Newsletter periodica d’informazione
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Rassegna ad uso
esclusivamente interno e gratuito, riservata agli
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Anno XII n.7 del 19 febbraio 2014 |
Consultate www.uil.it/immigrazione
Aggiornamento quotidiano sui temi di interesse di cittadini e lavoratori stranieri
Marwan, piccolo profugo di soli 4 anni
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Appuntamenti pag. 2
Marwan, profugo di 4 anni pag. 2
Tesi congressuali, dibattito su immigrazione pag. 2
Verifica dell’accordo di integrazione pag. 5
Tutte le bufale sugli immigrati in Italia pag. 6
Addio Lugano bella? pag. 8
La crisi fa scappare italiani e stranieri pag. 9
Studio. Razzismo causa invecchiamento precoce? pag.10
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A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento Politiche Migratorie
Tel. 064753292- 4744753- Fax: 064744751
Migratorie: appuntamenti
Roma, 21 febbraio 2014, ore 10 ed ore 12, Via del Velabro 5
Riunione di Presidenza del CIR ed incontro con il personale
(Giuseppe Casucci)
Roma, 24 febbraio 2014, ore 15.30, Camera dei Deputati, Sala della Regina
Unione Forense: Tavola Rotonda: “il sistema di Dublino versus la libertà di movimento dei rifugiati in Europa”
(Giuseppe Casucci)
Roma, 25 febbraio 2014, ore 10.00, UIL Nazionale
Gruppo di lavoro per la predisposizione delle Tesi: Immigrazione
(Guglielmo Loy, Giuseppe Casucci)
Storie
La foto
scattata dall’Unhcr al confine tra Siria e Giordania a uno dei tanti bambini
costretti a lasciare la loro casa. Era rimasto indietro durante la traversata
Il bambino vagava nel deserto dopo aver perso la sua famiglia nella confusione della fuga dalla guerra.
Roma – 18 febbraio 2014 – Ha solo
4 anni Marwan, e gli operatori delle Nazioni Unite lo hanno trovato mentre
vagava da solo, nel deserto, al confine tra Siria e Giordania. Sta fuggendo
dalla guerra trascinandosi dietro il suo povero bagaglio, una busta di
plastica. A causa del conflitto nel suo Paese,
era stato separato dalla sua famiglia e cercava di trovare un rifugio portandosi
dietro un sacchetto di plastica contenente tutti i suoi "averi". Una foto scattata e postata
domenica su twitter da Andrew Harper, membro dell’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), racconta più di tante altre il dramma dei profughi siriani e del milione di
bambini costretti a lasciare le loro case. Ritrae
il piccolo Marwan mentre arriva al confine giordano e viene soccorso dagli
operati umanitari. Inizialmente si era diffusa la notizia che Marwan aveva
fatto la traversata del deserto da solo. In realtà era insieme a un gruppo di
profughi, ma nell’ultima fase della marcia era rimasto indietro. Gli
addetti umanitari dell'Onu lo hanno aiutato a superare il confine e ad entrare
in Giordania, e sono anche riusciti a ritrovare sua madre, alla quale è stato
riaffidato. Sono un milione, secondo fonti delle Nazioni Unite, i bambini
costretti a fuggire dalla Siria per trovare scampo alla guerra tra fedeli al
presidente Bashar al Assad e i ribelli.
Congresso UIL
Tesi congressuali
Immigrazione: luci ed ombre su crisi, mercato del lavoro ed immigrazione in Italia
Martedì 25
febbraio il Gruppo di lavoro Tesi congressuali tratterà il tema
dell’immigrazione in Italia (UIL nazionale, sala Bruno Buozzi ore 10.00). Di
seguito pubblichiamo un contributo al dibattito da parte del Dipartimento
Politiche Migratorie UIL
1. Natura, dinamiche e limiti dell’immigrazione italiana
Tra il 2002 ed il 2012 la popolazione straniera, che rappresenta il 7,9% di quella totale, è quasi triplicata e l’aumento è stato del 311%, inferiore in Europa solo a quello della Spagna. Nel corso dell’ultimo decennio il numero degli stranieri in Italia è cresciuto in media dell’11% all’anno, con un incremento complessivo di quasi 3 milioni di persone. La caratteristica “anomala” dell’immigrazione in Italia è che essa non ha mai smesso di crescere, nemmeno nei periodi di recessione. Dal punto di vista statistico, inoltre, nell’ultimo decennio, siamo stati l’unico tra i maggiori paesi europei in cui si è osservata una correlazione sistematicamente negativa tra immigrazione e crescita.
Questo si spiega soltanto con il fatto che l’immigrazione in Italia è determinata prevalentemente da fattori demografici, invece che puramente economici.
L’immigrazione “made in Italy”, nascerebbe dalla necessità di rimpiazzare la caduta demografica della popolazione autoctona, ma è anche funzionale al mercato dell’economia sommersa che, secondo molti economisti, pesa per quasi il 25% del nostro PIL. Questo “rimpiazzo” è particolarmente visibile in quei settori e per quei lavori che, per ragioni durezza di condizioni, scarso prestigio, o bassa retribuzione, i lavoratori italiani hanno a lungo rifiutato. Da qui una sorta di “complementarietà” tra lavoro autoctono e lavoro etnico che finora ha evitato conflitti aperti tra le due anime del mercato del lavoro.
La presenza massiccia in molti settori di immigrati ha prodotto inevitabilmente fenomeni di dumping lavorativo e sociale con una compressione indiretta dei diritti contrattuali, in primo luogo della manodopera etnica, ma non solo. Inoltre, il prolungarsi della crisi potrebbe modificare gli equilibri tra occupazione italiana e straniera, la prima ormai non del tutto aliena a ricercare impieghi che da tempo sono di esclusivo appannaggio dei migranti.
Per il sistema delle imprese, l’aver cercato una competitività effimera nella compressione dei diritti dei lavoratori, piuttosto che nelle necessarie innovazioni è un errore che rallenterà notevolmente l’uscita dalla crisi della nostra economia.
2. L’impatto della crisi economica sull’immigrazione
Dal 2008 al 2013 si è assistito in Italia ad un aumento esponenziale del tasso di disoccupazione etnica, passato dall’8,1% a quasi il 18%. E contemporaneamente il tasso di occupazione straniera è calato di 6,5 punti percentuali arrivando al 58,1% nel II trimestre 2013 (contro il 55,4% degli italiani). Nel 2013, la crisi occupazionale ha registrato una forte impennata, con circa 511 mila stranieri iscritti alle liste di disoccupazione e oltre 1,25 milioni risultanti “inattivi”. Il tasso di disoccupazione “etnico” è oggi di ben 6,6 punti maggiore rispetto gli italiani. Dati forniti di recente dal Ministero del Lavoro.
Inoltre, la mancanza di lavoro a lungo termine produce una fuoriuscita di immigrati dall'Italia: infatti, i permessi di soggiorno concessi nel nostro Paese per motivi di lavoro sono passati dai 150.098 del 2007 ai 70.892 del 2013, dunque più che dimezzati. E non sono pochi gli stranieri che decidono di lasciare il nostro Paese per ritornare a casa o per cercare impiego in un’altra nazione: nel 2012 - secondo stime della Fondazione Moressa – l’uscita di 32 mila cittadini stranieri avrebbe privato – nel 2012 - le casse del nostro Stato di almeno 86 milioni di euro. Lo stesso anno ha visto anche l’uscita di circa 68 mila giovani italiani in cerca di un futuro all’estero.
Malgrado l’allungamento ad un anno del permesso di ricerca di occupazione e l’uso di ammortizzatori sociali la crisi produce effetti nefasti sulla componente straniera regolare, spingendola verso condizioni di irregolarità o ad abbandonare il Paese. In assenza di domanda di lavoro regolare si ricorre spesso a quello in nero, ancora fiorente malgrado l’applicazione della direttiva UE n. 52, che prevede provvedimenti più severi contro chi occupa stranieri irregolari.
Anche sul fronte del business dei permessi la nuova normativa non sembra aver inciso sensibilmente. Significativo è quanto è successo in occasione della regolarizzazione del settembre –ottobre 2012, che ha visto la presentazione di 134.576 domande di emersione dalla irregolarità (di cui 79.315 da colf, 36.654 da badanti e 18.607). Secondo dati recenti del Viminale, quasi la metà delle domande sarebbe stata rifiutata, o perché in difetto delle condizioni poste dalla procedura di emersione, ma anche in quanto alla domanda presentata non corrisponderebbe un posto di lavoro vero, ma solo documentazione fittizia fornita da imprese di comodo in cambio di un lauto compenso da parte degli immigrati (si parla di cifre che vanno dai 2 agli 8 mila euro). Invece che intermediazione di manodopera, dunque, si assisterebbe ad un mercato fittizio dei permessi. Stessa situazione sul fronte del decreto flussi per gli stagionali, con quote ridotte dal Governo a sole 10 mila unità nel 2013, proprio a causa dell’assenza di posti di lavoro reali.
3. Immigrazione e lavoro
I lavoratori immigrati oggi in Italia, malgrado
la crisi, rappresentano sono 2,4 milioni e rappresentano più del 10%
dell’occupazione nazionale, con un’incidenza particolarmente elevata nel
comparto dei servizi, commercio, delle costruzioni e in agricoltura. Sono
4.387.721 gli stranieri legalmente residenti sul territorio nazionale (dati
2011 Istat), pari al 7,3% della popolazione complessiva. Producono l’11 % del
PIL e pagano le imposte: in Italia si contano complessivamente 3,4 milioni di
contribuenti nati all’estero (dati 2011) che dichiarano al fisco quasi 43,6 miliardi
di €. Nel 2011 i nati all’estero hanno pagato 6,5 miliardi di € in Irpef. Per
quanto riguarda i soldi mandati a casa, nel 2013 il volume delle rimesse è ammontato a 7,1 miliardi di €, pari
allo 0,45% del Pil. Vi sono ormai settori che funzionano quasi solo grazie
alla presenza degli stranieri, primo tra tutto il settore dei servizi alla
persona (con oltre l’80% della manodopera composta da stranieri), seguito dal
commercio (26,2%), edilizia (21,7%), agricoltura (15,9%), settore dei trasporti
(12%).
Una presenza così massiccia di stranieri nel mercato del lavoro obbliga il sindacato a rivedere le proprie strategie, sia sul fronte contrattuale, quello dei servizi a tutela dei nuovi cittadini, come sul piano delle politiche migratorie e di cittadinanza. Non ultimo è necessario rivedere i canali di affiliazione ed integrazione di giovani quadri sindacali di origine straniera.
4. Sindacato e contrattazione etnica (ruolo dei patronati)
Si è consolidata negli anni una strategia sindacale rivolta alla tutela contrattuale degli immigrati sui posti di lavoro, soprattutto in termini di contrasto alle discriminazioni, ma anche a partire dal presupposto che i tipi di lavoro che essi svolgono sono a più forte rischio infortunistico. La domanda di miglioramento delle condizioni di lavoro da parte degli immigrati, è cresciuta in parallelo con la loro partecipazione attiva alla vita politica, sociale e sindacale, spesso associata alla consapevolezza dell’importanza dell’accesso ai diritti di cittadinanza. Negli anni, il generale aumento delle iscrizioni degli stranieri al sindacato ha confermato l’efficacia dell’attività di contrattazione nazionale e territoriale, per combattere le disparità di trattamento tra lavoratori stranieri ed italiani, in materia di orari e salari. Questo è infatti – assieme all’accesso al lavoro - uno dei punti nodali su cui si gioca la lotta alle discriminazioni nei luoghi di lavoro.
Le più recenti rivendicazioni sindacali sono nate proprio dalla consapevolezza che la condizione dei lavoratori immigrati è una cartina di tornasole delle tendenze generali del mercato del lavoro rispetto alla precarietà e ricattabilità dei lavoratori che spesso si traduce in dumping lavorativo e sociale.
I Patronati. Da alcuni anni, sulla base di protocolli sottoscritti con il Ministero dell’Interno, i patronati (sindacali e non) hanno svolto un ruolo via, via sempre più importante nel supporto alla soluzione dei problemi burocratici ed amministrativi degli stranieri, ma anche relativi al loro inserimento nel tessuto sociale. Attualmente, oltre il 50% delle pratiche relative ai primi ingressi, rinnovo del permesso di soggiorno, carta di soggiorno, ricongiungimenti familiari e cittadinanze vengono svolti dai patronati, in forma totalmente gratuita ed in concorrenza con un mercato privato dei permessi spesso gestito da persone ed organizzazioni senza scrupoli. Oltre al sostegno relativo agli aspetti burocratici, viene dato agli immigrati – quando necessario - sostegno legale per le vertenze sul lavoro o procedura civile. Forte è anche l’attività legale a tutela dei comportamenti discriminatori o al rischio infortunistico sul luogo di lavoro.
I problemi oggetto di contrattazione
Le questioni
problematiche maggiormente in rilievo sono state e sono:
a) La discriminazione dei lavoratori stranieri nell’accesso al lavoro, specie pubblico;
b) Assegnazione a loro dei lavori più pesanti, meno qualificati, e meno retribuiti;
c) Sotto inquadramento delle funzioni, specie rispetto al titolo di studio e preparazione;
d) Turni di lavoro più scomodi, allungamento degli orari, straordinari non retribuiti;
e) Lavoro nero, caporalato e mancata erogazione dei contributi;
f) mancata concessione di ferie e permessi, inadempienze in materia di tredicesime e liquidazioni;
g) licenziamenti senza giusta causa né preavviso;
h) scarsa attenzione alle esigenze religiose ed alimentari;
i) Retribuzione inferiore agli italiani (in media del 25%) a parità di funzioni svolte.
5. Iscritti ed integrazione nel sindacato
Una delle peculiarità dell’immigrazione italiana, nel contesto europeo, è l’alto tasso di sindacalizzazione (circa il 42%), un indicatore della tendenza alla stabilizzazione occupazionale e territoriale degli immigrati. In Italia tutti i lavoratori stranieri possono iscriversi ai sindacati, a prescindere dalla loro condizione giuridica o contrattuale.
Gli affiliati ai sindacati oggi superano quota 1 milione di tessere. Il tasso di affiliazione. Sono operai, impiegati e professionisti stranieri e, dunque, bisognosi di tutele extra, in un’Italia in cui la burocrazia la fa da padrona, dove fioriscono professionisti del “business” sui problemi degli immigrati e dove non mancano datori di lavoro senza coscienza.
La sindacalizzazione “etnica” è
proporzionalmente più alta rispetto a quella degli autoctoni, visto che dei 27,7
milioni di dipendenti italiani (basandosi sui dati Istat 2012) i tesserati
attivi sono un po’ meno di 6,4 milioni, quindi circa il 23,1 %.
Perché una differenza così notevole? Il lavoratore straniero ha più difficoltà
nel difendere i propri diritti e conquistarne di nuovi oppure si sente perso
nel groviglio delle norme?
La verità è che – con la legge Bossi – Fini ed il pacchetto sicurezza - “il sistema normativo ha di fatto voluto creare una categoria di persone più insicura, con diritti e tutele a termine, estremamente soggetta alle variazioni del sistema economico”. Da qui una maggiore richiesta di tutela.
Inoltre va anche considerato che l’età media degli immigrati è più
bassa di quella degli italiani (32,2 anni contro i 44,7 degli stranieri, dati
Istat 2012). La quota di lavoratori attivi, rispetto ai pensionati, è dunque
molto più alta.
Insomma, è in questo contesto che si inseriscono i 408 mila immigrati iscritti
alla Cgil nel 2012, i 384 mila della Cisl, i 209.000 tesserati stranieri della
UIL. Per le confederazioni si tratta rispettivamente del 7,1 %, del 8,6%
e del 9,5% del totale degli iscritti.
6. Nuove strategie per la UIL e maggior ruolo per i nuovi cittadini
Malgrado la crisi economica è ben chiaro che il peso che avranno gli immigrati nel mercato del lavoro e nel sindacato è destinato a crescere. Non è più possibile, dunque, confinare un tema così grande e trasversale ad una nicchia dipartimentale. E’ necessario invece un grande sforzo e collaborazione tra categorie, confederazione e patronato per mettere a disposizione strumenti di crescita sindacale e proposte politiche e contrattuali volte a rafforzare la presenza ed il ruolo dei nuovi cittadini nella UIL.
Il lavoro svolto dal Dipartimento Politiche Migratorie, dall’ITAL e da alcune categorie è stato finora prezioso ma va maggiormente strutturato e rafforzato: perché il futuro della UIL sta anche nella presenza e nel ruolo che avranno i nuovi cittadini, assieme al resto del sindacato.
Società
Verifica dell’accordo di integrazione
25 mila stranieri chiamati a documentare il grado di integrazione raggiunto in Italia
Roma,
17 febbraio 2014 -Indicazioni operative agli Sportelli Unici
Immigrazione - Con la circolare n. 824 del 10 febbraio 2014, la
Direzione centrale per le politiche dell’immigrazione e dell’asilo, fornisce
indicazioni operative agli Sportelli Unici Immigrazione per la verifica
dell’accordo di integrazione. La procedura di verifica interessa quei cittadini
stranieri entrati in Italia dopo il 10 marzo 2012 per motivi di lavoro e,
quindi, obbligati a sottoscrivere l “accordo di integrazione” per avere il
permesso di soggiorno cosiddetto “a punti”. In base a quell’accordo i
nuovi cittadini hanno due anni per integrarsi terminati i quali dovranno
dimostrare se hanno raggiunto l’obiettivo. Considerato che da due anni non è
stato attivato dal Governo alcun decreto flussi (a parte gli stagionali), sono
solo poche decine di migliaia per ora le persone interessate all’accordo di
integrazione. Nei prossimi giorni, chi ha sottoscritto l’accordo a marzo del
2012, verrà convocato presso lo Sportello Unico per l’Immigrazione ai fini
della verifica dell’accordo sottoscritto allora. Com’è noto, questo prevede un
meccanismo a punti (max 30), che salgono con comportamenti considerati
virtuosi, ma vengono decurtati quando non si rispettano le regole. Per esempio,
un corso di studi, il rispetto della scuola dell’obbligo per i figli, la scelta
del medico di base, la sottoscrizione di un contratto di affitto fa salire il
punteggio, mentre una condanna penale o una multa per evasione fiscale li
fa scendere. Al momento della firma del contratto, si ottengono
d’ufficio 16 punti. Se entro due anni sono diventati 30 e si conoscono la
lingua italiana e le basi della nostra cultura civica, l’accordo si considera
rispettato. A chi si ferma tra 1 e 29 punti verrà dato un anno di tempo
ulteriore per recuperare, se però i punti sono 0 o meno, il permesso di
soggiorno rischia di essere revocato. La verifica è quindi un momento
fondamentale, e qualche giorno fa il Ministero dell’Interno ha dato le
prime indicazioni operative agli Sportelli Unici per l’Immigrazione. Questi
nelle prossime settimane inizieranno a chiedere agli stranieri con l’accordo in
scadenza di presentare tutta la documentazione sugli obiettivi raggiunti in
questi due anni e controlleranno con casellario giudiziario, comuni, agenzia
delle entrate ecc. se ci sono da fare decurtazioni. Chi non ha documenti per
dimostrare che conosce l’ italiano e l’educazione civica potrà in alternativa
sostenere un test organizzato dagli stessi Sportelli Unici per
l’Immigrazione. La domanda si presenterà online, tramite il
sito https://integrazione.dlci.interno.it , utilizzando le credenziali
ricevute quando si è sottoscritto l’accordo di integrazione. Importante: l’art
4 bis del T.U. Immigrazione esclude dalla verifica gli stranieri titolari di un
permesso di soggiorno per motivi familiari o nei confronti dei quali è
stato rilasciato un nulla osta al ricongiungimento familiare. Esclusi anche i
richiedenti asilo o titolari di protezione sussidiaria, per motivi
umanitari. Infatti, anche se queste persone fossero a zero punti, non
sarebbero comunque espellibili. Si tratta della parte minore dei cittadini di
paesi terzi entrati in Italia negli ultimi due anni, dal momento che gli
ingressi per lavoro sono praticamente bloccati. Il Viminale ha contato 66 mila
accordi in scadenza tra marzo e dicembre 2014, ma ne andranno
effettivamente verificati solo 26 mila. Com’era prevedibile, i più
impegnati saranno gli Sportelli Unici per l’Immigrazione di Roma (5mila
verifiche ) e Milano (2mila). Il Patronato Ital UIL, con le sue sedi
territoriali in tutto il Paese, è a disposizione degli stranieri interessati a
verificare la documentazione e ad istruire la pratica in maniera corretta.
Circolare n. 824 del 10 febbraio 2014 Ministero dell'Interno
(http://www.fanpage.it/) Roma, 19 febrraio
2014 - La decisione dei cittadini svizzeri di sottoscrivere un
referendum che impegna il Governo a rivedere le norme in materia di
immigrazione ha finito inevitabilmente per il riaprire il dibattito anche in
Italia. Tra emergenze vere e presunte, tra contraddizioni e vere e proprie
sciocchezze, tra dati e impressioni, in effetti quello sull’immigrazione è un
discorso complesso, affrontato spesso in maniera molto confusa e superficiale,
ma soprattutto strumentalizzato dalla quasi totalità delle forze politiche.
Che, sostanzialmente, avallano messaggi contraddittori, notizie prive di
fondamento e vere e proprie bufale. Vediamone alcune, senza alcuna pretesa di
esaustività, dal momento che sul tema le parole al vento sono praticamente
infinite.
L’invasione dei clandestini - La percezione con la quale si assiste allo sbarco dei clandestini a Lampedusa e non solo è spesso, anzi sempre, influenzata dalle contingenze politiche ed economiche. Negli ultimi mesi la rappresentazione è stata quella dell’assedio (con una parentesi dopo la tragedia di Lampedusa, che ha “convinto” a mettere da parte un certo tipo di propaganda, per ragioni di decenza), anche se completamente smentita dai numeri. I dati sono quelli che il Governo pubblica nel rapporto di Ferragosto e testimoniano come i flussi migratori sostanzialmente seguano dinamiche proprie e, soprattutto, come non vi sia alcuna emergenza (per citare Alfano nel 2012, “flussi assolutamente gestibili”). Infatti, ecco il numero di migranti nei diversi intervalli di tempo:
· 2008 – 2009 = 29.076
· 2009 – 2010 = 3.499
· 2010 – 2011 = 48.032
· 2011 – 2012 = 17.365
· 2012 – 2013 = 24.277
L’esercito dei clandestini, la maggioranza degli irregolari - Le cifre di cui sopra andrebbero poi confrontate con il “complesso” dei dati sull’immigrazione in Italia, fosse solo per avere un’idea della fallacia logica dell’associazione fra “invasione” e “immigrazione”. Gli stranieri regolarmente residenti nel Belpaese sono infatti 3.863.264, i permessi di lavoro rilasciati sono stati 107.537 per lavoro autonomo e 752.715 per lavoro subordinato, mentre i ricongiungimenti sono stati 478.508.
L’esercito
dei rifugiati - Anche in questo caso è smentita dai dati la pretesa
“proporzione biblica” del numero di migranti che ottiene dallo Stato italiano
protezione o qualche forma di agevolazione in quanto proveniente da zone di
guerra (o particolarmente complesse dal punto di vista della stabilità
politica). Stando ai dati diffusi dal Viminale nell’ultimo anno lo status di
rifugiato politico è stato ottenuto da 1601 migranti, poco più di un decimo di
coloro che ne avevano fatto richiesta (mentre sono 2.765 coloro che hanno
ricevuto una protezione sussidiaria di 3 anni, 2.812 le protezioni
umanitarie di un anno e 3.890 le domande non accolte). provincia
di Bologna
Le case popolari vanno
solo agli immigrati - Questo è
evidentemente un problema di natura complessa, che fa sempre grande presa
sull’opinione pubblica. I dati sono molto disomogenei per città, provincia e
Regione (si va da un 40% circa di case popolari assegnate a migranti in alcune
zone della Lombardia al 10% della
L’Europa
non ci aiuta - Fatte
salve le valutazioni di ordine politico e la riflessione di ordine complessivo
(che pure per certi versi è discutibile) sulla necessità di una risposta
europea ai fenomeni di immigrazione, risulta non fondata l’obiezione relativa
ad un completo disimpegno delle istituzioni europee dal punto di vista
economico finanziario. Come spiega il ministero dell’Interno, infatti, è in
piena attuazione il “Programma Generale Solidarietà e gestione dei flussi
migratori”, che si sostanzia di 4 fondi:
· Fondo Europeo per i Rifugiati: riguarda le politiche e i sistemi dell’asilo degli Stati membri e promuove le migliori prassi in tale ambito. In linea con l’obiettivo del Programma dell’Aja di costituire un sistema di Asilo unico europeo, il fondo mira a finanziare progetti di capacity building creando situazioni di accoglienza durevoli per i beneficiari.
· Fondo Europeo per i Rimpatri: destinato a migliorare la gestione dei rimpatri in tutte le sue dimensioni sulla base del principio della gestione integrata dei rimpatri nonchè a sostenere le azioni volte ad agevolare il rimpatrio forzato.
· Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi Terzi: finalizzato a co-finanziare azioni concrete a sostegno del processo di integrazione di cittadini di Paesi terzi, a sviluppare, attuare, sorvegliare e valutare tutte le strategie e le politiche in materia di integrazione dei cittadini di Pesi terzi, nonché a favorire lo scambio di informazioni e di migliori pratiche e a sostenere la cooperazione interna ed esterna allo Stato.
· Fondo Europeo per le Frontiere Esterne: finalizzato ad assicurare controlli alle frontiere esterne uniformi e di alta qualità favorendo un traffico transfrontaliero flessibile anche mediante il co-finanziamento o di azioni mirate, o di iniziative nazionali per la cooperazione tra Stati membri nel campo della politica dei visti, o di altre attività pre-frontiera.
Gli extracomunitari rubano il lavoro agli italiani - La risposta a questa specie di quesito non può che partire da una considerazione di carattere, per così dire, ideologico. Tutte le economie occidentali presentano una alta percentuale di lavoratori “non autoctoni” e, come ricorda Zatterin su La Stampa, “le cifre della Commissione Ue rivelano che il flusso migratorio non danneggia i sistemi sani, anzi. Nell’Unione europea, fra il 2004 e il 2009, si stima che il Pil delle quindici principali economiche continentali abbia beneficiato di un punto percentuale come risultato della migrazione”. C’è poi un’altra considerazione da fare e che è relativa alla questione “gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare” (una semplificazione davvero eccessiva) ed è quella relativa alla questione delle retribuzioni. Il salario medio di un lavoratore italiano è di 1304 euro, quello di un lavoratore straniero di 968 euro: evidentemente, dunque, c’è un discorso relativo alla specializzazione del lavoratore ed alla tipologia di lavoro, ma c’è anche una certa “tendenza” dei datori di lavoro ad approfittarsene.
Gli extracomunitari devono venire in Italia solo se hanno la sicurezza di un lavoro - A tale obiezione ha risposto in modo perfetto Sergio Briguglio su www.LaVoce.info , “suggerendo” alcune riforme possibili: “Si tratta di tradurre in norme quello che tutti sanno: i rapporti di lavoro a bassa qualificazione non si costituiscono “a distanza”, ma richiedono un incontro diretto, sul posto, tra domanda e offerta. Significa consentire l’ingresso per ricerca di lavoro, che è già possibile, senza alcun limite e senza conseguenze negative per la nostra società, per i lavoratori comunitari. Per i lavoratori di paesi terzi si potrebbero introdurre limiti numerici e, per far fronte a possibili fallimenti delle avventure migratorie individuali, opportuni correttivi in sede di rilascio del visto di ingresso: la registrazione delle impronte digitali e di una copia del passaporto, per una identificazione immediata dello straniero; e il deposito vincolato (da parte dell’interessato o di un garante) di un ammontare di risorse sufficienti al sostentamento del lavoratore per il periodo di ricerca di lavoro e per l’eventuale viaggio di ritorno“.
Bisogna aiutarli nei loro paesi di origine - In questo caso, più che di una scusante tutta politica che sottende ad un ragionamento inficiato da una buona dose di paternalismo, vi è una considerazione di ordine essenzialmente pratico. Se l’obiettivo finale deve essere quello del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone particolarmente disagiate, allora non può sfuggire che, come rileva la Banca Mondiale, “le rimesse inviate dai migranti nei paesi in via di sviluppo hanno raggiunto i 283 miliardi di dollari, una somma superiore a quella disponibile tramite l’aiuto pubblico allo sviluppo o gli investimenti esteri diretti”. Anche per questi motivi, tra i programmi maggiormente incidenti, vi sono quelli di co – sviluppo, ossia gli investimenti di residenti in Italia (e comunità d’accoglienza) nei loro paesi di origine (come il MIDA, Migration for Development in Africa, lanciato da Oim e Fao più di dieci anni fa). Il tutto senza considerare nemmeno il fatto che ogni “aiuto nei paesi di origine” non può prescindere da considerazioni specifiche sulle condizioni geopolitiche di alcune aree, strette tra tumulti, guerre e, soprattutto, dirimenti interessi stranieri (sui danni del neo-colonialismo e sulle convenienze “occidentali” poi la discussione si fa necessariamente lunga e molto complessa).
Inchiesta
Quando gli immigrati siamo noi
Addio Lugano bella?
Corrado Bonifazi*
Il 9 febbraio gli elettori svizzeri hanno approvato la proposta
referendaria di reintrodurre il sistema delle quote nella gestione
dell'immigrazione dall'Unione europea, abolito con gli accordi del 2002 tra
Berna e Bruxelles. Al di là degli effetti diretti, questo risultato rischia di
alimentare le campagne contro l'immigrazione da parte dei partiti della destra
populista in vista delle prossime elezioni europee, ma dimostra anche come sia
importante il consenso popolare nella gestione delle politiche migratorie.
Il referendum svizzero
Per meno di 20 mila voti i sì
hanno prevalso nel referendum proposto dal partito populista dell'Unione
Democratica di Centro per la reintroduzione di limiti ai flussi di immigrazione
provenienti dall'Unione europea, liberalizzati con l'accordo del 2002. Lo
scarto è risultato minimo, i sì rappresentano infatti appena il 50,3% dei
votanti contro il 49,7% raccolto dai no, ma la contemporanea vittoria in più
della metà dei cantoni ha consentito l'approvazione di una proposta che vedeva
contrari il governo, gli imprenditori e i sindacati, tutti preoccupati delle
conseguenze negative di questa scelta sulle relazioni con l'Unione. Nonostante
l'appoggio di questa ampia, ma forse poco determinata compagine, la proposta è stata
approvata con un esito per altro identico a quello che nel 1992 bocciò il
referendum sull'integrazione della Svizzera nello Spazio economico europeo. Al
momento risulta impossibile stabilire le conseguenze pratiche della votazione,
visto che il testo proposto assegna al governo tre anni di tempo per definire i
criteri operativi e vista anche la decisa reazione da parte dell'Unione
europea. Quest'ultima ha infatti immediatamente chiarito che una limitazione
alla circolazione delle persone avrebbe conseguenze dirette anche sui movimenti
di merci, servizi e capitali liberalizzati anch'essi con gli accordi del 2002.
Tali limitazioni avrebbero evidenti e dirette conseguenze negative per
l'economia elvetica, strettamente connessa con quella dell'Unione, effetti che
però non risparmierebbero neanche i partner della Svizzera.
Il contesto migratorio svizzero
Il voto referendario rischia però di avere conseguenze
politiche più dirette ed immediate alimentando, in prossimità delle elezioni
europee, le campagne dei numerosi partiti populisti che hanno fatto della lotta
all'immigrazione uno dei loro principali cavalli di battaglia. Dichiarazioni in
tal senso non sono mancate, neanche nei casi, come quello italiano, in cui più
direttamente colpite dalle limitazioni dovrebbero essere proprio le zone di
confine dove più numeroso è l'elettorato della Lega. Per valutare appieno i
risultati del referendum appare però necessario inquadrare il caso elvetico
nelle sue reali dimensioni quantitative. Infatti, la Svizzera è in termini
relativi, escludendo il piccolo Lussemburgo, il maggior paese d'immigrazione
del continente (Fig. 1): quasi il 23% della popolazione residente è
composto da stranieri e un residente su quattro è un immigrato di prima generazione nato all'estero.
Sono valori decisamente superiori a quelli che si registrano negli altri paesi
d'immigrazione del continente: la quota di nati all'estero, ad esempio, si
ferma al 9% in Italia, all'11,3% in Francia, al 12,1 in Germania, al 14,2 in
Spagna e al 15,8% in Austria. Agli 1,8 milioni di stranieri residenti (di cui
il 60% è comunitario) vanno poi aggiunti i 277 mila frontalieri, tra cui 57
mila sono i tedeschi, 65 mila gli italiani e 145 mila i francesi.
Non bisogna poi sottovalutare che dalla crisi in poi la
Svizzera è diventato il paese con il saldo migratorio più elevato
all'interno dell'area di libera circolazione (Fig. 2), scalzando decisamente i
paesi dell'Europa meridionale in forte calo e sopravanzando decisamente anche
Germania e Regno Unito.
Politiche migratorie e consenso
È inevitabile che processi sociali di queste dimensioni
determinino, oltre a un generale beneficio economico, anche conseguenze negative,
soprattutto per le fasce più deboli della popolazione dei paesi
d'arrivo. Nel caso svizzero, ad esempio, è stato evidenziato l'impatto negativo
dell'immigrazione sul sistema di welfare e i casi di dumping salariale. In
generale, è chiaro che in tempi di globalizzazione e di crisi economica la
presenza di potenziali o effettivi concorrenti nel mercato del lavoro e
nell'uso dei servizi sociali può creare preoccupazioni più o meno fondate. Il
risultato del referendum svizzero dimostra che in un paese democratico queste
preoccupazioni non vanno sottovalutate o peggio ignorate, ma vanno invece
affrontate con determinazione, intervenendo sui problemi reali e rimuovendone
le cause. Anche per le politiche migratorie è infatti fondamentale raccogliere
un ampio consenso tra la popolazione,
se non si vuole correre il rischio di lasciare troppo spazio alle iniziative di
populisti e demagoghi.
* Irpps - Istituto di ricerche sulla popolazione e le
politiche sociali
Crisi ed immigrazione
Stampa estera
Subire il razzismo causa invecchiamento precoce?
(articolo di Pierre Barthélémy, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 10/02/2014)
E' uno studio apparso a gennaio e che pone una domanda nuova,
alla quale nessuno vi aveva pensato spontaneamente e che acquisisce un'eco
particolare all'inizio del 2014, dove l'odio dell'altro e' riapparso in modo
tanto spettacolare quanto nauseabondo. LA DOMANDA E' LA SEGUENTE: SUBIRE IL
RAZZISMO PROVOCA UN PRECOCE INVECCHIAMENTO? La discriminazione e gli atti
razzisti hanno un impatto biologico misurabile presso coloro che ne sono
vittime? Uno studio americano riportato dall'”American Journal of Preventive
Medicine” non pretende di dare a questo una risposta definitiva ma solo aprire
un confronto in virtù dei risultati. Se
questo studio attira oggi l'attenzione e' per il suo approccio originale e interdisciplinare
e anche perché in calce vi e' anche la firma del Premio Nobel 2009 per la
Medicina, Elizabeth Blackburn, che non ha la frequente abitudine di
avventurarsi in cose frivole e incongrue.
Gli autori di questo lavoro sono partiti dalla
constatazione che, in Usa, le persone di origine africana rappresentano la
popolazione più duramente colpita da malattie gravi, essenzialmente quelle
legate all'età, malattie che in genere, in quel Paese, appaiono più in là nel
tempo. Le speranze di vita ne risentono enormemente: 69,7 anni per le persone
di pelle nera rispetto a 75,7 anni per le omologhe di pelle bianca.
Abitualmente, questa importante differenza e' messa nel conto delle
ineguaglianze sociali (livello di vita, alimentazione, accesso alle cure,
etc.). Ma da qualche anno diversi studi si domandano sul legame che potrebbe
esistere tra, da un parte, questi dati sanitari e demografici e, dall'altro, lo
stress psicosociale che e' conseguenza degli atti razzisti. Se questa ipotesi
e' corretta, i ricercatori si sono domandati: come questa può essere riportata
a livello biologico? Per rispondere alla domanda, hanno avuto l'idea di
concentrarsi nell'ambito prediletto da Elizabeth Blackburn: i telomeri . Come si vede dall'immagine di questo articolo, i telomeri sono sequenze
del DNA poste all'estremità dei cromosomi, e che formano una specie di
cappuccio protettivo. Negli eucarioti
(animali, vegetali, funghi e protozoi), quando
le cellule si dividono e si duplicano, la copia dei cromosomi e' incompleta:
tutte le ultime sequenze del DNA, quelle che si situano dopo i cromosomi,
vengono perse nel corso dell'operazione. Da qui la necessità di avere in
proposito un “margine di usura”. I telomeri, a loro volta, hanno la funzione di
segnalare che si arriva dopo un cromosome ed evitare che informazioni genetiche
indispensabili siano perse nel corso della propria duplicazione. Ogni anno,
rispetto alle nostre divisioni cellulari, perdiamo anche un po' dei nostri
telomeri. Queste erosioni cromosomiche sono anche associate ad alcune malattie
cardiovascolari, all'artrosi o all'Alzheimer. I ricercatori hanno quindi deciso
di servirsi di questa riduzione dei telomeri come un segnale di invecchiamento
presso 92 afro-americani di 30/50 anni, in buona salute e provenienti da
diversi contesti, ai quali hanno prelevato dei campioni di sangue.
Parallelamente a queste analisi, sono stati fatti due test per valutare -se ci
si può permettere questa espressione- l'esposizione di queste persone al
razzismo. Un questionario e' stato proposto per valutare le discriminazioni subite
nella vita quotidiana, sia che fosse stato rifiutato un impiego o un prestito
bancario, l'affitto di una casa, l'accesso alle cure mediche. Alcune domande
riguardavano anche il modo in cui le persone si sentivano trattate sul proprio
posto di lavoro, nei negozi, nei ristoranti, dalla polizia o davanti a dei
giudici. Un secondo test e' stato fatto per valutare gli angoli personali
inconsapevoli di fronte a gruppi etnici. Si tratta di misurare la velocità con
cui i soggetti associano alcune immagini di persone (bianche o nere di pelle)
ad alcune parole che hanno caratteristiche positive o peggiorative. E' stato
quindi stabilito che il 70% degli americani anno dei pregiudizi verso i Neri...
pregiudizi che sono presenti anche nella metà degli afro-americani. L'esperimento
ha messo in evidenza un effetto, modesto ma significativo, una correlazione tra
riduzione dei telomeri ed “esposizione” al razzismo. Ma questo accade solo
nelle persone che hanno una cattiva considerazione del proprio gruppo etnico.
Così spiega il primo autore dello studio, David Chae (Università del Maryland):
“le persone afro-americane che hanno una visione positiva del proprio gruppo
etnico, potrebbero essere protette dall'impatto negativo della discriminazione
razziale. Al contrario, coloro che hanno interiorizzato un angolo anti-Neri,
potrebbero essere meno adatti a gestire le esperienze razziste, che potrebbero
essere derivate da stress e telomeri più corti”. E' da notare che David Chae
usa il condizionale. Nella conclusione del loro studio, gli autori rimangono
molto prudenti sulla portata dei loro risultati, sottolineando il numero
ristretto del loro campione. Bisognerebbe, secondo loro, rifare l'esperimento
su un numero maggiore di soggetti e ripeterlo nel tempo. Occorrerebbe anche avere
maggiori conoscenze sulla dimensione iniziale dei telomeri delle diverse
popolazioni e sulla velocità media che questi utilizzano poiché i dati in
merito sono contraddittori. Non solo ma essi insistono sul fatto che questo
lavoro e' un punto di partenza, una strada di ricerca che si apre, facendo
incrociare sociologia, medicina e genetica. Nel loro articolo, i ricercatori
utilizzano, in merito all'effetto delle discriminazioni, l'espressione “tossine
sociali”. Un modo per dire che se il razzismo e' un veleno in senso figurato,
esso potrebbe anche esserlo di fatto.