essere cittadini del luogo in cui si nasce.
Da noi questa evidenza non si ammette e l'argomento si ammanta della nebbiosa formula latina: ius soli. In questo caso non importiamo termini anglosassoni, i preferiti dal linguaggio degli economisti e dei pubblicitari.
In questo caso non parliamo di birthright citizenship, cittadinanza per diritto di nascita. Non lo facciamo perché in quella lingua è norma applicata automaticamente a chi nasce sul territorio, per esempio americano, navi e aerei compresi.
Il latino allontana.
Intanto mezzo migliaio di profughi si rovesciano in mare davanti ai nostri scogli. Mezzo migliaio insaccato dentro un bastimento sta in piene acque italiane e nessuna vigilanza lo avvista: lo segnala una imbarcazione privata.
Da qualche parte ho scritto: «Li lasciamo annegare/ per negare». Con unanimità di governi continuiamo a tenere in vigore la incivile legge Bossi-Fini (ambo destro), costola peggiorativa della Turco-Napolitano (ambo sinistro). Le nostre autorità hanno promosso gli illegali respingimenti in mare, i sequestri dei pescherecci che osavano salvare naufraghi, la infamia dei campi di concentramento, Cie, per viaggiatori colpevoli di viaggio. Per supplemento di viltà quei detenuti vengono detti «ospiti», perché non esiste la fattispecie di reato. Esiste l'ignominia di imprigionare innocenti.
Intanto di mezzo migliaio di profughi rovesciati in mare ne mancano a terra la metà. E mentre scrivo i corpi di annegati sono più di cento.
Non ai lettori del manifesto, ben informati dell'andazzo, ma a chi si affacciasse per curiosità su questa pagina: vi presento la peggior Italia possibile. Sappiate che è continuamente smentita e riscattata da tutt'altra Italia. Dall'Italia civile degli abitanti di Lampedusa che è diventata avamposto di futuro e ombelico del Mediterraneo. Da un papa argentino di cognome italiano che ha svolto il suo primo viaggio pastorale a Lampedusa, rigorosamente senza codazzo di autorità nostrane. Dalla gioventù, dalle organizzazioni che si battono per la chiusura dei Cie, per il diritto di asilo.
Se alla peggiore Italia possibile disturba tanto il diritto di cittadinanza per nascita, l'accoglienza ai profughi, suggerisco di prendere esempio dalla Federazione di Hockey su Prato. Invece che profughi, immigrati, richiedenti asilo, siano dichiarati atleti. Perché lo sono: hanno superato di corsa ogni ostacolo, saltatori in lungo e in largo tra le macerie delle loro case, schivatori di proiettili, lanciatori di fagotti al volo su mezzi di fortuna, di figli da una casa in fiamme, maratoneti di deserti, tuffatori di naufragi, scalatori di gabbie di tonni, olimpionici della resistenza a tutte le intemperie, le nostre comprese.
Abbiamo amato Chaplin e Chisciotte, i viaggi di Enea, Sindbad, Ulisse, cosa ci trattiene dall'accogliere a riva con la fanfara e il pane i loro nipotini eroici e desolati?



Mare di morti, ma nessuno muove un dito
La più grande tragedia nelle acque di Lampedusa: forse 300 morti tra i migranti somali ed eritrei nel barcone andato a fuoco
Il sindaco: “Tre pescherecci non si sono fermati, per paura della Bossi-Fini”
il fatto, 04-10-2013
Furio Colombo
"Non so dove mettere i morti. Non so dove mettere i vivi”, grida alla fine della mattina il sindaco di Lampedusa. Lo grida al governo, intento a celebrare una sua festa di sopravvivenza, lo grida agli altri cittadini italiani che sono stati forzati a vivere in un mondo imbottito di politica indecifrabile, che non li riguarda, che ottunde ogni voce e ogni suono vero. La politica impedisce di sentire l’urlo della gente che muore in mare proprio qui, davanti all’Italia. Inutilmente il Papa ci aveva avvertito, andando a Lampedusa a buttare fiori ai morti, uomini giovani e disperati, donne, bambini che avevano già popolato il fondo del mare. Inutilmente aveva detto: “Non fatelo mai più”. E ha detto ieri “Vergogna!”. Le sue parole, bene accette come uno spot simpatico o come un ornamento tra gli eventi quotidiani, non sono mai arrivate né a Roma, dove si fa la politica e si discute tutto il tempo di Berlusconi e della sua prigione, né in Europa, dove si decide ogni giorno e ogni ora l’acqua alla gola del debito, ma non l’acqua che affoga(questa volta a centinaia) migranti abbandonati in mare. L’Italia è una terra popolata da gente sola e disinformata, circondata da un mare di gente morta. C’è in comune solo il terrore che nessuno arrivi in tempo a salvarti. Infatti le teste che decidono sono rivolte altrove. Sono riuscite a non notare, mentre avveniva, un disastro che stava provocando centinaia di morti. Sono riusciti a restare fermi mentre avveniva una strage di esseri umani nel mare italiano. Non parlo dei soccorritori, che hanno fatto ciò che era possibile oltre ogni limite. Parlo della mente di un paese malato, avvolto in una patologia di separazione dai fatti. C’è un’isola, Lampedusa, senza mezzi, senza forze, circondata di cadaveri che galleggiano sull’acqua e si accumulano sul molo. E un’isola, Roma, dove tutte le risorse gravitano intorno all’agibilità politica di un pregiudicato di riguardo. Ci sono leggi odiose (la Bossi-Fini) che non sono mai state cancellate. E c’è chi provvede, adesso, in Parlamento, a felicitarsi per tanti annegati, e a cogliere l’occasione per insultare il ministro dell’Integrazione perché nera, e la presidente della Camera perché indignata. È un brutto giorno per il Paese. E minaccia di protrarsi.



Quei 19.142 caduti
«I dati 2011 parlano di 571.000 rifugiati per la Germania; 210.000 per la Francia; 194.000 per il Regno Unito; 87.000 per la Svezia; 75.000 per i Paesi Bassi contro 58.000 per l'Italia»
Corriere della sera, 04-10-2013
Gian Antonio Stella
«Sul mare galleggiavano scarpe da bambino e merendine…». Tolgono il respiro le testimonianze dei soccorritori impegnati a Lampedusa a tirar su cadaveri, cadaveri, cadaveri. E noi lì, a guardare impotenti. A chiederci: cosa possiamo fare? Poco, oggi. Possiamo solo raccogliere quei corpi, chiuderli in una bara di cellophane, dire una preghiera, lasciarci strattonare da papa Francesco: «È una vergogna…».
È il momento del soccorso, della pietà e del lutto, oggi. Ma, asciugate le lacrime e sfogato lo sdegno contro quei criminali che gestiscono la tratta dei disperati e ammassano cinquecento persone su una barca di pochi metri, bisognerà poi dire basta. Ieri pomeriggio, il sito fortresseurope.blogspot.it, che da anni tiene con furente compassione il conto delle vite inghiottite dal mare, era già aggiornato: con quelli di ieri, siamo a 19.142 morti. Almeno. Più tutti quelli annegati senza avere due righe su un giornale.
La commissione migrazioni del Consiglio d'Europa ci aveva bacchettati mercoledì, rinfacciando all'Italia di non essere «in grado di gestire un flusso che è e resterà continuo» e di essere diventata «una calamita per l'immigrazione» a causa soprattutto «di sistemi di intercettazione e dissuasione inadeguati». Cioè?
Lo stesso direttore del Consiglio italiano per i rifugiati Christopher Hein, che suggerisce come unica possibilità la creazione di percorsi sicuri che sottraggano chi ha diritto all'asilo ai trafficanti di anime, confessa: «Non ho capito cosa propongano, lassù. Il fatto è che i barconi approdano qui, non in Gran Bretagna o in Olanda». Vogliamo tornare al cinismo dei respingimenti, che violando la Convenzione di Ginevra del 1951 e la stessa Costituzione delegavano il lavoro sporco agli aguzzini di Gheddafi i quali secondo la Chiesa violentavano l'85% delle donne in viaggio verso il sogno europeo? Davvero è quella la soluzione? Il messaggio «non veniteci a morire sotto gli ombrelloni»?
Guai a voi, ha detto Strasburgo. Con varie sentenze di condanna. Il problema, però, resta intatto. E quella Europa che ogni giorno pretende d'aver bocca nelle nostre scelte perché riguardano tutti non è poi ansiosa di spartire con noi la rogna delle frontiere Sud.
Sia chiaro, come ricorda lavoce.info, gran parte di quanti sbarcano proseguono verso Nord: «I dati 2011 parlano di 571.000 rifugiati per la Germania; 210.000 per la Francia; 194.000 per il Regno Unito; 87.000 per la Svezia; 75.000 per i Paesi Bassi contro 58.000 per l'Italia». In rapporto alla popolazione, certi strilli xenofobi sono ancora più immotivati: ogni mille abitanti ci sono 9 rifugiati in Svezia, 7 in Germania, 4,5 nei Paesi Bassi e in fondo in fondo ci siamo noi: uno.
Ma quelle ondate di sbarchi non possono essere un problema italiano. Riguardano tutti. E come il sindaco di Lampedusa invoca Letta «venga a contare i morti con noi» per urlare il senso di solitudine, lo stesso urlo dovrebbe essere girato a Bruxelles. Vengano a contare i morti nel Mare Nostrum. Sono anche l



Che cosa si prova a essere un profugo
la Repubblica, 04-10-2013
MAREK HALTER
SONO stato io stesso un profugo, alla ricerca della libertà. Avevo 7 anni e fuggivo dal ghetto di Varsavia con la mia sorellina e i miei genitori. Approdammo a Mosca, da lì Stalin ci spedì in Uzbekistan.
Era il 1940, e di quella spaventosa odissea ricordo ovviamente la fame, o meglio, l’insopportabile dolore fisico che provocava la fame. Ma quello che mi affliggeva maggiormente era sentire che non eravamo mai i benvenuti. Ogni volta che arrivavamo in un villaggio, venivamo arrestati da una pattuglia dell’Armata rossa, e i soldati ci urlavano: «Tornatevene da dove venite». Ma tornare indietro, per noi significava finire in una camera a gas e bruciare in un forno.
A questo ho pensato appena ho saputo della spaventosa sciagura di Lampedusa. Come allora la mia famiglia, anche gli africani che sono morti ieri non potevano tornare indietro. I disgraziati che arrivano dall’Africa sulle carrette del mare, mi ricordano anche un’altra tragedia alla quale ripenso spesso. Siamo nel 1938, e decine di migliaia di ebrei cominciano a fuggire dalla Germania nazista, dalla Cecoslovacchia già annessa da Hitler e dall’Austria. Ma nessuno li vuole. La Società delle Nazioni organizza allora una conferenza a Evian per decidere che cosa fare di questi rifugiati. Un solo Paese al mondo è pronto a riceverli, la Repubblica domenicana! Gli Stati Uniti dicono che non possono superare la loro quota di immigrati, la Gran Bretagna non voleva che questi ebrei raggiungessero la Palestina, la Francia ospitava già troppi ex repubblicani spagnoli, l’Italia non si pronunciò neanche. La prima domanda che sorge spontanea è la seguente. Quali progressi ha compiuto l’umanità dal 1938 a oggi? E la risposta
è purtroppo una sola: non ne abbiamo compiuto alcuno.
Certo, davanti alla strage di Lampedusa, tutti s’indignano o si dicono sconvolti da tanto orrore, il Papa per primo. C’è un’altra domanda alla quale dobbiamo subito dare una risposta. Che cosa possiamo fare per impedire che ciò avvenga di nuovo. Come fermare queste migrazioni dall’Africa di chi fugge guerre tra clan, conflitti religiosi, corruzione, disoccupazione, carestie? È la pulsione vitale degli africani che li spinge a lasciare il loro inferno: lo fanno attraversando a piedi il deserto del Sinai diretti verso Israele, o mettendosi nelle mani dei mercanti di morte che li caricano su vecchi pescherecci per arrivare dall’altro lato del Mediterraneo.
Che fare, allora? Come prima cosa, credo che sarebbe indispensabile trascinare davanti alla Corte penale internazionale quei leader africani responsabili dei disastri umanitari che affliggono il Continente nero. Se il mondo avesse potuto fare lo stesso con Hitler, quando questi decise di conquistare l’Europa, milioni di vite sarebbero state risparmiate. Come secondo punto, andrebbero riuniti i Paesi più ricchi del pianeta per dichiarare d’urgenza un piano Marshall per l’Africa, controllato ovviamente dai donatori, e che stabilirebbe che chi sfrutta le risorse locali dovrà impiegare lavoratori africani (e non come fa Pechino, per esempio, che nelle enormi regioni che ha acquistato in Congo, Zambia o Angola importa mano d’opera dalla Cina). Infine, dovremmo organizzare una nuova conferenza di Evian, dove tenendo a mente quanto accadde nel 1938, i Paesi più sviluppati potranno dividersi quei migranti che continueranno ad arrivare in Europa, in attesa che si concretizzino le iniziative più virtuose per salvare il Terzo e il Quarto mondo.
I più pessimisti diranno che queste sono soluzioni utopistiche. Ma quando avvengono tragedie di questa portata ogni soluzione può sembrare tale. L’importante è reagire. Il mondo non ha mosso un dito per salvare i rifugiati armeni che fuggivano dal genocidio turco, né gli ebrei dalla shoah, né i cambogiani massacrati dai khmer rossi o i tutsi fatti a pezzi dagli hutu in Ruanda.
L’Occidente deve rendersi conto che agire è nel suo proprio interesse, perché prima o poi, anche se molti migranti continueranno a morire per strada, saranno sempre più numerosi quelli che arriveranno nel nostro mondo ricco. E poi, siamo tanti su questo pianeta, più di sette miliardi di umani. Che ci vuole a spartirsi quel milione di rifugiati che provengono dai Paesi più poveri? Che ci costa nutrirli, scaldarli, offrire loro un tetto sotto cui rifugiarsi per evitare che muoiano annegati o bruciati sui barconi dei mercanti di morte.
Dall’Uzbekistan, alla fine della guerra sono finalmente arrivato a Parigi. Ho cominciato a conoscere la libertà imparando il francese. Ancora oggi, uso questa lingua nella speranza di far qualcosa per la libertà degli altri. Anche perché non dimenticherò mai l’orrore che si prova quando fuggi dall’inferno credendo di trovare il paradiso, ma è in un altro inferno in cui ti trovi. Proprio come è accaduto ieri a quei poveri disgraziati.



Ora svolta umana
Avvenire,04-10-2013
Marco Tarquinio
Ci siamo abituati a tutto in questi anni. Anche ai morti annegati, persino ai morti a decine, litania feroce della distanza incolmata tra noi e «loro», uomini, donne e bambini che, da sud, ostinatamente, premono alle porte della nostra “casa” italiana ed europea. A scuoterci, ogni tanto, l’approdo drammatico di corpi sulle normali spiagge delle vacanze e, dunque, non solo laggiù, lontano, a Lampedusa, dove la generosità civile e cristiana di un pezzo d’Italia fatto di roccia e buona gente monda la coscienza d’un Paese intero e di mezza Europa. E ora ancora una volta a Lampedusa, più forte, più sconvolgente, la morte di “quelli che non contano” è venuta a mostrarci il suo viso più tremendo. Quello che, dice il Papa, ci chiama a vergogna.
Per non continuare a essere quelli abituati a tutto, anche alle stragi che si sanno ma non si vedono, e soprattutto a quelle che non ci si decide a vedere. Stragi che si consumano senza alcuna eco nel Canale di Sicilia – su “Avvenire” ci è toccato di raccontarne di terribili, una in particolare (era il maggio 2009) in piena era di “respingimenti ciechi” in mare aperto, quasi seicento creature inghiottite dalle acque che magistrati italiani scoprirono solo a causa delle ciniche e tronfie conversazioni tra alcuni boss del traffico di carne e di anime attraverso il Mediterraneo. Stragi frutto di guerre dimenticate o troppo tollerate – ormai non sono solo le guerre roventi fatte con armi sempre più distruttive, ma anche quelle algide condotte con gli artigli e le zanne della speculazione economica. Tragedie vere, che sradicano dalla patria persone e famiglie intere e le scaraventano sulle strade d’Asia e d’Africa e, infine, mettono i più sprovveduti e disperati su incerte vie d’acqua tra le due sponde del nostro mare.
Scandalo immenso, certo, è questa dura, vasta e vergognosa assuefazione alla sofferenza e all’estrema povertà altrui. Ma addirittura più grande è lo scandalo dell’inerzia infine disumana della politica italiana ed europea. In queste ore si parla di far funzionare Frontex , un sistema di polizia anti-trafficanti. E, se accadrà, non sarà un male. Ma il bene indispensabile è ben altro. Gli occidentali – europei e americani – che, in questi anni, sono stati purtroppo solo capaci di portare la guerra in terra nordafricana, si decidano a sostenere totalmente l’azione per stroncare su quella sponda mediterranea il traffico di esseri umani e per aprire, lì, sotto bandiera Onu, luoghi civili di raccolta per le persone migranti e canali umanitari di transito dei profughi e dei richiedenti asilo verso l’Europa. È tempo di una svolta umana. Si può compierla, e si deve.



Gli scafisti siamo noi
il manifesto, 04-10-2013
Fulvio Vassallo Paleologo
EUROCINISMI. Dopo questa strage, la più grave degli ultimi anni, le principali autorità pubbliche, tranne rare eccezioni, stanno proponendo il peggio del repertorio sicuritario, anche se ancora una volta le vittime sono tutte, evidentemente, potenziali richiedenti asilo.
Ma per qualcuno se non attentano alla sicurezza sono un pericolo per la sopravvivenza dei disoccupati. Ancora guerra tra poveri alimentata ad arte da chi vuole nascondere le vere responsabilità della crisi. Ma questa volta, forse, non potranno dire che «se la sono andata a cercare», come hanno fatto in passato. O dimenticarli subito, come al solito.
Se la prendono solo con gli scafisti per nascondere le loro responsabilità, le responsabilità istituzionali, a partire da Napolitano, dagli organi periferici che «detengono per accogliere» e accolgono in centri informali di trattenimento. Responsabilità estese che vanno dalle istituzioni europee capaci solo di rinforzare le missioni antimmigrazione di Frontex ai tanti prefetti che ritengono che tra questi disperati alcuni, come gli egiziani, possano essere rimpatriati con un volo charter anche poche ore dopo l'ingresso nel territorio dello stato. Come se la corte Europea dei diritti dell'Uomo non avesse mai condannato l'Italia per i respingimenti in Libia, dei quali Maroni si vantava ancora pochi giorni fa, come se il Consiglio d'Europa non avessecontinuato a criticare le politiche dell'Italia in materia di asilo e immigrazione.
L'inasprimento dei controlli di frontiera ha già prodotto centinaia di morti, vogliono continuare ancora nella stessa direzione. Una gigantesca vigliaccata. Una pedagogia del cinismo collettivo. È partita per l'ennesima volta una straordinaria campagna di disinformazione che addita come responsabili di questa strage i soliti scafisti, o quei migranti che per farsi vedere avrebbero dato fuoco a una coperta. La responsabilità di questa immane tragedia non ricade sugli scafisti ma sui governanti europei che pensano solo alle misure di contrasto dell'immigrazione clandestina, l'unica che hanno reso possibile e che adesso pensano solo a rinforzare la missione Frontex. Come mai nessuno li ha visti prima? Come mai questo barcone non è stato segnalato dai radar? Potevano essere tutti salvi se non fossero stati costretti a rotte sempre più pericolose. In passato queste barche entravano in porto direttamente a Lampedusa o a Siracusa. Oggi scappano tutti, puntano verso i tratti della costa più idonei a fuggire, per non restare intrappolati nei centri di accoglienza/detenzione in Sicilia. Dai quali sono già fuggiti a centinaia, anche minori non accompagnati, alimentando un altro giro del racket. E l' Europa rimane cinicamente a guardare e invia «intervistatori» che pressano i migranti appena sbarcati per conoscere le tappe del loro viaggio, nell'improbabile ricerca delle reti criminali che li hanno gestiti. Di quelli che sono ancora in attesa della partenza, incarcerati o massacrati nei deserti della Libia o presi a fucilate dalla polizia egiziana non interessa niente a nessuno.
Occorre promuovere da subito una campagna per il diritto di asilo europeo e sostituire le missioni Frontex per il contrasto dell'immigrazione clandestina, con missioni internazionali al solo scopo di salvataggio dei profughi in mare. Consentire visti di ingresso in Europa nei paesi di transito e sospendere il Regolamento Dublino 2. Gli stati dell'Unione Europea hanno il dovere di aprire corridoi umanitari dalla Siria, dall'Egitto e dalla Libia. Che i profughi possano partire per l'Europa con un visto di ingresso. Tutto il resto, compresa la caccia agli pseudo scafisti, cementa omertà e riproduce emarginazione sociale e clandestinità. Per qualcuno è meglio che muoiano o che fuggano dai centri di prima accoglienza rendendosi invisibili.
Basta con le stragi conseguenz a delle politiche di sbarramento della fortezza Europa. E basta con l'inutile pietismo delle visite ufficiali che lasciano immutate tutte le condizioni che hanno permesso queste tragedie, a partire dagli accordi bilaterali con paesi come Malta, Tunisia, Libia, Egitto, accordi stipulati e attuati al solo scopo di bloccare la cosiddetta immigrazione clandestina. Chi li mantiene in vigore non pianga una sola lacrima su questi morti.



Christopher Hein, presidente del Centro italiano per i rifugiati: «Ai rifugiati va garantito l’ingresso protetto»
«Non c’è altro modo per fermare questa carneficina, che si ripete con una regolarità spaventosa»
«Assurdo pensare di fermare i flussi di chi fugge dalle persecuzioni. I flussi vanno gestiti»
l'Unità, 04-10-2013
intervista di U.D.G.
«Dolore, innanzitutto, per le vittime di questa immane tragedia. Ma anche preoccupazione e indignazione. Quest’anno abbiamo visto un fortissimo intensificarsi degli sbarchi e l’aprirsi di nuove rotte migratorie, come quelle che stanno portando nel nostro Paese i siriani. Rotte pericolose e percorse con barche inadeguate, guidate da trafficanti senza scrupoli. E la maggior parte di chi sta arrivando a Lampedusa, sulle coste della Sicilia e della Calabria sono persone in fuga da guerre e conflitti, sono siriani, eritrei e somali. Ormai è chiaro: o continuiamo ad assistere a questa carneficina o per evitare che i rifugiati continuino a mettere a rischio la loro vita per arrivare in Europa dobbiamo dare loro delle alternative di ingresso protetto».
A sostenerlo è Christopher Hein direttore del Centro italiano per i rifugiati (CIR) «Altrimenti dice l’unica possibilità che diamo loro è quella di attraversare un mare che continua a inghiottire vite. E non credo che questa sia una posizione ancora sostenibile per Paesi democratici e civili». «Quanto a questa tragedia aggiunge il direttore del Cir c’è una domanda che attende risposta: Come è possibile che una barca di queste dimensioni, rimanga inosservata per giorni e giorni nel Canale di Sicilia?». «Mi viene una sola parola: Vergogna!». Così Papa Francesco reagisce alla immane tragedia di Lampedusa. Condivide questo grido d’allarme e di indignazione lanciato dal Pontefice?
«Assolutamente sì. Vergogna, certo, perché non siamo di fronte a un terremoto, a uno tsunami, a un disastro naturale. No, siamo di fronte ad una tragedia annunciata. Annunciata da altre, sia pur con un bilancio di vittime meno devastante, tragedie che negli ultimi venti anni, hanno fatto del Mediterraneo la tomba di oltre 20mila persone. Ciò che oggi sconvolge, è una tragedia che si ripete con una regolarità spaventosa. Mi auguro che un disastro di queste dimensioni provochi una scossa di coscienza, alla quale devono seguire politiche concrete».
Quali, ad esempio? Più in generale, qual è, a suo avviso, l’approccio giusto, più efficace per fronteggiare queste «tragedie annunciate»?
«I flussi di chi è costretto a fuggire dalle persecuzioni non si possono fermare, per questo è indispensabile gestirli. La possibilità di richiedere asilo in Italia e nell’Unione Europea ad oggi dipende dalla presenza fisica della persona nel territorio di uno Stato membro. Ma le misure introdotte nell’ambito del regime dei visti e delle frontiere dell’Ue hanno reso praticamente impossibile per quasi tutti i richiedenti asilo e rifugiati raggiungere i territori dell’Ue in modo legale».
Come intervenire concretamente su questo nodo cruciale?
«Ci sono diverse modalità con cui i richiedenti asilo e rifugiati potrebbero entrare in Europa in modo regolare, ma sono poco utilizzate dagli Stati europei: il reinsediamento di rifugiati da un Paese di primo asilo, le operazioni di trasferimento umanitario attivate nel contesto di emergenze umanitarie, l’uso flessibile dei visti e le procedure di ingresso protetto che consentono ad un cittadino di uno Stato terzo di poter chiedere asilo già nel Paese di origine o di transito. L’Italia e l’Europa devono dotarsi di questi strumenti: è un passaggio indispensabile per cercare di dare alternative alla lotteria della morte del Mediterraneo». Cos’altro è possibile fare per dare un senso concreto alle tante parole che stanno accompagnando la tragedia di Lampedusa?
«Bisogna anche esigere che nei Paesi terzi di transito, come la Libia, siano create le condizioni, conformi al Diritto internazionale, affinché rifugiati possano ottenere protezione lì. Così non è. Registriamo, infatti, che attualmente in Paesi di transito, come appunto la Libia, a queste persone continua ad essere riservato un trattamento disumano, senza alcuna possibilità di ottenere protezione: ciò avveniva sotto Gheddafi, e ciò continua ad accadere della «nuova Libia». Va sottolineato, peraltro, che tra le circa 25mila persone arrivate via mare in Italia, da gennaio ad oggi, c’è un numero crescente di rifugiati e un numero relativamente molto minore di migranti per motivi economici. Coloro che muoiono in mare fuggono da guerre, persecuzioni, pulizie etniche. Non dobbiamo dimenticarlo. Mai. Perché anche questi non sono “disastri naturali”».



Un canale umanitario per il diritto d’asilo europeo
l'Unità, 04-10-2013
Flore Murard-Yovanovitch
Oggi, non scriverò della strage di Lampedusa, preferisco sottoscrivere e ripubblicare questo appello di Melting Pot per l’apertura immediata di un canale umanitario per il diritto d’asilo europeo.
Ai Ministri della Repubblica, ai presidenti delle Camere, alle istituzioni europee, alle organizzazioni internazionali,
A cadenza ormai quotidiana la cronaca racconta la tragedia che continua a consumarsi nel mezzo del confine blu: il Mar Mediterraneo.
Proprio in queste ore arriva la notizia di quasi un centinaio di cadaveri raccolti in mare, ragazzi, donne e bambini rovesciati in acqua dopo l’incendio scoppiato a bordo di un barcone diretto verso l’Europa.
Si tratta di richiedenti asilo, donne e uomini in fuga da guerra e persecuzioni, così come gli altri inghiottiti da mare nel corso di questi decenni: oltre 20.000.
Lo spettacolo della frontiera Sud ci ha abituato a guardare l’incessante susseguirsi di queste tragedie con gli occhi di chi, impotente, può solo sperare che ogni naufragio sia l’ultimo. Come se non vi fosse altro modo di guardare a chi fugge dalla guerra che con gli occhi di chi attende l’approdo di una barca, a volte per soccorrerla, altre per respingerla, altre ancora per recuperarne il relitto.
Per questo le lacrime e le parole dell’Europa che piange i morti del confine faticano a non suonare come retoriche.
Perché l’Europa capace di proiettare la sua sovranità fin all’interno del continente africano per esternalizzare le frontiere, finanziare centri di detenzione, pattugliare e respingere, ha invece il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far si che chi fugge dalla morte per raggiungere l’Europa, non trovi la morte nel suo cammino
Si tratta invece oggi di “esternalizzare” i diritti. Di aprire, a livello europeo, un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee in Libia, in Egitto, in Siria o lì dove è necessario (presso i consolati o altri uffici) senza doversi imbarcare alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei naufragi.
Alle Istituzioni italiane, ai Presidenti delle Camere, ai Ministri della Repubblica, chiediamo di farsi immediatamente carico di questa richiesta.
Alle Istituzioni europee di mettersi immediatamente al lavoro per rendere operativo un canale umanitario verso l’Europa.
Alle Associazioni tutte, alle organizzazioni umanitarie, ai collettivi ed ai comitati, rivolgiamo l’invito di mobilitarsi in queste prossime ore ed in futuro per affermare
IL DIRITTO D’ASILO EUROPEO
Progetto Melting Pot Europa



“Su quel barcone avrei potuto esserci io e adesso cancelliamo la Bossi-Fini”
 Il ministro al Carroccio: che tristezza speculare sulla tragedia  
la Repubblica, 04-10-2013
Vladimiro Polchi
ROMA — «Su quella barca, al posto di quei disperati, ci potevo essere io. È una tragedia immane, un dolore terribile che mi paralizza». Cécile Kyenge perde il suo abituale tono fermo. Il ministro dell’Integrazione parla con voce commossa, perché «quei morti ce li abbiamo tutti sulla coscienza». Le cose ora devono cambiare: «Per un ministro il dolore deve trasformarsi in azione. Basta vittime. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso: bisogna rivedere tutte le nostre norme sull’immigrazione e serve una legge sui richiedenti asilo».
Ministro, i morti di Lampedusa chiamano dunque in causa anche le vecchie politiche migratorie del nostro Paese?
«Il Consiglio d’Europa ha appena giudicato sbagliate le nostre politiche sui flussi migratori. La legge deve cercare di rispondere a questo grande fenomeno naturale. Per questo bisogna rivedere le norme sull’immigrazione, a partire dalla legge Bossi-Fini, coinvolgendo tutti i ministri interessati. Dobbiamo anche contrastare le organizzazioni criminali che fanno la tratta delle persone. Poi bisogna rivolgersi all’Europa».
Perché l’Italia è sola?
«Diciamo che dobbiamo fare capire all’Europa che il problema è comunitario. Il tema dell’immigrazione sarà sicuramente al centro del nostro semestre di presidenza Ue. Bisogna chiedere un intervento condiviso dall’Europa, a partire dall’adozione di canali umanitari che rendano più sicuri questi viaggi, dove organizzazioni criminali lucrano sulla pelle di uomini, donne e bambini. Si deve anche rivedere la convenzione di Dublino, perché tutti i Paesi europei devono gestire i profughi».
Ma lei in concreto cosa intende fare?
«Domenica andrò a Lampedusa. La tragedia mi ha suscitato un senso di impotenza. Ma un ministro non è un privato cittadino. Ha l’obbligo di agire. In quanto istituzione devo lavorare per politiche d’accoglienza e legalità. Con gli altri ministri dobbiamo impegnarci a uscire dall’emergenza per costruire una politica dell’immigrazione strutturata e di lungo periodo».
Nell’immediato cosa farete per aiutare i sopravvissuti?
«Dobbiamo subito mettere in piedi una struttura di coordinamento interministeriale tra Interno, Integrazione, Infrastrutture e Trasporti, Esteri e Difesa, in stretta relazione con la presidenza del Consiglio, al fine di soccorrere i profughi e aiutare comuni e comunità locali che sono in prima linea. Abbiamo la responsabilità di stare vicino alle persone che sono impegnate a dare sostegno e solidarietà a chi sta fuggendo da gravi pericoli».
Per Gianluca Pini, vicepresidente della Lega Nord a Montecitorio, «la responsabilità morale della strage è tutta della coppia Boldrini-Kyenge». Cosa risponde?
«Nel momento del dolore è triste vedere che c’è chi specula su delle vite umane. Oggi è stato segnato un punto di non ritorno rispetto alla Lega. Se uno vuole prendere il palcoscenico, non è questo il momento per farlo. Imputare la responsabilità morale di quanto sta avvenendo a me e alla presidente Boldrini è non solo offensivo verso di noi, ma lo è per le vittime, per la coscienza dei cittadini italiani e degli abitanti dei paesi che più si stanno adoperando per dare sostegno ai profughi ».
Cosa cambierà dopo questa tragedia?
«Non si potranno più chiudere gli occhi. Si devono riformare le leggi. Si devono rispettare le vittime, senza speculare sui morti e senza farne oggetto di una campagna di propaganda politica. Ma è anche un problema di approccio».
In che senso?
«Nel senso che dobbiamo affrontare il fenomeno migratorio con un’altra ottica, diversa da quella dell’inizio degli anni ‘90. I tempi sono cambiati, il fenomeno dell’immigrazione non è più transitorio, è sempre più stabile e strutturato. Parliamo di profughi, persone che fuggono da una situazione di miseria, conflitti, guerre, e hanno diritto a una protezione. Per questo serve anche una legge sui richiedenti asilo».



Kater I Rades 1997, la strage che fu l'humus della Bossi-Fini
il manifesto, 04-10-2013
Tommaso Di Francesco
Napolitano senza memoria/ «PRESIDIO MILITARE DEI PORTI DI PROVENIENZA»
Il presidente della repubblica Giorgio Napolitano anche su questa tragedia traccia la linea da percorrere, in maniera bipartisan e con chiaro riferimento all'Unione europea: «È indispensabile stroncare il traffico criminale di esseri umani in cooperazione con i paesi di provenienza dei flussi di emigranti e richiedenti asilo. - ha dichiarato - Sono pertanto indispensabili presidi adeguati lungo le coste da cui partono questi viaggi di disperazione e di morte». Presidi militari.
Come se non avesse più memoria della tragedia della Kater I Rades del 28 marzo 1997, che lo coinvolse direttamente in qualità di ministro degli Interni del primo governo Prodi di centrosinistra. Quando in un clima di isteria contro gli albanesi che arrivavano con le carrette a mare, con la Lega Nord - ben rappresentata da Irene Pivetti allora a capo del parlamento - che chiedeva espressamente di sparare sulle navi dei profughi e di ributtarli a mare, una nave militare italiana speronò in acque internazionali la carretta del mare Kater I Rades, provocandone l'affondamento con la morte di oltre cento persone, molte delle quali donne e bambini. Fuggivano tutti dalla guerra civile che era scoppiata in Albania contro il fallimento delle Piramidi finanziarie e contro il premier Sali Berisha che le aveva promosse.
La Sibilla era tra le navi italiane impegnate in un «blocco» deciso dal governo Prodi in accordo con quello albanese di Sali Berisha senza l'assenso del parlamento e senza che ancora fossero conosciute le regole d'ingaggio delle forze militari impegnate nell'operazione di «respingimento e dissuasione» dei profughi albanesi in fuga. La versione dei fatti fornita dalla Marina militare apparve subito lacunosa. Risultò che la Sibilla si era avvicinata al cargo albanese che era in evidenti condizioni precarie di navigazione, nonostante il mare mosso, per «consigliare» con un megafono all'imbarcazione di tornarsene in Albania. Nelle condizione del mare a forza cinque, una nave militare delle dimensioni e della stazza della Sibilla era tenuta a rispettare una distanza di sicurezza di almeno cento metri. Cosa quasi impossibile e che infatti non avvenne.
Al dilà dei fatti accaduti «a mare» resta ancora adesso tutta quanta la responsabilità, oggettiva e politica, del governo di allora per il «pattugliamento navale» - il «presidio» che continua a chiedere Napolitano - e la finalità per la quale era stato organizzato. Fu subito un rimpallo di responsabilità. Colpa di Andreatta alla Difesa? No, colpa di Napolitano agli Interni che, con il decreto d'emergenza e le espulsioni, aveva messo in moto il meccanismo del blocco navale. Una cosa sola fu certa: quelle misure vennero prese da tutto il governo. Il primo governo di centrosinistra, con i Ds (allora Pds) in posizione dominante, si era messo d'accordo con un personaggio impresentabile come Berisha, per un blocco navale e per l'invio di una forza militare che intanto lo sostenesse.
Un «muro» di navi da guerra, dinanzi alle coste albanesi per interdire la navigazione ai profughi diretti verso l'Italia in fuga dalla guerra civile albanese, deciso senza mandato parlamentare, con l'opposizione di forze della maggioranza di governo come Rifondazione comunista (tutta, ancora non c'era stata la rottura) e i Verdi. E con l'aperta ostilità dell'Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati , Fazlum Karim. Ecco l'humus da cui prese le mosse la Bossi-Fini. E pensare che il governo italiano, replicando al rappresentante dell'Onu, aveva escluso, mentendo, l'esistenza del blocco navale.



Immigrazione: 11 anni della legge Bossi-Fini in Italia
La storia dell'attuale normativa sull'immigrazione entrata in vigore il 10 settembre 2002 nel corso del secondo governo Berlusconi
Stranieriinitalia.it, 04-10-2013
Roma, 4 ottobre 2013 - La tragedia avvenuta ieri mattina al largo di Lampedusa riaccende la polemica sul tema dell'immigrazione e sulla necessita' o meno di modificare la legge Bossi-Fini.
Entrata in vigore il 10 settembre 2002, nel corso del secondo governo Berlusconi, e che prende il nome dall'allora leader della Lega Nord Umberto Bossi e da quello di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, primi firmatari che ricoprivano rispettivamente le cariche di ministro per le Riforme istituzionali e la Devoluzione e vicepresidente del Consiglio dei ministri.
La legge divide subito l'opinione pubblica e i partiti (alcuni di questi, come il Carroccio, ne hanno fatto un baluardo della loro lotta politica, altri ne chiedono l'abolizione), e numerosi sono stati i richiami da parte del Consiglio d'Europa e degli organismi internazionali.
La 'Bossi-Fini' nei fatti non e' riuscita a frenare gli ingressi e ha provato invece a ridurre la permanenza sul territorio degli immigrati. L'esatto contrario di quanto suggerito dall'Unione Europea che chiede politiche di integrazione per chi e' gia' all'interno di un Paese e flussi di ingresso piu' contenuti. Si fa riferimento dunque alla convenzione di Schengen del 1990 che abolisce le frontiere interne ai Paesi Ue stabilendo la libera circolazione delle persone. L'eliminazione delle frontiere interne richiede invece una gestione rafforzata delle frontiere esterne dell'Unione nonche' un ingresso e un soggiorno regolamentati dei cittadini extra UE, anche attraverso una politica comune di asilo e immigrazione.
La legge Bossi-Fini stabilisce di dare il permesso di soggiorno a chi ha un lavoro che gli consenta il mantenimento economico. La norma ammette i respingimenti al Paese di origine in acque extraterritoriali, in base ad accordi bilaterali fra Italia e Paesi limitrofi che impegnano le polizie dei rispettivi Paesi a cooperare per la prevenzione dell'immigrazione clandestina e per chi non puo' avere un regolare permesso di soggiorno. Le navi di clandestini non possono attraccare sul suolo italiano, l'identificazione degli aventi diritto all'asilo politico e a prestazioni di cure mediche e assistenza avvengono nei mezzi delle forze di polizia in mare. Per tale ragione gli immigrati si gettano in mare dai barconi provando ad arrivare a riva ma spesso trovano la morte.
La legge prevede inoltre pene per i trafficanti di esseri umani, una sanatoria per colf, assistenti ad anziani, malati ed portatori di handicap, lavoratori con contratto di lavoro di almeno un anno e l'uso delle navi della Marina Militare per contrastare il traffico di clandestini. A queste regole generali si aggiungono i permessi di soggiorno speciali e quelli in applicazione del diritto di asilo. Ma Amnesty International ha evidenziato nel Rapporto Annuale 2006 che, nonostante l'Italia aderisca alla Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati, la legge Bossi-Fini non e' considerabile una legge specifica e completa sul diritto di asilo, come previsto dall'articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che riconosce il diritto di cercare e di godere in altri Paesi di asilo dalle persecuzioni e riconosce lo status di 'rifugiato politico' a chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese e non possa ritornarvi a causa del fondato timore di subire violenze o persecuzioni. Il riconoscimento di tale status giuridico deve essere attuato dai governi che hanno firmato specifici accordi con le Nazioni Unite, o dall'UNHCR, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Il centrodestra, tornato al governo nel 2008 con un esecutivo targato Pdl e Lega Nord, ha varato il cosiddetto ''pacchetto sicurezza'', legge voluta fortemente dal Carroccio che continuava ad avere la lotta all'immigrazione come punto caratterizzante del suo programma. Le nuove norme danno piu' potere ai Sindaci e alla polizia locale: il primo cittadino puo' adottare provvedimenti urgenti al fine di prevenire ed eliminare pericoli che minacciano l'incolumita' pubblica e la sicurezza urbana e puo' segnalare alle autorita' gli stranieri irregolari. Il giudice puo' decidere di aumentare la pena fino ad un terzo qualora il reato sia commesso da un imputato straniero, presente in Italia in situazione di irregolarita'. La riforma prevede poi che il giudice possa disporre l'espulsione del cittadino straniero - anche comunitario - a seguito di condanna alla reclusione superiore a due anni e stabilisce pene piu' severe per chi contravviene all'ordine di espulsione: da uno a quattro anni di carcere. L'inasprimento delle pene si estende anche al mercato del lavoro in nero e all'impiego di stranieri irregolari ed e' previsto il carcere anche per chi affitta la casa a stranieri irregolari. I Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) cambiano nome trasformandosi in Centri di identificazione ed espulsione (CIE). In merito al commercio abusivo, la legge prevede che l'autorita' giudiziaria possa, con piu' facilita', ordinare la distruzione di merci di cui sono vietati la fabbricazione, il possesso e la detenzione o la commercializzazione quando sono di difficile custodia o la custodia risulta costosa o pericolosa.



Lo sguardo ingiusto
Avvenire, 04-10-2013
Marina Corradi
Quel fuoco acceso su una barca gremita a forse un miglio da terra, era uno struggente segnale nel buio: siamo qui, siamo in tanti, aiutateci. Ma sul ponte bagnato di benzina le fiamme hanno attecchito subito, voraci, incollandosi ai vestiti, ai giubbotti dei naufraghi. E nella calca spaventevole – le madri, ve le immaginate le madri che cercavano di tenersi stretti i bambini? – fra le urla, nel riverbero infernale delle fiamme, il barcone ha oscillato paurosamente e si è capovolto.
E di nuovo grida strazianti, e implorazioni in lingue diverse, e straniere; sempre più flebili, e poi più nulla. «Non sappiamo dove mettere i morti», piangevano ieri i soccorritori a Lampedusa. Già, è davvero molto piccolo quell’estremo scoglio d’Italia, per un simile battaglione di morti. E noi si resta zitti davanti alla tv a guardare l’ultima strage, e le fila di cadaveri composti nei sacchi sul molo dell’isola; si resta zitti per pietà e sgomento, e non avendo parole, e nemmeno poi sapendo che cosa concretamente potrebbe fermare questi massacri.
Eppure, mentre si proclama il lutto nazionale, scopri, scorrendo i commenti dei lettori su un sito online molto frequentato, che c’è un’Italia che guarda a quei morti con tutt’altro sguardo. A metà pomeriggio l’intervento più votato è quello di un lettore che si firma Skinsteal e che scrive: «Mentre gli incompetenti di Roma si preoccupano a tirare a campare e mantenere il sedere caldo sulle loro poltrone, noi assistiamo all’invasione di "migranti" senza fiatare. Siamo un Paese F I N I T O». Alle 18 erano più di trecento le adesioni a questo commento, il più votato. E certo, molti lettori di quel sito online hanno risposto con durezza a Skinsteal; meno, però, di quanti ne condividono il giudizio.
Perché la verità è che nel ventre di questa Italia dell’ottobre 2013, di fronte a un’ecatombe di essere umani, c’è chi si preoccupa, invece, di quanti sono scampati: «Il problema adesso sono i sopravvissuti che dovremo mantenere a nostre spese. 50 euro al giorno se non mi sbaglio. C´è qualche buonista che è disposto a farsi prelevare 50 euro ogni giorno?», scrive un tale che si firma "Genuino", e raccoglie una dozzina di "mi piace".
Così nella pancia dell’Italia, quelle che si confessa on line protetta dall’anonimato, in un giorno di tragedia si avverte che la pietas cristiana non è più così del tutto condivisa.
Né sembra, il dibattito sul web, ordinabile in un sentire di destra o di sinistra, ma invece in un confuso vociare carico di paura e di rabbia: rabbia perché ci si sente più poveri, e si teme che "quei là" vengano a strapparci ciò che ci resta; paura di facce e lingue nuove, come se temessimo di essere, in una tale babele, cancellati. C’è un’Italia che anche davanti a centinaia di morti grida alla "invasione". Mentre altre voci certo, ma meno numerose, domandano pietà, e che ci si ricordi che siamo anche noi, da secoli, migranti; mentre il mondo dell’associazionismo cattolico e laico reagisce con la prontezza e la generosità di sempre.
Eppure, troppo forte è il contrasto fra quei corpi allineati a Lampedusa e questo brusio di commenti cinici. Come dettati da una impossibilità assoluta di concepire da cosa si fugga, da quale violenza e miseria, per imbarcarsi con i figli su una carretta sfasciata e sfidare la morte (perché, restando, per molti la morte sarebbe semplicemente una certezza). E dunque, meglio salire su quelle barche, stringersi a centinaia, navigare nel buio, pregare, e intravedere infine le luci della terra. E allora eccitati, credendo d’esser salvi, accendere un fuoco per dire: siamo qui, salvateci. E il fuoco invece, che in un istante divora.
"Chi ha pianto?", aveva chiesto il Papa a Lampedusa, alludendo agli ultimi morti. E certo essere addolorati è poco, e non salva vite umane, ma almeno testimonia una compassione e una solidarietà fra uomini. Ciò che si muove anonimo nelle viscere del web è invece anche altro: una grettezza, una eclisse di pietà cui trent’anni fa non avremmo creduto. Qualcosa, come ci dice ancora il Papa, di cui davvero vergognarci.
Oggi, festa di san Francesco patrono d’Italia, con il Papa ad Assisi, è lutto nazionale. Un sovrapporsi di date doloroso e singolare, che quasi turba. Pregheremo per quei poveri migranti. Ma, se un certo sguardo si va diffondendo, quanto poveri, in verità, anche noi.



Il barcone in classe, la terraferma
l'Unità, 04-10-2013
Mila Spicola
Li vediamo per strada venderci le rose o gli accendini. Ho la casa piena di rose e di accendini.
Straziante. Non lo so se abbiam le mani legate o se è tutta ipocrisia. Le persone per bene o per male viviamo nella terra di mezzo del no al razzismo ma che fastido quando arriva qualcuno alla terza rosa o al quarto accendino.
Tranne quando una sera ti ritrovi davanti un tuo alunno, che ti porge l’accendino e diventate due pietre. Quello stesso alunno che in italiano stentato aveva scritto al secondo giorno di scuola “da grande farò il re, come il mio papà”. Un papà che non c’è e non chiedi.
Ecco, quando ogni ragionamento politicamente corretto si frantuma, tu non sai che pesci pigliare sul momento. Poi ti riprendi subito, ti ricomponi, perché i ragazzi ci guardano e la testa la devi tenere sempre alta e lo sguardo fermo. Anche quando ti tocca rimproverarlo duramente quel ragazzo lì, perché per l’ennesima volta si è scordato il quaderno, cioè non ha fatto i compiti. E’ giusto farlo. Perchè i ragazzi ci guardano. Sempre alta la testa, a trenta centimetri dal cuore.
Alì non ha i colori, non  ha i quaderni, non ha i libri. Da queste parti è uguale agli altri, perché in classe c’è qualche Totuccio nelle stesse condizioni. Totuccio tu che vuoi fare da grande? Il meccanico poessorè. Sì, ma anche per fare il meccanico la licenza media te la devi prendere sai? Dunque stai fermo due minuti e un quaderno aprilo ogni tanto, anche a casa. Alì, no, da grande vuol fare sempre il re. Guarda che per fare il re devi studiare e anche tanto, sai. Non gli sto simpatica, no, ad Alì.
Poi ti ritrovi una mattina con l’attività concordata. Tutti al cinema, a vedere Terraferma. Prof Spicola tu hai la 2D. E mò chi li tiene fermi al buio questi qua. Separiamo le teste calde. Totuccio a sinistra, Alì, vieni qua, tu accanto a me, a destra. Che hai in tasca? Accendini? Dammeli subito, ne riparliamo a scuola e zitto. No, zitto devi stare e da qua non ti muovi. No, nemmeno accanto a Sara che non parla ti faccio sedere. Zitto e basta. No. Un no è un no.  A trenta centimetri la testa dal cuore. No, non gli sto simpatica e lo so che ha esclamato un qualche cosa appena mi ha visto arrivare in classe come accompagnatrice. Le luci si spengono. Il film è bello, me lo ero perso al cinema, e me lo perderò anche adesso, con lo sguardo attento rivolto altrove percheè al buio non ci siano pedate, tiramenti di capelli, chewing gum attaccati alle magliette, cellulari volanti. Prof Spicola, no, con te non le fanno ste cose. Preside, non ci metta la mano sul fuoco, sempre a me la 2D, nevvè?
Bello ma lento. Per dei ragazzi che non stanno seduti manco in classe è l’ideale, ma chi li sceglie i film? In genere la 2D dopo i primi dieci minuti esplode, pure con Harry Potter, che non sanno manco chi sia. Vigile, poessorè, rimani vigile ma tranquilla, non ti scomporre mai, fai finta di avere davanti una vipera pronta all’attacco. Immobile.
Poi te lo senti tremare accanto, dalla testa ai piedi, trema pure la poltroncina. E’ un attimo. Gli stringi la mano forte forte. Per una volta se la fa tenere, il piccolo re. Vuoi uscire Alì? Vai in bagno dai. No, prof, rimango. E’ tutto sudato. Totuccio sporge la testa, Alì accumpagnami fora ca mi manca l’aria. Alì dai, accompagnalo. Totuccio è cresciuto, prof. Cinque anni alle medie fanno. La belva si è placata. Lasci la mano di Alì e li vedi allontanarsi. Totuccio la peste e Alì peggio mi sento. Così integrati e fratelli che tra cinque minuti smonteranno il rubinetto del cesso del cinema, lo sai vero, prof? E non chiamerai certo il padre di Alì a pagarlo o la madre. E i genitori di Totuccio per carità, quelli lo ammazzano di botte. Ti passerà la strada del ritorno sul bus a guardarli torvo torvo senza dir nulla. Trenta centimetri e il mare dentro di un amore senza confini.
Alì, era arrivato in Italia cinque anni fa. In un barcone. Il padre è morto durante il viaggio, tra il Kenia e la Libia, la madre fa le pulizie. A me, a noi, è toccato rimproverarlo e, quando ci siam riusciti,  stringergli la mano. Nessun cinismo, nessuna retorica, nessuna ipocrisia può togliermi questo grande onore e questa grande fortuna, anche per questo ci tocca dire solo grazie. La licenza media l’ha presa. I nomi sono di fantasia.



“Numero 9″, l’attaccante che deve fare gol. Oltre frontiera
Corriere.it, 03-10-2013
Stefano Pasta
    “Clément è lì. Non ha la forza di dire nulla. Così pure io, immobile davanti a lui, senza parole. Viene caricato in spalla, non parla, agonizza. Le sue ultime parole: non ho fatto niente. E nemmeno io riesco più a fare niente per lui, quando sento che è morto. Ecco perché ho custodito le ultime immagini della sua morte nonostante le intimazioni della polizia marocchina”.
Così Sara Creta racconta come è nato il film di denuncia “N°9”, girato insieme al collega camerunese Sylvin Mbarga nella foresta di Gourougou, in Marocco, una zona di nessuno dove l’attesa e l’ossessione di attraversare la frontiera scandiscono il tempo. Dalle colline di Gourougou si vede Melilla, enclave spagnola in terra africana, spazio Schengen, Fortezza Europa. A separare questi due territori una barriera metallica che arriva a 6 metri di altezza, lunga 12 chilometri, tra filo spinato, cavi d’acciaio, faretti, spray al peperoncino, telecamere e barriere “intelligenti”. “N°9” ricorda il giocatore numero 9 sui campi di calcio, l’attaccante che deve segnare il gol.
È il nome che usano alcuni migranti per parlare di colui che lascia famiglia e Paese d’origine e tenta “il passaggio” in Europa. Tra i “numeri 9” e gli accampati di Gourougou c’è mezza Africa (Gabon, Camerun, Mali, Burkina Faso, Guinea, Ciad e Senegal), molti di loro non sono più al primo tentativo di passare “de l’autre côté”. “Questo si chiama inferno” è la frase che ritorna più facilmente sulla loro bocca.
    “Entrarci non è facile. Per arrampicarci, rischiamo la nostra vita. Se vogliono arrestarci, possono arrestarci. Ma non spogliarci, toglierci il telefono, i nostri soldi, ucciderci”.
Dopo i tanti morti del 2005, a Ceuta e Melilla la situazione era in parte migliorata, ma dalla fine del 2011 è scattata una repressione senza precedenti. La pelle nera in Marocco paga pegno : i migranti vengono intercettati alla frontiera o durante vere e proprie retate nelle foreste o nelle periferie delle principali città marocchine. Picchiati, derubati, privati dei documenti di identità e respinti nella terra di nessuno alla frontiera con l’Algeria, nei pressi della città di Oujda.
     È anche la storia di Clément.
L’11 marzo scorso, un centinaio di aventuriers, come li chiamano a sud del Sahara, tenta di attraversare il confine con Melilla. L’intervento congiunto della Guardia Civil spagnola e delle forze ausiliare marocchine si trasforma in un brutale pestaggio:
     “Hanno usato pietre e mazze di ferro”, raccontano i migranti.
La telecamera di Sara Creta arriva il 16 marzo, insieme all’associazione umanitaria Alecma. Clément, un cittadino camerunese che era stato arrestato e pestato, muore sotto i loro occhi: l’ambulanza non arriva in tempo. Era ferito alla nuca e aveva un braccio ed una gamba fratturati; lascia la moglie incinta e due bambini. Di fronte a queste immagini, di fronte ai tagli alla testa con cui finiscono le ambizioni di una generazione, è difficile non pensare che la violenza che si aggira in Europa contro i migranti è a volte pudicamente spostata ai suoi margini. Tre mesi dopo la morte di Clément, il 7 giugno, i ministri europei riuniti a Lussemburgo hanno firmato un accordo di partnership con il Marocco “per la gestione della migrazione”.
     Dalla morte di Clément, insieme al documentario, è nata la campagna “N°9 – Stop alle violenze alle frontiere”, per denunciare la repressione subita dai migranti ad opera delle autorità marocchine con il coinvolgimento di quelle spagnole.
La campagna, lanciata a Rabat il 28 giugno scorso dalle associazioni Alecma, Gadem, Fma e Amdh, chiede anche l’apertura di un’inchiesta ufficiale sulla morte di Clément perché, come spiega Sara Creta, “questi duri minuti racchiusi nel film devono riuscire a bussare alla porta di chi decide, o di chi come me, paralizzato dalla forza delle immagini, mosso dalla sensibilità umana, deve dire: basta, tutto questo deve finire”.

Share/Save/Bookmark