13 febbraio 2014

La detenzione nei Cie è inutile e dannosa
l'Unità, 13-02-2014
Italia-razzismo
Per l associazione Medici per i Diritti Umani (Medu) appena nei Centri di identificazione e di espulsione viene rimpatriata. Una percentuale che conferma lo scarso apporto che tali luoghi rappresentano nella cosiddetta «lotta all'immigrazione irregolare». Un rimpatrio che altro dato eloquente - rappresenta lo 0,9% del totale degli immigrati senza titolo di soggiorno presenti sul territorio italiano. Unaconferma (e un paradosso) di quanto i Centri di Identificazione e di Espulsione risultino inutili rispetto agli stessi propositi dell'espulsione e dell identificazione. Anche perché, nella maggior parte dei casi, l'espulsione a opera delle forze dell'ordine, non avviene perché non preceduta dall'identificazione della persona trattenuta. Un problema che nasce dai rapporti con le autorità consolari dei paesi di provenienza che, spesso, non collaborano con quelle italiane per accertare l'identità di chi si trova nel centro.
L'effetto disastroso ed evidente di tale situazione si riflette sull'intera società. Riguarda gli ingenti costi di gestione,
l impiego di risorse umane, l'organizzazione delle strutture di sicurezza.
Per non parlare del danno culturale prodotto dall assimilazione della figura del migrante a quella di un potenziale criminale.
Il tutto per un periodo di trattenimento che si fa sempre più lungo, arrivando anche ai 18 mesi.
Per questo i numeri riportati da Medu confermano, dunque, da un lato l'inefficacia e l'irrilevanza dello strumento della detenzione amministrativa, dall altro l'inutilità e l'irragionevolezza dell estensione del trattenimento dai 6 a 18 mesi (dal giugno del 2011) ai fini di un miglioramento nell'efficacia delle espulsioni. Del resto, l'abnorme prolungamento dei tempi massimi di detenzione amministrativa sembra aver contribuito unicamente ad esacerbare gli elementi di violenza e disumanizzazione di queste strutture. Tale evidenza è stata sistematicamente riscontrata dai team di MEDU durante le 18 visite effettuate in tutti i centri nel corso degli ultimi due anni.
Sebbene i dati del 2013 della Polizia di Stato segnalino un tempo medio di permanenza all'interno dei CIE di 38 giorni, tale dato deve essere scorporato, per un adeguata analisi, dal momento che rappresenta una media di tutte le persone transitate nei centri, includendo categorie di migranti trattenuti anche per periodi brevissimi, come ad esempio i migranti il cui fermo non è stato convalidato dall autorità giudiziaria. Il rapporto di Medu non si limita solo alle statistiche: si avanzano alcune concrete proposte per migliorare il sistema di gestione dei migranti irregolari: la richiesta di chiusura degli otto Cie temporaneamente non operativi, ma anche di quelli ancora formalmente aperti, eppure considerati strutturalmente inadeguati; la riduzione a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, del trattenimento dello straniero ai fini del rimpatrio; per giungere, più in generale, all’adozione di misure di gestione dell immigrazione irregolare, caratterizzate dal rispetto dei diritti umani.



Immigrati in fuga dal Cie, chiuso aeroporto di Cagliari
Sarebbero sette gli stranieri che sono riusciti a fuggire dal Centro. Due sarebbero stati ripresi quasi subito
la Repubblica.it, 13-02-2014
CAGLIARI - L'aeroporto di Cagliari-Elmas è stato momentaneamente chiuso a causa della fuga di alcuni immigrati, ospiti del Centro di prima accoglienza, che ha sede proprio accanto alle piste dello scalo cagliaritano. Secondo quanto si è appreso, sarebbero sette gli stranieri che sono riusciti ad allontanarsi dal Cpa, ma un paio sarebbero già stati bloccati.



CIE. Rimpatriato solo un detenuto su due, meno dell'1% degli irregolari
Medici per i Diritti Umani pubblica i dati della Polizia di Stato: “Inefficaci e irrilevanti, vanno chiusi”
stranieriiniitalia.it, 13-02-2014
Roma -  13 febbraio 2014 – I Centro di identificazione ed espulsione sono “inefficaci” e “irrilevanti”. Meno della metà degli immigrati irregolari reclusi viene effettivamente rimpatriato. E quelli che sono davvero costretti a lasciare l’Italia sono comunque una goccia nel mare dell’irregolarità.
A certificare il fallimento delle strutture dove oggi uomini e donne possono rimanere chiusi fino a un anno e mezzo solo perché non hanno un permesso di soggiorno sono i dati della Polizia di Stato diffusi da Medici per i Diritti Umani.
Nel 2013 i trattenuti sono stati 6.016 (5.431 uomini e 585 donne), ma solo 2.749 (il 45,7%) è stato rimpatriato. Un tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti), inferiore a quello, comunque fallimentare,  registrato nel 2012, quando la percentuale è stata del 50,5%. Tra l’altro, il numero dei rimpatriati dopo il trattenimento nei Cie nel 2013 è appena lo 0,9% dei 294.000 immigrati che l’ISMU, all’inizio dello stesso anno, stimava fossero presenti in Italia.
La Polizia ha calcolato in 38 giorni il tempo medio di permanenza nei Cie, molto meno del tetto di 18 mesi alzato nel 2011 dal centrodestra.  edu chiede però di scorporare il dato, “dal momento che rappresenta una media di tutte le persone transitate nei centri, includendo categorie di migranti trattenuti anche per periodi brevissimi, come ad esempio i migranti il cui trattenimento non è stato convalidato dall’autorità giudiziaria”.
Nelle loro visite nei Cie italiani, dal quale è venuto fuori il rapporto Arcipelago Cie, gli operatori di Medu hanno rilevato “numerosi casi di migranti trattenuti per periodi superiori ai 12 mesi, anche in condizioni di estrema vulnerabilità e di grave disagio psichico (si vedano i comunicati su Trapani Milo e Gradisca d’Isonzo)”.
“A conferma dell’aggravamento del  clima di tensione e dell’ulteriore deterioramento delle condizioni di vivibilità all’interno dei centri di identificazione ed espulsione – segnala l’associazione -  vi sono le numerose rivolte e proteste che si sono susseguite nel corso del 2013 e nel primo scorcio del 2014. Le istituzioni non possono continuare ad ignorare questo stato dei fatti ed è necessario che il governo affronti con urgenza la questione del superamento di strutture - i centri di identificazione ed espulsione – del tutto incapaci di garantire il rispetto della dignità umana e i più elementari diritti della persona”.
Mentre la politica non si muove, tra rivolte, proteste disperate e tagli al budget, il sistema Cie sembra comunque implodere. Otto centri, ricorda Medu, sono stati temporaneamente chiusi a causa di danneggiamenti o problemi di gestione, mentre i cinque CIE di Torino, Roma, Bari, Trapani Milo e Caltanisetta operano con una capienza molto limitata.
“Per tutte queste strutture vale la considerazione fatta a proposito del CIE di Trapani Milo in occasione dell’ultima visita effettuata degli operatori di MEDU il 23 gennaio scorso: un luogo di inutile sofferenza. Sofferenza e disagio che colpisce in primo luogo i migranti trattenuti, ma che pervade e raggiunge in diverso modo tutti coloro che vi operano: dagli operatori degli enti gestori alle forze di polizia”.
Che fare? Medici per i Diritti Umani ha tre propose: “La chiusura definitiva degli otto CIE temporaneamente non operativi e la chiusura dei cinque centri di identificazione ed espulsione ancora aperti in ragione della loro palese inadeguatezza strutturale e funzionale; la riduzione a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, del trattenimento dello straniero ai fini del suo rimpatrio;  l’adozione di misure di gestione dell’immigrazione irregolare, caratterizzate dal rispetto dei diritti umani e da una maggior razionalità ed efficacia”



Immigrazione, per l'accoglienza dei rifugiati posti aumentati fino a 16mila
il sole 24 Ore, 13-02-2014
Marco Ludovico
Da 3mila a 16mila posti per l'accoglienza in Italia degli immigrati con diritto di protezione. A partire da quest'anno la rete dello Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati , si quintuplica. L'anno scorso gli sbarchi in Italia sono stati di oltre 41mila migranti, più del triplo dei 13mila del 2012. A parte i clandestini, destinati ai Cie (centri di identificazione ed espulsione), con questi numeri ministero dell'Interno e comuni hanno dovuto affannarsi a trovare e garantire un'accoglienza per coloro che hanno chiesto protezione internazionale, sussidiaria, umanitaria o lo status di rifugiato.
Identità ed evoluzione del sistema
Quella dello Sprar è una rete di enti locali – copre tutte le regioni, tranne la Val d'Aosta, e 71 province su 110 - che accedono al Fnpsa (Fondo nazionale per le politiche e i servizi d'asilo) e realizzano progetti di accoglienza integrata. Oggi all'Anci (associazione nazionale comuni d'Italia) viene presentato il rapporto annuale 2012/2013. Il sistema Sprar, di fatto, è stato ampliato dal Viminale cinque volte dal 2012 a oggi: si partiva da 3mila posti di accoglienza, oggi la stima per il 2014 è di 16mila. Tra dicembre 2012 e novembre 2013 sono stati trovati 6.356 posti aggiuntivi, rispetto ai 3mila iniziali, e si sono trasferite in quel periodo 6.754 persone. Nei primi sei mesi gli interessati arrivavano dai Cara (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo) dopo il riconoscimento di una forma di protezione; da maggio dell'anno scorso i trasferimenti invece arrivavano direttamente da Lampedusa o dagli altri luoghi di soccorso.
La stima
La previsione è che i posti disponibili per il prossimo triennio potrebbero essere ancora di più: per il periodo 2014/2016, infatti, sono stati approvati 456 progetti che riguardano 415 enti locali; i posti finanziati sono 13.020 a cui si affiancano 6.490 «posti aggiuntivi attivabili». La crescita della rete degli enti locali per l'accoglienza risponde all'appello del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che anche di recente ha sottolineato il valore del riconoscimento del «diritto di chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione a essere accolto in paesi in cui questi diritti fondamentali sono garantiti».
La crescita del fenomeno
Nel 2001 si chiamava Pna, Programma nazionale asilo, promosso dal ministero dell'Interno, Anci e Acnur. Fatto sta che in dieci anni il numero dei beneficiari in Italia del sistema di accoglienza e protezione si è quadruplicato, passando da 2.008 nel 2001 ai 7.823 nel 2012, l'anno per il quale il rapporto presentato oggi ha le cifre più complete. Dei 7.823 migranti richiedenti o titolari di protezione, le prime tre nazionalità più presenti sono state l'Etiopia, l'Iraq e la Nigeria; il 56% è giunto in Italia con uno sbarco, a cui va aggiunto il 17% che ha superato una frontiera aeroportuale e l'11% una frontiera terrestre.
Costi e qualità delle strutture
Secondo i dati ufficiali lo Sprar ha garantito finora al costo di 35 euro al giorno per persona servizi di accoglienza, integrazione e orientamento, comprese situazioni a rischio per le persone più vulnerabili, come le vittime di tortura o i minori non accompagnati. Adesso però con l'ampliamento a 16mila e oltre posti si pone un'esigenza di mantenimento – o di innalzamento, dove serve - dei livelli di qualità, che già ora possono essere variabili dal Nord al Sud d'Italia. Non è un caso, del resto, se Daniela Pacini, direttrice del Servizio centrale dello Sprar, e Luca Pacini, responsabile area welfare e immigrazione dell'Anci, sottolineano come «un sistema unico di accoglienza dovrà necesssariamente portare alla definizione di standard di accoglienza omogenei e strutturali».



Berna fisserà entro giugno le quote di immigrati
La Stampa, 13-02-2014
Il governo svizzero preparerà entro giugno un disegno di legge sull'immigrazione per limitare le quote di entrata entro l'anno. Il Consiglio federale, riunitosi oggi per la prima volta dopo il voto di domenica, ha fissato ieri le prime tappe del cambiamento che prevedono anche numerose discussioni con l'Ue. «È una situazione difficile», ha detto il ministro degli Esteri e attuale presidente della Confederazione Didier Burkhalter, che ha anche annunciato che prenderá contatti con l'Ue in vista dell'apertura di nuovi negoziati.
Bruxelles, però, dopo che martedi aveva sospeso il negoziato sull'elettricità, ha deciso ieri di congelare quello sul grande accordo-quadro del cosiddetto «trattato istituzionale» che dovrebbe inglobare tutti i precedenti pacchetti di accordi bilaterali. La riunione settimanale degli ambasciatori, il Coreper in programma per oggi, doveva approvare il mandato negoziale alla Commissione. Ieri invece la presidenza di turno greca ha invece preso atto che per le cancellerie non era «opportuno» far partire il negoziato mentre non sono ancora chiare le intenzioni della Svizzera. «Non si può negoziare se l'interlocutore è un bersaglio mobile» ha osservato una fonte diplomatica. [E. ST.]



Soul Milano, parte 2 /
Chi anima i bar eritrei di P.ta Venezia?
Corriere.it, 13-02-2014
Kibra Sebhat
Ho conosciuto Vito Manolo Roma attraverso le sue locandine, una carrellata di iconografie nere su sfondo colorato per pubblicizzare le serate dei Dj Babari e Manaki Neko di cui vi ho raccontato qui. Vito è prima di tutto un illustratore, poi anche grafico e Art Director (domani presenta la sua prima raccolta di immagini dedicate all’arte del tatuaggio, qui). Ma oltre che ideare i flyer che vedete sopra, ha saputo in meno di un anno animare lo storico quartiere eritreo di Milano. Le vie che corrono attorno a P.ta Venezia, infatti, hanno visto nascere un incredibile susseguirsi di serate, sempre di musica black afroamericana degli anni ’50 e ’60, in quelli che fino a poco tempo fa erano dei semplici bar diurni e notturni, frequentati solo dalla comunità eritrea di prima generazione e dalle ragazze e ragazzi arrivati in Italia da qualche anno. L’operazione è stata così repentina e allo stesso tempo di basso profilo che ne sono rimasta quasi scioccata. E una volta ripresa ho chiesto a Vito di raccontarmi come aveva fatto e, ancora di più, perchè aveva messo così tanto impegno nell’organizzazione di queste serate.
    «Tutto è iniziato quando un mio caro amico, con il quale condividevo le proiezioni della Sala Oberdan, una sera prima del film mi fa la sorpresa di portarmi in un bar sconosciuto prima di allora. Era il Bar Ethiopia, che ora ha cambiato gestione e si chiama Rainbow Cafè, in via Tadino 6. Si è trattato subito di un momento magico: siamo entrati in un luogo buio, luci blu e odori molto forti di detersivo per i piatti, sudore e alcol. Ricordo che c’era una vasta scelta di rum a prezzo contenuto, ma soprattutto rimasi colpito dalla gentilezza e dall’atmosfera: perfino i clienti ti salutavano, non solo i proprietari. Posti del genere ne avevo trovati solo al Sud Italia e ora neanche al Sud se ne trovano più molti…»
Poi dicevi che per un lungo periodo non ti è più capitato di andarci
«Esatto, ci sono tornato dopo circa due anni, quando mi sono trasferito a Milano da Saronno. Aveva appena cambiato gestione: la proprietaria Abeba aveva ricevuto un altro locale, il One Love in via Palazzi, dal fratello e aveva venduto il Bar Ethiopia a Eleonor e Mussie, che da quel momento prende il nome di Rainbow Cafè appunto. Mi fermavo spesso dopo il lavoro e grazie a loro ho conosciuto il mio attuale parrucchiere Mickey (di cui la nostra Nura vi ha già raccontato all’inizio della storia di questo Blog qui), il mio take-away di injera e zighinì Isola Verde di via Palazzi e i ristoranti Asmara e Kilimangiaro in via Casati…e ancora altri bar come l’Asmara Cafè, Addis Abeba, Wagharta…»
Quando sei finalmente arrivato al One Love?
«Non ci ero mai entrato prima di maggio 2013. Ci sono andato come spesso mi capita da solo, in esplorazione e la proprietaria mi ha chiesto se conoscevo dei musicisti per organizzare degli appuntamenti. L’idea mi sembrava strana per la grandezza del locale, piccolo, ma Stefano (Dj Babari) si è convinto subito e siamo partiti. Abbiamo fatto fatica ad ingranare ma dal primo luglio si è creata una strana alchimia e all’improvviso è arrivato un grande pubblico».
E non vi siete più fermati…
«Ci siamo prima di tutto allargati: oltre a Babari ora ci sono anche Manaki Neko, Papa Gene, Prince Rula, Maple Juice e Sailor Vito, io, che mi sono unito alla consolle da quando mi sono preso una cotta per i vinili e siamo una crew di Dj che suonano nei locali eritrei di P.ta Venezia, sì. Oltre ai primi ora abbiamo aggiunto anche il Green Bar e il Piqoke, dall’altra parte di C.so Buenos Aires»
Arriviamo agli argomenti scottanti però. C’è un mistero che aleggia attorno alle persone che vengono alle vostre serate, ovvero: non ci sono neri, e se vengono sono pochi e soprattutto uomini. Perchè?
«Giusto. Non sono ancora riuscito a spiegarmi questa dinamica e mi dispiace. Le ipotesi che ho valutato fino a questo momento sono: vivono un complesso di inferiorità nei confronti dei bianchi (questo però non lo dico io, ma un amico della Guinea); la musica che mettiamo non gli piace; scambiano le nostre serate per feste private».
Tu li vorresti come pubblico?
«Certo! Si tratta di una grande soddisfazione che vorrei riuscire a conquistare. I proprietari dei locali eritrei desiderano più clienti italiani e su quello ci stiamo arrivando, ma anche io vorrei vedere più neri e una vera interazione tra culture…alcuni ci provano, vengono, cercano di interagire con “noi” ma non tutti ci riescono, non tutti lo fanno nel modo giusto».
Ultima domanda: sei un cultore di tutto quello che è “black”, dove nasce questa passione?
«Sono cresciuto con i Rolling Stones e i Beatles e risalendo al principio di molte delle loro canzoni scoprivo che si trattava di cover di artisti afroamericani. Così per tutti i generi che ho ascoltato, di diversi gruppi: non c’era canzone bianca che sapesse eguagliare l’originale nera. Sono passato per un breve periodo grunge, punk…e ancora hip hop, jazz, blues, elettronico, reggae e poi sono tornato all’origine: il Rhythm and Blues. E sono sempre più convinto che ci sia della genialità nella cultura black, non solo nella musica».

Share/Save/Bookmark