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Rassegna ad uso
esclusivamente interno e gratuito, riservata agli
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Anno XI n. 26 del 12 settembre 2013 |
Consultate www.uil.it/immigrazione
Aggiornamento quotidiano sui temi di interesse di cittadini e lavoratori stranieri
A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento Politiche Migratorie
Tel. 064753292- 4744753- Fax: 064744751
Migratorie: appuntamenti
Roma, 17 settembre 2013, ore 15.30, Via del Velabro
Comitato Direttivo del CIR
(Giuseppe Casucci)
Brescia, 25 settembre 2013, ore 10.00
Convegno Ital – UIL su stranieri e diritti di cittadinanza
(Guglielmo Loy)
05/09/2013
– Ital Nazionale
L’INPS con Messaggio del 4 settembre n.13983 ha recepito i pronunciamenti espressi dalla Corte Costituzionale riguardante l’illegittimità della norma prevista dall’articolo 80, comma 19, Legge 388/2000 che prevedeva il possesso del permesso CE lungo soggiornanti per la concessione ai cittadini stranieri di alcune tipologie di prestazioni assistenziali. La Suprema Corte ha stabilito nelle diverse sentenze che in merito alle prestazioni riguardanti l’indennità di accompagnamento, la pensione di inabilità, l’assegno mensile di invalidità e l’indennità di frequenza, i cittadini stranieri hanno diritto a tali prestazioni, a parità di condizioni con i cittadini italiani, se sono in possesso del mero permesso di soggiorno rilasciata con validità di almeno un anno. L’INPS ha pertanto alla fine ha ottemperato a quanto statuito dalla Consulta (ricordiamo che la prima Sentenza è del 2008) precisando nel suo Messaggio, che le eventuali domande di riesame dovranno essere accolte nel rispetto del termine di prescrizione decennale. I cittadini stranieri possono rivolgersi agli uffici ITAL per ottenere maggiori informazioni ed eventualmente tramite i nostri operatori presentare domanda di riesame in base ai nuovi criteri accolti dall’INPS delle domande in precedenza rigettate dall’Istituto.
Scuola…
SOLIDARIETÀ 11 settembre 2013
di Redazione
Riprendono in queste prime settimane di settembre le lezioni scolastiche. Ottocentomila tra gli studenti che siederanno nei banchi di scuola provengono da diversi Paesi del mondo o sono nati in Italia da genitori immigrati. La scuola italiana multietnica è una realtà, che chiede uno sforzo di percorsi didattici interculturali che valorizzino una storia scolastica nuova. La Fondazione Migrantes puntualizza sulla “necessità di accompagnare a scuola i bambini, i ragazzi e i giovani migranti da poco arrivati con i ricongiungimenti familiari o con le famiglie richiedenti asilo e rifugiate. Troppo spesso tra questi bambini è facile una non immediata frequenza scolastica o, altrettanto facile, è l’abbandono scolastico”. Una seconda categoria di studenti in merito ai quali Migrantes lancia l’allarme sono i figli delle famiglie rom e sinti, soprattutto coloro che abitano ai margini della città o in campi improvvisati, che non sono stati raggiunti per l’iscrizione – da quest’anno informatizzata – e che rischiano di perdere molte settimane di scuola. Infine, il pensiero va ai bambini figli della gente dello spettacolo viaggiante. Anche tra questi studenti, che cambiano dalle 20 alle 30 scuole, nel corso dell’anno e per le quali alcune Migrantes diocesane hanno da alcuni anni un progetto di accompagnamento alla scuola, cresce l’abbandono scolastico ed è necessaria una maggiore attenzione delle istituzioni scolastiche e delle realtà sociali e politiche, perché il diritto allo studio non sia solo affermato, ma concretamente tutelato. ve.fe
….e lavoro minorile
Nel mondo sono 250 milioni i bambini e i ragazzi tra i 5 e i 14 anni costretti a lavorare. Ma anche nel Vecchio Continente sono tanti. In Italia, secondo le ultime stime, 260 mila. Parla Nils Muižnieks, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa.
Il lavoro minorile in Europa non è scomparso. E
la crisi economica rischia di peggiorare la situazione. È quanto ricorda il
Consiglio d’Europa a pochi giorni dalla campanella d’inizio scuola.
Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel
mondo sono 250 milioni i bambini e i ragazzi tra i 5 e i 14 anni costretti a
lavorare. Il problema, spesso associato unicamente ai Paesi in via di sviluppo,
è anche europeo. «Nel tentativo di farsi un’idea della
situazione nel nostro continente», ha spiegato Nils
Muižnieks, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa,
«i miei collaboratori hanno constatato che le informazioni sono molto carenti.
Di fatto, il lavoro minorile sembra essere un tabù.
Tuttavia, noi abbiamo dati sufficienti per affermare che è anche un fenomeno
europeo». Secondo l’Unesco, in Georgia
lavora il 29% dei minori tra i 7 e i 14 anni, in Albania il 19%, mentre il
Governo russo stima in un milione i bambini costretti a lavorare.
In quali settori? Dall’edilizia alle piccole fabbriche, dalla strada
all’agricoltura, magari esposti a carichi pesanti e a respirare
pesticidi pericolosi. In Bulgaria, il lavoro minorile è tipico
dell’industria del tabacco, fino a dieci ore a giorno. In
Moldavia, sarebbero addirittura stati firmati dei contratti tra i presidi di
alcune scuole e delle cooperative agricole per obbligare gli studenti a
partecipare alla raccolta della frutta e degli ortaggi. Per il Commissario Muižnieks, «il
lavoro minorile rischia di svilupparsi anche nei Paesi duramente toccati dalle
misure di austerità: Cipro, Grecia, Italia e Portogallo.
Infatti, in tempi di crisi economica, le persone in condizioni di fragilità
sono sempre colpite in maniera sproporzionata. Non stupisce quindi che il
rallentamento della crescita si traduca in un aumento del lavoro minorile. La
recessione ha spinto numerosi Paesi a ridurre in modo drastico il budget
dell’aiuto sociale. A fronte della crescita della disoccupazione,
alcune famiglie non trovano altra soluzione che far lavorare i propri figli».
Nils Muižnieks, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa (Foto:
Francesco Alesi e Gianni Cipriano/Save the Children).
E in Italia? A giugno, l’Associazione Bruno Trentin e Save the Children hanno presentato la ricerca “Game over”, secondo la quale nel Belpaese il lavoro minorile riguarda 260 mila minori sotto i 16 anni, più di uno su venti. Come Matteo, 9 anni, che vive a Napoli e lavora in un cantiere spostando sacchi di cemento che pesano quasi quanto lui per 10 euro alla settimana. Inconsapevolezza di essere sfruttati, paghe risibili e rischi per la salute sono elementi ricorrenti, come nel caso di chi lavora dalle 4 e mezzo di mattina alle 3 di pomeriggio con le mani nel ghiaccio per un pescivendolo,ricavandone a mala pena 60 euro a settimana. Lavorano in orario scolastico o di notte, con il rischio reale di compromettere gli studi, non avendo neanche un piccolo spazio per il divertimento e mancando del riposo necessario. Si inizia anche molto presto, prima degli 11 anni (0,3%) e nella fascia 11-13 (3%), ma il picco di quasi 2 ragazzi su 10 (18,4%) arriva tra i 14 e 15 anni: è l’età di passaggio dalla scuola media a quella superiore, nella quale si realizza in Italia uno dei tassi di abbandono scolastico più elevati d’Europa (18,2%, contro una media Ue del 15%). Per il 41% dei minori si tratta di un lavoro nelle mini imprese di famiglia, 1 su 3 si dedica a lavori domestici continuativi per più ore al giorno, anche in conflitto con l’orario scolastico, più del 10% lavora presso attività condotte da parenti o amici. Tuttavia, esiste un 14% di minori che presta la propria opera a persone estranee all’ambito familiare, specialmente nella ristorazione, nella vendita, nell’agricoltura e nell’edilizia. Cosa si può fare? Secondo Muižnieks, «la maggior parte dei Paesi si sono dotati di una legislazione adeguata, ma non verificano che sia ben applicata». Il Commissario si dice «profondamente preoccupato per la scarsa attenzione che viene rivolta al lavoro minorile in Europa. Spesso i funzionari pubblici sono a conoscenza del problema, ma pochi sono disposti ad ammetterlo». Accanto a controlli seri ed efficaci, la soluzione potrebbe essere, ancora una volta, la scuola: «Se il lavoro dei minori è un fenomeno grave», conclude il Commissario europeo, «è anche perché ne compromette la scolarizzazione: i loro risultati non tardano a risentirne e molti finiscono per abbandonare la scuola. Questo non fa che perpetuare il ciclo di povertà. Ciascun Paese deve applicare una politica dell’infanzia che dia la priorità all’istruzione rispetto al lavoro».
Venezia, 11 settembre 2013 - «Una scuola
in cammino, che cerca di coniugare la qualità con l'equità dell'offerta
formativa»: è l'immagine offerta dal vice direttore generale dell'Ufficio
scolastico regionale per il Veneto, Gianna Marisa Miola, alla vigilia
dell'apertura giovedì del nuovo anno scolastico con il ritorno in classe di oltre
600mila studenti, dei quali circa il 13% stranieri. Miola ha quindi "fotografato", attraverso
una sequenza di dati, la situazione della scuola veneta. Numeri che attestano
ancora una crescita: aumentano gli alunni (605.968, 4.138 in più), gli insegnanti
(48.887 titolari, di cui 861 neo-immessi in ruolo), il personale Ata (14.565
titolari), i nuovi dirigenti (40 appena nominati, tra cui una trentaduenne a
Rosà, nel vicentino) e le classi (28.274), mentre è stabile il rapporto medio
alunni/classe (21,4). Prosegue anche il riassetto del'offerta formativa: gli
istituti comprensivi costituiscono il 65,52% delle istituzioni scolastiche,
mentre nella secondaria di secondo livello il modello prevalente è quello
dell'istituto di istruzione a più indirizzi.
Avanzano decisamente (da 7 a 14) i corsi post-diploma (ITS) che prevedono itinerari formativi, compiuti per il 50% in azienda e, fra i primi diplomati (118), alcuni hanno già il contratto di assunzione in mano. Si stabilizza il numero degli alunnicon cittadinanza non italiana (13,4% rispetto al 13,2 dello scorso anno), ma oltre il 40% è nato in Italia. Rimane delicato e complesso il compito di integrazione degli scolari con disabilità (15.615). Il buon lavoro condotto dalle scuole - è stato infine evidenziato - è stato verificato dall'ottimo esito delle prove Invalsi.
Ai ragazzi che si apprestano a tornare sui banchi arrivano gli auguri del governatore Luca Zaia: «Cari ragazzi, inizia per voi un nuovo anno scolastico e nell'affrontare questa rinnovata sfida, voglio che vi accompagni il mio augurio e incoraggiamento. Chi occupa posizioni apicali, rilevanti dal punto di vista professionale (medici, presidi, rettori, imprenditori) prima o poi smetterà di lavorare per raggiunti limiti di età. Mi auguro che ci possano essere molti di voi a sostituirli, voi che sarete la classe dirigente del Veneto futuro». (Ansa)
I quattordici bambini della scuola di Costa Volpino trasferiti in un altro istituto. La decisione delle autorità scolastiche per evitare una classe-ghetto
(www.stranieriinitalia.it)
Bergamo - 10 settembre 2010 – Spariti i figli degli italiani, saranno
costretti a traslocare anche i figli degli immigrati. È l’amara soluzione del caso della
prima elementare di Costa Volpino, in
provincia di Bergamo, composta solo di bimbi di origine straniera. Questo
perché i genitori degli unici sette iscritti di origine italiana non hanno
voluto mandare i loro pargoli tra i banchi insieme a quattordici coetanei che,
almeno sulla carta, sono marocchini, albanesi, bosniaci e romeni. In realtà la
maggior parte di quei bambini sono nati in Italia e tutti, secondo le notizie
riportate dalla stampa, parlano italiano. Questo però non ha tranquillizzato le
famiglie autoctone, preoccupate che tanti alunni di origine straniera potessero
rallentare la didattica. Per evitare una “classe ghetto”, il direttore
dell’Ufficio scolastico regionale Francesco De Sanctis e il provveditore agli
studi di Bergamo Patrizia Graziani hanno deciso di cancellare quella prima
elementare. Ora i quattordici studenti verranno trasferiti in un istituto di
un’altra frazione del Paese, Piano, e saranno divisi tra due classi, in modo da
rispettare il tetto del 30% di “alunni non italiani” previsto dalla famosa
circolare Gelmini. La decisione è stata presa oggi, primo giorno di scuola, ma
diventerà operativa nei prossimi giorni. Intanto, i bambini della prima sono
stati accorpati ai compagni della seconda elementare.
Centri di espulsione
Proteste, fughe ed episodi di autolesionismo: l’esasperazione dovuta alle dure condizioni di vita spinge molti immigrati rinchiusi nei CIE a ribellarsi. Dalla politica arrivano aperture alla modifica della Bossi-Fini.
Chiusi in un reticolato di grate senza
alcuna comunicazione con l’esterno, privati di cellulari, giornali e anche di
spazi comuni. Gli immigrati irregolari che finisco nei Centri di
Identificazione ed Espulsione (oggi chiamati CIE) in attesa di essere
rimpatriati non hanno dubbi: è meglio una prigione. Esasperati da una procedura
di identificazione che può arrivare fino a 18 mesi e spesso privati dei più
elementari diritti, “gli ospiti” dei CIE (trattenuti per aver violato una
disposizione amministrativa, essere cioè privi di un regolare permesso di
soggiorno) continuano a gridare la loro sofferenza dai centri di tutta Italia.
L’ultimo centro ad esplodere è stato il CIE di Gradisca di Isonzo, dove la
protesta si è animata l’8 agosto, giorno di fine Ramadan, quando gli
immigrati hanno chiesto, invano, di poter mangiare tutti insieme e non
rinchiusi nelle loro stanze. I cittadini stranieri sono così saliti sul tetto
per protestare (due di loro sono caduti e uno versa ancora in condizioni
critiche), ma anche per stare insieme e per respirare un po’ d’aria al di là di
quei pochi metri quadri di cortile cementato concesso loro ogni giorno. Da qui
i ragazzi hanno lanciato oltre le grate le scatole di psicofarmaci che gli
vengono date per calmarsi e hanno presentato alle autorità richieste concrete:
domandano che il trattenimento non venga protratto fine al limite massimo di 18
mesi, di poter usufruire degli spazi comuni interni, come la mensa invece di
ricevere i pasti in camera, di poter leggere libri o giornali (proibiti perché
la carta è infiammabile) e di essere trasferiti in altri CIE in Italia, dove le
condizioni di vita sono migliori.
Il centro di Gradisca di Isonzo, definito il peggiore in Italia, non è l’unico ad aver fatto parlare di se. Il giorno di ferragosto è stato chiuso il CIE di Sant’Anna dell’isola di Capo Rizzuto, nel crotonese, reso inagibile da una rivolta scoppiata in seguito alla morte, avvenuta in circostanze sospette, di un magrebino di 31 anni. Disordini emergono con regolarità anche al CIE di Torino,dove non mancano tentativi di fuga ed episodi di autolesionismo, come quello frequente di ferirsi con una lametta. Le rivolte delle ultime settimane hanno riacceso i riflettori sulla sofferenza dei migranti trattenuti in questi centri, vere e proprie aberrazioni giuridiche, che non solo sono costosissime, ma sarebbero anche poco utili (meno della metà dei trattenuti viene poi effettivamente rimpatriato). La condizione di vita nei CIE è stata ampiamente denunciata da varie organizzazioni per i diritti umani come Medu e Amnesty International. Anche se i cittadini stranieri che si trovano rinchiusi hanno lo status di trattenuti o ospiti, di fatto si trovano in una situazione di detenzione: sono privati della libertà personale, non posso avere visite né far valere la difesa legale. Istituiti nel 1988 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano (art. 12 della legge 40/1998), successivamente modificata dalla legge Bossi fini (L189/2002), dal Pacchetto Sicurezza (L 94/2009) e dal decreto di recepimento della Direttiva Rimpatri (L 129/2011) i CIE ospitano spesso ex detenuti, ma anche persone che vivono in Italia da molti anni, che quì hanno famiglia, e che spesso hanno perso il permesso a causa di un contratto di lavoro non confermato o non regolarmente registrato. La permanenza nei CIE è disposta dal Questore per un tempo di 30 giorni, prorogabile fino a 18 mesi, “quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione”. Troppo spesso però viene raggiunto questo tetto massimo che ha costi monetari e umani elevatissimi. Inoltre, i termini della detenzione non sono stabiliti soltanto da norme legislative, ma anche da regolamenti e convenzioni stipulate tra Prefetture ed enti privati tramite gare d’appalto, creando così una privatizzazione della detenzione, le cui regole possono cambiare da centro a centro e portare a situazioni estreme come quelle vissute nel CIE di Gradisca. Come dichiarato in questi giorni dal ministro per l’integrazione Kyenge una riforma normativa, che rimetta al centro “la persona” e i suoi diritti, è ormai urgente. In seguito ai fatti di Gradisca di Isonzo anche la provincia di Gorizia si è espressa a favore della chiusura del centro, definendo come fondamentale l’avvio di “una riforma più complessiva delle politiche dell’immigrazione sensibilizzando in primo luogo l’Europa a superare la modalità basata sui respingimenti e ricercando, al contrario canali diretti a mantenere gli stranieri in un percorso di progressiva integrazione.”
Elisa Piccioni
Immigrazione e società
Un numero equivalente, per dimensione demografica, alla province di Varese o di Monza e Brianza. Secondo l’assessore regionale alla Sicurezza, Protezione civile e Immigrazione Simona Bordonali, la presenza degli stranieri, “è fortemente legata al problema della mancanza di lavoro"
Milano, 11 settembre 2013 - In Lombardia vivono circa 1.129.000 immigrati,
che corrispondono al 23,2 per cento del totale nazionale. E’ uno dei dati contenuti nel rapporto
2012 elaborato da Orim, l’Osservatorio regionale sull’immigrazione e multi etnicità.
Numeri che, secondo l’assessore regionale alla Sicurezza, Protezione civile e
Immigrazione Simona Bordonali, “certificano innanzitutto come la Lombardia sia
stata fino a oggi un modello di integrazione”. Secondo gli
ultimi dati disponibili, relativi al 2012, gli immigrati in Lombardia, in
dodici anni, sono passati da 400.000 a 1.200.000 unità. Nonostante la lieve flessione
riscontrata nell’ultimo anno, l’intero arco temporale 2001-2012 è andato
comunque caratterizzandosi per un incremento della presenza straniera di ben
817.000 unità. Un numero equivalente, per dimensione demografica,
alla province di Varese o di Monza e Brianza. L'assessore a
proposito dell'emergenza profughi ha commentato: "Per tentare di risolvere
le problematiche legate al fenomeno dell’immigrazione credo sia necessario
superare la parte del Trattato di Dublino, che prevede per l’immigrato l’obbligo
di rimanere sul territorio dello Stato a cui si chiede lo status di rifugiato”.
Si tratta, a suo parere, di una norma che penalizza fortemente la Lombardia “perché induce gli immigrati a
rimanere clandestini per non incorrere nell’obbligo di vivere in Italia per
circa due anni”. “Attualmente le
tematiche dell’immigrazione in Lombardia sono fortemente legate al problema
della mancanza di lavoro. È
in grande crescita anche la percentuale degli stranieri disoccupati, salita al
14,4 per cento. Ritengo dunque - ha aggiunto l’assessore - che sia prioritario
offrire risposte occupazionali alle centinaia di migliaia di Lombardi e agli
stranieri integrati rimasti senza lavoro, prima di accogliere nuovi flussi
migratori”.
Reportage
Il Perù di oggi, tra boom economico e antiche fratture sociali
Di Beppe Casucci.
Lima, 7 settembre 2013 - La Carretera Panamericana, scivola ondeggiando per oltre 3000 chilometri lungo la costa del Perù, dalla ordinata città di Tacna, ai confini con il Cile fino ai bordi dell’Ecuador. Costeggia un’area oceanica che gode di uno tra i più ricchi ecosistemi, passando vicino alle linee di Nasca, alle isole di Paracas fino a raggiungere Lima per poi proseguire verso il Nord del Paese e le città di Chimbote, Trujillo e Chiclayo. Dopo il dipartimento di Piura, ci si avvicina al confine con l’Ecuator e la città confinante di Tumbes. Lì finisce il Paese che fu centro dell’impero Inca, ma la grande arteria che costeggia il Pacifico prosegue la sua corsa fino al Centro America. Non è un’autostrada anche se, a tratti, compaiono lungo il percorso caselli stradali che impongono una tassa di transito agli automobilisti, con il ricavato della quale le municipalità del posto provvedono alla manutenzione del proprio tratto di Panamericana.
Gli autobus che percorrono a grande velocità la carretera, sono carichi di passeggeri e mercanzie: mezzi moderni e turistici, come anche vecchie carcasse che trasportano gente della provincia verso il luogo di residenza. A tratti compaiono lungo il percorso luoghi di ristoro, dentro ma anche lontano dalle città. Negli anni ’80 e ’90, il selciato di questa superstrada era pieno di buche, ed alternava tratti asfaltati con lunghissime carreggiate di terra battuta. Non era inusuale inoltre incontrare peones locali che tenevano pulito un tratto di pista, chiedendo in cambio un obolo agli automobilisti di passaggio.
Oggi la Panamericana appare liscia ed asfaltata, biglietto da visita di un Paese avviato al pieno boom economico. E’ però quasi l’unica strada statale del Perù a sembrare una moderna via di comunicazione, se si eccettua la “Carretera Central”, che origina in Lima, attraversa il valico andino di Ticlio a 5.300 metri d’altezza, per biforcare poi verso la città andina di Huancayo a sinistra e a destra scendere verso la provincia della Merced, ai bordi della Selva Amazzonica. Nel suo lungo percorso ai bordi dell’oceano, la Panamericana attraversa una striscia di deserto larga poche decine di chilometri che parte dall’agitata e pescosa costa, per terminare alle soglie della cordigliera. In effetti, la geografia del Paese è suddivisa in tre aree distinte: la costa con la fasciadesertica, la cordigliera delle Ande con i suoi microclimi e bellezze naturali e un’estesa porzione della foresta fluviale, un ecosistema tra i più ricchi e variegati del mondo. Tre fasce con tre climi distinti, ma anche abitate da popolazioni di differenti etnie, con propri dialetti, costumi e ricorrenze tradizionali, differenti cucine e prodotti della terra: ma soprattutto livelli di sviluppo spesso lontanissimi tra loro. La popolazione costiera (oltre il 55% dei quasi 30 milioni di abitanti del Paese) ha assunto da tempo abitudini nettamente occidentali, fortemente influenzate dalla cultura degli USA o dell’Europa.
L’ambiente sociale della sierra è in forte fase di evoluzione, grazie all’arrivo della corrente elettrica una ventina d’anni fa, e con essa la televisione, l’acqua corrente, i telefoni cellulari ed in generale
anche maggiori strade e mezzi di trasporto. Più difficile l’uso di moderne tecnologie in agricoltura, vista la complessa natura del terreno coltivabile nelle Ande. Molto più arretrata è invece la situazione nella Selva (dove vive solo il 16% della popolazione complessiva), se si eccettuano grandi città come Amazonas, Iquitos e Pucallpa. Il resto è una grandissima superficie di foresta fluviale, dove vivono ancora tribù che si tengono ben lontane dalla civiltà e dove si sono rifugiati gli accoliti superstiti di Sendero Luminoso, che si dice continuino a terrorizzare le popolazioni più limitrofe e si finanzino con il narcotraffico. Sulla costa, il paesaggio è suggestivo, con spiagge sterminate, quasi completamente deserte, popolate da leoni marini, foche e gabbiani, tranne a ridosso dei centri abitati dove la pesca fa spesso scempio dell’equilibrio ecologico del mare. La carretera attraversa centinaia
di paesini dove la vita è molto più dura che nella capitale. Non mancano zone a coltivazione intensiva di arance o mango, specie quando l’acqua è disponibile, come le aree di Huaral ad un centinaio di chilometri da Lima, le aree circostanti alle città di Chimbote e Trujillo e soprattutto i Dipartimenti di Cajamarca e Piura, dove il gruppo Romero ha largamente investito nel settore
agroindustriale. In genere però, la gente della provincia vive della coltivazione di pochi ettari di terra, l’allevamento di qualche animale e spesso l’aiuto di familiari andati a cercare lavoro in una metropoli di oltre 10 milioni di abitanti, oppure emigrati all’estero. In genere,quello che queste famiglie ricavano dal proprio fazzoletto di terra è sufficiente per le proprie necessità basilari.
Anche se da decenni la gente della provincia emigra verso la capitale, non è più facile, comunque, la vita nella periferia di Lima popolata da sterminate baraccopoli che ospitano da anni milioni di persone arrivate dalla Sierra e dalla Selva, in cerca nella metropoli di qualche mezzo di sussistenza. Ragazze destinate al lavoro domestico, senza alcun contratto e spesso in cambio di cibo e ospitalità. Giovani avviati ad occupazioni nell’agricoltura, edilizia e commercio con paghe a volte inferiori di fatto ai 200 euro mensili. Bisogna considerare, infatti, che il lavoro informale nel Paese è la regola e non l’eccezione ed i parametri ufficiali spesso non sono sufficienti per avere una idea chiara della situazione.
Lavoro nero, soprattutto nell’area del commercio, necessario comunque a garantite un livello minimo di sopravvivenza in una metropoli sempre più cara. Il Washington Post ha detto qualche anno fa che il costo della vita a Lima non è inferiore a quello di New York. Non sbagliava di molto. La distanza tra l’universo delle favelas, ai bordi della povertà, e la crescente opulenza di una classe media in aumento, è abissale. Dopo anni di boom economico ininterrotto, con una crescita dell’economia stimata per il 2013 del 6% ed una lievitazione del PIL procapite superiore al 4% annuo, il Perù ha mostrato un particolare dinamismo tra i Paesi in via di sviluppo, anche se deve ancora in gran parte modernizzare la propria struttura economica e produttiva. Sul piano sociale, inoltre, notevoli passi in avanti sono stati fatti. Il Paese andino è in America Latina, tra quelli che hanno registrato maggiori progressi sul terreno dell’inclusione sociale. Il tasso di povertà si è dimezzato negli ultimi 12 anni, passando dal 54,5% del 2001 al 28,5% del 2012: un livello certo ancora critico, ma in fase di ulteriore miglioramento. Il Paese ha combattuto l’alto tasso di mortalità infantile che, nel 1990 era il quarto più alto a livello mondiale (75 bambini ogni mille nati) e che è sceso da allora del 76%. Il reddito pro-capite ha raggiunto nel 2012 quota 12.062 US$, una cifra ragguardevole che pone il Paese (secondo l’FMI) tra quelli a più rapida crescita nel XXI secolo in America Latina, pur mantenendo un’inflazione relativamente bassa (+3,6% nel 2012). L’attuale presidente del Perù Ollanta Umala, ha portato il salario minimo a 280US$ anche se in molti settori questa base non viene rispettata, a partire da quello del lavoro domestico ed in generale nell’economia sommersa. Dal punto di vista economico e produttivo, il quadro è nettamente positivo, con settori in forte espansione, come quello immobiliare, finanziario, turistico, industria ittica e settore commerciale. Il comparto delle costruzioni è in forte crescita ormai da alcuni anni. Girando per la città, in centro come nelle zone residenziali, si possono osservare migliaia di grandi edifici in costruzione. Si sa che gli investimenti esteri sono in forte aumento e hanno raggiunto una quota pari ad un terzo del prodotto interno lordo. Il grado di affidabilità del Paese è cresciuto, tanto da convincere le agenzie di rating ad aggiornare al rialzo la classificazione del Paese. Il prezzo degli appartamenti e degli immobili è più che triplicato in 5 anni. “In parallelo con il grado di finanziamento delle banche ad imprese e famiglie – commentano gli economisti : oggi finalmente i peruviani sono diventati soggetto di credito”. Questo si è tradotto nella moltiplicazione dei mutui concessi per acquistare una casa, un’auto, o finanziare gli studi dei figli e nel boom delle carte di credito. “Il rischio, commentano alcuni esperti, è quello di ripetere in America Latina la bolla di cattiva finanza già scoppiata negli USA ed in Europa”. “Che succederà infatti se l’economia cinese rallenterà e non avrà più bisogno di tante materie prime?”. Quello di cui c’è bisogno sono le riforme strutturali, capaci di modernizzare il sistema produttivo, l’apparato burocratico e creare un minimo di <welfare state> per combattere le situazioni di povertà estrema.
In effetti la macroeconomia non dà tutte le risposte e l’aumento enorme delle riserve monetarie del Paese non si è tradotto necessariamente in maggior benessere economico per tutti. Moltissime
persone vivono in condizioni di povertà, soprattutto nelle aree marginali ed in provincia e non bastano le statistiche a tranquillizzare chi è ai bordi della miseria. Un timido tentativo di inclusione sociale è stato fatto dall’attuale Presidente del Perù, che ha istituito un sussidio minimo per le persone totalmente prive di mezzi di sussistenza: cento soles al mese, equivalenti a meno di 30 euro. Un minimo di copertura sanitaria viene anche concessa agli agricoltori. Ma in generale la tutela sanitaria appare inesistente per chi non abbia un lavoro formale, o non sia in grado di pagarsi una assicurazione sanitaria. Le medicine costano più che in Europa e malattie come il colera la tubercolosi e – specie nella Selva – la malaria sono piaghe sociali ampiamente diffuse, come del resto le malattie al sistema respiratorio. Dopo due decenni di depressione, con il boom economico asiatico è venuta anche la bonanza economica per l’America Latina. Ed in effetti il nuovo benessere peruviano viene soprattutto dalla vendita delle materie prime di cui il Paese è ricco. Un proverbio antico da queste parti, raffigura il Paese come un medicante seduto sopra una montagna d’oro. Se non proprio una montagna d’oro, è certo che, ai tempi dei “conquistadores”, alcuni galeoni carichi del metallo prezioso presero
il largo da queste coste verso la Spagna.
L’impero Inca, iniziato nel XIV secolo, ebbe termine nel 1535 con la cattura del sovrano Atahualpa da parte del comandante spagnolo Francisco Pizarro. L’evoluta civiltà Incaica venne brutalmente distrutta da un esercito di mercenari brutali e spietati, superiori solo nell’armamento, che si fecero scudo della croce, ma non certo animati da spirito di conoscenza e carità. Un piccolo esercito di 160 soldati, però dotato di cavalli ed armi da fuoco, tra cui cannoni, con alla guida Francisco Pizarro, sbaragliò l’impero incaico, che pure aveva accolto con ospitalità gli stranieri venuti dal mare. La superiorità tecnologica ed una buona dose di malizia, dettero agli spagnoli il vantaggio necessario per soggiogare l’impero incaico, che pure si estendeva dall’Ecuador al Cile. Si dice che Atahualpa, per essere rilasciato offrì di far riempire di metalli preziosi la stanza in cui era imprigionato. Pizarro accettò l’offerta del sovrano Inca e fece addirittura stilare un regolare contratto da un notaio. Una volta che ricevette il tesoro, però, non ebbe scrupoli a fare assassinare il prigioniero. Così il Perù venne privato delle proprie ricchezze e della propria cultura ed identità di popolo. Malattie portate dagli europei (ad esempio il vaiolo e l’influenza) fecero strage della popolazione indigena che ora rappresenta solo il 31% del totale. L’obiettivo degli spagnoli era soprattutto l’oro, cui gli indigeni conferivano solo un valore ornamentale. Qualche galeone è finito, si
dice, in fondo all’oceano e non è mai arrivato nelle mani del re di Spagna.
Oggi non è il prezioso metallo che viene venduto alla Cina ed ai Paesi asiatici, ma un insieme composito di minerali, petrolio, gas naturali,prodotti agricoli e farina di pesce. La fortuna del Perù, oggi come ieri, dipende in gran parte dalle materie prime di cui il paese è molto ricco e soprattutto dalla crescita economica del Sud Est asiatico che necessita di materie prime e di energia in maniera superiore alle proprie disponibilità. Il fenomeno interessa una buona parte dell’America Latina, soprattutto il Brasile, l’Argentina, il Perù ed il Cile: una crescita tumultuosa legata però alle sorti della performance economica del gigante cinese. Oggi, con il rallentamento delle economie nelle aree asiatiche, i contraccolpi cominciano a sentirsi anche in America Latina, a cominciare dal settore finanziario e costo del denaro. Per anni l’ingente flusso di capitali esteri ha certo riempito le casse dello Stato peruviano e prodotto la crescita di alcuni settori produttivi, ma l’enorme surplus di risorse non viene distribuito in maniera equa e non produce automaticamente più lavoro e più reddito, o lo fa solo in parte. La povertà non è stata ancora del tutto sconfitta e le fratture sociali sono ancora molto nette.
Il Perù, ad esempio, non ha fatto ancora i conti con la propria storia recente. Negli anni ’80 ed inizio ’90 il Paese fu devastato dagli attentati e dalla violenza di Sendero Luminoso, un gruppo guerrigliero che si ispirava all’ideologia di Mao Tse Tung, e che non disdegnava la violenza ed il terrore anche nei confronti della popolazione rurale. La guerra civile produsse un totale di 70 mila morti, in gran parte popolazione civile. Sendero utilizzava l’esecuzione di avversari politici per spaventare la popolazione, come successe alla leader delle donne del “vaso de leche” di Villa El Salvador, Maria Elena Moyano, “colpevole” di opporsi e denunciare la follia del terrorismo. Anche da parte governativa non sono mancate le degenerazioni,con esecuzioni sommarie e scomparsa di oppositori politici. Il fenomeno di Sendero fu certo un prodotto della degenerazione ideologica, che si alimentava e speculava però anche delle profonde ferite sociali che laceravano il Paese. Il terrorismo fu sconfitto militarmente dal Presidente Fujimori (ora in carcere per delitti contro l’umanità), attraverso lo sterminio o l’incarcerazione dei componenti del gruppo guidato dal prof. universitario Abimael Guzman. Non sono mancati squadroni della morte ed eliminazione di sindacalisti ed avversari politici da parte dei militari, cosa che è costata all’ex presidente di origine giapponese 25 anni di carcere,quale mandante della scomparsa di numerosi oppositori. Le cause dei rivolgimenti sociali, invece, sono state invece semplicemente dimenticate, com’è spesso successo nella storia della popolazione, soprattutto quella indigena di questa nazione.
La capitale potrebbe oggi assomigliare in parte ad un paese del primo mondo, con i suoi grattacieli, moderni servizi finanziari e luccicanti centri commerciali brulicanti di clienti, la ricchissima zona residenziale della Molina ed il nuovo potere delle banche. Non bisogna dimenticare, inoltre, il copioso traffico di cocaina prodotta nella Selva Amazzonica, che nessun governo è riuscito (o ha voluto) eliminare e che pesa non poco sulla quota sommersa di Pil.
Si tratta inoltre ancora di una crescita diseguale. Basta allontanarsi dal centro della città e ci si trova immersi nelle gigantesche favelas che circondano la capitale (qui chiamate pueblos jovenes): un mare sterminato di baracche e casette in muratura che ospita almeno la metà dei 10 milioni di abitanti della capitale. E basta allontanarsi da Lima per misurare la distanza sociale che divide il centro dalla periferia.
La provincia continua ad essere fortemente trascurata. Anzi, più ci si allontana dalla costa, più sembra di tornare indietro negli anni, anzi nei decenni, in termini di sviluppo ed assenza di servizi alla popolazione. Di conseguenza, tranne poche città della costa, la gente continua ad emigrare verso il centro abbandonando i paesini delle Ande e della Selva Amazzonica, in cerca di un futuro migliore. La rete di comunicazione stradale è ancora molto limitata, con pochissime strade asfaltate: il tutto reso più difficile dall’estensione del Paese che è grande almeno 5 volte l’Italia, ed ha quasi la metà della sua superficie coperta dalla foresta Amazzonica, le cui città sono collegate con Lima soprattutto via aerea, vista l’assenza di una rete stradale moderna all’interno della foresta fluviale.
Visitando i paesi delle Ande, splendidi e suggestivi, nella ricchezza delle proprie antiche tradizioni, non si può non notare, purtroppo la distanza – in termini di moderno sviluppo – che separa questi
limitati aggregati umani dalle grandi e medie città della costa. La cittadina di Corongo, a circa 200 kilometri a Nord di Huaraz capoluogo del Dipartimento di Ancash, aveva 20 anni fa oltre 10 mila abitanti. Oggi non raggiunge le mille unità ed è chiamata “la ciudad de los candados” (la città dei lucchetti), per il numero preponderante di case abbandonate e chiuse a chiavistello, in quanto l’intera famiglia si è trasferita a Lima, Huaraz o Chimbote. E questo è solo uni di mille altri esempi. Non c’è avvenire infatti nei paesini della provincia del Perù e la distanza sociale è misurata non solo in livelli di reddito o gli scarsi servizi messi a disposizione della popolazione rurale, ma soprattutto dal razzismo esistente tra i ceti sociali, tra la costa e la provincia, tra chi porta un nome spagnolo e chi ne ha uno Quechua, tra chi ha la pelle più chiara e chi è di provenienza meticcia. “Cholo” è il termine con cui un costegno definisce il giovane arrivato dalle Ande, un termine a volte carico di disprezzo anche se non sempre. Il Perù di oggi ha una scommessa da giocare e lo deve fare fino a che c’è ancora tempo: utilizzare questa fase non infinita di crescita economica per modernizzare il Paese, attraverso grandi riforme
strutturali della propria economia, struttura burocratica e sistema politico. “Soprattutto – commenta un piccolo imprenditore andino – è urgente ampliare e facilitare la rete di comunicazione tra centro e provincia, in modo da ridurre gli altissimi costi di trasporto delle merci. Creare occasioni d’impiego anche lontano della costa, in modo da frenare il sanguinoso esodo da ogni angolo del grande paese verso la capitale” (che conta quasi un terzo dei 30 milioni di abitanti del Perù). E’necessario, in sintesi, ridurre il divario sociale tra una classe media in arricchimento e la grande maggioranza della popolazione che vive ancora al di sotto dei livelli di povertà. E soprattutto modernizzare il settore produttivo, creando una più estesa industria di trasformazione, mercato secondario e terziario. L’alternativa, potrebbe essere fatale,se la richiesta di materie prime dai Paesi asiatici dovesse cedere di colpo. I primi segnali di una inversione di tendenza sono già presenti nei mercati internazionali, per cui sarebbe urgente operare con rapidità. Oggi il Perù ha ancora una grande occasione, molto più favorevole che
in Europa, di migliorare: di passare da un Paese in Via di Sviluppo ad una nazione del Primo Mondo. Potrà farlo anche se diventa una moderna democrazia capace di sbarazzarsi della piaga della corruzione e dalla fortissima influenza del mercato della cocaina. Lo potrà fare se riuscirà a creare e consolidare una estesa classe media, riducendo le distanze sociali e superando le barriere delle discriminazioni e del razzismo interno, che ne hanno per secoli rallentato il cammino verso la propria emancipazione.
Notizie in Breve
Sono
232 milioni i migranti nel mondo, la metà concentrata in dieci nazioni.
Il 3 e 4 ottobre, a New York, il meeting Onu su migrazioni e
sviluppo internazionale.
(12 settembre 2013)
Nel
2013 i migranti nel mondo sono stati 232 milioni di persone, pari al 3,2 per
cento della popolazione globale, contro 175 milioni nel 2000 e 154 milioni nel
1996. Lo rivelano le Nazioni Unite presentando l’incontro “ad alto livello”
sulla migrazione e lo sviluppo internazionale chesi terrà a New York il 3-4
ottobre. Europa e Asia assieme sono i continenti che ospitano quasi due terzi
della popolazione migrante mondiale. L’Europa resta la destinazione principale
con 72 milioni di persone contro i 71 milioni dell’Asia.
Dal 1990 il Nord America ha visto il maggior incremento della popolazione
migrante con 25 milioni in più a un tasso del 2,8 per cento annuale.
“Nuove fonti e nuove destinazioni stanno emergendo e in alcuni casi ci sono
paesi diventati importanti punti di origine, transito e destinazione
simultaneamente”, ha detto John Wilmoth, direttore della Divisione sulla
popolazione del Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’Onu.
Altre statistiche delle Nazioni Unite rivelano che nel 2013 metà di tutta la
popolazione migrante del mondo si è concentrata in dieci nazioni, con gli Stati
Uniti in testa (45,9 milioni), seguiti da Russia (11 milioni), Germania (9,8)
Arabia saudita (9,1), Emirati Arabi Uniti (7,8), Regno Unito (7,8), Francia
(7,4), Canada (7,3), Australia (6,5), e Spagna (6,5 milioni).
(Red.)
World News
Domestic
Workers Treaty Goes Into Force
Governments Should Ratify Groundbreaking Global Convention
(New York, September 3, 2013)
– A groundbreaking global treatyon
the rights of domestic workers goes into legal effect on September 5, 2013,
offering vital protections to millions of workers around the world, Human
Rights Watch said today. Governments should promptly act to ratify and enforce
the Convention concerning Decent Work for Domestic Workers (the Domestic
Workers Convention), Human Rights Watch said. The
Domestic Workers Convention, No. 189, adopted by International Labour
Organization (ILO) members in 2011, sets standards for the estimated 50 to 100
million domestic workers worldwide – mostly women and girls – who perform essential household work
in private homes. These workers cook, clean, and provide care for children and
the elderly, but in many countries are excluded from basic labor law
protections. Domestic workers face a wide range of human rights
violations, including excessive working hours without rest, non-payment of
wages, forced confinement, physical and sexual abuse, forced labor, and trafficking. “Domestic workers are among the most
abused and exploited workers in the world,” said Gauri van Gulik,
women’s rights advocate at Human Rights Watch. “With the Domestic Workers Convention
now coming into effect, millions of women and girls will have a chance for
safer working conditions and better lives.” Under the treaty, domestic workers
are entitled to protections available to other workers, including weekly days
off, limits to hours of work, and minimum wage and social security coverage.
The convention obligates governments to protect domestic workers from violence
and abuse, and to prevent child labor in domestic work. It also requires
governments to ensure that domestic work by children above the minimum age of
employment does not deprive them of compulsory education or interfere with
opportunities to participate in further education or vocational training. Since the
treaty was adopted in 2011, more than 30 countries have enacted crucial law
reforms to better protect domestic workers, such as limits on working hours,
access to social security and maternity benefits, minimum wage guarantees,
overtime pay, and other basic labor rights. “Dozens
of countries have strengthened labor protections for domestic workers in recent
years,” van Gulik said. “Although these reforms are very encouraging, we are
still a long way from ensuring that all domestic workers enjoy basic labor
rights.” As of
September 2013, 8 countries have led the way by ratifying the Domestic Workers
Convention – Bolivia, Italy, Mauritius, Nicaragua, Paraguay, Philippines,
South Africa, and Uruguay. Others are taking steps towards ratification. As the
treaty enters into force, countries that have ratified are now bound to implement
its obligations. Human
Rights Watch has investigated conditions for domestic workers in over 20
countries around the world, documenting routine exclusions from national labor
law, exploitation, and labor and criminal abuses. Domestic workers who are
children – nearly 30 percent of the total – and migrants are often
the most vulnerable to abuse and exploitation, Human Rights Watch said. “Many
children working in private homes are denied their wages, deprived of
education, and abused and overworked by their employers,” said Jo Becker,
children’s rights advocacy director at Human Rights Watch. “Governments have an
obligation to help these children by ratifying the Domestic Workers
Convention.” Migrant domestic workers are often at heightened risk of
exploitation due to excessive recruitment fees, language barriers, and national
policies that link workers’ immigration status to individual employers. Human
Rights Watch has documented abuses against migrant domestic workers, including
beatings, confiscation of passports, confinement to the home, overlong working
hours with no days off, and in some cases, months or years of unpaid wages. The
Domestic Workers Convention includes specific provisions to protect migrant
domestic workers, including requirements to regulate private employment
agencies, investigate complaints, and prohibit the practice of deducting from
domestic workers’ salaries to pay recruitment fees.
“Many migrant domestic workers are isolated in private homes, facing heightened
risk of abuse but few legal protections,” van Gulik said. “This treaty can
change lives by helping domestic workers do their jobs in safety and dignity
– and reach help when they are abused.”
For more Human Rights Watch reporting on domestic workers,
please visit:
http://www.hrw.org/topic/womens-rights/domestic-workers