09 aprile 2014


                                        AL BARI INTERNATIONAL FILM FESTIVAL
                         TERRA DI TRANSITO DI A BUON DIRITTO PER LA REGIA

                                                    DI PAOLO MARTINO


Il dramma paradossale dei richiedenti asilo in fuga da Paesi in guerra, verso il  Nord Europa. Bloccati dove non vogliono restare: in Italia.
In concorso nella sezione documentari, il film prodotto dall’Associazione A Buon Diritto con Istituto Luce-Cinecittà. Anteprima assoluta al Festival il 10 aprile.
Inizia dal Festival di Bari, una città e un territorio simbolo nella storia delle migrazioni e dell’accoglienza, il viaggio sugli schermi italiani di Terra di transito, il docufilm di Paolo Martino, giovane reporter e documentarista, classe 1983, prodotto dall’Associazione A Buon Diritto con Luce-Cinecittà, che lo distribuisce per l’Italia, e che ha ottenuto il Patrocinio della sezione italiana di Amnesty International e il sostegno di Open Society Foundations.
Il tema delle migrazioni in Italia ed Europa, un tema urgente oramai da decenni, sottoposto ai tempi della politica – tra periodiche emergenze e perenni rimandi – e discusso tra spinte demagogiche e astrazioni statistiche, in Terra di transito viene declinato in una prospettiva spiazzante, a partire dal racconto di Rahell.

IL FILM
Rahell, rifugiato bambino dall’Iraq in Siria, è costretto ad abbandonare anche questa terra.  La sua rotta personale, senza visti né passaporto, lo conduce in Europa, e in Italia, da dove spera di raggiungere la Svezia per ricongiungersi con i suoi familiari. Ma allo sbarco in Italia, Rahell scopre che a dividerlo dalla sua meta c'è il regolamento di Dublino, legge europea che impone ai rifugiati di risiedere nel primo paese d'ingresso in Europa. Come per migliaia di coetanei, il destino di Rahell diventa determinato da un semplice controllo dei documenti o dalla scansione delle sue impronte digitali. Da lì, ogni tentativo di espatrio verso la meta desiderata si trasforma in un’espulsione nel nostro Paese, quello che per legge detiene l’‘appartenenza’ della pratica di Rahell. Lontano dalla sua famiglia e dal suo personale progetto di vita, Rahell è costretto a risiedere in Italia, un Paese spesso incapace di accogliere e di garantire un percorso di vita autonomo alle persone che protegge. Un Paese che è diventato solo una Terra di Transito.
Nella sua odissea personale, Rahell incontra altri ragazzi in fuga dalla Siria, l’Afghanistan, l’Iraq. Ne raccoglie le storie, i volti. Si fa autore di un’indagine, che mostra il paradosso di una legge iniqua che considera numeri e pratiche, ma non le esigenze e il vissuto delle persone. E le tiene bloccate in un Paese che non vuole accoglierli, e che loro non vogliono.
Ed è questo l’altro enorme paradosso mostrato da Terra di transito. L’immagine di un’Italia travagliata dalla crisi, inerte e incapace di sostenere politiche e logiche non emergenziali quando si tratta di immigrazione. Un Paese che si sente invaso da cittadini stranieri. I quali, come Rahell e tanti altri, sognano di andare altrove. Andare verso le nazioni ricche di quella stessa Europa – che offrono sì un trattamento migliore a quanti accolgono – ma che hanno promosso leggi come il regolamento di Dublino e reso così difficile riuscire a entrare nella fortezza europea.
Con l’immagine finale di ragazzi, con un’attesa e un’aspettativa negli occhi, che se non fosse per la lingua somiglierebbero a tanti ragazzi italiani.

Dopo la prima in concorso al Festival di Bari, Terra di transito arriverà nelle sale italiane, con un progetto di proiezioni e incontri promosso da Luce-Cinecittà insieme all’Associazione A Buon Diritto.
Per ulteriori informazioni:
Press contact
Marlon Pellegrini – Ufficio stampa Istituto Luce Cinecittà – 334 9500619
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www.cinecitta.com
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Immigrati, 4 mila arrivi in 48 ore. Un morto a bordo di un barcone
Una valanga umana destinata a ingrossarsi nei prossimi giorni. In Libia, in attesa, oltre 400 mila persone
la Repubblica, 09-04-2014
FRANCESCO VIVIANO
Nelle ultime 48 ore sono oltre 4mila i disperati soccorsi dalle navi della nostra Marina Militare tra le coste nord africane e quelle siciliane. Gli ultimi 2mila soltanto ieri e tra questi c'è anche un morto. Una valanga umana destinata ad ingrossarsi ancora di più nei prossimi giorni, nelle prossime settimane. Ed è così intenso l'arrivo dei barconi verso le nostre coste che la nostra Marina Militare, le navi dell'operazione Mare Nostrum, non sono sufficienti a salvare quelle migliaia di persone che in un modo o in un altro tentano di raggiungere l'Europa, tanto da richiedere l'intervento delle navi mercantili che si trovano in quella zona di mare che pullula di barconi. La stima dei nostri servizi segreti, confermata dal ministro degli interni, Angelino Alfano è che nei campi di raccolta in Libia ma anche in Egitto ci sono oltre 400 mila persone, in maggioranza Siriani, Palestinesi, Etiopi, Eritrei, Senegalesi, Nigeriani e di altri Paesi del Centro Africa, che sono in attesa di partire con i barconi gestiti dai trafficanti di esseri umani.
"L'emergenza si fa sempre più grave, non c'è uno stop agli sbarchi", ha detto Alfano."In questo momento- aggiunge- ci sono due navi mercantili, commerciali, da noi allertate, che stanno soccorrendo una 300 l'altra 361 persone, e si  stanno prodigando nell'aiuto a queste persone".
Secondo l'ultima radiografia dei nostri servizi segreti, oltre mezzo milione di persone, siriani, eritrei, etiopi, nigeriani, sudanesi e di altri paesi centroafricani, sono ammassati nelle "prigioni" dei trafficanti libici in attesa di essere trasferiti su "navi madre" e barconi diretti verso le coste siciliane, anzi, verso le nostre navi della Marina Militare dell'operazione Mare Nostrum, che da mesi battono in lungo ed in largo il mare tra le coste nord africane e quelle italiane. Attualmente, secondo le informazioni raccolte sul posto dall'Aisi e dall'Aise (i nostri servizi interni ed esteri) oltre cinquecento "Katibe", bande paramilitari armate fino ai denti, con la complicità di poliziotti e della guardia costiera libica corrotti, gestiscono il grande business dell'immigrazione clandestina verso l'Italia. Le aree maggiormente interessate all'organizzazione delle "partenze" sono quelle intorno a Tripoli, Misurata e Bengasi dove arrivano le centinaia di migliaia di disperati provenienti da Sudan, dalla Nigeria e  da altri paesi cel Centro Africa e che fanno capo a due grandi punti di "raccolta" e "snodo", l'oasi di Kufra (nel sud-est della Libia) e l'area di Sebah (nel sud Ovest).  Ed in seguito del conflitto nel Mali il Niger è diventato il principale collettore pre-libico degli africani che si muovono dai Paesi del Centro Africa e che "sbarcano"
a Sebha. Sul versante orientale del continente il punto di raccolta per coloro che provengono dal Corno d'Africa, prima dell'ingresso in Libia, è la città sudanese di Khartoum, ultima tappa pre-libica prima dell'arrivo nei centri di raccolta libici.



Emergenza sbarchi, vertice al Viminale
IL Messaggero, 09-04-2014
Cristiana Mangani
L'ALLARME
ROMA Duemila sbarchi in due giorni, e nella sola giornata di ieri 16 richieste di aiuto partite dai thuraya, i telefoni satellitari usati dagli scafisti. Le coste siciliane sono di nuovo sotto assalto. Per la verità, non hanno mai smesso di esserlo. Ma con il bel tempo e il mare calmo la situazione è degenerata più rapidamente del previsto, tanto che ieri sera il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha convocato una riunione alle 22 al Viminale. Chiamati ad affrontare la nuova emergenza la Marina militare e la Capitaneria di porto.
GLI ARRIVI
L'ondata di migranti era stata annunciata già nei giorni scorsi. I segnali c'erano tutti. Sono 10.962, infatti, gli stranieri già accolti nei primi tre mesi dell'anno. Un numero che supera di ben sette volte gli arrivi registrati nel primo trimestre del 2013 (1.524). «Secondo le nostre informazioni - ha dichiarato Alfano - in Nordafrica ci sono tra 300 e 600 mila persone in atte- sa di transitare nel Mediterraneo. Si tratta di persone che molto spesso finiscono nelle mani di trafficanti di morte, trafficanti di
esseri umani. Noi ci batteremo affinché l'Europa difenda le frontiere. Lo strumento c'è, si chiama Frontex, va potenziato». «E' una situazione molto grave - ha detto ancora Alfano- rispetto alla quale da parte dell'Unione europea non basta uno stanziamento di 80 mi¬llioni di euro (per Frontex). L'Italia spende ogni giorno 300mila euro, 9 milioni al mese, per soccorrere i migranti e dal 18 ottobre scorso ha già tratto in salvo 14.500 persone attraverso l'operazione Mare Nostrum»
La questione sarà una «priorità assoluta» del semestre di presidenza italiano dell'Ue. Anche perché - ha spiegato ancora il ministro - «non sappiamo fino a quando potremo reggere i costi dell' operazione Mare Nostrum. L'Italia è un paese in grado di accogliere, ma l'Ue non può girarsi dall'altra parte, perché è difficile pensare di potercela fare da soli». E ancora: «L'immigrazione sta profondamente cambiando profilo, vi è una connessione diretta tra l'instabilità politica nei paesi del nord Africa e i flussi di migranti. Più quei sistemi sono stabili, più c'è possibilità di collaborazione per arrivare a degli accordi bilaterali».
I RIFUGIATI
Con la crescita degli arrivi, aumentano anche i richiedenti asilo e protezione internazionale, rispetto ai migranti economici. «Persone che fuggono dalle guerre, che presentano una domanda e al quale il nostro paese è obbligato a dare una risposta - ha chiarito ancora il responsabile del Viminale - La maggior parte di loro vuole andare in altri paesi dell'Ue, abbiamo migliaia di prove, e, dunque non solo va rivisto il trattato di Dublino, che carica tutti i problemi sui paesi di primo ingresso, ma Frontex ed Europol devono fare il loro lavoro, cioè difendere una frontiera che non è italiana ma europea». L'Italia fará la sua parte, anche se per quanto riguarda l'operazione "Mare Nostrum" il ministro mette le mani avanti: «costa poco più di 9 milioni al mese e ha salvato circa 12mila persone. Ma non sappiamo fino a quando l'Italia potrà reggere facendosi carico di un'operazione di cui do- vrebbe occuparsi principalmente
I CENTRI DI ACCOGLIENZA
Sul fronte dell'accoglienza. invece, Alfano anticipa che il sistema si adeguerà alle nuove esigenze. «Non sono i Cie che sono occupati da migliaia di persone, ma i Cara e gli Sprar» (i centri del Sistema di protezione rifugiati e richiedenti asilo, più piccoli e disseminati sul territorio) e, dunque, l'obiettivo è quello di portare i posti negli Sprar, già «passati da 3mila a 9mi- la, a 18-19 mila». «II protagonista di questo sistema sono i comuni, le regioni e con loro - ha concluso il ministro - stiamo trovando forme di collaborazione». Infine, proprio per rispondere all'aumento delle domande di asilo «in termini rapidi e chiari», è stato raddoppiato il numero delle commissioni territoriali, passato da 10 a 20.



Allarme immigrazione “Chiamano col telefonino boom di soccorsi in mare”
Vertice d’emergenza al Viminale dopo i 2300 arrivi delle ultime 48 ore
La Stampa, 09-04-2014
Francesco Grignetti
E’ allarme rosso al ministero dell’Interno. I peggiori timori del ministro Angelino Alfano sembrano prendere corpo. Non soltanto sono arrivati 2300 migranti nelle ultime 48 ore, parte già sbarcati in Sicilia, parte ancora sulle navi di Mare Nostrum in navigazione e appena raccolti sui barconi, ma ieri sera sono giunte alla centrale operativa della Capitaneria di Porto ben 16 richieste di aiuto. Sono telefonate partite da punti diversi del Mediterraneo, con telefoni satellitari del tipo Thuraya, che ormai è prassi gli scafisti imbarcano assieme ai disperati di bordo. Giunti a un certo punto della navigazione, quando sono più o meno a metà strada, dai barconi chiamano soccorso. Il telefono satellitare permette l’identificazione precisa del punto da dove si chiama. E i marinai italiani arrivano.
Sedici chiamate in stretta successione sono però davvero tante. Al punto da far temere quello che si prevedeva, ovvero che la marea umana stipata sulle coste della Libia, ora che il mare è diventato più calmo, sta prendendo il mare per raggiungere l’Italia. Il ministro Alfano ha così convocato su due piedi i vertici delle forze di polizia, il comando della Capitaneria di Porto, e i responsabili del ministero addetti all’immigrazione per preparare un piano di emergenza. Non è difficile immaginare, infatti, che il ministero si possa trovare di colpo a dover sistemare 4-5000 persone. E le strutture ministeriali sono già al collasso. Per sistemare i 5000 che sono arrivati nella seconda settimana di marzo, si è già dato fondo al barile dell’accoglienza. Ci sono ora 40 o 50 richiedenti asilo sistemati alla bell’e meglio da ogni prefettura italiana. Chi in ostelli, chi in cameroni della Caritas o di altre organizzazioni caritatevoli, chi in alberghetti. Per il momento pagano le prefetture con fondi istituzionali. Ma questi finanziamenti sono pressoché esauriti. E quindi nello staff del ministro sono al lavoro per trovare tra le pieghe del bilancio altri fondi da destinare alla nuova emergenza di inizio aprile.  
Una soluzione che darebbe respiro al Viminale sarebbe il rifinanziamento del sistema Sprar, che si appoggia agli enti locali, e che permetterebbe di accogliere dignitosamente almeno 20 mila richiedenti asilo. Solo che il rifinanziamento per il 2014 costa 230 milioni di euro e finora il ministero dell’Economia non aveva sbloccato i fondi. E non c’è da meravigliarsi, considerando i salti mortali che sono stati fatti per trovare i fondi necessari a coprire lo sgravio Irpef da 80 euro promesso da Matteo Renzi a chi ha lo stipendio basso.  
In attesa dei fondi per riattivare il sistema Sprar, si guarda all’Europa. E’ da lì, da Bruxelles, che si sperava di avere un aiuto concreto. L’agenzia europea Frontex, dopo il disastro di Lampedusa dell’autunno scorso, aveva promesso di schierare nel Mediterraneo uno schieramento navale europeo di tutto rispetto. Nulla di tutto ciò si è però visto. Ed è sempre all’Europa che lo stesso Alfano si rivolgeva pubblicamente ieri: «Ci batteremo fino in fondo perché si renda conto che l’immigrazione non sono fatti nostri, ma di tutta l’Europa».  



Cittadinanza, una storia al giorno
Corriere delle migrazione, 08-04-2014
immagine immLa proposta per una nuova legge di cittadinanza “giace” in Parlamento e sembra esserci poco interesse a riprenderla in mano. Per contrastare questo colpevole oblio, un gruppo trasversale di parlamentari (ne resta fuori solo la Lega), con il supporto di enti impegnati nella tutela dei diritti dei minori e della società civile (Unicef, Garante per l’infanzia, campagna l’Italia sono anch’io, Rete G2 e molti altri), su proposta dell’ex ministro Cécile Kyenge, ha deciso di avviare una singolare inizativa. «Ogni giorno, finché in questa stessa aula non sarà discussa la nuova legge, racconteremo la storia di un ragazzo o di una ragazza ancora senza cittadinanza», spiega Kyenge. «Sono storie di speranze, dolori, peripezie burocratiche, disillusioni, storie di tutti i giorni, fatte anche di successi in salita ma successi, ancora più veri e specchio della loro voglia di essere italiani». Come quella di Samira, che è stata letta dalla deputata Fucsia Nissoli Fitzgerald. eletta nella circoscrizione America Settentrionale e Centrale – Gruppo Per L’ Italia.
Questa è la storia di Samira , attivista della Rete G2, nata a Roma nel 1980 da madre filippina e padre egiziano, al compimento dei 18 anni non fece richiesta della cittadinanza italiana. Non fece domanda, perché si sentiva italiana dalla nascita. Così Samira denunciava la sua situazione nel 2007: «Ho una laurea come assistente sociale e lavoro per uno sportello informativo sull’handicap del Comune di Roma. Dopo un contratto a tempo determinato me ne hanno fatto uno a progetto mentre tutte le mie colleghe hanno avuto un contratto a tempo determinato, più lungo e che da più tutele rispetto a me. E questo non per mie incapacità professionali ma perché non ho ottenuto il passaporto italiano e le leggi sono poco chiare. A 18 anni non avevo fatto domanda per diventare cittadina italiana. Nessuno me lo aveva detto. Così ora, nonostante la mia laurea, il Comune non mi assume perché sono una cittadina filippina. Io sono nata qui e sono sempre vissuta qui. Mi considero italiana eppure devo accontentarmi di meno soldi e garanzie e fare causa al Comune per discriminazione».
Samira è morta il 20 febbraio del 2010 sempre a Roma a soli 29 anni, prima che il giudice decidesse sul suo caso. Il problema di Samira Mangoud, come di molte seconde generazioni, è quello di non sapere di dover richiedere la cittadinanza italiana tra i 18 e i 19 anni , come previsto dalla legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana per i figli di immigrati extracomunitari. Di conseguenza, Samira è rimasta cittadina straniera in un paese a lei non affatto estraneo, visto che era l’unico dove avesse mai vissuto.



16 aprile 2000
Corriere delle migrazione, 08-04-2014
Sabatino Annecchiarico, Daniele Barbieri
Il giorno in cui fu ucciso Ion Cazacu. Qualcuno ricorda la storia? Un delitto atroce, punito con una sentenza dura ma poi dimezzata, mettendo in dubbio l’omicidio volontario. Le parole di Nicoleta, la vedova, e di Florinda, una delle figlie.
Ion Cazacu, ingegnere rumeno che lavorava da operaio piastrellista nella ricca Gallarate, fu bruciato vivo dal suo datore di lavoro, Cosimo Iannece, il 14 marzo 2000. La sua “colpa”: aver chiesto di essere messo in regola. Morì un mese dopo, il 14 aprile, dopo atroci sofferenze per le ustioni che coprivano quasi il 90 per cento del corpo.
Iannece fu condannato a 30 anni sia in primo che in secondo grado (con il rito abbreviato per evitare l’ergastolo). Nel maggio 2003 la Cassazione ha annullato la sentenza per «carente motivazione» sull’effettiva volontà di uccidere dell’imputato e il 13 novembre dello stesso anno, davanti alla Corte d’Assise d’appello di Milano, si è aperto il nuovo processo concluso poi con la pena dimezzata, da 30 a 16 anni: è stata accolta la tesi della difesa di omicidio senza l’aggravante per motivi abietti. «Nel processo hanno cambiato anche i capi d’accusa, io e le mie figlie siamo rimaste sconvolte e deluse dalla giustizia italiana» disse amareggiata dopo la sentenza Nicoleta Cazacu, vedova di Ion.
Una sentenza «grave dal punto di vista politico per il messaggio che lancia», commentò all’epoca dei fatti l’avvocato Ugo Giannangeli, parte civile di Alina, una delle due figlie di Cazacu. Grave anche per l’indifferenza della maggior parte dei mezzi d’informazione.
Questo omicidio, quasi immediatamente dimenticato, entra nell’immaginario collettivo come un episodio di ordinaria e quasi quotidiana criminalità, invece che essere considerato un crimine barbarico da Medioevo. Dopo la sentenza questa fu la riflessione di Nicoleta Cazacu: «Una parte della gente sa cosa è successo a mio marito e fa finta di non saperlo, altre persone invece non lo sanno, ma tutte hanno qualcosa in comune: l’indifferenza. Quell’indifferenza che uccide e uccide soprattutto noi stessi».
Per favorire la memoria, quale antidoto dell’oblio e dell’indifferenza collettiva, per riportare una luce di giustizia sui fatti, trascrivo un frammento dell’intervista che feci alla figlia maggiore di Ion, Florina Cazacu, dopo che la Cassazione aveva annullato la sentenza nel maggio del 2003. L’intervista fu pubblicata il 29 maggio 2003 sull’ agenzia Migra News con il titolo «Ion Cazacu, bruciato per la seconda volta».
«Sono assolutamente sbalordita, non mi aspettavo una cosa simile. Non me lo aspettavo da loro: dalla giustizia. Affermano che non hanno avuto abbastanza prove per giudicare l’omicidio volontario. Non vorrei creare una polemica e intervenire nelle decisioni prese dai giudici: voglio credere che sappiano bene cosa hanno fatto. Ma mi sembra un po’ strano e non vorrei essere fraintesa: se uno porta benzina a casa di mio padre, gliela versa addosso e con il proprio accendino gli dà fuoco, cos’altro serve per capire se c’è o non c’è un omicidio volontario? Ripeto, non vorrei che questa mia osservazione qualcuno la prendesse per il verso sbagliato. Per me, anche se non posso essere obiettiva in questa storia, mi sembra sufficiente la prova dei fatti. Comunque, i giudici hanno preso questa decisione e avranno le loro ragioni».
Cosa significa per voi familiari questa decisione della Cassazione?
«Che dovremmo cominciare tutto da capo, tornando a Milano. Vedo la mia mamma stanca e distrutta. Lei era convinta che tutto fosse finito. C’è un abbattimento anche psicologico e morale. Il fatto stesso di tornare a Milano, non le dà pace. Per noi è molto difficile questo nuovo passaggio. Vorrei che finisse subito tutto».
Al tempo dell’intervista Florinda Cazacu aveva 21 anni ed era studentessa al secondo anno del corso di laurea in Giurisprudenza in Romania. Poliglotta: parla inglese, francese, spagnolo, italiano e certamente rumeno. Nata a Ràmnich Vàlcea (Romania) in un paese di 120.000 abitanti ma viveva in Italia con un permesso di soggiorno “umanitario” e finanziava da sé i suoi studi. Non escludeva la possibilità di restare a vivere in Italia.
Suo padre migrò per l’Italia quando lei aveva appena 14 anni. Di lui cosa ricorda?
«Quando l’ho visto al mattino partire con le valigie sono rimasta molto triste. Ricordo ancora le parole che mi disse: “non essere triste, il tuo papa tornerà presto”. Il primo anno mi è mancato tanto e quando è tornato per la prima volta ero così felice che mi sono dimenticata della mia sofferenza quando era partito. Sentivo la gioia di quello che faceva, anche senza la sua vicinanza. Ero felice quando mi portava regali o semplicemente quando ci telefonava. Sapevo che lui non era venuto in Italia per il desiderio di conoscere un altro Paese. Lui l’aveva fatto per necessità. Aveva l’obbligo di portare avanti una famiglia. Per farci studiare, per vestirci, darci da mangiare».
Qual era l’immagine che lei aveva di quest’Italia?
«Quando mio padre ci telefonava dall’Italia mi credevo immersa in una favola per tutto quello che raccontava. E sognavo che un giorno anche noi lo avremmo raggiunto. Immaginavo l’Italia come un grande sole e credevo che il mondo fosse tutto rosa. Scoprii dopo che fra sogno e realtà, le cose erano e sono molto diverse. Che la vita non era così facile. Che si deve sempre lottare per andare avanti».
Qual è la difficoltà maggiore che ha trovato in Italia?
«Quando spiego a qualcuno che sono rumena, noto che certe persone fanno un passo indietro e mi sento guardata dai piedi alla testa. Sento una sensazione strana, come brividi. Questa è stata una delle difficoltà maggiori che ho vissuto. Personalmente potrei dire che sono americana o di un’altra nazione, per non sentirmi male. Ma io non provo vergogna di essere rumena. E lo dico anche se sento quella strana sensazione quando le persone fanno gesti come di distacco. Per fortuna non tutti sono così. Mi sono fatta amici e ho trovato persone con un cuore grande. Poi c’è una differenza tra il mio Paese e questo mondo. Noi siamo ancora tradizionalisti. In Romania ho vissuto cose che ancora qui non ho visto: una vita sociale più all’aperto, in piazza, per le strade. A fine anno si esce in strada per festeggiare, magari per bere un bicchiere di vino assieme a uno sconosciuto che come te festeggia. Questa stessa cosa abbiamo provato di riviverla con i miei qui: ma è stato impossibile. Qui quando ci hanno visti per strada sono scappati. Quasi come se avessero paura di noi. Non so perché: è una strana cosa. Forse noi siamo più comunicativi. Questo è uno dei motivi per i quali mi manca il mio Paese. E mi vien voglia di ritornare. Mi manca la Romania e mi manca il tempo di quando ero bambina assieme a mio padre».
Un’immensa tristezza, vero?
«Avevo 17 anni quando mi hanno tolto mio padre e io ho dovuto maturare in fretta. Ho dovuto fare la figlia e la mamma allo stesso tempo. Questa maturità mi ha portato ad avere una visione della vita che non possedevo. E questo è duro. Sento che ho una ferita che si chiuderà sì, ma lascerà per sempre la cicatrice. Se dovessi fare una fotografia di me, direi così: ho lasciato prematuramente quella bambina che credeva la vita fosse facile e ha dovuto imparare tutto in fretta e per forza. Mi hanno costretto a diventare adulta molto prima del tempo. Per questo c’è molta tristezza».
Ha un messaggio per gli italiani?
«Direi loro di lasciare tutto quell’odio che si trova in questo mondo e che cerchino di stare bene con se stessi. Poi di non fare tanta differenza tra loro e gli extra-comunitari, come sempre ci chiamano. Di considerare che tutti noi siamo partiti non per piacere, per divertimento. Siamo stati costretti a partire.. Nessuno ama lasciare la propria gente, la propria cultura, la propria terra. Non è facile venire a vivere in un mondo che si vede strano, stranissimo».
Ma c’è qualcosa in particolare che chiederebbe agli italiani?
«Chiederei loro di offrirci almeno la possibilità dell’amicizia. Almeno questo. L’amicizia. E soprattutto di considerarci come persone. Persone come sono loro. Nient’altro».
Lei ha fatto notare più volte che siete chiamati extra-comunitari. Perché questa sottolineatura?
«Non mi piace questa parola. Quando la usano ho l’impressione che ci dividano. Sento che quando ci dicono extra-comunitari mettono da una parte il bene e dall’altra il male, il brutto, il cattivo. E’ vero che ci sono persone che arrivano in Italia e fanno danni, ma non si può giudicare un’intera popolazione per quello che ha commesso un singolo».
Due parole su Cosimo Iannece le vuol dire?
«Mi spiace per le sue figlie che non hanno colpa. Mi dispiace per loro che sono ancora piccole: credo che cresceranno in una società che tenderà a emarginarle per il passato del padre. Però avranno la possibilità in un domani di “saldare i conti” con il padre. Magari quando uscirà dalla galera. Io questa possibilità non l’avrò mai. Quanto al padre, Cosimo Iannece, sarebbe stato sufficiente per me e per noi che lui riconoscesse i fatti. Non negandoli e macchiando la memoria di mio padre. Il ricordo di lui è l’unica cosa che ci hanno lasciato. E questa memoria non la cancelleremo né permetteremo che venga macchiata».
Tornando al recente annullamento della sentenza, può accadere secondo lei che Cosimo Iannece sia scarcerato? E in questo caso vi sentirete sconfitte?
«Non credo che accada. Ma se così fosse, né mia madre né mia sorella e neppure io ci sentiremo sconfitte. Continueremo ad andare avanti. L’unica sconfitta in quel caso sarà la giustizia italiana.



Ergastolo per i migranti
Corriere delle migrazione, 09-04-2014
Ilaria Sesana
Carcere a vita o deportazione nel proprio Paese d’origine. Accettare l’ergastolo o il rimpatrio volontario. Questo il tragicodilemma cui dovranno far fronte i migranti detenuti in Grecia dove, a seguito di un recente parere del Consiglio Legale dello Stato, i migranti potranno essere tratteuti a tempo indeterminato. A denunciare la situazione, l’organizzazione medico-umanitaria Medici senza frontiere (Msf) secondo cui questa decisione rappresenta un’altra, terribile, prova di come la Grecia stia adottando trattamenti ancora più duri per i migranti, dove già viene applicato il periodo massimo di detenzione di 18 mesi. «Siamo indignati – è il commento di Ioanna Kotsioni, consulente sulla migrazione per Msf in Grecia – È una prova che la politica sull’immigrazione si sta indirizzando verso un trattamento ancora più duro dei migranti, che vengono detenuti per mesi e mesi in condizioni inaccettabili. Quel che è peggio, la minaccia della detenzione indefinita viene usata come mezzo di coercizione».
Le prime “prove” di questa nuova pratica sono state messe in atto la scorsa settimana nei centri di detenzione di Paranesti e Fylakio dove la polizia ha minacciato i migranti con la detenzione indefinita finché non avessero consentito al rientro volontario o non avessero accettato un rimpatrio forzato. La notizia – evidenzia Msf – ha lasciato i migranti all’interno dei centri di detenzione in uno stato di chock.
Una decisione che rende ancora più difficili le già drammatiche condizioni di vita dei migranti e dei richiedenti asilo in Grecia.  «C’era un ragazzo che era stato detenuto per un anno. Stava per essere rilasciato ma poi gli hanno detto che la legge era cambiata e che avrebbe dovuto restare in custodia per altri sei mesi. È impazzito, ha smesso di mangiare e, per protesta, si è cucito la bocca. La polizia lo ha ignorato per due o tre giorni, poi ha perso conoscenza. Lo hanno ammanettato e con un coltello gli hanno aperto la bocca». Storie come questa, raccontata da un ragazzo di 16 anni, imprigionato per mesi in un centro di detenzione per migranti in Grecia, sono tra le più drammatiche tra quelle raccolte dagli operatori di Medici senza frontiere che hanno recentemente pubblicato il rapporto il rapporto “Invisible suffering” (“Sofferenza invisibile”) in cui l’organizzazione sottolinea il grave impatto dell’ingiustificata detenzione sulla salute fisica e mentale dei migranti.
«La prolungata e sistematica detenzione dei migranti e richiedenti asilo in Grecia sta avendo conseguenze devastanti sulla loro salute e sulla loro dignità» è l’allarme lanciato da Msf che, dal 2008, fornisce cure mediche e psicologiche indipendenti nei centri di detenzione in Grecia. «In sei anni abbiamo effettuato più di 9.000 visite mediche all’interno dei centri di detenzione e delle stazioni di polizia dove migranti e richiedenti asilo vengono trattenuti», spiega Apostolos Veizis, capo missione di MSF in Grecia. «Ma nonostante i nostri ripetuti appelli per il miglioramento delle condizioni di detenzione e l’accesso all’assistenza sanitaria per i migranti, abbiamo visto solo piccoli cambiamenti mentre la situazione generale continua a peggiorare». Il rapporto inoltre evidenzia gravi lacune nella fornitura di assistenza sanitaria e assenza di valutazioni mediche, per cui i detenuti in condizioni di salute gravi vengono trascurati o addirittura costretti a interrompere le cure.
Inoltre, da quando la polizia greca ha lanciato l’Operazione Xenios Zeus nel 2012, il numero di migranti irregolari e richiedenti asilo trattenuti in detenzione amministrativa è salito in maniera esponenziale. Allo stesso tempo, la capacità delle strutture di detenzione è cresciuta di 4.500 posti con l’aggiunta di cinque centri temporanei, mentre la detenzione viene ora sistematicamente applicata per un periodo di 18 mesi. Nemmeno gruppi particolarmente vulnerabili – come minori, vittime di tortura, persone con disabilità o malattie croniche – vengono risparmiati.
Sovraffollamento, riscaldamento inadeguato, scarsa areazione e alimentazione povera contribuiscono all’emergere e alla diffusione di malattie respiratorie, gastrointestinali, dermatologiche e muscolo-scheletriche tra i detenuti. La detenzione è anche dannosa per la loro salute mentale: molti manifestano sintomi di ansia, depressione e manifestazioni psicosomatiche e non è raro che migranti disperati facciano lo sciopero della fame o arrivino a compiere atti di autolesionismo e perfino tentativi di suicidio.
Ma l’organizzazione umanitaria non si limita a criticare le autorità elleniche. «Gli altri stati membri dell’UE e le istituzioni europee non possono continuare a sottrarsi alla loro parte di responsabilità», dichiara Ioanna Kotsioni, esperta di immigrazione per MSF. «I paesi di primo ingresso per i migranti irregolari, sempre più sotto pressione nell’intento di restringere i flussi migratori in UE, stanno utilizzando i centri di detenzione come deterrente, ma di fatto non possono essere ritenuti gli unici responsabili per i danni inflitti a migranti e richiedenti asilo. È una responsabilità comune e va condivisa».

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