07 ottobre 2013

Il mare restituisce altri 74 corpi. Kyenge: «Ora via la Bossi-Fini»
Viaggio nel Centro della vergogna: «Ho visto gli orrori nel Cie di Lampedusa»
I profughi vivono in condizioni disumane
C’è chi dorme in celle frigorifere, chi all’aperto
Tanti i bambini senza assistenza
Sul sito Unita.it le foto e i documenti video del reportage
l'Unità, 07-10-2013
Khalid Chaouki parlamentare Pd
Racconteremo e non saremo creduti», così scrisse Primo Levi, testimone e vittima delle atrocità naziste, per significare l’enormità del male che aveva colpito il suo popolo; ebbene noi, davanti alla tragedia che si consuma nel nostro Mediterraneo, diventato il più grande cimitero a cielo aperto, di fronte ai racconti di questo orrore e a quello che ho potuto vedere con i miei occhi a Lampedusa, insieme ai miei colleghi parlamentari e alla Presidente della Camera Laura Boldrini, non posso stare in silenzio. Il Centro di accoglienza di Lampedusa è in condizioni disumane. E tutti oggi devono sapere il livello di degrado e inciviltà a cui siamo arrivati come Italia e come Europa. Tutti.
Appena entrato nel Centro di accoglienza di Lampedusa non credevo ai miei occhi quando Mustafa, signore siriano sulla cinquantina mi ha preso per mano e mi ha trascinato sotto un albero davanti a una brandina: «Vedi, questa è mia figlia ed è incinta al quinto mese. Abbiamo attraversato il mare, siamo scappati da Assad. Non vorrei perdesse suo figlio proprio qui a Lampedusa».
A Lampedusa si dorme per terra, su materassini di gomma sistemati tra cespugli, panchine e immondizia. Mentre cammino tra gruppi di famiglie sistemate per terra, mi fermo da un gruppo di bambini, questa volta palestinesi e anche loro fuggiti dalle bombe del regime siriano. Mi abbasso in ginocchio, mi presento in arabo e chiedo a loro dove dormono. Senza parlare uno di loro mi indica un camioncino scassato, credo una cella frigo per gelati abbandonata dentro il Centro. Non ci credo, non ci voglio credere. La mia guida siriana improvvisata insieme ad altri ragazzi, per lo più ventenni, corrono verso il camioncino, aprono le portiere laterali. Sono pieni di materassini di gomma. «Qui dormono alcune famiglie. Almeno sono al riparo dalla pioggia» aggiunge un altro.
Non faccio in tempo a riprendermi dall’angoscia che una giovane donna, Iman, occhi verdi bellissimi, chiede di parlarmi, solo. Con pudore e scusandosi per il disturbo, mi confessa a bassa voce le sue paure: «Non voglio che ci portino in Sicilia. I nostri amici che sono già lì nel centro ci hanno al telefono che li hanno picchiati. Ho tanta paura e da qui non mi sposto finché non mi assicuri che non ci picchieranno». Mi cade il mondo addosso. Sono scappati dalla violenza, hanno viaggiato per giorni e settimane sognando un rifugio sicuro. E qui da noi questa signora teme la violenza nei nostri centri. Rimango interdetto, cerco di tranquillizzarla con la promessa di indagare sulle condizioni dei centri siciliani. Lei non molla e con gli occhi lucidi mi chiede il numero di cellulare: «Almeno se mi succede qualcosa so con chi posso parlare». È terrorizzata.
TRA PUDORE E STUPORE
Siamo in un Centro che può ospitare 250 persone, ce ne sono oltre mille. Sono eritrei, somali, sudanesi. Persone fuggite alla guerra non turisti in cerca di fortuna. Ora la stragrande maggioranza è siriana. I minori sono 161 accompagnati dalla famiglia, mentre 67 sono non accompagnati. Tra di loro vi sono anche i 41 minori superstiti del naufragio di venerdì mattina, senza più la famiglia. Questo il resoconto dettagliato degli instancabili operatori di Save the Children. «Ci sono solo due medici e ci danno solo dei calmanti. Io ho problemi di cuore, lui ha fortissimi dolori alla schiena. Per mangiare facciamo una fila e aspettiamo almeno due ore», questa volta a parlare è Ahmad, un giovane che mi confida sconsolato che non avrebbe mai immaginato di trovare questa situazione in Italia, in Europa. Annuisco con la testa, lo so.
Il campo profughi Zaatari in Giordania è mille volte meglio di questa schifezza. Ci sono stato recentemente per conto dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. Non glielo dico per pudore. Ahmad purtroppo ha ragione e si vergogna lui per me, come se comprendesse il mio imbarazzo e la mia rabbia, cambia argomento e mi accompagna in quello che chiama l’hotel cinque stelle. I padiglioni coperti, prefabbricati su due piani. Vedo subito qualche giovane eritreo, dormono sui materassini ma almeno sono al coperto. I famosi 250 posti. Le condizioni igieniche non sono il massimo, puzza dappertutto perché le finestre non si aprono, sono rotte. Ma almeno non si beccano la pioggia e il freddo durante la notte.
Scendo e riprendo il mio viaggio nella vergogna italiana tra bambini, donne e giovani sotto i cespugli e sulle panchine. Vorrei che tutti gli italiani vedessero quello che ho visto. Parlassero con queste donne annunciando loro in faccia che ora rischiano l’incriminazione per immigrazione clandestina. Noi piangiamo i morti, mentre chi si salva lo iscriviamo nel registro degli indagati. Criminale perché colpevole di non essere morto anche lui insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Come è successo per i sopravvissuti all’ultima tragedia di giovedì. Questa è la vergogna in cui siamo precipitati, dopo anni di indifferenza davanti ai proclami razzisti del cattivismo leghista. Ma ora basta. Voglio guardare a testa alta Iman e poterle dire con orgoglio «Benvenuta in Italia. Da oggi questo è per te un rifugio di pace e sicurezza».
È la sera di sabato 5 ottobre. Vengo risvegliato da un tuono fortissimo, a Lampedusa sta diluviando. Non riesco, nessuno di noi della delegazione riesce a prendere sonno. Il nostro pensiero è con i profughi al centro di accoglienza. Bambini, donne e uomini di corsa, nel cuore della notte, alla ricerca di un riparo di fortuna. Questa vergogna deve finire.



A Lampedusa riprese le ricerche delle vittime Schulz: "L'Italia è stata lasciata sola dall'Ue"
Nel Ragusano soccorsi due barconi intercettati dalla Guardia costiera e condotti in porto. A Lampedusa, intanto, continuano le ricerche. Sono stati recuperati 194 corpi senza vita che erano ancora intrappolati nel peschereccio affondato. Mercoledì arriverà sull'isola il presidente della Commissione europea Barroso. Un minuto di silenzio al Parlamento Ue
la Repubblica, 07-10-2013
L'Europa ha lasciato per troppo tempo "l'Italia da sola" ad affrontare il continuo arrivo di migranti e ora anche la Germania deve accogliere più profughi. Ad affermarlo è stato il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, che in un'intervista alla Bild ha definito "una vergogna il fatto che l'Ue abbia lasciato l'Italia per così tanto tempo da sola ad affrontare il flusso di profughi dall'Africa". Per Schulz, eletto all'Europarlamento nelle file della Spd tedesca, in futuro i profughi dovranno essere meglio ripartiti tra i Paesi europei e questo, ha sottolineato, "significa anche che la Germania deve accogliere più gente".
Intanto continuano gli sbarchi. Un nuovo arrivo di immigrati si è registrato a Pozzallo (Ragusa), dove all'alba sono giunti in porto 201 profughi. Erano a bordo di due barconi, intercettati dalla Guardia costiera e condotti in porto. Sulla prima imbarcazione c'erano 29 uomini, sulla seconda 172 persone tra cui molte donne e bambini e due neonati. Tutti sono apparsi in buone condizioni.
Lo sbarco segue di poche ore quello di Siracusa, in cui 155 profughi siriani - in maggioranza donne e bambini - sono stati soccorsi da una motovedetta della Guardia costiera e condotti al Porto Grande. Sono tutti in buone condizioni fisiche.
Sono 194, intanto, i corpi senza vita finora recuperati a Lampedusa dopo il tragico naufragio di giovedì. Ieri dal relitto del barcone che giace a circa 50 metri di profondità davanti alla costa dell'Isola dei Conigli sono stati estratti 83 corpi, ma i sommozzatori riferiscono che lo scafo è pieno di morti. I sub stanno lavorando nella zona del cassero del peschereccio, dove si trovano ancora corpi. Solo dopo questi recuperi entreranno nella stiva.
Secondo il racconto dei superstiti sul peschereccio c'erano 518 profughi. Tanti mancano, dunque, all'appello. Gli ultimi recuperati sono stati deposti dentro due camion frigoriferi. Nel frattempo è arrivato a Lampedusa un nuovo autotreno contenente altre 165 bare che serviranno a comporre i resti delle vittime.
Il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso ha confermato che si recherà a Lampedusa mercoledì "in uno spirito di supporto e solidarietà", secondo quanto si legge in una nota diffusa dall'esecutivo Ue. Barroso discuterà con le autorità italiane "possibili ulteriori misure da prendere e azioni concrete da sviluppare a livello nazionale ed europeo per far fronte alla spinosa questione dei rifugiati e alle difficoltà degli Stati membri colpiti dal fenomeno". Tra le misure in discussione ci saranno anche possibili "azioni congiunte con paesi terzi," si legge della nota della Commissione Ue. Domani, intanto, a Lussemburgo discuteranno della questione i ministri degli Interni dei 28.
Il Parlamento europeo ha deciso di osservare un minuto di silenzio per le vittime del naufragio a seguire gli eurodeputati daranno vita a una fiaccolata. "Due momenti simbolici per esprimere il cordoglio di tutto il Parlamento per questa immane strage e vicinanza e solidarietà alle famiglie delle vittime e ai sopravvissuti", spiegano i vicepresidenti dell'Europarlamento Roberta Angelilli e Gianni Pittella.
Anche il Comune di Raffadali (Agrigento) ha messo a disposizione il proprio cimitero per la sepoltura delle vittime della tragedia di Lampedusa. La disponibilità è stata espressa dal sindaco, Giacomo Di Benedetto. "Attendiamo ora indicazioni da parte della Prefettura di Agrigento in modo da potere rispettare la loro fede, provenienza, religione e usi. Speriamo di avere anche i nomi così da ricordarli almeno con una lapide".



I sub che ripescano i morti: «Quei corpi in piedi nel relitto»
Trovati 83 cadaveri. «Dagli oblò li vediamo fluttuare» E a poche centinaia di metri i turisti fanno il bagno
Corriere della sera, 07-10-2013
Marco Imarisio
LAMPEDUSA (Agrigento) — A cala croce fanno ancora il bagno. È la spiaggia più bella dell’isola, sormontata da uno splendido dammuso in pietra arenaria, tra locali e residence dove non sembra giunta la notizia che l’estate è finita.
Ieri pomeriggio ai bordi della strada panoramica si faticava a trovare spazio e pietà. «Voi di dove siete, signori? Io di Torino, dove gli albanesi si sono presi le zone più belle». «Noi di La Spezia, dove c’è una piazza solo di senegalesi». I turisti parlavano tenendo gli occhi puntati verso l’orizzonte. In tutta Lampedusa, quello era il miglior punto di osservazione delle operazioni di recupero dei corpi. Dritto davanti a loro, ben prima dell’orizzonte.
Come se ci fossero due isole. La prima, quella raccolta intorno al porto nuovo, quasi partecipa a questo mesto rito, cominciato ieri dopo un’interruzione di due giorni causa mare grosso. È obbligata a farlo, perché è impossibile ignorare la concitazione intorno al molo militare, dove attraccano le motovedette con i cadaveri recuperati dai sommozzatori. Una ogni tre ore. La nave della Guardia costiera era il punto d’appoggio dei sommozzatori di Finanza, Vigili del fuoco, Carabinieri e Capitaneria di porto che si alternavano nelle immersioni a 50 metri di profondità, ognuna doveva avere per protocollo una durata compresa tra i sette e gli undici minuti. È stata scelta come base comune per una ragione precisa. La sua poppa bassa e apribile, che consente di issare a bordo i corpi con maggiore facilità. C’è silenzio quando monsignor Konrad Krajewski, l’elemosiniere del Vaticano inviato da Papa Francesco, benedice le salme.
Ne hanno recuperati 83. La conta delle vittime si ferma a 194, ma solo per oggi. E ci vorranno ancora due giorni almeno per svuotare il carico di quella barcaccia di legno, che a vederla nei filmati, adagiata sul lato sinistro di un fondale bianchissimo, sembra impossibile che dentro quelle pareti lunghe appena quindici metri potesse starci così tanta gente. Adesso, guardando il relitto sommerso, davvero una carretta, si capiscono certe frasi dei superstiti, si capisce meglio l’orrore. Le cinghiate con le quali li costringevano a salire. La spoliazione di ogni oggetto che potesse creare ingombro, comprese le bottigliette d’acqua. «Nella stiva sono attaccati uno all’altro, al massimo ci sono trenta centimetri di spazio. Pile di uomini, donne e bambini. Molti sono morti in piedi, tenuti su dal corpo del compagno di viaggio che avevano vicino».
I sommozzatori come il maresciallo Antonio D’Amico erano i personaggi di giornata. Ma una volta tornati in superficie, non avevano gran voglia di parlare. «Una volta giù a trenta metri si intravedono i corpi che emergono da ogni apertura dell’imbarcazione. Una quantità di corpi esagerata. Dagli oblò li vediamo fluttuare nell’acqua. Abbiamo raccolto quelli adagiati sul fondo e quelli impigliati nei locali di coperta». Il suo collega Giuseppe Del Giudice parla di manichini, ma con quello sguardo, «occhi senza vita» che non ti togli più di dosso. «È una cosa che rimane» dice.
Ci sono immagini che nessuno vedrà mai. Per pudore, per rispetto di chi è morto in modo atroce cercando una vita migliore. Non sono quelle consegnate ai siti e ai telegiornali, con le immersioni, le funi, la barca nell’azzurro. Altre immagini. Quelle di corpi estratti uno ad uno, e deposti sul fondale davanti alla prua, in attesa di essere imbragati per la risalita in superficie. Diventa chiaro cosa intende il finanziere Del Giudice quando parla di manichini, di sguardi. Quelle decine di esseri umani, con le braccia e le gambe aperte, vestiti di magliette e pantaloncini, immobili. «Durante la fase dell’imbragatura» racconta D’Amico, «mi si è girato un ragazzo, me lo sono trovato davanti alla faccia». Non finisce la frase. È una cosa che rimane. Uno alla volta, fino a quando non sarà finita. Non possono fare altrimenti, non ci sono altre possibilità. Quel relitto di legno non reggerebbe alla risalita, si spezzerebbe. Oggi i sommozzatori entreranno nella stiva.
A riva, tra coloro che dal porto osservano l’andare e venire dei gommoni dei sub, le manovre di sbarco, c’è una atmosfera cupa che riflette quel che sta avvenendo in mezzo al mare, il recupero delle vittime della più grande tragedia dell’immigrazione dal dopoguerra a oggi. C’è silenzio quando monsignor Konrad Krajewski, l’elemosiniere del Vaticano inviato da Papa Francesco, benedice le salme. Sull’altra isola, quella di cala croce, nell’aria risuona invece il tormentone estivo dei Daft Punk ad allietare l’ora dell’aperitivo. I turisti sorseggiano e commentano, danno occhiate sempre più distratte all’orizzonte. Forse è giusto così, forse è solo un avamposto di quell’Italia che sta già cominciando a dimenticare.



Solo tre sillabe
Avvenire, 07-10-2013
Giovanni D’Alessandro
È una morte scomposta e silenziosa, quella per acqua. Scomposta perché chi sta per annegare si agita per non finire sotto la superficie del liquido elemento che lo ucciderà, senza compiere i movimenti giusti per stare a galla o nuotare. E delle centinaia di morti davanti a Lampedusa, pare certo, erano in pochissimi a saperli fare. Silenziosa perché l’acqua inghiotte ogni voce quando si è ancora vivi, annullando le grida disperate e penetrando i polmoni. È la fine orrenda di un viaggio orrendo compiuto attraversando terre segnate dalla guerra, dalla violenza, dal pericolo.
Quasi tutti questi somali ed eritrei migranti, che sarebbe meglio chiamare fuggiaschi (e non è mai dal bene che si fugge) avevano percorso migliaia di chilometri attraverso il Sahara sino alle incontrollate coste della Libia, terra di nessuno, dove li attendeva lo scafista che li avrebbe condotti non in Italia, bensì alla morte. Erano sgusciati tra le maglie di terre piagate dalla guerra, come sulle alture tra il Corno d’Africa e il Sudan, dove cadere in mano a certe formazioni di combattenti significa morire.
Erano stati dunque costretti a fuggire la morte nelle terre di origine; a fuggire la morte nelle terre intermedie; per trovare infine la morte in acqua, senza toccare la terra promessa - intravvedendola ma non mettendovi piede, come Mosè, perché li ha risucchiati un fondale di quarantacinque metri, quando Lampedusa era in vista oramai e solo la notte impediva di scorgerla. I forse 250 sommersi, i 155 salvati di Lampedusa non erano mai venuti al mondo, in un certo senso: non almeno al mondo come lo intendiamo noi. I loro erano altri mondi.
Lontani. Incomprensibili. Impossibili. Hanno attraversato mondi impossibili e sono morti in un modo paradossalmente impossibile, quando il loro sogno stava per concretizzarsi e si è trasformato in un incubo. Una sola parola ha unito tutti questi mondi ed è stata quella del Papa, diretta a noi tutti e in particolare ai politici: vergogna.
Vergogna per l’inadeguatezza di una legge malfatta, che induce nella sua vulgata polemica e mediatica al sospetto di trasformare comunque in reato il soccorso dell’«uomo a mare» in stato di pericolo, da sempre e ovunque imposto dalla non scritta legge del mare o ius aquae, prevalente su ogni ius soli, imposta dallo ius naturale o ius divinum, comunque si voglia chiamarlo, e cioè da quell’inestirpabile radice di Alterità presente in noi che si chiama coscienza. Un monito in tre sillabe a fermarsi e a soccorrere, come il samaritano sulla via per Gerico e a non passare oltre – con la giumenta ieri, col motore della barca oggi – come il sacerdote e il levita, superando la legge per una più grande Legge, oltrepassando il diritto verso il Giusto, perché sta scritto: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli». Un monito infine a tutti noi perché non ci resti, dopo, che tentare di recuperare i morti sott’acqua per metterli sotto terra.
Circa un secolo fa, un grande poeta, Thomas Stearns Eliot, dedicò agli annegati, facendone un’icona della condizione umana, la sua poesia più famosa, nel poema spartiacque del Novecento The Waste Land, La terra desolata. La dedicò a un immaginario commerciante fenicio di 2.500 anni fa, Flebas, morto nello stesso mare Mediterraneo. S’intitola «Morte per acqua» e suona così: «Flebas il fenicio, morto da quindici giorni/ dimenticò il grido dei gabbiani/ e il gorgo profondo del mare/e il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina/ gli spolpò le ossa in sussurri. Sollevandosi e ricadendo/ passò un tempo pari alle stagioni della sua età e giovinezza/ volteggiando nei vortici./ Gentile o Giudeo,/ o tu che stai al timone e guardi sopravvento,/ considera Flebas, che un tempo fu bello e alto come te». I romani auguravano ai morti che la terra fosse leggera su di loro. Noi, unendoci a Eliot, possiamo augurare che sia lieve l’acqua, per ora, su tutti quei corpi preda dei vortici e delle correnti sottomarine. Nella speranza che i Flebas di ieri e di oggi trovino, in questo mondo o altrove, la loro terra promessa.



Primo: garantire la sicurezza di chi naviga
Unità, 07-10-2013
Filippo Miraglia
Responsabile Immigrazione Arci
RISCHIANDO DI ESSERE TRA I POCHI CHE CANTANO FUORI DAL CORO, VOGLIAMO FARE UNA DOMANDA A COLORO CHE IN QUESTI GIORNI SONO INTERVENUTI sull’ecatombe di Lampedusa, sulle cause e sugli interventi da intraprendere per evitare simili tragedie proponendo la lotta ai cosiddetti trafficanti di essere umani, agli scafisti.
La domanda è questa: una famiglia di siriani o di eritrei che fugge da morte certa ed è arrivata in Libia, pagando molto caro il viaggio e rischiando più volte la vita, a chi può rivolgersi per arrivare in Europa? Al ministro Alfano? Alle istituzioni europee? A Frontex con le sue dotazioni per il monitoraggio del mediterraneo?
No, l’unica via per arrivare, anche dopo le stragi e le lacrime versate dai nostri rappresentanti istituzionali, è affidarsi proprio al famigerato scafista.
Non è una provocazione, ma purtroppo, per come stanno oggi le cose, l’unica risposta possibile.
Chiediamo anche: da quando l’Europa finanzia il programma Frontex, tra i cui compiti c’è il salvataggio di eventuali naufraghi, le morti in mare sono diminuite? Sebbene le attività di Frontex non siano trasparenti, sappiamo per certo che negli ultimi tre anni c’è stato un rafforzamento di mezzi e personale e contemporaneamente un aumento di naufragi e di morti. Si potrebbe obiettare che i profughi sono aumentati, per la guerra in Libia e poi in Siria, ma a maggior ragione non si spiega come mai in un lembo di mare così frequentato continuino a scomparire tante persone.
Il rafforzamento dei controlli e di Frontex, come dimostra il recente passato, non sono la risposta giusta all’esigenza di rendere sicuro il viaggio di chi si dirige verso l’Europa e l’Italia per chiedere protezione. Anzi, l’aumento dei controlli aumenta i rischi perché si cercano nuove rotte e il prezzo da pagare.
Se si vuole davvero che la terribile tragedia avvenuta di fronte a Lampedusa di cui l’Europa e soprattutto l’Italia, con le sue leggi, è la principale responsabile sia l’ultima e che le persone possano arrivare in sicurezza, bisognerà ribaltare l’indirizzo prevalente negli interventi istituzionali di questi giorni, in particolare del ministro Alfano, ma non solo.
Per fortuna si sono levate anche tante voci che hanno invece insistito sulla necessità di abolire il reato di immigrazione clandestina e consentire ingressi regolari per ricerca di lavoro.
Riguardo poi alla questione specifica dell’arrivo dei rifugiati, che sono la totalità di coloro che oggi sbarcano sulle nostre coste (numeri, è bene ricordarlo a chi chiede aiuto all’Europa, ancora molto limitati rispetto agli altri Paesi europei paragonabili al nostro) è urgente introdurre misure che rendano sicuro il loro arrivo. Da un lato monitorare il canale di Sicilia, soccorrendo, con mezzi adeguati e un piano coordinato a livello europeo, le imbarcazioni che li trasportano. Non quindi maggiori strumenti per impedirne la partenza, ma esattamente il contrario: mezzi che intervengano per garantire una navigazione sicura. Dall’altro lato, l’apertura di canali umanitari, cioè la possibilità per chi si trova nelle aree di crisi o da quelle regioni è arrivato nel nord Africa, o comunque per tutti coloro che cercano protezione, di poter entrare in Europa con mezzi di trasporto normali, o straordinari se necessario, rivolgendosi direttamente alle istituzioni italiane ed europee. Riscrivere quindi gli accordi con i Paesi del nord Africa, prevedendo non respingimenti e detenzione, ma accoglienza e protezione.
Infine è utile sottolineare che l’Italia, dopo anni di flussi migratori, non ha ancora un piano nazionale per l’accoglienza e strutture adeguate a garantire una protezione dignitosa a tutti.
Proprio il giorno prima della tragedia, con una delegazione dell’Arci presente sull’isola, abbiamo visto quello che tutti sanno, anche i ministri di questo governo: bambini, famiglie, uomini e donne costrette a vivere in una struttura inadeguata (il Cpsa di Contrada Imbriacola), privati della loro dignità, senza nemmeno il diritto a un letto e a un tetto, come invece le leggi e le convenzioni internazionali prevedono.
Problemi organizzativi? Dopo tanti anni in cui nulla è cambiato a noi sembra più giusto parlare di cinismo e mancanza di senso di responsabilità.



Dire e fare cose giuste
Avvenire, 07-10-2013
Paolo Borgna
Su queste colonne lo si scrive da tempo: la concreta applicazione della nostra legislazione in materia di immigrazione rischia ogni giorno d’essere forte con i deboli e debole con i forti. In particolare, il reato di "clandestinità" è inutile e iniquo. Inutile, nel senso che promette risultati che non può raggiungere: perché la sanzione prevista – poche migliaia di euro di ammenda, al termine di un processo che, è stato calcolato, costa non meno di mille euro per ogni denuncia – non spaventa certo i delinquenti incalliti. Iniquo, perché danneggia il lavoratore onesto anche se "irregolare", che spesso ha tentato inutilmente di "regolarizzarsi", rimanendo impigliato nelle farraginosità delle nostre procedure per il rilascio del permesso di soggiorno; e alla fine si vede coinvolto in un processo penale, che – anche se privo di sanzioni effettive – ideologicamente lo schiaccia sullo stesso piano di uno spacciatore o di un rapinatore.
Per denunciare queste ingiustizie basta ricordare esempi veri. Non c’è bisogno di crearne altri inverosimili. Le battaglie giuste vanno combattute con argomenti onesti: in tal modo riusciranno più credibili e convincenti. E dunque, se il sentimento collettivo di vergogna che in questi giorni tocca le nostre coscienze – e di cui ci ha parlato papa Francesco – servirà anche a rivisitare le nostre leggi sugli stranieri, saluteremo questa svolta come un evento positivo.
Ma non saremmo intellettualmente onesti se facessimo credere che l’abrogazione del reato di "clandestinità" servirà a evitare tragedie come quella di Lampedusa.
Come non si può "fustigare le onde del mare" per punirle del loro impeto, così non si può pensare che la fuga disperata dalle guerre e dalla miseria di decine di migliaia di persone possa essere influenzata dall’esistenza o meno di un reato inutile e ingiusto che minaccia una pena pecuniaria. Né si può far credere che il soccorso ai naufraghi sarebbe stato impedito, ai pescherecci italiani, dalle norme che puniscono chi favorisce l’immigrazione clandestina.
Perché il secondo comma dell’articolo 12 della "Bossi-Fini" recita chiaramente: «Non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno». In queste ore lo hanno detto molto bene il capo dello Stato, il premier e il ministro dell’Interno: il problema dei profughi è assai più complesso di quello delle norme che regolano l’ingresso in Italia per motivi di lavoro o di studio. L’Italia è la porta dell’Europa rivolta all’Africa. Il problema dei profughi dall’Africa è problema europeo, come ha riconosciuto ieri anche il premier francese Ayrault che ha sollecitato un summit sulla gestione delle frontiere marittime.
E la cooperazione che noi chiediamo ai governi dei Paesi africani non può essere quella di attribuire a loro il lavoro sporco, facendo morire di sete i migranti nel deserto. Come venerdì scorso ha scritto il direttore di questo giornale, gli occidentali che in un passato anche recentissimo hanno portato guerra in terra nordafricana devono oggi, sulle stesse terre, portare e organizzare aiuto, soccorso. Molte associazioni lo chiedono da tempo: c’è bisogno di una missione che, sotto la bandiera Onu e comunque dell’Unione Europea, apra in Nordafrica luoghi civili di raccolta per i migranti e canali umanitari di transito che facciano arrivare in sicurezza i profughi in Europa, distribuendoli nei vari Paesi dell’Unione.
Lo sappiamo bene: non è impresa facile; e dovrà misurarsi con complessi problemi internazionali, con la fragilità delle istituzioni locali e con il potere esercitato dai clan e dalle organizzazioni malavitose. Ma a questa prova l’Europa è chiamata. Mai come in queste ore sentiamo vero il monito del presidente Napolitano: l’Italia ha bisogno di più Europa. Ma l’Europa non può lasciare sola l’Italia. I nostri governanti lo dicano a voce alta. Se è vero che l’Europa non è soltanto libertà dei mercati, questo è il momento di dimostrarlo. Ci vuole, di nuovo, il coraggio e la generosità che ebbero nel dopoguerra Adenauer, De Gasperi, Schumann, Spinelli. Il loro esempio è la lezione per l’oggi e per il domani.

 

Basta con le ipocrisie gli immigrati ormai sono un lusso
Gli italiani vivono una crisi economica drammatica: non possono più permettersi di pagare miliardi per i clandestini
il Giornale, 07-10-2013
Magdi Cristiano Allam -
Io non ci sto! Fermo restando l'umana pietà per i morti chiunque essi siano, io non ci sto a pagare miliardi di euro per contrastare, accogliere, accudire, incarcerare e rimpatriare i clandestini! Non ci sto ad aderire al lutto nazionale per la tragica fine di centinaia di clandestini vittime e complici della criminalità organizzata! Non ci sto a considerare da morti cittadini italiani coloro che da vivi hanno violato le leggi italiane! Sapete quanto ci costano i clandestini? Vi elenco alcuni costi che ricavo dai dati del Ministero dell'Interno e dell'Unione Europea.
1 miliardo e 668 milioni di euro: le risorse nazionali e comunitarie spese tra il 2005 e il 2012 per il programma di contrasto dell'immigrazione «irregolare» in Italia. 1,3 miliardi stanziati dallo Stato italiano e oltre 280 milioni erogati dall'Unione Europea che sono stati fino ad oggi investiti. 331,8 milioni di euro: controllo delle frontiere esterne per gli anni 2007-2012 (anno 2012, 105.575.880,00 mil. di euro) di cui: 165.545.212,05 euro (anno 2012, 52,787,940,00) contributi dell'Unione Europea; 166.303.268,90 euro (anno 2012, 52.787.940,00) confinanziamento Stato italiano. 111 milioni euro: piano Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno. Acquisto di nuove tecnologie, sistemi di identificazione e comunicazione a supporto delle attività svolte dalle Forze dell'Ordine per il controllo delle frontiere, l'avvistamento dei migranti e la loro identificazione. 60.754.218,86 euro: Fondo Europeo per i Rimpatri (anni 2008-2012; anno 2012: 14.514.432,93). 34.654.527,39 euro: contributo Unione Europea (nel 2012, 9.066.985,00). 26.099.691,47 euro: confinanziamento Italia (nel 2012, 5.447.447,94). Risorse stanziate per i rimpatri forzati: 6.490.000,00 euro: operazioni di rimpatrio con e senza sorta con voli di linea e/o charter (anno 2012); 230.000,00 euro: voli charter congiunti con altri stati membri o con Frontex (anno 2012); 110.000,00 euro: formazione personale di scorta (anno 2012); 6.899.074,33 euro: risorse per i rimpatri volontari (anno 2012). 158.601.586,56 euro: impegno di spesa per Cda, Cpsa, Cie, Cara (totale anno 2011). 139.460.145,56 euro: spese per l'attivazione, la locazione e la gestione dei centri di trattenimento e di accoglienza per stranieri irregolari. Spese per interventi a carattere assistenziale, anche al di fuori dei centri stessi. Spese per studi e progetti finalizzati all'ottimizzazione ed omogeneizzazione delle spese di gestione: 42.177.463 euro: spese per la costruzione, l'acquisizione, il completamento e l'adattamento di immobili destinati a centri di permanenza temporanea e assistenza, di identificazione e di accoglienza, per gli stranieri irregolari e richiedenti asilo. Spese relative ad acquisto di attrezzature per i centri o ad essi funzionali e per compiti di studio e tipizzazione. 979.622,21 euro: spese manutenzione Cie (totale anno 2011). 509.383,21 euro: manutenzione ordinaria, 470.230,00 euro: manutenzione straordinaria. 45.422.981 euro: progetti di cooperazione con i Paesi terzi in materia di immigrazione (totale anno 2012).
Passiamo a quanto ci costano gli stranieri che finiscono nelle nostre carceri. Innanzitutto chiariamo che costituiscono circa la metà del totale dei detenuti, pari a quasi 23 mila detenuti stranieri. Se consideriamo che per l'Osapp (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), un carcerato costa quanto un deputato, ovvero 12 mila euro al mese, il costo complessivo dei detenuti stranieri ammonta a circa 3.312.000.000 di euro. Ebbene teniamo presente che ben il 95% dei detenuti stranieri sono o clandestini o risiedono irregolarmente nel nostro Paese, finendo per diventare facili prede della criminalità organizzata o comunque per delinquere. Mi auguro che il ministro dell'Interno Alfano attui la richiesta da lui formulata lo scorso agosto: «Gli Stati di provenienza paghino vitto e alloggio agli immigrati in Italia che delinquono».
Tutto ciò è troppo! Troppo anche per un popolo generosissimo e sempre pronto ad auto-colpevolizzarsi! Troppo per tutti gli italiani che vivono una drammatica crisi economica! Troppo anche per il Papa che predica la Chiesa dei poveri tra i poveri e l'accoglienza dei senzatetto nei monasteri! Non possiamo continuare a predicare bene senza fare i conti con quanto ci costano questi clandestini!
twitter@magdicristiano



Una nave-bara nel buco nero del naufragio
il manifesto, 06-10-2013
Alessandro Leogrande
IL FANTASMA DELLA KATER Frontex è la raffinata evoluzione del 'blocco' attuato nel '97. Una stiva ancora piena di corpi. A segnare le tragedie in mare c'è anche l'indifferenza della morte
C'è un fantasma rimosso alle spalle dell'ultima orrenda e incommensurabile strage di Lampedusa: il fantasma della Kater i Rades, la piccola motovedetta albanese carica di uomini, donne e soprattutto bambini, affondata dopo essere stata speronata da una corvetta della nostra Marina Militare impiegata in operazioni di harassment, cioè dissuasione e respingimento. Era il 28 marzo del 1997, la sera del Venerdì santo.
La strage del Canale d'Otranto, già evocata in questi giorni sul manifesto da Tommaso Di Francesco e da Alessandro Dal Lago, costituisce uno spartiacque nell'italica percezione dei viaggi dei migranti e della protezione dei "sacri confini". Fu la prima grande strage avvenuta davanti alle nostre coste (anche se il numero accertato di 81 vittime tra corpi ritrovati e corpi tuttora ufficialmente dispersi, comunque esorbitante, rischia di impallidire di fronte all'ultima ecatombe di Lampedusa).
Non fu una strage causata da eventi "naturali". Come in parte accertato da un lunghissimo e complicato processo, il cui terzo grado deve ancora avere inizio in Cassazione, le responsabilità dell'impatto furono tutte della nave militare italiana e gli ordini (benché i nastri delle comunicazioni tra comandi di terra e flotta in mare siano risultati stranamente "vergini") furono impartiti dall'alto. Al governo c'era l'Ulivo, e il paese era attraversato dalla fobia dell'invasione.
L'intreccio tra clamore mediatico per le vittime e volontà di continuare a praticare le politiche di respingimento nacque allora. Tale schizofrenia nazionale, che non è solo appannaggio della xenofobia leghista, ci accompagna da oltre sedici anni e ammanta oggi gli stessi discorsi dei maggiori esponenti del governo delle larghe intese. In un certo senso, Frontex è solo la raffinata evoluzione del brutale "blocco navale" attuato nel marzo del 1997 nel Canale d'Otranto di fronte al caos albanese. Nei confronti del caos nord-africano, l'Italia e l'Europa hanno riprodotto su scala più vasta, e solo apparentemente dissimulata, la stessa formula.
Anche allora, mentre si sosteneva la necessità di presidiare le frontiere, rendendo di fatto più pericolosi i viaggi e nascondendo le loro cause sociali e geopolitiche, si chiedeva a gran voce il Nobel per la Pace per il Salento.
Ma le similitudini purtroppo non finiscono qui. Anche oggi, come nel caso della Kater i Rades e della Yohan affondata nel dicembre del 1996, c'è una stiva ancora piena di corpi in fondo al mare. È probabile che a riempirla siano in gran parte donne e bambini, perché è lì, sotto coperta, che solitamente trovano riparo nelle lunghe ore dei viaggi.
Ancora una volta c'è una nave-bara. Ci vorranno giorni, o settimane, o mesi, per tirarla su. E altri giorni, o settimane, o mesi, per identificare le salme una per una, per dare un nome a ogni volto congestionato dall'asfissia, sempre che si voglia portare a termine questa complicata operazione. Quando l'improvviso clamore mediatico sarà scemato, tornando a essere ciò che in genere è (silenzio e indifferenza), i corpi non identificati saranno ancora lì.
A segnare le tragedie in mare non c'è solo la "globalizzazione dell'indifferenza", di cui ha parlato il papa nella sua visita pastorale a Lampedusa: c'è anche l'indifferenza della morte. L'indistinto accatastarsi dei morti sotto il mero conteggio numerico. Per romperne la cappa, oggi come per tutte le stragi, andrebbero invece ricomposti i corpi e le storie dei morti preservando l'individualità di ognuno, il suo nome, le sue aspirazioni, i suoi sogni, le sue sconfitte. E andrebbe capito, come per la Kater, che coloro i quali sono miracolosamente sopravvissuti al naufragio, e allo stesso modo i parenti delle vittime rimaste nei paesi di partenza, non supereranno mai il buco nero del naufragio. La strage continuerà a velare le loro vite, anche se dagli effetti umani del dopo-naufragio, come di ogni dopo-naufragio, il dibattito politico non sarà minimamente sfiorato.



Lampedusa, scontro sulla Bossi-Fini nuova spaccatura nella maggioranza
la Repubblica, 07-10-2013
La Francia: subito un vertice Ue Boldrini: reprimere non risolve nulla. Grasso: disumano indagare i profughi
VLADIMIRO POLCHI
ROMA — Con i morti ancora da recuperare nei profondi fondali di Lampedusa, la politica si spacca alla ricerca del colpevole della strage. Per il Pd non ci sono dubbi: sul banco degli imputati siede la Bossi-Fini. Mentre Pdl e Lega le fanno scudo. Così, sulla legge che regola il pianeta immigrazione, rischia di incendiarsi il “rinato” governo Letta. E intanto, al di là delle Alpi, il premier francese Jean-Marc Ayrault chiede una «rapida» riunione dei Paesi europei proprio sulla gestione delle frontiere marittime.
La legge Bossi-Fini del 2002 restringe i canali di ingresso legale in Italia. In pratica nel Paese può mettere piede solo chi già possiede un contratto di lavoro, che gli consenta il mantenimento economico.
Tutti gli altri (quasi la totalità) devono entrare irregolarmente, talvolta a rischio della vita, o con un visto turistico (detti “overstayers”) e poi rimanere invisibili in attesa di una sanatoria. Non solo. Con il reato di immigrazione
clandestina, introdotto nel 2009, diventa un atto dovuto l’iscrizione nel registro degli indagati dei superstiti di Lampedusa. E così il Pd preme perché quella legge venga riscritta da cima a fondo, mentre il Pdl (spalleggiato
dalla Lega) la difende a spada tratta. La presidente della Camera, Laura Boldrini, da Lampedusa tuona contro le norme in vigore: «C’è bisogno di fare chiarezza sulla legislazione. Con l’introduzione del reato di clandestinità in qualche modo è passata l’idea che soccorrere in mare è un problema, può esporre cioè a problemi giudiziari. La legge del mare dice tutt’altro e se c’è un reato, questo si chiama omissione di soccorso». Anche Pietro Grasso, presidente del Senato, accusa quelle regole che hanno portato alla «inumana conseguenza» dell’iscrizione dei sopravvissuti nel registro degli indagati. Il ministro della Difesa, Mario Mauro, ammette invece che «nella legge Bossi-Fini ci sono aspetti normativi che potevano essere modificati dall’inizio. Se si può intervenire per migliorare ad esempio il sostegno al processo di asilo, ben venga». Piccola apertura anche del ministro dei trasporti, Maurizio Lupi: «La legge Bossi-Fini se si può migliorare la si migliorerà».
Da parte sua la sinistra spara sulla Bossi-Fini, a partire da Nichi Vendola che con Sel ha sostenuto il referendum abrogativo di quella che bolla come «una vergognosa legge fascista votata dalle destre e non abbastanza contrastata ». Ma la richiesta di archiviare del tutto la Bossi-Fini arriva anche dal Pd: «La legge non è riformabile e le normative sull’immigrazione vanno superate — sostengono Danilo Leva e Marco Pacciotti, responsabili giustizia e immigrazione del partito — serve, inoltre, una legge organica sul diritto all’asilo. È assurdo che le persone scampate alla strage siano incriminate per il reato di immigrazione clandestina e i civili che hanno prestato soccorso rischino di esserlo per favoreggiamento».
Ma il centrodestra fa quadrato. Scontata la difesa della legge sull’immigrazione da parte della Lega, con Roberto Maroni ad augurarsi che la Bossi-Fini non venga modificata: «Sono tutte discussione ipocrite, che sia colpa della Bossi-Fini quello che è accaduto ». E anche il Pdl difende le norme: «Non è affatto vero quello che afferma il presidente Grasso, che la Bossi-Fini va cambiata per evitare che venga accusato di favoreggiamento chi offre soccorso — risponde Fabrizio Cicchitto — il comma 2 dell’articolo 12 della Bossi-Fini stabilisce che «non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate nei confronti degli stranieri in condizione di bisogno». Questa insistenza di modificare la legge rischia di tradursi in un messaggio totalmente sbagliato dato all’estero». Anche Maurizio Gasparri giudica «inutile prendersela con la Bossi-Fini. La legge va bene, non va smantellata. La colpa di quanto accade nel Mediterraneo è dell’Europa».
E a proposito di Europa, il premier francese Jean-Marc Ayrault chiede una riunione sul controllo delle frontiere marittime: «È importante che i responsabili politici europei ne parlino e in fretta. Perché la compassione non è sufficiente».



Immigrazione, fronte comune tra i progressisti d’Europa
Dopo la Francia, anche Spagna e Germania si muovono per cambiare la politica comunitaria
Gabriel: Berlino si attivi per attenuare il dramma dei profughi di Lampedusa
Rubalcaba: tra le cose di rivedere c’è anche la «guardia europea», il cosiddetto Frontex
Il segretario del Ps Harlem Désir ha lanciato l’idea di un nuovo patto europeo
l'Unità, 07-10-2013
Umberto De Giovannangeli
ROMA Dopo Parigi, Berlino e Madrid. Dopo il segretario generale del Ps francese, Harlem Désir, il leader della Spd tedesca, Sigmar Gabriel e quello del Psoe, Alfredo Pérez Rubalcaba. L’Europa, almeno quella dei progressisti, riflette e agisce dopo l’immane strage di migranti a Lampedusa. E lancia segnali importanti a pochi giorni dalla visita a Lampedusa (mercoledì prossimo) del presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. «Non c’è più tempo da perdere, occorre una politica comunitaria sui temi dell’immigrazione e del diritto d’asilo», aveva detto a l’Unità il leader dei socialisti francesi, sottolineando la necessità di una Europa più solidale, al proprio interno e nei riguardi di quella umanità sofferente che rischia la vita sulle carrette del mare, per fuggire da guerre, miseria, pulizie etniche. Un’assunzione di responsabilità viene ora da Berlino. La Germania deve impegnarsi attivamente a risolvere il dramma del continuo afflusso di migranti sulle coste italiane. Lo chiede in un'intervista al domenicale «Bild am Sonntag» (BamS) il presidente della Spd, Sigmar Gabriel, secondo il quale «la Germania deve impegnarsi decisamente per attenuare questo dramma dei profughi a Lampedusa». «Dobbiamo distribuire in maniera più giusta in Europa il gigantesco afflusso di profughi in arrivo laggiù», sottolinea il leader dei socialdemocratici tedeschi, oltre a «migliorare le condizioni di accoglimento per i profughi e quelle degli abitanti dell'isola». Il commento più duro sulla tragedia di Lampedusa, è stato pronunciato dal Capo dello Stato tedesco, Joachim Gauck, che ha criticato le politiche europee in tema di immigrazione definendole “inumane”: «Difendere la vita dei migranti e ascoltare le loro richieste sono i fondamenti del nostro diritto e del nostro sistema di valori. Come abbiamo potuto vedere da questa tragedia i migranti sono persone vulnerabili. Hanno diritto alla protezione e all'ascolto. Togliere lo sguardo e lasciarli navigare verso una morte prevedibile è un oltraggio ai nostri valori europei». «Un attentato all'umanità, che l'Europa non può legittimare» ha commentato il responsabile della commissione per i diritti umani al Bundestag, il verde Tom Koenigs.
PATTO EUROMEDITERRANEO
L’idea di un patto euromediterraneo, evocato da Désir, trova concorde il segretario generale del Psoe, Alfredo Pérez Rubalcaba: «L’Europa – rimarca il leader dei socialisti spagnoli – non può essere spettatrice di tragedie come quella consumatasi a Lampedusa. Occorre mettere in campo azioni concrete per far fronte a una drammatica emergenza, di cui l’Europa nel suo insieme deve farsi carico». «I Paesi del sud dell'Unione europea – insiste Rubalcaba hanno il diritto di chiedere una politica più attiva da parte dell'Ue su questo punto».
In questa chiave, il segretario del Psoe si dice d’accordo con la proposta avanzata l’altro ieri dal primo ministro francese, Jean-Marc Ayrault, di un vertice straordinario sull’immigrazione dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea: «Occorre una risposta forte, condivisa e rapida», avverte Rubalcaba. Tra le cose da rivedere c’è anche la «guardia europea» che dovrebbe presidiare le frontiere: Frontex. Riflette in proposito Philip Amaral, del Servizio europeo dei Gesuiti per i rifugiati: «Penso che questa sia la grande lacuna della politica europea. Frontex ha un ruolo di coordinamento nelle operazioni di frontiera degli Stati membri, ma quando c’è una barca in mare, c’è ancora confusione su chi debba intervenire. E questo è ciò che abbiamo visto negli ultimi anni: il governo italiano litigava con quello maltese su chi dovesse soccorrere la barca in mare, e questo ha lasciato in qualche occasione una nave in balia delle onde per settimane. Ma il Mediterraneo è un mare molto sorvegliato, ci sono immagini satellitari e molte pattuglie nazionali, quindi i governi non hanno scuse, non possono non prendere l’iniziativa. A livello europeo si è ora deciso che ci devono essere procedure chiare affinché, quando un’imbarcazione è in difficoltà, un Paese intervenga, in modo da agire prima ed evitare tragedie».
Il fatto è, riflette con amarezza padre Amaral, che «l’Europa si sta girando dall’altra parte perché non ha sviluppato risposte adeguate perché la gente venga in Europa e possa chiedere lo status di rifugiato in un modo che rispetta la dignità della vita umana».



Un medico con l’ischemia salva donne e bambini
Pietro Bartolo, «U Dutturi» dell’isola, il 2 settembre si è sentito male. Dal giorno del naufragio lavora 24 ore su 24
Corriere della sera, 07-10-2013
Goffredo Buccini
Si copre la bocca con la mano: «Scusi, sa, ma non parlo tanto bene», dice con pudore, senza spiegare il perché. Una vita sotto le righe, salvando vite altrui. Questa è stata fin qui la storia di Pietro Bartolo, «U Dutturi», il medico per eccellenza sull’isola. Faccia da apostolo, mani da pescatore, il fratino blu della Azienda Sanitaria 6 perennemente addosso in questi quattro giorni di mare e di morti, di lacrime e soccorsi, continua ad andare su e giù per il porto senza un attimo di tregua, faticosamente: «Ne stanno arrivando altri venti, ci vediamo più tardi», mormora, avviandosi di nuovo al molo Favarolo, dove le barche della Guardia costiera e della Finanza scaricano un ennesimo carico d’orrore, altre venti vittime del naufragio di giovedì.
Lampedusano verace, da ventidue anni direttore del poliambulatorio, il 2 settembre era al lavoro in corsia quando si è accorto che la lingua non rispondeva più al cervello, le parole gli uscivano deformate; pressione altissima, diagnosi facile per un medico d’esperienza, confermata dai colleghi di Palermo: ischemia cerebrale. Una settimana di ricovero, poi un mese e mezzo di sosta obbligata per malattia, con quei dannati postumi alla parola che non vogliono saperne di sparire e una gamba che ancora fa i capricci. Ma giovedì arriva la telefonata della Capitaneria: c’è stato un naufragio, ci dà una mano? Da quella mattina, «U Dutturi» di Lampedusa ha preso a sberle la sua malattia, trasformandola in una molla per il servizio «acca 24», in una carica inesauribile per non staccare mai. L’Italia è anche gente così, ogni tanto accorgersene aiuta a tirare avanti. «Non dica fesserie e non s’azzardi a chiamarmi eroe», ammonisce, ruvido come sono certi angeli camuffati da camalli. «È che alcune cose posso e devo farle io, è solo senso di responsabilità. Che facevo? Me ne restavo a farmi la fisioterapia?». Probabilmente è anche amore per il prossimo, ma questo, lo schivo Pietro, non lo dirà mai.
Dice molto altro, parlando degli altri, invece: «Una cosa che mi dispiace tanto è leggere certe polemiche sui lampedusani. Questa storia del peschereccio che ha visto i naufraghi, ha fatto un giro e non s’è fermato, beh, è una balla, non ci credo proprio. Mi creda, questa è gente buona, come sono i pescatori. Gente di mare e di cuore. Pure quelli che dicono di essere stufi degli immigrati, e mugugnano, sparlano e dicono “perché non li bloccano?”. Anzi, lo sa? Quelli che sparlano sono i primi che poi vedo tuffarsi per salvare i naufraghi. L’anno scorso, per un’altra barca di cinquecento migranti, i lampedusani hanno fatto la catena umana a mare. Li hanno vestiti, sfamati. C’era un bambino ancora con la placenta, e i lampedusani hanno caricato un camioncino di roba per lui: la culla, i giocattoli, le coperte».
Pietro ne ha viste tante. Ricorda l’inizio di tutto, i primi sbarcati qui, tre tunisini, nel ‘91. «Andarono a rifugiarsi sotto il tetto di quell’albergo laggiù, lo vede? La gente non capiva, non conosceva niente, e strillava: sono arrivati i turchi!». Duecentomila migranti hanno attraversato da allora questa porta tra due mondi, tra i sommersi e i salvati. E di quei duecentomila, un bel po’ sono passati per le mani di Pietro, sono vivi grazie a lui. Ogni storia «U Dutturi» se la tira appresso. Come quei ventisei ragazzi arrivati in una stiva due anni fa, povera carne da macello, «sono sceso sottocoperta e in pratica camminavamo tra i morti. Li avevano ammazzati, lasciati asfissiare là sotto». I brividi corrono sempre sulla pelle a certi ricordi. Eppure stavolta è diverso. Stavolta, nel naufragio di giovedì, in queste vite spezzate, c’è qualcosa di insostenibile: i bambini. Ci sono immagini che ti inseguono di notte, piccoli fantasmi che fanno piangere anche se vorresti resistere. «Il bambino più grande, avrà avuto sei anni, era bellissimo, con le scarpine nuove e il vestitino, l’avevano già preparato per scendere in terraferma, per fare bella figura... e la bambina di due anni...beh, basta», qui la voce si spezza e non per i postumi del male. Dicono che con lei il dottore non abbia avuto animo di fare fino in fondo il suo mestiere, in questo caso, di medico legale. Un sospiro, un altro ricordo di giovedì mattina. Quel mucchio di cadaveri, quelle quattro eritree distese sul molo. «Mi sono avvicinato, una di loro era così giovane, così gentile. Le ho sfiorato il polso. Niente. Eppure mi sembrava che qualcosa si potesse ancora tentare. L’ho fatta portare al poliambulatorio. Per mezz’ora abbiamo provato a rianimarla. E alla fine il battito è tornato. L’abbiamo mandata a Palermo in elicottero, ha i polmoni rovinati dall’acqua di mare e dal gasolio della barca. Ma si salverà. È l’unica che ho potuto salvare giovedì, eppure se penso a lei mi sento felice». Dicono che chi salva una persona salva l’umanità intera. Ma l’angelaccio del porto è già lontano per ricordarglielo.



Letta: "Servono nuove norme europee su immigrazione e asilo"
“Oggi i migranti non vengono da noi per motivi economici, ma perché fuggono dalle guerre. Stanzieremo risorse per i minori soli”
stranieriinitalia, 07-10-2013
Roma -7 ottobre 2013 - “Sono saltate le entità statuali nella sponda sud del mediterraneo. Il nostro problema oggi si chiama Libia, motivo per il qualche abbiamo intenzione di aprire un rapporto diverso in termini di compiti, di responsabilità. Abbiamo intenzione di andare in Libia e di far assumere lì degli impegni stringenti”.
Lo ha detto il presidente del Consiglio Enrico Letta, intervenuto ieri a una trasmissione Sky Tg 24. “La cosa che va sottolineata – ha aggiunto .- anche rispetto alle polemiche sulle nostre norme, è che è cambiato tutto negli ultimi due anni. La gran parte di migranti non vengono da noi per motivi economici, che erano alla base delle norme precedenti e del tentativo di integrare ma anche di  essere molto netti nello stop [ai clandestini ndr.]. Oggi il punto è che vengono da stati in guerra, la Siria, la Libia, l’Egitto”.
Letta ha ribadito la necessità di un intervento a livello europeo. “L’Europa è fondamentale, noi abbiamo chiesto al presidente della commissione Barroso di venire e rendersi conto di persona e mercoledì mattina sarà a Lampedusa accompagnato dal ministro dell’interno. Noi con la presidenza italiana dell’anno prossimo, insieme alla presidenza greca della prima parte dell’anno, che il tema nuove norme sia al centro di tutto”.
Il premier ha puntato il dito contro il Regolamento di Dublino. “C’è da cambiare – dice - le norme sul diritto d’asilo, non può essere il primo paese che ha tutto sulle spalle”. E aggiunge che “devono funzionare meccanismi come Eurosur”, il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere.
“È essenziale che tutto questo funzioni, noi abbiamo intenzione di lavorare con grande forza, a partire dal fatto che dobbiamo aiutare i comuni e cambiare i centri di assistenza. Nei prossimi giorni – ha annunciato Letta - metteremo risorse in particolare sul tema dei bambini non accompagnati, che oggi sono lasciati a sé stessi. Sarà un intervento che il consiglio dei ministri farà questa settimana”.



E’ il momento di vedere “Mare Chiuso” (qui) e riflettere sulle responsabilità
Corriere.it, 06-10-2013
Stefano Pasta
“Stavamo andando verso un Paese migliore, l’Italia” spiega Semere Kahsay, in fuga dall’Eritrea in guerra, che il 6 maggio 2009, insieme ad ottanta somali ed eritrei, riesce ad imbarcarsi per l’Italia, su quella rotta del Mediterraneo che ha inghiottito centinaia di uomini, donne e bambini. È uno dei protagonisti di “Mare Chiuso”, il documentario di Andrea Segre e Stefano Liberti realizzato nel 2012, che la casa produttrice Zalab rende visibile gratuitamente fino alla mezzanotte di stasera, domenica. Il corpo centrale è un video girato con il telefonino di un migrante. Nascosto in una simcard e salvato dalle successive perquisizioni, è un documento che conferma quei respingimenti per cui, il 25 febbraio del 2012, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Inizialmente il video mostra l’esultanza dei profughi. Dopo quattro giorni in mare, l’acqua e i biscotti finiti, la barca in avaria, la paura di non farcela, scoppiano in lacrime di gioia quando avvistano la nave Orione della Marina Militare. Comunicano la loro felicità agli italiani: “Siamo salvi! Dio esiste!”.
 Semere pensa che finalmente conoscerà la figlia Naher e riabbraccerà la moglie, partita un mese prima e al nono mese di gravidanza. Ma una telefonata da Roma trasforma il sogno in incubo. I migranti lo intuiscono dopo alcune ore:
    “Dalla posizione del sole abbiamo capito che stavamo tornando a Tripoli”.
I militari diventano silenziosi e freddi esecutori di ordini superiori. La gioia diventa disperazione:
    “Ci state gettando nelle mani degli assassini, dei mangiatori di uomini…”, come i libici sono chiamati da chi scappa dai paesi africani in guerra.
Riportati a forza in Libia, vengono consegnati nelle mani della milizia di Gheddafi e trattati come criminali, seviziati e torturati in carceri disumane. Tra di loro, anche donne e bambini.
È la conseguenza degli accordi tra Gheddafi e Berlusconi, del Trattato di Amicizia Italia-Libia, e della “svolta” annunciata dal Ministro Maroni: dal maggio 2009, tutte le barche dei migranti venivano sistematicamente ricondotte in territorio libico e consegnate alla polizia dell’allora amico Gheddafi, che, con i soldi italiani e l’aiuto della nostra polizia, aveva il compito di fermare i migranti. Tutto ciò in violazione degli accordi internazionali: secondo la Convenzione sui rifugiati firmata a Ginevra, Semere e i suoi compagni avrebbero avuto tutto il diritto di fare domanda di asilo politico.
    Nel video, si sente Berlusconi dichiarare: “Abbiamo consegnato delle imbarcazioni al fine di riportare i migranti in territorio libico, dove possano facilmente adire l’agenzia delle Nazioni Unite per mostrare le loro situazioni personali e chiedere quindi il diritto di asilo in Italia”.
Proprio nelle stesse ore in cui l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati condannava l’Italia per i respingimenti spiegando di non aver accesso alle carceri e ai campi di detenzione libici. D’altronde, spiegava nel 2009 Gheddafi:
    “Gli africani non hanno diritto all’asilo politico. Dicono solo bugie e menzogne. Questa gente vive nelle foreste, o nel deserto, e non hanno problemi politici”.
Ne era convinto forse anche qualcuno nel Parlamento italiano, che nel 2008 approvò il Trattato di Amicizia con l’87% dei voti favorevoli. Eppure, si sapeva cosa succedeva in Libia. Il Prefetto Mori, capo del Sisde, in un’audizione del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti del 2005, descriveva un sopralluogo in un carcere libico:
    “I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi”.
Dopo il respingimento in Libia, per i protagonisti del documentario segue un anno di terribile carcere libico e poi la fuga, con la guerra del marzo 2011, verso Shousha, un campo profughi al centro del deserto tunisino. Alcuni dei protagonisti del documentario sono morti nel Mediterraneo durante un secondo viaggio.
    Semere è uno dei pochi ad aver raggiunto l’Europa: l’abbraccio con la figlia, mai conosciuta, dopo due anni e mezzo di attesa, è la commuovente scena finale del film.
Questa storia è un pugno nello stomaco perché spiega come dietro alle morti di questi giorni non c’è il caso, ma una deliberata volontà dell’Italia e dell’intera Europa.
    Commenta Zalab: “Il mare è il sicario. I mandanti sono i nostri governanti e le loro politiche di ‘accoglienza’, fatte di accordi segreti con dittatori, respingimenti, centri di identificazione ed espulsione e sacchi di plastica”.
Per chi scappa dalla guerra, è infatti quasi impossibile entrare “con le carte in regola” nella Fortezza Europa e così l’immigrazione irregolare rimane l’unica strada, anche a costo della vita. Per questo, Melting Pot ha lanciato un appello per l’apertura di un canale umanitario per il diritto d’asilo europeo. Sarebbe finalmente una risposta seria a quella “globalizzazione dell’indifferenza” evocata da Papa Francesco. Del resto, si dice spesso, pensando ai rifugiati in Italia e in Europa, “la barca è troppo piena”. L’Italia, ma anche l’Europa, è piccola, affollata, in crisi, ha già i suoi problemi, non può caricarsi di quelli degli altri. È proprio quello che dicevano e pensavano in Svizzera durante la seconda guerra mondiale, per rimandare indietro gli ebrei che cercavano scampo dalla Shoah.



Immigrati. Merkel li respinge e li rimanda in Italia. Con un treno specia
il Giornale.it, 05-10-2013
Nino Spirlì
San Placido martire – Taurianova
Nel giorno della morte, delle lacrime, delle urla, dei proclami, degli arrivi (la Boldrini sbarca a Lampedusa), della demagogia, degli anatemi papali, la KULONA MERKEL non si smentisce e, nel recupero delle antiche tradizioni germaniche, appronta un treno speciale, lo imbottisce con trecento immigrati (che da mesi vivono accampati in attesa di una decisione del governo tedesco), e, con un calcio in culo, lo spedisce in Italia! Raus!! Altro che solidarietà europea, la tedescona malvestita si conferma nemica del genere umano. Ora, poi, che ha pure stravinto alle elezioni, vedrai come ti organizza adunate e sfilate di reparti militari. Ce l’ha nel sangue… Nel DNA. Non se le farà mancare, le processioni di sturmtruppen.Ci tiene! E i nostri politici? Gli elegantoni d’Europa fanno ancora gli ateniesi: continuano a sperare nella forza della diplomazia. E invocano il premio Nobel! Azzo!
Ma, per favore, su!!! Gli spagnoli, amanti ancora dell’immonda corrida, sparano sugli immigrati. I crucchi ce li rimandano in treno. I francesi, figli di LIBERTE’ EGALITE’ FRATERNITE’, li bloccano alla frontiera. Il resto d’Europa, o se ne fotte o sta con le pezze al culo. E gli italiani si devono ciucciare da soli sia gli sbarchi che il dolore delle morti. E, magari, anche qualche lezioncina telefonica da parte di quell’antipaticona della scancelliera germanica. E, tanto per avere un contentino, ecco il Supertelegattone per la categoria Accoglienza e un ciuffo di zucchero filato, aromatizzato al luppolo, gentilmente offerto da Zia Angela Dorothea Kasner Merkel, detta come sopra citato.
Mi posso incazzare ed infocare come una stufa? Direi basta con questa “gentilezza e cortesia italiana”: io vengo dalla campagna. Sono cafone! Quando mi frullano i maroni, non conosco paletti! I miei nonni avevano le unghie nere per molte ore al giorno: non avevano tempo da sprecare in inutili mercanteggiamenti di Palazzo. Ed io, come loro, non conosco mediazioni. O è bianco, o è nero. E scacciare trecento sfortunati, per giunta con 500 euro in tasca regalati dalla Repubblica Italiana, fornendoli di un biglietto ferroviario di sola andata (un pò come quei treni che i nostri piccoli vedono nei film dedicati agli anni nefasti per la storia dell’uomo – anni pessimi proprio per le nefandezze tedesche su milioni di vittime -) per me è nero. Nero infernale. E’ negare il tanto propagandato spirito unitario e solidale d’Europa. Quello che ci ha fatto accogliere in un fiat una dozzina di poverissimi Paesi dell’ex Europa rossa, con quello che ne consegue… (vedi una delle migliaia di foto segnaletiche di simpaticissimi ospiti delle nostre galere).
Davvero, non ci posso pensare!
Trecento profughi provenienti dalla Libia, dal Togo, dal Ghana, che l’Italia, satura, ha inviato mesi fa in Germania, mettendogli pure una cospicua cifretta per il primo periodo… Non si parla mica delle decine di migliaia di morti viventi che sbarcano annualmente sulle coste del nostro Sud. Solo 300 e tutti pronti a lavorare. Ma la Germaniona della Bionda bevitrice di birra, non glielo da, il lavoro. Non vuole regolarizzarli. Li scorta alla stazione, fino al binario, li invita cortesemente – SCHNELL!!! –  a salire sul treno e AUF WIEDERSEHEN. Vorrei vomitare! Mi tratterrò: ho troppe cose da fare. Prima su tutte, inviare una copia della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo a Frau Merkel. Eccola.



Lega: "Bambini immigrati a scuola solo se conoscono l'italiano"
Proposta avanzata dalla Lega Nord: superamento di test e specifiche prove di valutazione
stranieriinitalia.it, 06-10-2013
Roma, 6 ottobre 2013 - "Rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, autorizzando il loro ingresso previo superamento di test e specifiche prove di valutazione e istituire in via sperimentale classi di alfabetizzazione che consentano agli studenti non italofoni di frequentare corsi di apprendimento della lingua italiana".
E' la proposta avanzata dalla Lega Nord e presentata nel corso di una conferenza stampa organizzata presso la Segreteria provinciale di Bergamo, citta' dove martedi' il ministro Cecile Kyenge terra' una Lectio Magistralis.
 "Da parte della Lega Nord - ha spiegato il segretario provinciale Daniele Belotti - non vi sara' nessuna contestazione. La nostra sfida alla Kyenge questa volta si giochera' solo sul piano programmatico, considerata anche l'apertura dimostrata dal ministro lo scorso 24 settembre nel corso di una trasmissione televisiva su TvSat 2000, riguardo alla proposta di istituire delle classi ponte in cui i bambini non italofoni potrebbero imparare la lingua italiana. In quell'occasione il ministro pareva aver dato il suo assenso ideologico alla proposta, riconoscendo l'insegnamento della lingua italiana quale uno dei prioritari strumenti per l'integrazione. La Lega Nord, attraverso un'azione coordinata con i Comuni, chiedera' quindi alla Kyenge di far si' che tale proposta possa essere concretizzata".
I Comuni della Bergamasca saranno i primi a scendere in campo "attraverso - ha annunciato Gianfranco Masper, coordinatore dei sindaci orobici della Lega Nord - la presentazione di un ordine del giorno che chiede appunto di rivedere il sistema di accesso degli studenti non italofoni e di istituire le classi sperimentali, seguendo l'esempio di altri Paesi europei come la Germania e la Francia". Un'iniziativa a cui il Comune di Telgate, dove la presenza di studenti non italofoni nelle scuole e' in media del 30 per cento (con picchi anche superiori al 50 come nel caso della prima media), lavora gia' da diversi anni.
"Purtroppo - ha spiegato il sindaco di Telgate Diego Binelle - il progetto, che prevedeva l'istituzione di via sperimentale di classi di alfabetizzazione e che aveva trovato il consenso del provveditore, della direttrice scolastica, delle famiglie italiane e delle associazioni locali di stranieri, si e' arenato per via della forte resistenza ideologica di alcuni insegnanti. Eppure questa e' l'unica vera strada per l'integrazione. La presenza all'interno delle classi di un numero sempre piu' elevato di alunni non italofoni si rivela infatti un ostacolo sia per gli stranieri, sia per gli italiani che assistono a una forte riduzione dell'offerta didattica, a causa dei rallentamenti nell'insegnamento dovuto alle specifiche esigenze di apprendimento degli stranieri".
 Tale iniziativa sara' sostenuta anche a Roma, dove nei mesi scorsi e' stato presentato anche un progetto di legge per l'istituzione di tali classi: "L'occasione per concretizzare quanto proposto dalla Lega c'e', si chiama Decreto della Pubblica istruzione e a breve approdera' alla Camera - ha spiegato il parlamentare Davide Caparini -. Presto, dunque, avremo modo di verificare se c'e' la reale volonta' di passare dalle parole ai fatti. Per la Kyenge sarebbe un' occasione per dimostrare di saper fare qualcosa di concreto per l'integrazione, materia in cui pare abbia ancora molto da imparare dai nostri sindaci".

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